VITROTTI, Giovanni Battista

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VITROTTI, Giovanni Battista (Vitrutìn)

Stefano Masi

– Nacque a Torino il 16 novembre 1882, secondogenito di Giuseppe e di Virginia Lisa.

Il nonno paterno, Paolo Vitrotti, proprietario terriero, era stato sindaco di Montaldo Torinese. Ebbe due fratelli: il primo, Battista (1875-1949), nato dal precedente matrimonio del padre, si dedicò alla fabbricazione di pianoforti; il più giovane, Giuseppe Paolo (1890-1974), seguì le orme di Giovanni Battista.

Crebbe in un appartamento in via Canova 41, a due passi dal borgo medievale. Ma al principio del Novecento la famiglia si trasferì in via Nizza 121, dove Giovanni Battista aprì successivamente uno studio fotografico.

Pittore fin da ragazzo, frequentò scuole d’arte. A ventun anni acquistò la prima macchina fotografica, applicando al nuovo mezzo quanto appreso nella formazione artistica. Subito imparò a plasmare la luce sulle lastre. Il suo studio di via Nizza distava poco da quello di Arturo Ambrosio, imprenditore che stava riconvertendo le sue attività dalla fotografia al cinema. Ambrosio lo utilizzò come operatore sin dal 1905 e lo mise sotto contratto a tempo pieno nella primavera 1907.

Mentre si avvicinava al cinema, il giovane Vitrotti mieteva successi come fotografo d’arte. Nel 1903 era stato premiato al concorso di fotografia sportiva della Società della stampa di Torino. In seguito vennero molti altri allori (Milano, Parigi, Bruxelles, Francoforte).

Come operatore girò ‘le film’ (al femminile, come si usava) di Ernesto Vaser, in arte Fricot. Lavorò con molti altri celebri interpreti di ‘comiche’, da Robinet a Firulì. In taluni casi era egli stesso regista (allora si diceva direttore artistico). In altri affiancò Luigi Maggi, che alla Manifattura Ambrosio veniva utilizzato in qualità di metteur en scène per le produzioni più ambiziose, come Il conte di Montecristo (1908). Insieme a Roberto Omegna fotografò Gli ultimi giorni di Pompei (1908) scritto da Arrigo Frusta e interpretato da Lydia de Roberti, nonché una lunga serie di drammi storici, da Galileo Galilei (1908) a Spergiura! (1909), tratto da Honoré de Balzac, da Amore e patria (1909) a Il diritto di uccidere (1909), con Mary Cleo Tarlarini.

Sebbene lavorasse a tempo pieno per la Ambrosio, continuò a essere considerato un asso della fotografia artistica. Tanto grande era la sua fama a Torino che la regina d’Italia Elena di Savoia, appassionata di fotografia, lo invitò nel castello di Racconigi per prendere lezioni. Nella reggia, Vitrotti raccontò successivamente allo storico del cinema Roberto Chiti (cfr. Chiti 1986), il re Vittorio Emanuele si era persino indispettito perché la regina se ne stava chiusa con il giovane fotografo dentro uno stanzino attrezzato a mo’ di camera oscura.

Nel luglio del 1907 si era sposato con Angela Ercules, figlia del fattore dei conti di Pralormo, matrimonio ‘combinato’ dal quale sarebbero nati quattro figli: Virgilio, detto Ninì (1908-1928), Felicita, detta Tina (1911-1953), attrice del muto con il nome d’arte di Mary Dorian e più tardi doppiatrice, Giovanni Alberto (1922-2009), che avrà un’importante carriera di operatore, e Franco (1923-2011), anch’egli operatore.

All’Esposizione nazionale fotografica e cinematografica di Milano, per il documentario Industria del legno nel Cadore (1909), in cui aveva sfruttato le zattere in movimento sul fiume per esaltare il dinamismo delle riprese, gli venne assegnato il Gran diploma d’onore e la Medaglia d’oro del Re. All’Esposizione universale di Bruxelles (1910) il suo lavoro fu premiato con una Medaglia d’oro del Re dei Belgi.

Nel 1910 portò la macchina da presa in cima alle vette del monte Bianco, e nello stesso anno dal materiale girato vennero ricavati almeno tre documentari, Da Courmayeur al Dente del Gigante, Escursione nella catena del Monte Bianco e Sulle dentate scintillanti vette.

Nei primi anni Dieci, quando stipulò un contratto di coproduzione con la compagnia russa Thieman & Reinhardt, la Manifattura Ambrosio lo inviò a Mosca, dove fotografò film a soggetto ispirati ai classici della letteratura e del teatro russi, firmandone talvolta anche la direzione artistica (Kaukazskij plennik, 1911; Il prigioniero del Caucaso), ma più spesso affiancando grandi registi locali come Jakov Protazanov (Pesnja katorzanina, 1911; La canzone del forzato) e Vladimir Krikov (Kazirskaja starina, 1911; Il passato di Kaseira). Esplorò anche la steppa traversando con la sua camera il Caucaso e altre regioni. Ricevette dalla Compagnia del teatro imperiale una coppa tempestata di diamanti, a nome dello zar Alessandro. Ma il cavalier Ambrosio richiamò in patria il suo «asso della manovella» per le ambiziose versioni filmiche delle opere di D’Annunzio, da La fiaccola sotto il moggio (1911) a La gioconda (1911), diretti entrambi da Luigi Maggi, da Sogno di un tramonto d’autunno (1911), che Ambrosio stesso diresse insieme a Maggi, a La figlia di Iorio (1911), diretto da Eduardo Bencivenga.

Poi, nel 1913, mentre gli scenari della giovane industria del cinema stavano mutando, Vitrotti lasciò la Ambrosio seguendo le orme del regista Maggi. I due fondarono la Leonardo Film, che però non ebbe vita lunga. L’operatore torinese godeva comunque di una fama che gli procurava contratti in ogni parte d’Italia. Negli anni d’oro della produzione partenopea, fu scritturato dal produttore Gustavo Lombardo per L’avvenire in agguato (1916) di Giulio Antamoro, dal dramma di Roberto Bracco.

Chiusa la parentesi napoletana, diede il proprio contributo alla Grande Guerra in qualità di operatore, in forza al comando supremo del Regio esercito. Alla fine delle ostilità, tornò alla Ambrosio, ma la stagione più ricca del muto italiano si stava chiudendo sotto il peso degli onerosi cachet pagati alle attrici più popolari, come lo stesso operatore raccontò (G. Vitrotti, Il dominio della diva, in Cinema Nuovo, 1954, n. 45, p. 259). Così, fu uno dei primi cineasti italiani a emigrare in Germania, dove invece il cinema aveva assunto una dimensione industriale e dove sarebbe nato il figlio Gianni Alberto. Si stabilì nell’elegante zona di Charlottenburg (sobborgo residenziale di Berlino), dove nel 1928 ricevette la visita del giovane Alessandro Blasetti, ansioso di scoprire i segreti della tecnologia tedesca.

Nella prima parte del decennio berlinese si dedicò alle pellicole interpretate da Luciano e Linda Albertini, che avevano fondato una compagnia italo-tedesca. Fotografò il forzuto Bartolomeo Pagano nei suoi Maciste teutonici, Maciste und die Tochter des Silberkönigs (1922; Maciste e la figlia del re dell’argento) e Maciste und der Sträfling nr. 51 (1922; Maciste giustiziere), entrambi diretti da Romano Luigi Borgnetto. Vitrutìn si integrò perfettamente nella fiorente industria germanica, al fianco di registi di cultura mitteleuropea, da Henrik Galeen a Fred Sauer, da Wilhelm Dieterle a Robert Wiene, da Ewald André Dupont a Luis Trenker. Insieme ai colleghi Curt Courant e Alfredo Donelli fu coinvolto nella lavorazione del Quo vadis? (1924) prodotto da Ambrosio, con la direzione artistica di Gabriellino D’Annunzio e Georg Jacoby. Fu punto di riferimento per i cineasti italiani in fuga dalla crisi dell’industria nazionale: lo ebbero come direttore della fotografia in terra tedesca Mario Bonnard, Nunzio Malasomma, Enrico Guazzoni e Domenico Gambino. Al seguito di quest’ultimo, lo spericolato eroe del muto Saetta, giunse fino in Polonia per le riprese di Der Bergführer von Zakopane (1930), girato sui monti Tatra, e alla fine di quella trasferta venne scelto per fotografare alcune produzioni locali, tra cui anche Moralno´s´c pani Dulskiej (La moralità della signora Dulska) del 1930, primo film sonoro della storia del cinema polacco, diretto dal regista Bołeslaw Newolin e interpretato dalla cantante russa Dela Lipi´nska.

Il definitivo ritorno in patria avvenne soltanto nel 1932, mentre sulla spinta dell’avvento del sonoro tutti auspicavano una rinascita del cinema italiano. Scritturato dalla Caesar Film del produttore Giuseppe Barattolo, Vitrotti aggiornò i suoi metodi d’illuminazione alle mutate esigenze. Comunque, per motivi anagrafici oltreché culturali, rimase vicino a cineasti cresciuti nella stagione del muto, da Enrico Guazzoni a Gustavo Serena, lontani dalla generazione emergente, portatrice di una sensibilità più vicina ai nuovi gusti del pubblico.

La rivoluzione del parlato non impedì al pioniere torinese di proseguire la sua carriera, ma gli sottrasse quel ruolo di protagonista che aveva avuto sulla scena del cinema muto, in Italia e all’estero. Fotografò film diretti da Amleto Palermi e interpretati da Emma Gramatica, da La vecchia signora (1932) a La fortuna di Zanze (1933). Fu utilizzato soprattutto come operatore aggiunto, addetto alle riprese degli esterni nei film illuminati da Otello Martelli, Aldo Tonti, Enzo Serafin, Gabor Pogany e altri operatori che si andavano affermando. Suoi gli esterni di Contessa di Parma (1937) di Alessandro Blasetti. Mentre la Cinecittà fascista muoveva i primi passi, nel 1938 Vitrotti aprì a Torino la Foto Cine Elettra, azienda attiva nel settore delle registrazioni fonografiche: la sua presenza nei titoli delle produzioni italiane si faceva sempre più rara. Tuttavia continuò a firmare ancora le immagini di alcuni lungometraggi, come il melodramma Contro la legge (1950) di Flavio Calzavara, e partecipò – sebbene non accreditato – alla lavorazione del primo Don Camillo (1952) diretto da Julien Duvivier.

Ma è sul terreno del documentario che, dopo la caduta del fascismo, il pioniere torinese visse una seconda giovinezza, al fianco di giovanissimi cineasti della generazione del dopoguerra, da Luciano Emmer a Michele Gandin. Sua produttrice e regista fu Maria Antonietta Bartoli Avveduti, già diva del muto con il nome d’arte di Elena Sangro, che nel 1945 aveva fondato la compagnia Stella d’Oro Film, specializzata nel documentario. L’ex diva amata da D’Annunzio fu una delle promotrici dell’Associazione dei pionieri del cinema, che raccoglieva i superstiti della stagione eroica del muto. All’unanimità Vitrotti venne eletto presidente. In questa veste si batté per veder riconosciuto il diritto a una pensione di vecchiaia per artisti e tecnici del muto, molti dei quali vivevano la terza età in condizioni di indigenza. Nello stesso periodo si cimentò con i nuovi negativi Ferraniacolor in una serie di documentari prodotti in famiglia, da Artefici del mosaico (1955) a Il mare e i monti del Friuli (1957), diretti entrambi dal figlio Gianni Alberto. Il suo ultimo lavoro, Le isole Borromee, è datato 1964, quando il pioniere torinese aveva già raggiunto la veneranda età di ottantadue anni.

Morì due anni più tardi, a Roma, il 1° dicembre 1966.

Fonti e Bibl.: M. Prolo, Un operatore italiano in Russia, in Cinema, 1941, n. 125, pp. 154-157; Id., Storia del cinema muto italiano, Milano 1951; M. Vascon Vitrotti, Un pioniere del cinema: G. V., Trieste 1970; Griffithiana, 1986, n. 26-27, speciale dedicato a Vitriotti (in partic. V. Martinelli, L’uomo con la macchina da presa, pp. 10-37; M. Vascon Vitrotti, Il mestiere totalizzante, pp. 38-43; R. Chiti, Un ricordo di V., pp. 44-46; V. Magnani, Lettere dalla Russia, pp. 47-51); 40° anniversario, a cura di M. Bernardo, Roma 1990 (in partic. M. Bernardo, Quel ‘Vitruttin’ di casa Ambrosio, pp. 36-41; F. Vitrotti, G. V., pp. 42-49); Y. Prokopenko, G. V. and other exotic aesthetes (or the Caucasus in early Russian cinema), in Journal of film preservation, 1996, n. 53, pp. 17-20; A. Farassino, Fuori dal set. Viaggi, esplorazioni, emigrazioni, nomadismi, Roma 2000.

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