RUBINI, Giovanni Battista Defendente

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 89 (2017)

RUBINI, Giovanni Battista (Giambattista) Defendente. – Nacque a Romano di Lombardia (Bergamo)

Marco Beghelli

il 7 aprile 1794, ultimo di nove figli, da Giovanni Battista, sarto di probabile ascendenza ebraica originario del lago di Como, e da Caterina Bergamo, unitisi in matrimonio nel 1775.

Fu avviato alla musica dal padre, suonatore dilettante di corno, al pari degli altri due fratelli, Geremia (1787-1836) e Giacomo Samuele (1791-1876); ne sortirono tre tenori, che calcarono le scene con esiti differenti: breve carriera italiana per Geremia, cagionevole in salute; ampia e di respiro internazionale per Giacomo; stellare per Giambattista. Questi, cresciuto a Bergamo, nel 1812 era già corista al teatro Ricciardi senza aver mai preso lezioni ufficiali di canto, poi dal 1813 solista in vari spettacoli di piccoli teatri lombardi e piemontesi. Nel 1815 il salto di qualità: cantò a Venezia (teatro di S. Moisè) in primavera, e l’estate già a Napoli, chiamatovi dal lungimirante impresario Domenico Barbaja, che lo riconfermò poi per molte stagioni (1815-29), facendogli cantare oltre 150 opere di tutti i generi e stili, a turno nei vari teatri della città. Ma non fu subito un periodo felice: combatté con il cibo la nostalgia di casa, acquisendo così una corpulenza irreversibile, mentre la posizione artistica sempre subordinata ai tenori Andrea Nozzari (che lo istruì tecnicamente) e Giovanni David (suo diretto rivale quanto a tipologia di voce) faceva sì che non partecipasse ad alcuna delle nuove produzioni rossiniane che in quegli stessi anni sbocciavano una dopo l’altra nel teatro di S. Carlo.

Nota positiva fu l’incontro, a Napoli, con un’artista dalla sorte simile: il contralto francese Adélaïde Chaumel, in arte Comelli (1796-1874), che si dice facesse la spola fra il letto di Barbaja e quello di Gioachino Rossini per trovare un suo spazio fra tante primedonne più gagliarde e aitanti. Si sposarono il 13 marzo 1821 (15 marzo il rito religioso), e da tal momento «quella strega ed ambiziosa ed asina di sua moglie» (Vincenzo Bellini a Francesco Florimo, 21 gennaio 1828) diventò la sua efficacissima quanto gelosa promotrice, riuscendo a trarre dal consorte potenzialità artistiche inespresse (e ingaggi insperati per entrambi). Sul piano contrattuale Rubini rimase comunque fino al 1830 artista quasi esclusivo di Barbaja: se nel 1824 debuttò a Vienna e nel 1827 conquistò Milano (dove veniva ormai preferito a David) è perché quelle due importanti piazze teatrali erano divenute nuovi feudi del potente impresario, mentre nella breve puntata parigina dell’autunno-inverno 1825-26 trovò ad accoglierlo Rossini, appena divenuto direttore del Théâtre Italien.

In quegli anni, compositori di vaglia cominciarono a scrivere opere nuove a sua misura: Saverio Mercadante con Doralice, Le nozze di Telemaco e Antiope, Il podestà di Burgos (tutte a Vienna nel 1824); Giovanni Pacini con Niobe (Napoli 1826), Il talismano (Milano 1829), Giovanna d’Arco (Milano 1830); Gaetano Donizetti con Elvida (Napoli 1826), Gianni di Calais (Napoli 1828), Il paria e Il giovedì grasso (Napoli 1829), Anna Bolena (Milano 1830), Marin Faliero (Parigi 1835); Bellini con Bianca e Gernando (Napoli 1826), Il pirata (Milano 1827), La sonnambula (Milano 1831), I puritani (Parigi 1835).

Prese così forma in Rubini una nuova natura d’interprete, un vero cliché operistico al quale, quasi per caso, si trovò fatalmente legato: quello dell’eroe romantico, cui pur prestava un timbro unanimemente considerato angelico, e dunque ben poco eroico. Né fu impresa semplice: il Gualtiero del Pirata, che simbolicamente segna la sua svolta artistica, pare facesse sudare sette camicie a Bellini, impotente di fronte alla scarsa passionalità del suo interprete, d’indole sempre calma, quasi apatico, debole nei recitativi (G. Barbò, Cenni illustrativi alla nuova opera seria “la Straniera” del Maestro Vincenzo Bellini, Milano 1829); nondimeno, «La Sortita di Rubini [nel Pirata fece] un furor tale che non si può esprimere, ed io mi sono alzato ben 10 volte per ringraziare il publico» (Bellini a Vincenzo Ferlito, 29 ottobre 1827). Evidentemente la sua voce querula, elegiaca, lievemente velata, ben si sposava con l’indole del personaggio straziato che Bellini aveva ritratto in melodie delicate, sofferte, malinconiche, nonché infarcite di allettanti sopracuti che il cantante sapeva raggiungere con facilità e grazia (mai con veemenza): una ricetta vincente che il compositore ripeté in tutte le opere scritte per lui, contribuendo più di chiunque altro a costruirne la fama di voce celestiale (nella doppia accezione di soave e iperacuta).

Pare tuttavia che Rubini non fosse dotato di una tecnica ineccepibile: se da un lato «eseguisce perfettamente tutto quello che gli viene in capo di fare» (e nel duetto della Sonnambula con Giuditta Pasta fu tutta «una sfida di trilli, di volate e di gorgheggi, [...] cosa grande nel suo genere, e che probabilmente non sarà ripetuta da altri»), per contro «abbiamo sentito rimproverargli le ineguaglianze di voce, le smorzature troppo esili [...] ma non ne parleremo più, perché siamo oramai persuasi che nel passaggio dalle voci di petto a quelle di testa egli non possa fare altrimenti» (L’eco, 9 marzo 1831). Pregi e limiti furono evidenziati anche dai commentatori francesi e inglesi: «La sua voce, d’una flessibilità prodigiosa, non aveva una sonorità omogenea», ma proprio la «brusca opposizione d’ombra e luce» fra le note di petto e di testa era «uno degli effetti più frequentemente ostentati» (Scudo, 1856, pp. 281 s.); «Prima di arrivare in Inghilterra la sua voce aveva acquisito una sorta di emozionante vibrato, all’epoca nuovo per noi, poi abusato alla nausea. [...] Aveva adottato uno stile di estremo contrasto fra piano e forte che molte orecchie, alla lunga, non poterono più tollerare» (Chorley, 1862, p. 30).

Dal 1833 al 1840 la carriera di Rubini, in quanto incardinata nella compagnia stabile del Théâtre Italien, fu praticamente spartita fra Parigi (autunno e inverno) e Londra (primavera e inizio estate), replicando all’infinito una ventina di opere di Rossini, Donizetti e Bellini, con l’aggiunta degli ormai classici Don Giovanni (Wolfgang Amadeus Mozart) e Il matrimonio segreto (Domenico Cimarosa). E anche i suoi limiti nell’arte scenica sembrarono infine superati nella scena conclusiva di Lucia di Lammermoor (non a caso il trionfo del canto elegiaco): «La sua voce singhiozzante, spenta, convulsa, eppure sempre piena d’incanto e melodie, ha commosso tutti i cuori. I suoi accenti strazianti di malinconia hanno strappato lagrime. Rubini è stato sublime. L’attore, se possibile, ha superato il cantante» (Revue du Théâtre, 16 dicembre 1837).

L’ultima novità operistica degna di nota tenuta a battesimo da Rubini fu l’opera estrema di Bellini, che, unitamente agli altri eccezionali primi interpreti – Giulia Grisi soprano, Antonio Tamburini baritono, Luigi Lablache basso –, lo immortalò nel cosiddetto quartetto dei Puritani (dal quale, peraltro, fu il primo a defilarsi, lasciando il ruolo del tenore al collega Giovanni De Candia, detto Mario, divenuto poi compagno della Grisi). E fu proprio la parte acutissima di Arturo per lui scritta nei Puritani, benché «ora la voce di Rubini possiede l’effetto un mezzo tono più basso della tessitura che sei anni sono richiedeva» (Bellini a Florimo, 24 ottobre 1834), a mitizzarlo anche fra i comuni melomani come cantante dall’estensione stratosferica (la parte affidatagli, dopo aver toccato più volte il do e il re sovracuti, si spinge, sia pur fugacemente, addirittura sino al fa).

Oggi non mancano i cantanti che siano in grado di prodursi nuovamente in tale exploit, riconducendo l’eccezionalità su livelli realistici. Semplicemente, le generazioni di tenori successive a Rubini presero altre strade, essendo impossibile eseguire con vocalità più robuste le parti create per un tenore contraltino qual era Rubini, vale a dire tanto versato nel canto leggero degli estremi acuti, quanto inadatto alle tessiture più centrali e alle discese sotto il mi basso (Scudo, 1856, p. 281); al punto che, volendo inopportunamente affrontare il ruolo eponimo dell’Otello rossiniano, «scritto per un tenore vigoroso e grave» (il menzionato Nozzari), egli si vedeva costretto a «trasporre all’acuto i passi che lo avrebbero condotto oltre i limiti inferiori della sua voce», soluzione «non sempre felice» e che «distrugge l’effetto delle frasi discendenti» (Journal des Débats, 29 settembre 1831).

Dal 1836 i giornali cominciarono a segnalare occasionali segni di stanchezza vocale, e dal 1839 a parlare di un prossimo ritiro. La spola ininterrotta fra Parigi e Londra venne intercalata da una deludente apparizione nella natia Bergamo (con Il pirata, 1837), da una comparsata a Manchester (con I puritani, 1839), da rapide puntate a Bruxelles, Wiesbaden, L’Aia, Madrid (1841) e da un tour concertistico in Germania con Franz Liszt (1842): furono anni di guadagni stratosferici e doni preziosi da parte di principi e sovrani. Nel 1843 si esibì qualche sera a Berlino sulla strada per Pietroburgo, dove terminò la carriera invitato dallo zar, facendo scorrere fiumi di lacrime fra gli spettatori più sensibili (1843-45, ma con rientro in Italia ogni estate per organizzare compagnie da condurre in Russia). Declinò nel 1846 un invito da New York.

Della persona così parla Paul Scudo (1856): «Era di statura media e taglia vigorosa assai. Su larghe spalle s’innalzava una testa il cui carattere non era davvero la distinzione; ma il suo viso, butterato dal vaiolo, s’illuminava per la potenza del canto, e quell’uomo abbastanza volgare si trasfigurava d’un tratto in artista sublime, di cui le più belle donne d’Europa avrebbero voluto possedere l’affetto» (p. 291).

Morì il 3 marzo 1854, per affezione broncopolmonare, nel lussuoso palazzo neoclassico che si era fatto costruire nella natia Romano. Senza prole, lasciò ogni suo bene all’amata consorte. Alla di lei morte i beni furono dispersi fra enti caritatevoli e lontani parenti, gli oggetti artistici radunati in un Museo Rubini eretto nello stesso palazzo.

Fonti e Bibl.: P. Scudo, R., in Critique et littérature musicales (première série), Paris 1856, pp. 275-292; H.F. Chorley, G. B. R., Thirty years’ musical recollections, I, London 1862, pp. 29-33; C. Traini, G. B. R. re dei tenori, Bergamo 1954; B. Cassinelli - A. Maltempo - M. Pozzoni, R., l’uomo e l’artista, Romano di Lombardia 1993, con carteggi, cronologia, recensioni teatrali, giudizi coevi (Castil-Blaze, Escudier, Scudo, Locatelli, Chorley, Cox) e saggi critici moderni (Monaldi, Gara, Celletti) integralmente trascritti, riproduzione di sue composizioni vocali da camera, nonché un profilo di Giacomo Samuele Rubini; R. Taruskin, Ital’yanshchina, in Id., Defining Russia musically, Princeton 1997, pp. 196-201; Le Théâtre-Italien de Paris 1801-1831: chronologie et documents, a cura di J. Mongrédien, V-VIII, Paris 2008, con tutte le recensioni francesi, ad ind.; D.H. Marek, G. B. R. and the bel canto tenors, Lanham 2013, con riproduzione di un’opera didattica e un capitolo sulla tecnica vocale; C. Frigau Manning, Chanteurs en scène: l’œil du spectateur au Théâtre-Italien, 1815-1848, Paris 2014, ad ind.; Vincenzo Bellini: carteggi, a cura di G. Seminara, Firenze 2017, ad indicem.

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