MAGANZA, Giovanni Battista

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 67 (2006)

MAGANZA, Giovanni Battista

Lorenzo Carpané
Alessandro Serafini

Sulla data e sul luogo di nascita del M. (Magagnò fu il nome pavano da lui adottato nelle opere letterarie) si sono registrati a lungo errori e imprecisioni, cosicché fu ritenuto, soprattutto da storici locali, di origine vicentina. Nacque invece intorno al 1513 (1510, secondo Pasqualigo, 1908, p. 54; 1509, secondo Milani, 1983, p. 233) a Calaone di Baone, vicino Este, come sostiene Bortolan, sulla base anche di quanto scrive lo stesso M. (Sonagitti, spataffi, c. 6r: "De Magagnò da Callaon").

Il padre Marcantonio era gastaldo, cioè fattore, della famiglia Pisani dal Banco, cui i Maganza erano da tempo legati. Il nonno paterno, Battista, fu notaio a Este; già con Marcantonio, tuttavia, per motivi che non si conoscono, la situazione economica della famiglia era peggiorata. La lontana origine germanica, dalla città di Magonza, che secondo Bortolan si potrebbe inferire dal cognome, è tutta da dimostrare; quel che è certo è che i Maganza sono testimoniati a Este a partire dai primi anni del Quattrocento (un documento del 1423 in Franceschetti, p. 145).

La prima formazione del M. avvenne a Este, probabilmente a opera di Niccolò Maganza, zio del M., che era parroco di Calaone nonché sagrestano della cattedrale di Padova. Già a questi anni dovrebbero risalire le prime relazioni con Gian Giorgio Trissino e Sperone Speroni, e probabilmente con altri membri di importanti famiglie venete, che a Este avevano le loro ville. Al 1540 risale il trasferimento a Vicenza, dove Marcantonio fu chiamato a svolgere l'ufficio di conestabile di porta Padova, probabilmente grazie all'aiuto dei protettori che già due anni prima avevano procurato un posto di soprastante del dazio dei legnami a Bassano per Paolo, fratello del Maganza. Il primo documento diretto della presenza del M. a Vicenza è del 1541, quando firmò il ritratto della contessa Cinzia Thiene Garzadori, avviando una carriera di ritrattista per la quale fu molto apprezzato. A Vicenza rinsaldò i rapporti con Trissino, nella cui residenza di villa Cricoli fu ospite, trovandovi non solo protezione ma anche luogo favorevole per le discussioni letterarie. Trissino, che aveva dato ad Andrea di Pietro della Gondola il nome di Palladio, diede al M. quello, meno fortunato, di Terpandro, con il quale lo ricorda nell'Italia liberata dai Goti (II, vv. 414 s.).

Il legame del M. con Padova non fu tuttavia mai reciso, tanto che egli aderì all'Accademia degli Infiammati, fondata nel 1540, di cui facevano parte numerosi letterati non solo veneti, tra i quali Pietro Aretino, Speroni e Angelo Beolco detto Ruzzante. Tuttavia i tentativi di accreditarsi a Padova anche attraverso il canale accademico fallirono, nonostante altre occasioni di omaggio quali la Canzone recitata al clariss. sig. Andrea Barbarigo nella sua partita da Padova il 9 maggio 1557 (Padova, G. Percacino, 1557; in morte di Barbarigo, nel 1571, il M. avrebbe composto un sonetto, pubblicato nell'adespoto Dialogo di Caracosa e Caronte, s.n.t.).

Vicenza fu il centro dell'attività del M. come letterato e artista, e l'Accademia il principale punto di riferimento, anche se egli non risulta tra i fondatori, nel 1565: solo dell'anno successivo è la prima attestazione della sua presenza, con il nome di Anelante. In quell'anno scrisse la prefazione per l'edizione dell'Antigono di Conte Da Monte (Venezia, Comin da Trino), dedicata a Francesco Pisani, protettore tanto del M. quanto dell'autore, e che fu rappresentata in occasione dell'entrata in Vicenza del nuovo vescovo Matteo Priuli. Da allora fino alla morte, il M. partecipò attivamente a tutte le adunanze e nelle occasioni pubbliche fu sempre chiamato a dar voce all'Accademia con i suoi versi pavani. Dal 1583 il M. ricoprì anche il ruolo di gastaldo e anche a lui, come agli altri accademici, all'inaugurazione del teatro palladiano, nel 1585, fu data la possibilità di far realizzare a proprie spese una statua, ma la scarsità dei mezzi economici lo fece ripiegare su una meno onerosa pittura. Curò invece nello stesso anno, la scelta dei costumi per la rappresentazione inaugurale, dell'Edipo re di Sofocle nella versione di Orsatto Giustinian. Partecipò anche all'altra Accademia vicentina, quella dei Costanti, come lascia supporre un sonetto recitato nell'Accademia, in risposta a uno "spruolico" di Mario Repetta (Bandini, 1983, p. 335).

Sposato forse con una Thia Dal Bianco, il M. ebbe, secondo le testimonianze da lui stesso date nelle sue poesie, undici figli, dei quali è noto solo Alessandro, a sua volta pittore e poeta. La numerosa prole e gli scarsi introiti derivanti dalla sua professione di pittore e di letterato non permisero al M. di condurre un'esistenza agevole. Solo nel 1576, dopo una sua esplicita e pubblica richiesta, l'Accademia gli elargì un appannaggio di 18 ducati annui, che tuttavia cessò dopo solo tre anni. Di fronte a una nuova richiesta di sussidi, gli fu concesso che all'elezione di un nuovo principe dell'Accademia egli potesse "riscuotere[(] la sua colletta ordinaria quel tanto che a ciascuno parerà di donare" (Bortolan, p. 32).

Per quanto è noto, non si mosse molto dall'area veneta: si sa solo di un viaggio a Roma nel 1545, da dove fece ritorno dopo il maggio 1547 insieme con Trissino e altri letterati e artisti, tra i quali Palladio.

Il M. morì il 25 ag. 1586, nel palazzo del Territorio a Vicenza, una parte del quale era proprietà dell'Accademia Olimpica, dove era stato ricoverato in condizioni di indigenza. Fu onorato con le pubbliche esequie degli Olimpici e sepolto nella chiesa di S. Maria degli Angeli dei terziari francescani.

Lasciò una pesante eredità di debiti, contratti, secondo Ridolfi, per le eccessive donazioni in favore dei poveri, ma forse anche per la passione verso l'alchimia, come testimonia Milani (1998, p. 284), che pubblica un documento in cui tale Alvise Colti, condannato a morte come eretico, verso la metà degli anni Ottanta scrive un memoriale difensivo in cui fornisce del M. un ritratto quanto mai disonorevole: "questo è huomo de malissima vitta, gabbator, con sue archimie magna a questo et a quel altro, è huomo che va scrocando furbescamente, la matina disna con uno, la sera cena et dorme con uno altro facendo il rupho, il poetta, recita versi, compone soneti, fa malissima vitta in casa sua alla mogllie".

Secondo Bandini (1990, p. 17) l'esordio letterario del M. è da fissare al 1539. In quell'anno, infatti, fu pubblicato a Vicenza un libretto intitolato Tutte le donne vicentine, maritate, giovani e dongelle¸ a firma di Lucrezio Beccanuvoli bolognese, con dedica al M., definito "pittore non meno eccellente che poeta". Tale pseudonimo celerebbe, per una sorte di "legittima suspicione" verso le lodi rivolte al M., proprio lo stesso poeta-pittore, che avrebbe fatto così un'operazione di pubbliche relazioni presentandosi al pubblico vicentino. Il primo testo firmato esplicitamente sono le Stanze alla illustrissima Lucretia Gonzaga (Venetia, [P. Pietrasanta], 1554), recitate in onore della gentildonna, che aveva fatto sosta a Vicenza di ritorno da Venezia. Da allora partecipò con una certa costanza a raccolte poetiche d'occasione. Tra queste emergono Il tempio della divina signora Giovanna d'Aragona (Venezia 1555) e le Rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi ingegni in morte della signora Irene delle signore Spilimbergo (ibid., D. e G.B. Guerra, 1561), alle quali contribuì anche il giovane Torquato Tasso, che forse nell'occasione il M. ebbe modo di conoscere in casa dello Speroni. Lo rivide forse a Vicenza, in casa Gualdo, e nel 1579, al Tasso, mentre questi era in prigione a S. Anna, dedicò un sonetto Maganza, parte quarta, ed. 1610, c. 120). Nel 1571 il M. partecipò alle celebrazioni per la vittoria di Lepanto con la Frotola de Magagnò per la vittuoria de i nuostri segnore contra i Turchi (Venezia, C. Zanetti, 1571), conservato nella Biblioteca civica di Vicenza (Gonz., 18.3.5.1-22), in un volume di vari opuscoli, stampati da diversi tipografi veneziani ma compresi da un unico frontespizio senza note dal titolo Varii componimenti di diversi auttori, sopra la vittoria dell'Armata della Santissima Lega. All'interno sono compresi altri testi del M.: la Herculana in lingua venetiana (Venezia, C. Zanetti, 1571; poi Padova, L. Pasquati, 1578) e la canzone Mentre ch'io bascio, e che di verde alloro e una Frotola, entrambe s.n.t. Dopo i Sonetti spirituali nel primo Natale di N.S. Giesù Christo (Venezia 1573), del 1576 è una Canzone nel calamitoso stato di Vinetia l'anno 1576 (Vicenza, G. Angelieri), dell'anno successivo una Canzone nella qual si priega per la magnifica città di Vicenza. L'anno della sua calamità, 1577 (ibid.) e un Lamento della città di Vicenza l'anno 1577 (ibid.), composti in occasione della peste che colpì la città. Negli anni successivi, fino alla morte, il M. diede alle stampe rime in raccolte, quasi sempre d'occasione, o brevi componimenti a sé: Elegia nella morte di Gusmano di Silva, Vicenza, G. Angelieri, 1578; Corone e altre rime in tutte le lingue principali del mondo in lode dell'illustre Luigi Ancarano di Spoleto. Raccolte da Livio Ferro Academico eletto, Padova, L. Pasquati, 1581, p. 92 (un sonetto in lingua); La favola di Giasone cantata da Magagnò in lingua rusticana padovana, ibid. 1578 (poi Vicenza, Stamperia nova, 1585); Canzone nel Natale del Salvator nostro Giesù Christo, Padova, L. Pasquati, 1579; Oratione de l'Angioleo academico olimpico all'illustrissimo et eccellentissimo signore, il signor Giacomo Soranzo, Vicenza, G. Angelieri, 1579, cc. [21r], [24v] (due sonetti in lingua); Sonagitti, spataffi, smaregale, e canzon, arcogisti in lo exequio e morte de quel gran Zaramella Barba Menon Rava. Da Rovigiò bon Magon de la valle de fuora, Padova, P. Meietti, 1584 (alcuni sonetti e altri testi); G. Ducchi, La Schacheide, Vicenza, appresso Perin libraro-G. Greco, 1586 (alcuni sonetti); Capitolo, ibid., A. Della Noce, 1586. Quest'ultimo probabilmente fu dato alle stampe dagli amici dopo la morte, giacché il testo, come si ricava da dati intrinseci, risale attorno al 1575.

La produzione lirica, in lingua e in dialetto, fu riunita dal M. in una raccolta, che prese avvio nel 1558 con la Prima parte e proseguì, con successive aggiunte, fino al 1583, quando si assestò con l'aggiunta di una Quarta parte: La prima parte delle rime di Magagnò, Menon, Begotto in lingua rustica padovana, Padova, G. Percacino, 1558; La seconda parte, Venezia, G.G. Albani, 1562 (colophon 1563); La terza parte, ibid., B. Zaltieri, 1569; La quarta parte, ibid., G. Angelieri, [non prima del 1583]; edizione completa di tutte e quattro le parti: ibid., G. Donato, 1584 (ciascuna raccolta ebbe diverse ristampe). L'impresa editoriale fu promossa dal M. e coinvolse quello che è stato definito un "club pavano" (Selmi, p. 346), ovvero anche Agostino Rava (Menon) e Marco Thiene (Begotto, erroneamente identificato per lungo tempo, fino agli studi di Bandini, con il sarto analfabeta Bartolomeo Rustichelli). Si tratta di raccolte nelle quali non si ravvisa una struttura organica e definita, quanto piuttosto l'accumulo di materiale diverso, spesso originato da occasioni encomiastiche. Frequente è il ricorso alla parodia - per esempio, nei confronti di Petrarca, di cui il M. riscrive la canzone Chiare, fresche dolci acque - ma sempre su uno sfondo in cui la realtà popolare emerge con chiarezza. È nella dedicatoria dell'edizione del 1584, a Giuseppe Sanseverino e a firma del M., che si sottolinea la natura di questi componimenti, nati, si dice, d'estate sotto gli olmi, d'inverno "a filò in cerca ai nuostri fogolari", dove il termine "filò" indica il conversare nelle stalle tipico del mondo contadino veneto.

Non irrilevante è la presenza, nell'edizione completa del 1584, di marginalia, in cui si spiegano in toscano termini pavani ritenuti evidentemente di difficile comprensione (ma talvolta vi si leggono sintetici commenti al testo). Ciò indurrebbe a pensare che il M. e gli altri due coautori si rivolgessero a un pubblico non esclusivamente locale. Non mancano del resto, nelle rime in lingua come in quelle pavane, prove di una consapevolezza letteraria da parte del M., maturata grazie alle frequentazioni di letterati contemporanei: egli riconosce come proprio maestro Ruzzante (Quel gran Ruzante che n'ha insegnà a nu), anche se, come ricorda Milani (1998, p. 283), in realtà nelle sue rime lo cita otto volte soltanto. Ancora meno numerose sono le citazioni da Trissino, mentre con maggiore frequenza è ricordato Tiziano. Tale trattamento nei confronti di due numi della cultura letteraria veneta della prima metà del Cinquecento va probabilmente letto anche come segno di concreto realismo, che portò il M. e i suoi sodali a porre maggiore attenzione nei loro testi a chi poteva assicurare loro protezione e favori. Nei confronti di questo mondo il M. mostra una sintonia con il mutamento del pubblico e del mezzo per raggiungerlo, non più affidato al teatro e al contatto diretto anche con il mondo contadino, ma alla lirica, il cui contesto è quello della cerchia nobiliare. Nel merito letterario, il M. tenta di uscire dal realismo di Ruzzante e "scrive una poesia dove l'impronta dei classici si accompagna a echi di poesia e di movenze popolari quattrocentesche" (Bandini, 1983, p. 329). In ciò, tra l'altro, si porrebbe sulla linea del maestro Trissino, che aveva sostenuto la necessità di "classicizzare il dialetto come lingua dell'egloga" (ibid.). L'identificazione tra poesia pavana e poesia bucolica antica porta così nel M. a una nobilitazione del mondo dei "boari" pavani, che si riflette nella lingua, la stessa del Ruzzante, ma nella quale si manifesta un contrasto tra la sua "sostanza plebea e la raffinatezza degli intenti letterari" (Bandini, 1976, p. 236). Via preferenziale dell'espressione diventa la metafora, in forme che dallo stesso M. sono sintetizzate nella formula della "smissiaggia", contrapposta alla "snaturalité" ruzzantiana.

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