PILACORTE, Giovanni Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 83 (2015)

PILACORTE, Giovanni Antonio

Paolo Goi

– Nato intorno al 1455 a Carona, presso Lugano (luogo di origine di una schiera di muratori e scalpellini), figlio di Tommaso e marito della conterranea Perina, rispondeva al cognome Di o De Bassini, come di recente appurato dalle indagini d’archivio (Goi, 1998, p. 610).

Gli studi inducono a relegare a patronimico o toponimico la denominazione Pilacorte (o Piracurte), attestata già nel 1414 (F. Bianchi - E. Agustoni, I Casella di Carona, Lugano 2002, p. 55) e comune ad altri magistri scalpellini quali Baldassarre (Bellinzona, 1477), Giorgio e Francesco figli di Baldassarre (Portogruaro, 1520), Andrea de Pilacurta e Antonio de Pillacurte accertati a Savona e Chiavari nel 1504 (E. Motta, La costruzione del campanile di Carona, in Bollettino storico della Svizzera italiana, XXX (1908), p. 61; Goi, 1998, p. 610; Spantigati, 2003, p. 347).

La passata e moderna letteratura identifica lo scultore friulano con l’omonimo che fra il 1480 e il 1481 lavorava ad Acqui Terme (Alessandria) e con altri era impiegato come «picapetrum» a Genova per il castello spagnolo de La Calahorra (Granada) nel 1509-10 (V. Lampérez y Romea, El castillo de La Calahorra (Granada), in Boletin de la Societad española de excursiones, XX (1914), 1, p. 11). Dal momento che nel medesimo frangente un Giovanni Antonio Pilacorte è attestato in Friuli, si palesa il caso di omonimia. Il progredire degli studi renderebbe invece verosimile l’identificazione del Pilacorte di Acqui con il Pilacorte del Friuli, accreditando in ogni caso l’anno di nascita al 1455 circa, atteso che le rinnovate commissioni acquesi di sicuro prestigio non poterono che essere affidate a uno scultore già affermato.

Il percorso del maestro pare dunque avviarsi ad Acqui con il distrutto portale della chiesa dell’Annunciazione (1480), il coevo altare di S. Girolamo per la cattedrale di S. Guido, di cui sussistono due frammenti riutilizzati nel moderno altare maggiore, e il portale della stessa chiesa, firmato e datato 1481.

Stringenti sono le analogie con le opere poi eseguite nella regione friulana, nelle componenti decorative, nei tratti somatici e nell’abbigliamento dei personaggi effigiati. Senza seguito tuttavia rimangono alcune soluzioni, soprattutto nella lunetta del portale della cattedrale, raffigurante l’Assunzione, stilisticamente inconfrontabile con l’intonazione assai modesta delle posteriori lunette di S. Vito al Tagliamento (1493) e di Gradisca di Sedegliano (1515), donde una certa perplessità nella secca assegnazione dei pezzi acquesi al catalogo del Pilacorte 'friulano'.

Quattro anni dopo i lavori ad Acqui, Giovanni Antonio Pilacorte – sia o meno il medesimo individuo – è attestato in Friuli lungo un secolare itinerario percorso da numerosa e varia maestranza, conterranea e lombarda in genere. A favorirvi lo spostamento di un’autentica colonia di maestri di muro e tagliapietra furono la prosecuzione e l’apertura di numerosi cantieri di edilizia religiosa e civile, pubblica e privata, per la quale, analogamente ad altri colleghi, Pilacorte sfornò una vasta gamma di prodotti. Lo stretto rapporto con i capimastri (in specie gli Scala di Carona) non solo si documenta da varie fonti archivistiche, ma trova riscontro nelle opere, come nella chiesa parrocchiale di S. Andrat del Cormor, ove a firmare il portale del 1507 interviene anche un tale Francesco muratore.

All’emigrazione di Giovanni Antonio dovette contribuire la possibilità di attingere con facilità alla materia prima, anzitutto dalle cave di Meduno e Travesio in provincia di Pordenone, giustificando l’esistenza dei suoi primi lavori proprio in quest’area. Le difficoltà inerenti all’approvvigionamento e alla lavorazione del materiale obbligò il lapicida a soggiorni spesso prolungati nelle località delle commesse, che hanno dato luogo a variazioni anagrafiche, per cui si è ritenuto che abitasse a Udine e Cividale o che fosse di Spilimbergo o di Pordenone tout-court.

Tra le opere più significative di questo periodo, si annoverano il portale – ricomposto all’interno – della pieve di Travesio (1484), costituito da stipiti a candelabre e architrave, sovrastato dall’Annunciazione (con ricordo della produzione di Pietro Lombardo) e da un barbuto Eterno Padre, e il fonte battesimale di Meduno (1485), composto di una robusta coppa già sorretta da putti (mutili, ora in sacrestia), avvolta da una sequenza di teste cherubiche e marcata con l’arma del vescovo Antonio Feletto.

Disposto lungo salienti e architravi, il soggetto angelico – quasi una sigla dello scultore – ritornò nel portale della parrocchiale di S. Marco a Gaio di Spilimbergo (1490), dominato dal Leone di S. Marco, indicativo al contempo della titolarità del luogo sacro e del dominio veneziano. Coevo è il fonte di Travesio a massiccia vasca troncoconica dal pausato fregio vegetale, vivacizzato da tre putti musicanti sulle volute accartocciate del fusto fogliaceo, soluzione desunta dai testi pittorici rinascimentali e ripresa in seguito da un suo seguace a S. Martino al Tagliamento (1537). Carattere monumentale riveste il fonte battesimale del duomo di Spilimbergo (1492-93), dalla vasca fasciata da ovoli, perline ed elementi vegetali, fusto arboreo con figure di sfingi ai piedi, alludenti alla divina rivelazione. Fragile appare invece il portale a candelabre della chiesa dei Battuti a S. Vito al Tagliamento (1493) con rilievi e statue raffiguranti la Mater Misericordiae, l’Annunciazione e l’Eterno Padre, riscattato nelle patere di intento prospettico con i santi eponimi e patroni agli sguinci dei montanti, elemento che l’autore replicò nella parrocchiale di Flaibano (1506), nella chiesa di S. Giorgio ad Arcano Inferiore (1515) e nelle parrocchiali di Turrida (1516) e Goricizza (1525).

Del 1497 è l’ancona o pala d’altare di S. Nicolò in S. Giorgio della Richinvelda (non lontano da Spilimbergo), conformata a trittico, con possibile richiamo alla Pala di S. Zeno di Mantegna a Verona. Sontuoso l’apparato di ispirazione veneziana della cappella, intitolata posteriormente alla Madonna del Carmine, nel duomo di Spilimbergo (1498), dotata nel 1905 di un altare – sempre di Pilacorte – trasferito da altro sito all’interno della stessa chiesa, e recante l’Annunciazione negli sguinci, Sansone e Davide nei plinti: soggetti per i quali si impone una lettura cristologico-mariana valida anche per i rilievi dell’altare nella navata sinistra, ora intitolato a s. Giovanni, finemente lavorato a candelabre da parte sempre del medesimo artista.

Richiama esperienze toscane del Quattrocento la morfologia a pilastro del tabernacolo eucaristico (1500) di S. Pietro al Natisone, non lontano da Cividale del Friuli, affatto inedita in regione (M. Pascolini, Un’opera di scultura nella chiesa parrocchiale di S. Pietro al Natisone, in Quaderni della FACE, XLI (1973), pp. 10-16). Al 1504 si data il fonte battesimale della chiesa principale di Sequals, che ripropone in termini di esuberante vitalità la soluzione dei putti sorreggenti la vasca. Nuova anche rispetto alle precedenti soluzioni la tipologia a tempietto del fonte battesimale in S. Marco a Pordenone, dai soliti decori vegetali e con la statuina di S. Giovanni Battista (1506) al vertice, presto imitata in ambito friulano e, nell’immediato contesto, nelle chiese parrocchiali delle frazioni di Pordenone, Villanova e Roraigrande, quest’ultima già attribuita a Donato e Alvise Casella (1556-59; P. Goi, Scultura veneta del secolo XVI nel Friuli patriarcale, in Alessandro Vittoria e l’arte veneta della maniera. Atti del convegno di studi... 2000, a cura di L. Finocchi Ghersi, Udine 2001, p. 147). Per il duomo pordenonese Pilacorte licenziò l’acquasantiera (1508), che per serrata composizione e finezza di ornati segna il più alto raggiungimento nel settore delle pile d’acqua santa (talora frutto di mero artigianato), tanto da far pensare alla ripresa da modelli di un artista più dotato. Della duplice serie di fonti e pile si citano gli episodi di Fagagna, con il rilievo del Battesimo di Cristo su piedistallo (1504), e di Beano (1519) con un trio di putti ancorati al fusto e dai torniti volumi. Risale al 1511 il solenne portale del duomo di Pordenone.

Capolavoro del maestro per la limpida struttura d’impronta rinascimentale, l’eleganza dell’ornato e la sapienza astrologico-teologica dell’iconografia (a evidenza suggerita all’artista), il portale fu elaborato con sguardo alla produzione veneto-lombarda, segnatamente di Giovanni Antonio Amadeo e di Pietro Lombardo. L’impresa fece seguito a un progetto (Udine, Biblioteca civica, Fondo Joppi, inv. n. 697/b; disegno firmato e datato 1501) esemplato sui modi di Mauro Codussi, di recente interpretato come proposta di una facies rispondente alla necessità di coordinamento degli spazi interni del tempio (Trame, 1993).

Nella lunetta del portale archivoltato della parrocchiale di Gradisca (1515), vicino Sedegliano (Udine), Pilacorte volle dare sfoggio delle proprie capacità professionali nel passaggio dal tuttotondo allo stiacciato, quasi a graffito, del gruppo centrale: esibizione non riuscita, compensata dai soggetti laterali, nei quali si dimostra più a suo agio. Comune alle soluzioni plastico-pittoriche del tempo è l’impianto a trittico con sovrastante edicola dell’altare maggiore della chiesa di Villanova di Pordenone (1520), movimentato dalle figure del patrono S. Ulderico e del beato Odorico, oriundo del luogo. Ultima grande fatica fu l’altare (già animato da cromie) della pieve di S. Martino d’Asio del 1523.

In forma di trittico su doppio registro, mostra un affollato santorale con figure stanti a figura intera in primo piano e di ridotte dimensioni nel secondo e terzo. Significativa la distribuzione dei palchi, riservati in linea ascendente alla Madonna con il Bambino, alla Natività e alla Crocifissione, e in orizzontale ai titolari delle chiese filiali della matrice e di maggior devozione, per cui l’altare si configura come sintesi del mistero cristiano e palladio dell’istituzione plebanale.

Il catalogo di Pilacorte, ancora in corso di aggiornamento, si arricchisce di rilievi e statue isolate tra le quali meritano di essere segnalate le Madonne con il Bambino di Lignano (1496), Fagagna (1504 circa) e Fanna (1505-10 circa), e i santi patroni in S. Giovanni a Cordenons (1515) e in S. Bartolomeo a Goricizza (1515).

Con testamento del 21 novembre 1531, Pilacorte lasciò beni e bottega a favore dei nipoti dell’unica figlia Anna, moglie dello scultore Donato Casella. Ignoti sono il luogo e il giorno della morte, verosimilmente avvenuta a Pordenone poco dopo questa data.

Una valutazione dal punto di vista artistico dell’operato dell’autore non può che muovere dalla sua professione di scalpellino, «spizapiera» o «lapicida» come dicono le carte d’archivio e come egli stesso ebbe più volte a definirsi nelle epigrafi (Joppi, 1894, pp. 142 s.; Bergamini, 1970, p. 36). Ciò spiega l’oscillazione, lungo l’arco dell’attività, dai lavori di medio o maggior livello a quelli di natura artigianale assolutamente trascurabili, che Pilacorte altrettanto firmò o siglò a garanzia. Il numero delle opere eseguite, distribuite in tutta la regione dalle Prealpi al mare lungo gli assi fluviali, comporta l’esistenza di una organizzata officina che si sa essere composta almeno da Pietro da Carona, abitante a Portogruaro e assunto come garzone per cinque anni nel 1496, e dal genero Donato Casella (Joppi, 1894, p. 123). Fra costoro o altri dell’immediata cerchia vanno cercati i responsabili della Madonna con il Bambino dell’edicola di corso Garibaldi a Pordenone (1532) e del citato fonte battesimale della frazione di Villanova.

A incarichi di prestigio o nei casi di maggiore disponibilità finanziaria, Pilacorte seppe rispondere adeguandosi, seppur in termini provinciali, ai linguaggi correnti sui più nobili scenari, veneziani in primis, con memoria diretta o mediata dalle esperienze dei vari Giovanni Antonio Amadeo, Antonio Mantegazza, Agostino di Duccio, Pietro Lombardo e Antonio Rizzo. Per il resto egli seguì una tipologia standard, funzionale e di facile successo, servendosi di un bagaglio comune a pittori e intagliatori del tempo, come teste cherubiche e candelabre di varia configurazione, tanto da far pensare all’utilizzo di plurimi repertori. Le tecniche a lui più congeniali furono quelle del basso o altorilievo, mentre difficoltosa appare la lavorazione del tuttotondo cui il lapicida fece fronte mediante risentite volumetrie di ascendenza romanica scalfite da grafismi, hanchements di memoria gotica, dispiego di panni a risolvere le incertezze anatomiche, ricorso al meno problematico mezzo busto o alla mezza figura. In altri casi (Spilimbergo, altare del Carmine; Pordenone, portale del duomo; Goricizza, S. Bartolomeo in sacrestia) i risultati furono più felici grazie al rinnovato ricorso ai modelli lombardeschi.

La perdita delle finiture policrome, gli smembramenti e gli scempi gravano negativamente sulla valutazione della produzione di Pilacorte, che per praticità e piacevolezza delle soluzioni è stata la più gradita alle plebi rurali. L’artista è stato riconosciuto come il più rappresentativo della scultura lapidea friulana del Rinascimento, e a lui è stata attribuita buona parte della materia anonima. Un successo motivato anche dall’influsso esercitato sulle maestranze locali come, ad esempio, si può vedere nel fonte di Maniago, opera di un lapicida di Meduno del 1549.

Fonti e Bibl.: V. Joppi, Contributo quarto ed ultimo alla storia dell’arte in Friuli ed alla vita dei pittori e intagliatori friulani, Venezia 1894, pp. 123 s., 142 s.; A. Giussani, Lo scultore G.A. P. da Carona, Como 1914; C. Someda de Marco, Architetti e lapicidi lombardi in Friuli nei secoli XV e XVI, in Arte e artisti dei laghi lombardi, I, Architetti e scultori del Quattrocento, a cura di E. Arslan, Como 1959, pp. 310-342; G. Bergamini, G.A. P. lapicida, Udine 1970; Id., Sculture del Rinascimento, in Il duomo di Spilimbergo, 1284-1984, a cura di C. Furlan - I. Zannier, Spilimbergo 1985, pp. 217-233; G. Bergamini, La scultura del duomo nei secoli XV e XVI, in San Marco di Pordenone, a cura di P. Goi, II, Fiume Veneto 1993, pp. 277-299; P. Parigi, “Pilacorte faciebat”: il programma iconografico del portale del Duomo di Pordenone, in Venezia Cinquecento, III (1993), 6, pp. 9-30; U. Trame, La fabbrica del duomo, in San Marco di Pordenone, a cura di P. Goi, II, Fiume Veneto 1993, pp. 141-148; P. Goi, Lapicidi lombardi a Tolmezzo: verifiche e considerazioni, in Tumieç, a cura di G. Ferigo - L. Zanier, Udine 1998, pp. 596-611; C. Spantigati, A. P. e il portale della cattedrale, in Il tempo di San Guido vescovo e signore di AcquiAtti del convegno di studi... 1995, a cura di G. Sergi - G. Carità, Acqui Terme 2003, pp. 339-359; Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei Friulani, II, L’età veneta, a cura di C. Scalon - C. Griggio - U. Rozzo, Udine 2009, pp. 2008-2012.

CATEGORIE
TAG

Giovanni antonio amadeo

Cividale del friuli

Antonio mantegazza

Agostino di duccio

Pietro lombardo