PERGOLESI, Giovanni Battista

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 82 (2015)

PERGOLESI, Giovanni Battista

Claudio Toscani

PERGOLESI, Giovanni Battista. – Nacque a Jesi il 4 gennaio 1710 da Francesco Andrea e da Anna Vittoria Giorgi, terzogenito di una famiglia di modeste condizioni originaria di Pergola, nelle Marche, che si era stabilita a Jesi nella seconda metà del secolo XVII e aveva mutato in Pergolesi l’originario cognome Draghi.

Il padre, sergente della pubblica milizia, amministrava i beni della Confraternita del Buon Gesù; aveva anche mansioni di geometra per il municipio e la nobiltà locali. Giovanni Battista, di salute cagionevole come quasi tutti in famiglia, venne cresimato il 27 maggio 1711 anziché dopo il sesto compleanno com’era consuetudine, forse perché in pericolo di vita. Sin dall’infanzia fu probabilmente affetto da tubercolosi e da una malattia che determinò l’anchilosi della gamba sinistra. Secondo una tradizione tarda, Pergolesi fu avviato allo studio della musica da Francesco Santi, maestro di cappella nel Duomo di Jesi, e del violino da Francesco Mondini; ebbe forse il sostegno di famiglie nobili jesine (Franciolini, Ghislieri, Onorati, Ripanti).

Intorno al 1723, tredicenne, Pergolesi fu mandato a Napoli per perfezionare gli studi musicali (l’ipotesi che a promuoverne la trasferta fosse stato il marchese Cardolo Maria Pianetti sembra aver perso consistenza). Venne accolto come ‘convittore’ nel Conservatorio dei poveri di Gesù Cristo, uno dei quattro conservatori della città, l’unico a gestione ecclesiastica. Vi ebbe per maestro di violino Domenico De Matteis; per la composizione studiò dapprima con Gaetano Greco, poi (agosto-ottobre 1728) con Leonardo Vinci, infine con Francesco Durante. Come gli altri allievi, Pergolesi prese parte, come cantore e strumentista, alle esecuzioni musicali in istituti ecclesiastici e palazzi nobiliari. Ai primi di luglio 1725 fu inviato a cantare nel chiostro di S. Patrizia; nel 1729-30 fu ‘capo-paranza’ (primo violino) in un gruppo di strumentisti. Secondo la tarda testimonianza di Giuseppe Sigismondo, i padri Filippini, che si servivano anch’essi dei ‘mastricelli’ dei Poveri di Gesù Cristo, la domenica facevano suonare regolarmente Pergolesi nella loro chiesa (cfr. F. Degrada, Giuseppe Sigismondo, il marchese di Villarosa e la biografia di Pergolesi, in Studi pergolesiani, 1999, n. 3, p. 265).

Agli stessi padri dell’Oratorio è legata la prima commissione importante. Nel 1731, al termine degli studi, Pergolesi fu invitato a comporre l’oratorio La Fenice sul rogo ovvero La morte di san Giuseppe (ed. critica a cura di A. Monga - D. Verga, in Edizione nazionale delle opere di Giovanni Battista Pergolesi, IV, 1, Milano 2013), per conto della Congregazione di san Giuseppe (protetta dai Filippini) che il 19 marzo d’ogni anno festeggiava il santo patrono: l’oratorio fu eseguito nell’atrio della chiesa dei Filippini.

Già da questa prima prova emerge un talento indiscutibile: Pergolesi seppe tradurre la concettosità barocca del modesto libretto di Antonino Maria Paolucci in vivide e ben definite immagini musicali, ricorrendo talvolta agli artifici della pittura sonora e delle figure idiomatiche, ma applicando anche strategie descrittive a più largo raggio, con arie che attingono alle risorse espressive del teatro d’opera coevo, serio e comico.

Nell’estate seguente Pergolesi fu chiamato a musicare, come saggio finale degli studi, il dramma sacro in tre atti di Ignazio Mancini Li prodigi della divina grazia nella conversione e morte di san Guglielmo duca d’Aquitania. La rappresentazione ebbe luogo nel chiostro del monastero di S. Agnello Maggiore che ospitava i canonici regolari del Salvatore.

Modellato sulle comedias de santos spagnole, che includevano personaggi comici e scene buffe, il San Guglielmo prevede la figura di Capitan Cuòsemo, erede dei militari sbruffoni della commedia dell’arte, che si esprime in lingua napoletana. Proprio in queste scene dalla comicità sanguigna la musica si fa spiccatamente gestuale, e il giovane compositore sfoggia una disinvolta padronanza dello stile buffo. Ridotti i personaggi e soppresse le parti comiche dialettali, il dramma, in forma di oratorio in due parti, ebbe una certa circolazione fuori di Napoli: ne è attestata un’esecuzione a Roma nel 1742, ma le numerose copie manoscritte della partitura fanno supporre una diffusione più ampia, favorita probabilmente dal circuito dei Filippini.

La favorevole impressione lasciata dai lavori d’esordio fu certamente alla base della commissione a Pergolesi, nel 1731, di un’opera per il principale teatro di Napoli, il S. Bartolomeo, controllato dalla corte vicereale: un librettista ignoto rimaneggiò Alessandro Severo, un vecchio dramma per musica di Apostolo Zeno (Venezia 1716), ribattezzato La Salustia.

Nella parte di Marziano doveva esibirsi il castrato Nicolò Grimaldi detto Nicolino, principale virtuoso della compagnia di canto sebbene ormai a fine carriera: per lui Pergolesi scrisse le arie più importanti e impegnative. Ma il 1° gennaio 1732 Grimaldi morì improvvisamente, a pochi giorni dalla prima (o forse a recite appena iniziate). La parte di Marziano venne affidata al tenore Francesco Tolve, che già faceva parte della compagnia, nella quale era ingaggiato per interpretare la parte del ‘secondo uomo’, Claudio; è probabile che Tolve cantasse le arie scritte per Grimaldi operando occasionali trasposizioni d’ottava. A coprire la parte di Claudio fu invece chiamato il giovanissimo soprano Gioacchino Conti, diciassettenne, poco più che esordiente (sarebbe poi divenuto famoso con il soprannome Gizziello). Così modificata, La Salustia andò in scena nella seconda metà di gennaio, ma ai primi di febbraio dovette essere ritirata per lasciare il posto all’Alessandro nelle Indie di Francesco Mancini.

In apparenza retrospettiva per via delle grandi arie pensate per Grimaldi, con il loro pathos e il virtuosismo vocale, l’opera rivela in realtà tratti spiccatamente moderni nella vivida caratterizzazione dei personaggi, nella padronanza dei tempi drammatici, nella sicurezza con cui Pergolesi tratta affetti e situazioni.

Nel 1732 Pergolesi esordì anche nella commedeja pe’ mmuseca, il genere dialettale abitualmente destinato ai teatri minori. Il 27 settembre andò in scena al teatro dei Fiorentini Lo frate ’nnamorato, testo di Gennarantonio Federico, un esponente della classe forense che si sarebbe poi legato a Pergolesi in una sorta di sodalizio artistico (scrisse per lui La serva padrona e Il Flaminio). La commedia, applaudita, divenne rapidamente popolare; fu ripresa nel 1734, in una versione leggermente modificata da Pergolesi per la presenza di nuovi interpreti, e poi ancora nel 1748 al teatro Nuovo.

L’azione, incentrata su una serie di matrimoni progettati per convenienza, gioca, a livello linguistico e musicale, su diversi piani stilistici, contrapposti con grande maestria. Ai numeri che occhieggiano lo stile popolare della canzone di strada si affiancano le arie buffe e le serie destinate ai personaggi che si esprimono in lingua toscana; le passioni vengono nobilitate da una grazia, da un gusto arcadico per la raffigurazione dei sentimenti del tutto particolari, inediti nel genere della commedia per musica.

Grazie alla crescente reputazione, Pergolesi venne presto richiesto da importanti famiglie dell’aristocrazia napoletana, legate alla corte vicereale. Al più tardi nell’ottobre 1732, fors’anche a seguito del successo del Frate ’nnamorato, venne assunto come maestro di cappella dal principe di Stigliano, Ferdinando Colonna, funzionario del viceré austriaco; per suo tramite entrò in contatto con altre due famiglie aristocratiche, tra loro imparentate: quella del duca di Maddaloni, che l’avrebbe introdotto nel mondo musicale romano, e quella di Marino Francesco Caracciolo, principe di Avellino (il 6 febbraio 1733 costui sposò Maria Antonia Carafa, sorella del duca di Maddaloni e cugina del principe di Stigliano). Tra i protettori e mentori di Pergolesi va annoverato anche Lelio Carafa marchese di Arienzo, cadetto del duca di Maddaloni e strettamente legato, dal 1734, a Carlo di Borbone.

Nel giugno 1732 Pergolesi entrò a far parte della «Congregazione de’ Musici eretta in San Nicolò alla Carità de’ reverendi Padri Pij Operaij sotto il titolo di Maria Addolorata», una confraternita dalla forte connotazione etico-religiosa, dedita alla reciproca solidarietà e a intense pratiche devozionali. Ne facevano parte Francesco Feo, Domenico Sarro, Giuseppe de Majo, Domenico de Matteis e molti altri musicisti napoletani, membri della Cappella reale o di altre istituzioni laiche e religiose. Data la particolare devozione dei confratelli alla Vergine, e la consuetudine di solennizzarne le festività, non è da escludere che alcune composizioni mariane di Pergolesi – in particolare i due Salve Regina (in La minore e in Do minore, per soprano, archi e basso continuo; ed. critica a cura di A.W. Atlas, in Complete Works, XV, New York-Milano 1994) e il mottetto Dignas laudes resonemus per soli, due cori e due orchestre (poi rielaborato come Sol resplendet per la festa di Ognissanti, riutilizzando o parafrasando alcuni brani del mottetto precedente, e anche in altre versioni, con testi diversi) – abbiano visto la luce in questo contesto.

Il 27 ottobre 1732 Pergolesi chiese d’essere accolto come organista soprannumerario nella Cappella reale: l’incarico, non retribuito, comportava l’obbligo di rispondere alla chiamata del maestro di cappella ove occorresse sostituire un altro musicista; ne derivava comunque un certo prestigio.

Il conte Nicolò Stella, capitano della Guardia alemanna e come tale responsabile della sorveglianza sui musicisti della Cappella reale, si espresse in termini lusinghieri nel suo giudizio, stilato il 1° novembre: «[Pergolesi] viene reputato compositore di Musica molto abile e di somma aspettativa, quale già ha composto molte opere, e presentemente pure ha dato saggio di sé nell’opera composta nel teatro de Fiorentini [Lo frate ’nnamorato] che riesce con applauso universale, oltre poi il bisogno che tiene la Cappella Reale de sogetti che compongono sopra il gusto moderno; onde pure questo lo crederei degno che la benignità di Vostra Eccellenza la onorasse della piazza sopranumeraria di organist[a] della Real Cappella» (F. Cotticelli - P. Maione, Per una storia della vita teatrale napoletana nel primo Settecento, in Studi pergolesiani, 1999, n. 3, p. 39); la domanda venne accolta. È significativo che il giudizio sottolinei, oltre l’alta reputazione del candidato, l’aggiornamento stilistico: il «gusto moderno» s’identificava con uno stile, poi definito ‘pregalante’, che in quel momento godeva di una crescente fortuna europea.

Accedendo alla Cappella reale, Pergolesi dovette entrare in contatto con altri musicisti di spicco: il primo maestro Francesco Mancini, il vicemaestro Domenico Sarro e il primo organista Leonardo Leo.

Altri eventi coinvolsero Pergolesi e la sua attività professionale. Una serie di terremoti colpì Napoli nel 1731 e nel novembre 1732. Per scongiurare la calamità, la municipalità decise di porre la città sotto la protezione di s. Emidio, facendo voto di celebrarne ogni anno la ricorrenza con una messa solenne e un vespro, da officiare il 31 dicembre in S. Maria della Stella, gestita dai padri minimi di S. Francesco di Paola. Per la prima ricorrenza, nel 1732, o forse per la seconda, l’anno dopo, Pergolesi fu incaricato di comporre messa e vespro: a questa commissione si lega la Messa in Fa maggiore (detta «di sant’Emidio») per voci soliste, due cori e due orchestre che, com’era consuetudine a Napoli, consta del solo Kyrie e Gloria; suddivisi in più sezioni, i movimenti esibiscono una considerevole padronanza della scrittura concertante e contrappuntistica.

Alla stessa occasione va probabilmente ricondotto un gruppo di salmi vespertini – un Dixit Dominus per soli, due cori e due orchestre, un Confitebor per soprano, contralto, coro e orchestra e un Laudate, pueri per soprano, coro e orchestra, oltre al mottetto Domine ad adiuvandum per soprano, coro e orchestra e all’antifona In cœlestibus regnis per contralto, archi e basso continuo – che trattano piuttosto liberamente il testo biblico, oscillando tra un atteggiamento fastosamente celebrativo e una più raccolta meditazione.

Il terremoto del novembre 1732, tra le altre conseguenze, causò la soppressione della successiva stagione d’opera al S. Bartolomeo: per il dramma serio al quale da tempo aveva iniziato a lavorare, Pergolesi dovette quindi attendere sino all’estate del 1733. Si trattava, come per La Salustia, di un vecchio dramma rielaborato, La fede tradita e vendicata di Francesco Silvani (Venezia 1704, musica di Francesco Gasparini). L’opera nuova sarebbe dovuta andare in scena, con il titolo Il prigionier superbo, per il genetliaco dell’imperatrice Elisabetta Cristina (28 agosto 1733), ma per qualche ragione la prima slittò al 5 settembre.

Benché l’accoglienza fosse, a quanto pare, tiepida (anche a causa di una compagnia mediocre), le recite durarono fino a ottobre. Un pathos meno acceso e un virtuosismo più contenuto rispetto alla Salustia caratterizzano le arie del Prigionier superbo; viceversa Pergolesi mostra di aver affinato la capacità di individuazione sentimentale dei personaggi, anche grazie a una scrittura orchestrale più incisiva.

Tra gli atti del Prigionier superbo trovò collocazione una delle composizioni più fortunate dell’intera storia del teatro musicale, gli intermezzi de La serva padrona, che avrebbero conosciuto un successo europeo tanto rapido quanto generalizzato e duraturo.

Federico fornì a Pergolesi un testo letterario di livello più alto rispetto alla media del genere: l’intreccio, semplicissimo, ma logico e ben congegnato, ripulisce i due personaggi dai luoghi comuni del repertorio comico e farsesco in favore di un più raffinato tratteggio sentimentale; ne emergono caratteri e tipi paradigmatici della società civile coeva. La musica – nei motivi, negli incisi ritmici, nella vocalità – esplicita le pulsioni dei due interlocutori, li ‘tallona’ nel loro divenire: la gestualità del linguaggio musicale è portata a un grado inusitato di frizzante vitalità.

Il 23 febbraio 1734 Pergolesi fu nominato maestro di cappella sostituto «della Fedelissima Città di Napoli»: la carica comportava la sostituzione del maestro titolare – l’ormai anziano Domenico Sarro – in caso d’infermità e il diritto di succedergli post mortem. Un indice del miglioramento di status è il fatto che, poco prima del 1734, Pergolesi cambiò abitazione, trasferendosi da uno dei vicoli dei Tribunali in una casa più ampia, nella zona corrispondente all’attuale corso Umberto; lì lo raggiunse la zia Cecilia Giorgi, sorella della madre, trasferitasi da Jesi a Napoli per badare alle sue necessità.

Probabilmente nello stesso periodo Pergolesi fu assunto come maestro di cappella dal duca Marzio IV Maddaloni Carafa, parente del principe di Stigliano e marito di Anna Colonna, appartenente all’alta aristocrazia romana.

Violoncellista dilettante, il duca proteggeva, tra gli altri, Leonardo Leo, che gli aveva dedicato i suoi concerti per violoncello. Quasi certamente per lui Pergolesi scrisse la sonata per violoncello intitolata Sinfonia. I compensi ricevuti dai protettori altolocati, mediamente superiori a quelli dei colleghi, attestano l’alta considerazione in cui Pergolesi era tenuto nell’ambiente napoletano.

Sulla carriera di Pergolesi incisero gli eventi politici e militari che investirono il Regno di Napoli, dal 1707 governato da viceré austriaci. A seguito della guerra per la successione al trono di Polonia, nel 1733 l’Italia divenne teatro dell’attacco mosso dalle potenze borboniche (Francia e Spagna) all’Impero asburgico. Il 10 maggio Carlo di Borbone fece ingresso in Napoli e il 16 venne incoronato re. Gli austriaci dovettero abbandonare la città, ritirandosi nelle regioni più meridionali e in Sicilia; la guerra sarebbe proseguita su più fronti, fino all’autunno 1735. In vista delle ostilità, molti nobili legati agli Asburgo si erano ritirati nel campo neutro di Roma, per attendere l’esito della guerra: tra costoro v’erano il principe di Stigliano, al cui servizio Pergolesi si trovava dal 1732, e altri protettori del musicista, come il duca Caracciolo d’Avellino e il duca Marzio Maddaloni Carafa. Nel maggio 1734 quest’ultimo, con la moglie, fece arrivare Pergolesi a Roma, ospitandolo probabilmente in palazzo De Angelis, da loro preso in affitto. Qui il compositore venne ritratto dal caricaturista Pierleone Ghezzi, che il 20 maggio ne profilò il volto e più tardi estese lo schizzo, tracciandone a memoria la figura intera in un secondo disegno (Rostirolla, 2001, pp. 156, 358 s.); in una nota Ghezzi precisò che Pergolesi zoppicava per un’infermità alla gamba sinistra. Sono questi i soli ritratti autentici pervenuti.

La famiglia dei Carafa di Maddaloni era tra le più legate agli austriaci. Al cambio di regime, nel maggio del 1734, i Maddaloni si adeguarono al passaggio dei poteri, ma non rinunciarono a dimostrare fedeltà all’Austria: si fecero perciò carico dei festeggiamenti romani in onore di s. Giovanni Nepomuceno, protettore della Boemia, particolarmente venerato nell’Impero. Il 20 (o 29) maggio Pergolesi diresse, nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina in cui aveva sede la Cappella nazionale boema, la Messa in Fa maggiore composta per s. Emidio, in una fastosa rielaborazione per voci soliste, quattro cori e due orchestre. L’esecuzione ebbe grande risonanza in Roma; ma trattandosi di un evento denso di implicazioni politiche, in quanto atto di scoperto omaggio all’imperatore, può darsi che abbia alienato al musicista le simpatie dei Borboni che si erano appena insediati a Napoli.

Il 9 giugno 1734 il duca ripartì per Napoli, probabilmente con Pergolesi al seguito. In settembre il compositore ricevette l’incarico di scrivere l’opera per il genetliaco della regina madre Elisabetta Farnese di Spagna; della serata era responsabile, in qualità di sovrintendente ai teatri, il marchese d’Arienzo, Lelio Carafa, il quale probabilmente volle favorire il maestro di cappella del nipote Marzio. Così il 25 ottobre andò in scena al S. Bartolomeo Adriano in Siria, un dramma di Metastasio, alla presenza del re e della nobiltà napoletana (ed. critica a cura di D. Monson, in Complete Works, III, New York-Milano 1986).

Il nucleo del dramma – lo scontro fra eroica abnegazione e passioni individuali – offrì al compositore il destro per sfoggiare nelle arie una flessibile adesione all’attività emotiva dei personaggi, trascolorando dall’esuberanza irrequieta al languore malinconico. Il dramma di Metastasio subì forti cambiamenti, soprattutto per le richieste del primo uomo, il castrato Gaetano Majorano detto il Caffarelli, che si esibiva nella parte di Farnaspe. Tra i maggiori virtuosi del momento, Caffarelli pretese arie che facessero risaltare le sue qualità drammatiche e le sue doti vocali. Pergolesi gli dedicò una cura particolare, fornendogli un vero campionario del virtuosismo canoro. Delle ventisette arie dell’originale metastasiano solo dieci vennero mantenute: le altre furono cassate o sostituite. L’opera non ebbe grande successo (vi fu una sola replica, il 4 novembre), ma pare che il sovrano la apprezzasse.

Tra gli atti dell’Adriano in Siria si rappresentarono gli intermezzi La contadina astuta (Livietta e Tracollo), testo del romano Tommaso Mariani (ed. critica a cura di G. Lazarevich, in Complete works, VI, New York-Milano 1991).

Il libretto, meno raffinato di quello della Serva padrona, non offre molto più che una sequela di topoi tipici del genere: travestimenti, inganni, storpiature linguistiche, lazzi farseschi. Pergolesi nondimeno vi fece sfoggio di una scrittura brillante, che amplifica gli effetti comici. La contadina astuta entrò nel repertorio delle compagnie itineranti di comici, che in varie forme la portarono per tutta Europa. Il testo di Mariani attirò l’attenzione, tra gli altri, di Carlo Goldoni che ne trasse due distinti intermezzi, Il finto pazzo (Venezia 1741) e Amor fa l’uomo cieco (Genova 1742).

Nella stagione d’autunno a Pergolesi non venne rinnovato l’incarico di un’opera nuova; gli fu preferito Davide Perez. La direzione dei Reali teatri aveva evidenziato lo scarso successo dell’Adriano; ma sulla scelta potrebbe aver influito la sostituzione di Lelio Carafa con il principe Corsini, nuovo sovrintendente ai teatri dall’ottobre 1735. Libero da scritture a Napoli, Pergolesi poté recarsi di nuovo a Roma, dov’era incaricato – forse già dal maggio 1734, sull’onda del successo ottenuto con la Messa in Fa maggiore, e quasi certamente grazie all’interessamento dei duchi di Maddaloni – di scrivere un’opera nuova per il teatro di Tordinona. L’8 o 9 gennaio 1735 andò in scena L’Olimpiade, su un altro recente dramma di Metastasio, che anche in questo caso subì vari cambiamenti (provocando l’irritazione dell’autore, che da Vienna si teneva informato sui preparativi dell’allestimento). Pergolesi riutilizzò o parafrasò alcune arie dell’Adriano, ignote al pubblico romano, e recuperò altra musica dal San Guglielmo d’Aquitania; dal libretto espunse inoltre i versi affidati al coro, del quale in quell’occasione non poteva disporre. L’esito non fu, a quanto pare, felicissimo (una tradizione difficile da accertare, risalente almeno ai Mémoires di André-Ernest-Modeste Grétry, I, Paris 1797, p. 425 s., parla addirittura di un vero e proprio fiasco).

Le recite furono forse penalizzate da un allestimento trascurato – l’impresario, Giuseppe Polvini Faliconti, era in difficoltà economiche – e da un cast non impeccabile. A peggiorare le cose intervenne anche, dal 17 gennaio, la temporanea chiusura dei teatri causata dalla morte della principessa Maria Clementina Sobieski, consorte di Giacomo III Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra; le recite ripresero il 23 gennaio, ma ai primi di febbraio i teatri vennero nuovamente chiusi per la festa della Candelora, e il 5 febbraio andò in scena l’opera successiva, il Demofoonte di Francesco Ciampi.

Nonostante lo scarso successo iniziale, L’Olimpiade si conquistò una fama durevole. Nell’immediato si ebbero numerose riprese e per almeno un ventennio la sua musica venne impiegata in vari ‘pasticci’. D’altra parte la proliferazione di copie manoscritte della partitura e di pezzi staccati, protrattasi per tutto il secolo, è un chiaro segno di celebrità. Soprattutto l’aria di Megacle Se cerca, se dice e il duetto Nei giorni tuoi felici, conosciuti e ammirati fino a Ottocento inoltrato, vennero considerati modelli esemplari di intensità ed efficacia drammatica (sul duetto indugia Jean-Jacques Rousseau nella voce Duo del suo Dictionnaire de musique, 1768). L’Olimpiade anticipa, del resto, elementi che nel teatro europeo sarebbero emersi solo nel secondo Settecento. Accanto alla consueta valorizzazione dello spirito eroico-tragico, che si manifesta nelle grandi arie di bravura, viene enfatizzata la componente sentimentale, giocata in chiave moderna e realistica secondo una dinamica affettiva imprevedibile, animata da un’invenzione musicale intensamente espressiva, attenta sia all’introspezione sia alla componente mimico-gestuale. Questa ibridazione dei livelli stilistici, che ricollega la componente eroica alle sue implicazioni affettive, sembra gettare un ponte verso la moderna commedia di caratteri e mostra, in ogni caso, tutta l’eccellenza raggiunta da Pergolesi come compositore teatrale.

Un successo notevolissimo toccò intanto alla Serva padrona rappresentata, in gennaio o in febbraio 1735, al teatro Valle da due giovani cantanti romani, Cesare Fratesanti (Uberto) e Benedetto Lapis (Serpina). Erano le prime manifestazioni della capillare e pervasiva diffusione di questi intermezzi: almeno dal 1738 La serva padrona sarebbe entrata nel repertorio delle compagnie di giro, che l’avrebbero fatta conoscere in ogni angolo d’Italia e d’Europa.

Con il rientro a Napoli, la salute di Pergolesi peggiorò; ma il compositore non interruppe del tutto l’attività. Nell’autunno 1735 mise in scena Il Flaminio al teatro Nuovo sopra Toledo: la commedia per musica, libretto di Federico, ebbe successo e conobbe numerose repliche. Due anni dopo, nell’inverno 1737, fu di nuovo allestita ai Fiorentini: la parte di Ferdinando fu mutata da dialettale in toscana (forse per favorire la circolazione dell’opera fuori Napoli).

Il Flaminio è già, per caratteri e situazioni sceniche, una perfetta commedia borghese, che porta in primo piano le vicende sentimentali dei personaggi senza avvolgerle nell’aura eroica del dramma serio né ridurle alla dimensione prosaica della commedia d’ambiente napoletana. Sono, questi, i sintomi di una nuova sensibilità sociale: l’intreccio, raffinato e complesso, punta a tratteggiare i personaggi delle prime parti conferendo loro una più sciolta naturalezza, senza però ignorare la mimica gestuale ‘popolare’, che emerge nelle parti buffe. La stratificazione di stili che ne risulta – le grandi strutture ‘serie’ e la loro parodia, lo stile sentimentale della commedia per musica, la gesticolazione del teatro dell’arte – restituisce a modo suo la dinamica delle classi della società coeva.

Sempre più malato, Pergolesi non poté onorare se non in parte la commissione di una serenata in occasione delle nozze di Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, e Carlotta Gaetani dell’Aquila d’Aragona, celebrate il 1° dicembre 1735 a Torremaggiore presso Foggia: mise in musica la prima parte del «preludio scenico» Il tempo felice (testo del magistrato e poeta dilettante Giuseppe Antonio Macrì), ma non portò a termine la seconda; vi provvide Nicolò Sabatino.

Il musicista trascorse gli ultimi mesi di vita a Pozzuoli, dove venne invitato dal duca di Maddaloni in una sua residenza privata nei pressi del convento dei Cappuccini, perché curasse, in un’atmosfera più salubre, la salute minata dalla tubercolosi. Qui Pergolesi fu confortato da assistenza medica e spirituale; è infondata la tradizione che lo raffigura in condizioni di abbandono e miseria.

Morì il 17 marzo 1736 di tubercolosi, ventiseienne, e venne inumato nella fossa comune della cattedrale di Pozzuoli.

Una tenace tradizione vuole che nelle ultime settimane di vita Pergolesi abbia composto il Salve regina in Do minore e soprattutto lo Stabat mater (per soprano, contralto, archi e basso continuo; ed. critica a cura di C. Toscani, in Edizione nazionale, VII, Milano 2012), che sarebbe stato portato a termine sul letto di morte. Ma è probabile che ciò sia frutto dell’alone di leggenda formatosi intorno a Pergolesi in età romantica, quando il compositore assurse a emblema del genio stroncato in età giovanile. In realtà lo Stabat mater ebbe una più lunga gestazione: secondo l’ipotesi più attendibile, fu commissionato, a fine 1734, dai cavalieri dell’Arciconfraternita della Beata Vergine dei sette dolori, per sostituire l’omonima composizione di Alessandro Scarlatti che da oltre dieci anni veniva eseguita in marzo nella chiesa francescana di S. Luigi di Palazzo (pp. XIII-XVII). Pergolesi onorò il compito con un lavoro stilisticamente più moderno, ispirato a una religiosità intimista e soggettiva.

Il rapporto della musica con i versi della sequenza risiede non tanto nella tradizionale raffigurazione musicale di affetti e concetti menzionati nel testo poetico quanto piuttosto nel tenore emotivo generale dei singoli brani; non affreschi drammatici, dunque, né pittura sonora di singole parole portatrici di significati specifici, bensì un’esperienza religiosa ridotta a esperienza umana: il dolore della Vergine è ritratto con intensa, commossa partecipazione. È una concezione della musica sacra nella quale il secolo di Pergolesi subito si riconobbe: qui sta la ragione prima dell’intramontato successo goduto dallo Stabat mater del compositore jesino.

Diffusosi immediatamente in tutt’Europa, sia nella veste originale sia in adattamenti e rielaborazioni, già all’altezza del 1739 (a tre soli anni dalla morte del musicista) lo Stabat mater venne definito da Charles de Brosses «il capolavoro della musica latina», in cui si palesa «la più profonda scienza dell’armonia» (Lettres historiques et critiques sur l’Italie, III, Paris 1799, p. 279); Vincenzo Manfredini lo riteneva un capolavoro «d’invenzione, di buon gusto, d’armonia» (Regole armoniche, Venezia 17972, pp. 184 s.). La risonanza non comune della composizione è testimoniata anche dalle edizioni a stampa e soprattutto dal numero ingente di copie manoscritte che furono tratte dalla partitura, per fini vuoi esecutivi vuoi collezionistici. Il testo originario fu anche sottoposto a numerose trascrizioni e parodie. Tra il 1744 e il 1746 Johann Sebastian Bach ne adattò la musica a una versione poetica tedesca del salmo 51 (50), ricavandone il mottetto Tilge, Höchster, meine Sünden BWV 1083. L’editore Walsh pubblicò a Londra nel 1764 An ode of mr. Pope’s adapted to the principal airs of the hymn Stabat mater. Breitkopf a Lipsia licenziò nel 1774 una riduzione su una parodia poetica di Friedrich Gottlieb Klopstock. Anche Antonio Salieri e Giovanni Paisiello ne effettuarono trascrizioni (quest’ultimo per orchestra da camera, con l’aggiunta di un coro virile a quattro voci).

L’interesse per la musica di Pergolesi fu, del resto, un fenomeno immediato e pervasivo. Subito dopo la sua morte apparve a Napoli un gruppo di quattro cantate (una era stata commissionata da Maria Barbara di Braganza, protettrice di Domenico Scarlatti), a cura di Gioacchino Bruno, contrabbassista nella Real cappella di Napoli: si tratta dell’unica edizione a stampa di cantate nel primo Settecento a Napoli, indice di grande stima. Un numero ristretto di composizioni – gli intermezzi della Serva padrona e della Contadina astuta, singole arie dai drammi seri, il Salve Regina in Do minore e lo Stabat mater – ebbero diffusione continentale e divennero oggetto di culto; ma ciò che sanzionò sul piano internazionale la celebrità del compositore fu certamente la Querelle des bouffons.

Le recite della Serva padrona promosse dalla compagnia italiana di Eustachio Bambini tra l’agosto 1752 e il marzo 1754 all’Académie royale de musique (peraltro l’operina era già stata data alla Comédie -Italienne nel 1746, senza aver suscitato particolare clamore) innescarono lo schieramento degli enciclopedisti al gran completo – Rousseau, d’Alembert, Diderot, Grimm tra gli altri – in favore della musica italiana. Rivendicando il ruolo della melodia come mezzo primario dell’espressione affettiva, in opposizione all’artificiosità della tragédie en musique alla Rameau, costoro videro nella musica di Pergolesi l’incarnazione degli ideali di naturalezza e spontaneità. La serva padrona, in particolare, divenne l’emblema di uno stile che fonde «l’imitation de la nature et la vérité de l’expression» (d’Alembert, De la liberté de la musique, par. XXIII, in Œuvres complètes, I, Paris 1821, p. 532). E prima ancora di prendere pubblicamente posizione al fianco della musica italiana con la Lettre sur la musique française (uscita nel 1753), Rousseau compose Le devin du village (Fontainebleau, ottobre 1752), un intermezzo che nel dar voce alla sua poetica musicale forniva un esempio di quella naturalezza che il filosofo vedeva incarnata, al maggior segno, nella Serva padrona.

Anche per via della pressoché totale mancanza di documenti e di testimonianze dirette – restavano solo i ricordi frammentari di chi aveva assistito alla sua parabola artistica – l’opera e le vicende biografiche di Pergolesi si tramutarono presto in leggenda: il compositore divenne l’emblema del genio di natura, e della sua musica vennero enfatizzati solo alcuni aspetti – il pathos, l’intimismo sentimentale – a scapito di altri, non meno significativi. A ciò si aggiunse, più tardi, il mito romantico dell’artista prematuramente scomparso, perseguitato dagli uomini e votato a un destino tragico.

Conseguenza paradossale della notorietà e dell’alone mitico che ben presto ne circondò il nome fu la domanda internazionale di composizioni di Pergolesi, donde la mole impressionante di apocrifi prodotti sin da metà Settecento: per motivi commerciali editori e copisti senza scrupoli spacciarono per opere sue un gran numero di composizioni altrui. Basti dire che una metà dei pezzi su cui Stravinskij basò il suo famoso balletto Pulcinella «d’après Giambattista Pergolesi» (1920) sono poi risultati spurii; e i sedicenti Opera omnia editi da Francesco Caffarelli (Roma 1939-42) convogliano decine di brani apocrifi. Solo a partire dagli anni Cinquanta del Novecento gli studi – in particolare di Frank Walker, Charles Cudworth, Francesco Degrada, Helmut Hucke e Barry S. Brook – hanno fatto giustizia delle false attribuzioni, identificando le composizioni pergolesiane sicuramente autentiche e restituendo un’immagine del musicista meno deformata dal mito e storicamente più attendibile.

Opere. Oltre a quelle già citate, si ricordano una Messa in Re maggiore per soli, coro e orchestra, 1731? (ed. critica a cura di C. Bacciagaluppi, in Edizione nazionale, V, 1, Milano 2015) e alcune cantate: Questo è il piano, questo è il rio per contralto, 2 violini e basso continuo, 1731; Dalla città vicino per soprano, 2 violini e basso continuo; Dalsigre, ahi mia Dalsigre per soprano e basso continuo; Chi non ode e chi non vede per soprano, 2 violini, viola e basso continuo; Luce degli occhi miei per soprano, 2 violini, viola e basso continuo; Nel chiuso centro per soprano, 2 violini, viola e basso continuo (le ultime 4 edite come Quattro cantate da camera... raccolte da Gioacchino Bruno contrabbasso della Real Cappella di Napoli per divertimento a’ dilettanti di musica, Napoli s.d.). Tra la musica strumentale, anche un Concerto in Si bemolle maggiore per violino, archi e basso continuo, e 2 Sonate per organo (ed. critica a cura di M.E. Paymer, in Complete works, XVII, New York-Milano 1993).

Fonti e Bibl.: I contributi più recenti e aggiornati si trovano in Studi pergolesiani / Pergolesi Studies, ciascun volume dei quali costituisce gli atti di un convegno di studi (8 voll., 1986-2012).

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