LERCARI, Giovanni Battista

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 64 (2005)

LERCARI (Lercaro), Giovanni Battista

Maristella Cavanna Ciappina

Nacque a Genova attorno al 1505 da Stefano (probabilmente identificabile con il patrono di navi genovesi catturato dai Turchi nel 1514) e da Maria Giustiniani; ebbe un unico fratello, Gerolamo, morto giovane. Il L. ricevette un'eccellente formazione umanistica ed ebbe un precoce e brillante avvio di carriera, come console della nazione genovese a Palermo, quando aveva 22 anni. Tornato a Genova nel 1529, fu prima eletto tra i 17 capitani (tutti giovani delle principali famiglie, ciascuno a capo di cento uomini) incaricati di riorganizzare la struttura difensivo-militare della Repubblica, appena riformata e portata nell'orbita spagnola da Andrea Doria; quindi, il 25 ottobre, ricevette nomina e istruzioni come ambasciatore a Bologna per l'incoronazione di Carlo V.

Nella corrispondenza egli sottolineava con giovanile orgoglio come l'imperatore avesse rivolto a lui personalmente l'invito all'ingresso di Genova nella lega, ma nel dicembre il governo nominò l'autorevole Sinibaldo Fieschi come ambasciatore e procuratore con pieni poteri, pur raccomandandogli la collaborazione con il giovane L., anche per non sminuirne il prestigio di cui godeva presso la corte imperiale. Durante la cerimonia dell'incoronazione di Carlo V in S. Petronio, il 24 febbr. 1530, il L. fu protagonista di un clamoroso episodio, poi celebrato dalle cronache locali: lo scontro verbale e fisico con un ambasciatore di Siena per questioni protocollari di precedenza, concluso con lo sdegnoso rifiuto del L. di lasciare la cattedrale insieme con gli altri protagonisti dell'inopportuno alterco e la sistemazione sua e della legazione genovese nella cappella presso il soglio pontificio, da lui rivendicata a voce alta, e consentita con cenno del papa sulla base dei meriti della Repubblica.

Durante la sua permanenza a Bologna, il L. fu pure incaricato di scegliere sei giuristi per offrire loro la carica di giudice nell'appena istituita (24 sett. 1529) Ruota di Genova. La ricerca non fu facile, forse per la scarsa appetibilità di sede e salario, ma sono interessanti i criteri di selezione dei candidati da parte del L., sempre attento a segnalarne il livello culturale oltre che professionale. Tra il 1532 e il 1534, durante la "tregua armata" tra il re di Francia Francesco I e Carlo V, il L. fu impegnato in varie missioni in Francia e Spagna sul problema del ripristino della libertà dei traffici genovesi in Francia e attraverso la Savoia. Una soluzione favorevole sembrò aprirsi nel novembre 1533, nel quadro dell'incontro tra Francesco I e papa Clemente VII a Marsiglia: il L. fu inviato, insieme con il banchiere Benedetto Vivaldi, per accordarsi con il re utilizzando la benevola mediazione del conte Anne de Montmorency. Ma l'accordo alla fine sfumò per l'elusività di Francesco I, cui nel frattempo era stata forse fatta balenare da alcuni fuorusciti la possibilità di riconquistare Genova. Allora, a perorare l'intervento imperiale almeno sul duca di Savoia, nel gennaio 1534 il L. fu inviato a Madrid, prima come oratore, in sostituzione di Cattaneo Pinelli, e dal 6 marzo con la qualifica di ambasciatore residente.

Il L. doveva cercare di ottenere da Carlo V contributi per le spese militari e forniture granarie, nonché l'abrogazione, già promessa a Martino Centurione, del divieto di caricare merci in Spagna se non su navi genovesi. Durante l'incarico a Madrid, durato fino alla fine del luglio 1535, il L. fu abile sia nel segnalare prontamente al suo governo l'insorgere di nuovi problemi e la loro possibile soluzione sia nel rimarcare presso Carlo V i danni economici patiti da Genova proprio per la sua fedeltà, riuscendo a ottenere il massimo possibile in rapporto alla congiuntura internazionale.

Sembra sia stato il L. a suggerire il trasferimento delle fiere genovesi, già spostate da Lione a Chambéry e Montluel, verso Lucerna e Besançon, in Franca Contea e perciò in territorio imperiale. La soluzione - voluta da Besançon e divenuta operante dopo il riaprirsi delle ostilità franco-imperiali alla fine del 1535 e la rapida occupazione del Piemonte da parte di Francesco I - vanificava la promessa solenne di consentire il ritorno dei Genovesi in Savoia, che Carlo V aveva fatto in febbraio al Lercari.

Tra il 4 e il 9 sett. 1541 Carlo V, diretto all'impresa di Algeri, fece tappa a Genova: a fronte di un consistente prestito, concesse forniture di grano siciliano e l'assunzione di metà delle spese per la difesa della città; per il prestito stipulò due asientos, uno di 25.000 scudi con Gerolamo Di Negro e uno di 80.000 con un numeroso gruppo di sottoscrittori, di cui il L. era il referente. Le difficoltà finanziarie e i tentativi di ambigui accomodamenti costrinsero il L. a recarsi due volte presso Carlo V per negoziare un rimborso aggirando i ministri imperiali, che intendevano rifondere solo i finanziatori principali, tra cui il L. e Francesco Lomellini. Proprio la fermezza del L. costrinse l'imperatore a rispettare i termini dell'asiento per non screditare se stesso, né il suo referente presso piccoli e grandi finanziatori genovesi. Intanto la tragica fine della spedizione di Algeri (con il naufragio della flotta imperiale il 24 ottobre e il disastro mitigato solo dall'abilità di A. Doria) ebbe ovvie pesanti conseguenze su Genova, che però trovò provvidenziale compenso nella riapertura dei mercati di Francia e, soprattutto, nell'accesso agli approvvigionamenti granari in Provenza.

Per il ringraziamento ufficiale al re di Francia furono scelti due oratori ritenuti idonei da A. Doria e dal governo genovese sia a garantire a Genova il mantenimento dei recenti benefici sia a rassicurare i sospettosi ministri di Carlo V: il L. e Giuliano Sauli. Partiti il 26 nov. 1541, i due raggiunsero la corte il 21 dicembre, ma furono accolti in udienza a Fontainebleau solo l'8 gennaio, senza ricevere nell'immediato temute richieste da un Francesco I distrattamente conciliante. A questa ambasceria accennano alcuni storici coevi, come G. Bonfadio, e di essa si parla nelle lettere inviate da Genova a Carlo V, conservate nell'Archivio di Simancas (Pacini, p. 501), ma non ne risulta traccia nelle fonti genovesi.

Rientrato a Genova a fine gennaio, probabilmente il L. si recò a Napoli, dove trascorse un periodo presso il viceré Pedro de Toledo e dove sarebbe tornato tra il 1549 e il 1553. Di certo era a Genova tra il 1546 e il 1548, cooptato insieme con Stefano Di Negro Pasqua, come membro del Collegio dei governatori, nella commissione di otto nobili (quattro di estrazione popolare e quattro "nobili antichi") incaricati della riforma legislativa detta del garibetto, voluta da A. Doria per regolare i rapporti tra le due fazioni della nobiltà.

La riforma faceva seguito alla repressione della "congiura dei Fieschi", nel panico del momento iniziale in cui il L. si trovò brevemente coinvolto. Nella notte tra il 2 e il 3 genn. 1547, infatti, diffusasi la notizia della morte di Giannettino Doria, nell'incertezza sul destino dello stesso Andrea, il Senato, riunito in emergenza in palazzo ducale, diede l'incarico di uscire a cercare Gian Luigi Fieschi, di cui si ignorava ancora la morte accidentale, al cardinale Gerolamo Doria, il quale volle essere accompagnato dal L. e da Bernardo Interiano Castagna. I tre uomini, tra archibugiate e folla tumultuante, dovettero desistere e tornare in palazzo. Quasi due anni dopo, ai primi di dicembre del 1548, sostò a Genova il futuro Filippo II con numeroso corteggio di notabili spagnoli: visita di cortesia non priva di funzioni di verifica dell'ordine ristabilito. Mentre tutta la nobiltà genovese filodoriana e filospagnola era mobilitata nelle varie ambascerie di accoglienza lungo il percorso, il L. fu incaricato dell'organizzazione dei festeggiamenti in città, che furono splendidi. E con lo stesso splendore il L. organizzò ricevimenti e feste per notabili stranieri e concittadini durante il biennio del suo dogato.

L'elezione del L., il 7 ott. 1563, con buona maggioranza (191 voti su 300), tre anni dopo la morte di Andrea Doria e dopo l'elezione ducale del nobile "vecchio" Giovanni Battista Cicala Zoagli, sembrava garantire, e in forma più brillante, la continuità della conduzione doriana della Repubblica, filospagnola ma nella sua piena sovranità. Tuttavia gli equilibri interni alla classe di governo erano venuti deteriorandosi insieme con la progressiva perdita di prestigio del vecchio principe-ammiraglio, sullo sfondo di una situazione internazionale ormai profondamente modificata e della recente guerra di Corsica, che aveva posto il problema dell'armamento navale e dei finanziamenti. Nel momento in cui si riaccendevano le tensioni tra nobili "vecchi" e "nuovi", il decisionismo, l'autonomia, anche il fasto a cui il L. improntò il suo dogato, costituirono probabilmente la vera causa del sindicato sfavorevole di cui fu oggetto a fine mandato. Significativo che tra i Cinque sindicatori (magistratura istituita con la riforma legislativa del 1528 per giudicare il doge a fine carica e decidere sul suo ingresso tra i procuratori perpetui) avessero votato a favore del L. i due nobili "nuovi", Bartolomeo Cattaneo e Prospero Fattinanti Centurione, contro i tre "vecchi" della sua stessa fazione: Nicolò Grimaldi, Leonardo Lomellini e Giovanni Francesco Di Negro. Le accuse mosse al L. il 29 genn. 1566 (quasi allo scadere dei quattro mesi regolamentari) erano articolate in dodici punti e, a parte le trasgressioni alla regolarità delle procedure, ribaltavano in senso negativo anche i punti qualificanti del suo dogato: in particolare i molti ospiti stranieri e i rapporti personali intrattenuti con personaggi prestigiosi, dal viceré don García de Toledo a Gabriel de la Cueva duca di Alburquerque, a Francesco Ferdinando d'Avalos marchese di Pescara, al cardinale d'Augusta Otto Truchsess von Waldburg, e si traducevano nella generale accusa di abuso di potere. Più pericolosa l'accusa di avere gestito senza l'autorizzazione dei Collegi i rapporti con gli ufficiali impegnati in Corsica, soprattutto con il commissario generale dell'isola, Cristoforo De Fornari. Con lettera del 5 febbr. 1566, il L. contestò punto per punto le accuse, senza rivendicare il prestigio che il suo dogato aveva risvegliato attorno a Genova a livello internazionale, né la sua rinuncia all'onorario, donato all'Ospedale e ad altre opere pie. Nel silenzio della controparte, un mese dopo presentò un fascicolo a propria difesa contenente una serie di testimonianze a suffragare la regolarità della sua condotta su ciascuno dei punti contestati, con richiesta ai sindicatori di conoscere in copia degli interrogatori e le lettere di accusa che erano loro pervenute. Essi fornirono solo due lettere (nelle quali riportarono le stesse parole delle loro accuse) di Paolo Spinola e di Domenico Doria; benché nulla fosse emerso dagli interrogatori di segretari e cancellieri, il verdetto (28 marzo 1566) fu a maggioranza sfavorevole. Il L. fece appello, sottolineando varie irregolarità procedurali, tra cui la nomina di Lomellini e di N. Grimaldi e le ragioni di rancore personale di quest'ultimo (che era stato censurato dal Senato e dal doge L. per la ferocia con cui in Corsica aveva fatto precipitare da dirupi e divorare dai cani gli uomini catturati), e chiese che i Collegi valutassero il suo operato. La richiesta non poté essere accolta, stante l'inappellabilità delle sentenze dei sindicatori, sancita nel 1528. Il L. raccolse tutto il materiale presentato al processo nella Narrazione del Sindicato dell'ill. sig. Gio. Battista Lercaro nel suo governo de duce della serenissima Repubblica di Genova, raccolto per sr. de Benedetti, pubblicata a Milano nel 1584 sotto lo pseudonimo di Stefano de Benedetti (due copie sono conservate alla Biblioteca civica Berio di Genova). Nonostante l'amarezza per l'ingiustizia subita, che secondo varie testimonianze si stava trasformando in una sorta di ossessione di cui il L. parlava con tutti, il peggio doveva ancora venire. Infatti l'unico figlio maschio, il ventiseienne Giovanni Stefano (l'altro, Giovanni Gerolamo, era morto qualche anno prima), nell'intento di vendicare il padre organizzò l'assassinio dell'ex doge Luca Spinola, che aveva tenuto in Senato un discorso in cui descriveva enfaticamente il L. come attentatore alla libertà repubblicana. Il sicario uccise per errore Agostino Pinello, che stava passeggiando con Spinola. Il L. fu imprigionato insieme con la moglie Maria Imperiale ma, riconosciuta la loro totale estraneità all'iniziativa del figlio, furono prontamente liberati; Giovanni Stefano invece, catturato la notte del 13 dic. 1566, sottoposto a tortura, confessò e fu decapitato il 22 febbr. 1567 nella torre di palazzo ducale.

Nella Relazione della coraggiosa morte del sig. Gio. Stefano Lercaro (Arch. di Stato di Genova, Mss., 451, cc. 156-167) del padre gesuita Gaspare Loarte, che assistette il figlio del L. negli ultimi quattro giorni di vita, sono allegate tre lettere scritte dal giovane per chiedere perdono al padre, alla madre e a don Garcia de Toledo ("che avete sempre amato e favorito mio padre"), delle cui galee sembrava destinato a diventare comandante.

L'assassinio di Pinello, anch'egli ex doge, da parte del figlio di un ex doge diede lo spunto a un dialogo, rimasto manoscritto, intitolato Sogno sopra la Repubblica di Genova veduto nella morte di Agostino Pinello ridotto in dialogo. Interlocutori Stefano Giustiniano primo institutor della unione, e detto Agostino Pinello procuratore in vita. Il testo, segnalato come attribuibile a Bernardo Giustiniani Rebuffo (Bitossi, 1992, p. 19), introdusse nella pubblicistica genovese il genere lucianeo del dialogo dei morti, tanto che la copia, conservata nell'Archivio storico del Comune di Genova, è seguita dai Dialoghi di Caronte, dei primi anni Settanta. L'atteggiamento filodoriano, l'esaltazione delle galee come vere armi dei Genovesi e certe battute dei due protagonisti, e in particolare le critiche ai procuratori perpetui, potrebbero sollecitare la ricerca di una diversa identità dell'autore (anche perché il Rebuffo è personaggio pressoché sconosciuto).

Dopo la tragedia, appena mitigata dalle disposizioni benevole del doge in carica, Ottavio Gentile, il L. e la moglie lasciarono Genova per una decina di anni: si trasferirono prima a Tunisi, poi nel Vicereame di Napoli e infine in Spagna, alla corte di Filippo II, dove il L. avrebbe rifiutato importanti incarichi. Il suo ritorno a Genova probabilmente coincise con l'arrivo, il 20 sett. 1574, dell'arciduca don Giovanni d'Austria, che il L. presentò al doge e in Senato. Questo ritorno comportò anche l'ultimo importante capitolo della sua attività politica: l'intelligente e spregiudicata mediazione operata nel 1575-76 nella guerra civile, scoppiata per l'abolizione della legge del garibetto, tra i due Portici (fazioni della nobiltà genovese), in cui si inserirono anche varie rivendicazioni popolari. Al L., riconosciuto dai "nuovi" come capo dei "vecchi", chiesero la mediazione, prospettandogli la revoca del sindicato sfavorevole e la nomina a procuratore perpetuo. Declinata l'offerta nel marzo 1575, egli intervenne provocatoriamente in Senato a favore del "popolo", come unico degno di governare, stante l'inettitudine al ruolo dirigente tanto dei "vecchi" come dei "nuovi" (e volle depositare presso l'arcivescovo e presso l'ambasciatore di Spagna il testo della sua proposta, contestualmente alla dichiarazione di illegittimità dell'abrogazione della legge del garibetto, avvenuta nel frattempo).

Scomodo per tutti all'interno del triangolo vecchi-nuovi-popolari, nell'intricato gioco di alleanze provvisorie e ingannevoli, il L. tornò a svolgere un ruolo costruttivo quando, dopo la fuoriuscita dei "vecchi" dalla città, dove si aggravavano i disordini, nel novembre a Casale cominciarono i lavori della commissione incaricata della pacificazione, presieduta dal cardinale Giovanni Morone. L'accordo fu siglato il 10 marzo 1576 dopo che le posizioni delle due delegazioni dei "vecchi" e dei "nuovi", rispettivamente guidate dal L. e da Davide Vaccà, si sbloccarono grazie all'intesa tra i due, che poté ridimensionare il ruolo dei commissari stranieri nella definizione della nuova costituzione della Repubblica di Genova.

Nella stesura delle nuove leggi del 1576, si deve in particolare al L., memore della sua vicenda processuale, la riforma del capitolo LXV delle leggi del 1528, circa l'inappellabilità delle sentenze dei supremi sindicatori, modificato nel capitolo XXIX, che ammetteva il ricorso al Minor Consiglio per le sentenze più gravi. Su queste ultime vicende (e anche sui sospetti che il primo doge eletto dopo l'accordo di Casale, Prospero Fattinanti Centurione, fosse voluto dal L. a ricompensa del voto favorevole nel sindicato del 1566) nel 1857 fu pubblicata a Genova l'opera Le discordie e guerre civili dei Genovesi dell'anno 1575 descritte dal doge Gio. Batta Lercari, arricchite di note e documenti importanti da Agostino Oliveti, la cui paternità è stata da tempo riconosciuta a Scipione Spinola; sugli stessi avvenimenti il L. lasciò manoscritta una Historia dei tumulti di Genova in 17 libri, segnalata (Costantini, p. 103) presso la Biblioteca della Società economica di Chiavari (ma altra copia potrebbe trovarsi nel fondo Brignole Sale della Biblioteca civica Berio).

Pochi mesi dopo l'accordo di Casale, il 6 giugno 1576 il L. fu nominato ambasciatore straordinario presso Filippo II per il ringraziamento ufficiale per "la protezione" durante gli "ultimi dispareri", ed evidentemente per rassicurarlo sull'ordine ristabilito. Il governo approfittò della missione per investire il L. di una serie di pratiche, già affidate all'ambasciatore residente presso la corte di Madrid, don Marcantonio Sauli, con il quale gli fu chiesto di collaborare: tra le altre, la rivendicazione di Oneglia, venduta invece al duca di Savoia; la revoca del decreto regio di sospensione di pagamenti a nobili fuorusciti (molti i danneggiati tra i "vecchi"); ricorrenti problemi di dogane e di protocollo delle precedenze. Ancora negli anni Ottanta il L. ricoprì incarichi in varie magistrature, per sua scelta legata all'età, meno impegnative; è però forse sempre il L., e non un più giovane omonimo, uno dei due commissari generali (l'altro è Agostino Sauli) inviati il 20 apr. 1589 in Corsica dall'ufficio dell'Abbondanza per risolvere i problemi di rifornimento granario di Genova, aggravati dalla chiusura dei mercati del Levante e insorti dieci anni prima per la crisi produttiva di quegli anni. Su tale questione il L. aveva una lunga esperienza: era stato proprio lui, insieme con Ottaviano Sauli, a scrivere il 29 dic. 1556 a Nicolò Giustiniani a Scio circa la missione segreta di Francesco de Franchi (soprannominato Tortorino) presso il primo ministro turco, per riavviare i commerci con Costantinopoli. Nella lettera il L. formulava il discutibile distinguo su A. Doria, combattente per la Spagna contro i Turchi, ma non facente parte del governo di Genova, libera quindi di trattare in pace con la Porta grano e altre mercanzie.

In quello stesso 1556, il L. dispose una cifra notevole nel Banco di S. Giorgio per la distribuzione annuale di grano ai poveri della città: a ricordo, nell'atrio della sala del Gran Consiglio in palazzo S. Giorgio, fu eretta nel 1557 una statua, con lapide, raffigurante il L. seduto.

Il L. morì a Genova nel 1592, pochi anni dopo la moglie Maria Imperiale, lasciando erede di un vistoso patrimonio l'unica figlia, Pellina, moglie di Giovanni Maria Spinola. Ai poveri della città destinò nel testamento 6000 lire.

Fu sepolto fuori le mura, nell'antico santuario di S. Nicolò al Boschetto, nella cappella della Madonna, dove un solenne mausoleo conserva ancora la sua tomba e la bella lapide con un fiero epitaffio nel quale è descritto come viceré, secondo il soprannome attribuitogli per il suo forte legame con Napoli e con don Pedro de Toledo; sotto la sua tomba si trova quella dove nel 1586 il L. aveva raccolto i resti della moglie e dei due figli, con altro struggente epitaffio.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Mss., 451, cc. 76 s., 156-167, 223 s., 268 s.; 484, c. 61; 492, c. 56; Genova, Biblioteca civica Berio, m.r. X.2.68: L. Della Cella, Famiglie di Genova, cc. 717-719; Chiavari, Biblioteca della Società economica, Mss., 3.Z.II.20; G. Bonfadio, Annali di Genova, Genova 1597, pp. 101, 119-127, 167-169, 289, 373; Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, I, a cura di R. Ciasca, Roma 1955, pp. 118-124, 131, 157, 206 s. (ma il Lercari alle pp. 338-341 è un omonimo); C. Manfroni, Le relazioni fra Genova, l'Impero bizantino e i Turchi, in Atti della Società ligure di storia patria, XXXII (1898), pp. 762 s.; F. Donaver, Storia della Repubblica di Genova, II, Genova 1913, pp. 243 s., 404; L. Levati, I dogi biennali della Repubblica di Genova, I, Genova 1930, pp. 108-122 (con ampia bibliografia); F. Poggi, Le guerre civili di Genova… dell'anno 1576, in Atti della Società ligure di storia patria, LIV (1930), p. 97 e passim; V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, ibid., LXIII (1934), pp. 82, 92, 107, 138, 160; A. Cappellini, Dizionario biografico di genovesi illustri, Genova 1936, p. 99; V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1955, I, pp. 226, 271; II, pp. 110 s.; D. Gioffré, Gênes et les foires de change, Parigi 1960, pp. 22 s., 115-119, 232, 238-245; C. Costantini, La Repubblica di Genova nell'età moderna, Torino 1970, ad ind. (a p. 229 è indicato un omonimo); C. Bitossi, Il governo dei Magnifici. Patriziato e politica a Genova tra Cinque e Seicento, Genova 1990, pp. 51, 56-58, 60, 66; Id., Città, Repubblica e nobiltà ecc., in La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica, Genova 1992, pp. 18 s.; A. Pacini, La Genova di Andrea Doria nell'Impero di Carlo V, I-II, Firenze 1999, ad indicem.

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