BOCCACCIO, Giovanni

Enciclopedia Italiana (1930)

BOCCACCIO, Giovanni

Letterio Di Francia

Benché negli autografi si denomini Iohannes Boccaccius de Certaldo civis, o più semplicemente Iohannes de Certaldo (in volgare, Giovanni di Boccaccio da Certaldo) e poi, nell'opera De montibus e in una lettera del 1374, si dichiari invece fiorentino, pure è certo che, né Certaldo, né Firenze furono precisamente i luoghi dov'egli nacque, ma solo quelli che riconobbe sempre idealmente, l'una come patria d'origine, l'altra di adozione. Da Certaldo, infatti, era venuto a Firenze, per esercitarvi la mercatura, il padre di lui, Boccaccio o Boccaccino di Chellino, disceso da una famiglia certaldese di agricoltori; e quivi, andandogli bene gli affari, finì con lo stabilirsi definitivamente. Giovanni, invece, era nato casualmente a Parigi nel 1313, da un amore illegittimo di Boccaccino, ivi recatosi per ragioni di affari, e di una gentildonna francese a nome Giovanna, d'ignoto casato, che quegli sedusse con la lusinga del matrimonio e poi abbandonò al suo destino. Indi l'intraprendente mercante se ne tornava a Firenze, dove sposava una altra donna, la Margherita di Gian Donato de' Martoli, facendosi di lì a poco venire il piccino nato in terra straniera e bisognoso di cure, per l'immatura morte della madre, di cui portava il nome e che, dopo il tradimento, si era spenta nella tristezza e nell'abbandono.

Tutto questo veniamo a sapere da un'importante biografia stesa da Filippo Villani, una ventina di anni dopo la morte del suo grande concittadino; la nascita parigina è confermata da qualche documento, e tutto l'accaduto, nelle sue linee generali, dallo stesso scrittore in parecchie opere giovanili, nelle quali egli si mostra molto tenero per la sventurata mamma e severissimo verso l'ingenerosa condotta paterna.

Il Boccaccio a Napoli. - Mentre il fanciullo dimostrava una vivissima inclinazione per la poesia e progrediva nello studio del latino sotto la guida di Giovanni da Strada, il padre ne voleva invece fare un mercante; e forse con l'intenzione di renderlo esperto in tale professione, più che per allontanarlo dai mali trattamenti della matrigna, lo mandò, appena giovinetto, a Napoli, ove i Fiorentini avevano costituito un importante centro di affari e dove lo stesso Boccaccino, quale associato dei Bardi, era in continue relazioni anche con la corte, tanto che, per servigi di carattere finanziario resi al re Roberto d'Angiò, fu da questo insignito nel 1329 degli onorifici titoli di consiliarius, cambellanus, mercator, familiaris et fidelis noster. Con ciò, facilmente si spiega l'insistenza di Boccaccino nel volersi trarre dietro, sulle proprie orme, l'intelligente e promettente figliuolo, senza troppo badare alla particolare vocazione del giovinetto. Il fatto sta che questi trascorse inutilmente sei anni nel commercio e forse altrettanti, dopo, negli studî canonici, intrapresi di mala voglia e solo per obbedire alla volontà paterna, col rammarico, che gli durò tutta la vita, di aver perduto l'occasione di divenire un buon poeta, senza riuscire per di più né commerciante né canonista (De genealogiis, XV, 10).

Maggior profitto e diletto egli trasse certamente, oltre che dalla lettura degli antichi poeti, tra i quali Virgilio, Ovidio e Stazio furono i prediletti, dalla conoscenza e famigliarità con alcuni dotti uomini, che fiorivano allora a Napoli. Tali erano il genovese Andalò del Negro (morto nel 1354), col quale egli poté studiare astronomia; Paolo da Perugia, bibliotecario del re e molto versato nella mitologia, come ricorderà più tardi con riconoscenza lo stesso B. nel De genealogiis; e fors'anche il poeta Cino da Pistoia, il quale nel 1330-31 si vuole che abbia tenuto cattedra in quella università. A Napoli conobbe pure, in varî tempi, il giureconsulto Giovanni Barrili, Dionigi da Borgo S. Sepolcro e il notaio regio Barbato da Sulmona, tutti amici fedeli e ammiratori del Petrarca: inoltre, sotto la guida del monaco calabrese Barlaam, egli cominciò lo studio della lingua greca, da lui sfoggiata nei titoli delle proprie opere e nelle denominazioni dei suoi personaggi, e lo continuò a Firenze, sotto la direzione di un altro calabrese, Leonzio Pilato, lettore in quello Studio e primo traduttore dei poemi omerici.

Con queste fruttuose relazioni, naturalmente si accrescevano in lui l'innata tendenza alla poesia e l'ardore per l'antica sapienza, quando un avvenimento straordinario sopraggiunse a fargli troncare senz'altro gli odiati studî legali.

Fiammetta. - Toccava i ventitré anni, allorché, l'ottavo anno della sua dimora a Napoli, la mattina del sabato santo 30 marzo 1336, nella chiesa di S. Lorenzo s'incontrò con una gentildonna, ch'egli immortalerà sotto il finto nome di Fiammetta. Se ne innamora appassionatamente, la corteggia senza posa, la incensa con una profluvie di sonetti e di canzoni, ed ella, meno restia di madonna Laura, gli concede poco dopo i suoi favori. L'umile figliuolo del mercante certaldese poteva dirsi orgoglioso di tanta conquista, giacché l'amata era la nobildonna Maria dei conti di Aquino, figlia naturale, si diceva, del re Roberto, press'a poco della stessa età del B. e già sposata a un gentiluomo napoletano. Fiammetta, dunque, rese beato per alcuni anni il suo appassionato adoratore, e non solo gli facilitò l'accesso alla corte del re Roberto, ma, quel che più conta, eccitò in lui la nobile ambizione di uscire dalla volgare schiera, esortandolo a dedicarsi tutto alle lettere e ispirandolo a comporre la copiosa serie dei suoi romanzi e poemi, dal Filocolo al Filostrato, dal Teseida all'Ameto, dalla Fiammetta all'Amorosa Visione.

Ma la corrispondenza d'affetto, così facilmente conseguita, non andò esente da gelosie, da preoccupazioni, da sospetti, di cui si sente l'eco dolorosa e vibrante nel sonetto "Perir possa il tuo nome, Baia", il quale finisce con un accorato-sospiro:

Or foss'io stato cieco, non è guari!

La bella e disinvolta napoletana, nella generale corruzione degli ozî di Baia, era passata ad altri amori; onde la musa del B., già cosi gaia e festosa, comincia a dare suoni più lamentosi. Il dolce idillio d'amore era durato solo tre anni, dal '36 al 39.

Il richiamo paterno. - Agli affanni prodotti dall'amore, preoccupazioni d'altro genere non tardarono ad aggiungersi e gravare sull'innamorato poeta, giacché gli affari del padre, così prosperi per l'innanzi, avevano subito improvvisamente un tracollo, a causa del noto dissesto della banca dei Bardi, costretta a fallire per l'insolvenza del re d'Inghilterra. Pertanto Boccaccino, caduto in povertà e rimasto vedovo, finì col richiamare presso di sé, a Firenze, il figlio improduttivo: ciò che, con grande dolore del B., avvenne nel dicembre 1340, come ci confermano i documenti.

Eccolo dunque a Firenze, dov'egli, poco lieto altresì del trattamento del padre che, pochi mesi dopo, nel '41, passava a seconde nozze con Bice di Ubaldino de' Bostichi, si consola come può con l'arte sua, continuando a scrivere altre opere volgari, ossia l'Ameto, la Fiammetta, l'Amorosa Visione, il Ninfale Fiesolano. Intanto la sua fama di letterato si diffondeva, e mentre egli si veniva sempre più affezionando alla città di Dante, non gli mancavano di tanto in tanto occasioni per fare qualche viaggio. Nel 1346 si reca a Ravenna, presso Ostasio da Polenta; l'anno seguente lo vediamo ospite di Francesco degli Ordelaffi, a Forlì, dove conosce il latinista Cecco da Mileto; e forse al seguito dell'Ordelaffi, dovette ritornare a Napoli, nel '48, quando Fiammetta non era più. Certo è che, in quello stesso anno, allorquando scoppiava a Firenze la terribile pestilenza così potentemente da lui descritta nell'introduzione al Decameron, egli non vi si trovava presente, come c'informa egli stesso nel Commento dantesco: a Firenze, però, doveva accorrere l'anno seguente, a causa della morte del padre, sfuggito alla peste, ma venuto a mancare pochi mesi dopo; e da ora in poi, presavi stabile dimora, se ne troverà sempre meno insoddisfatto, se non per le mutevoli vicissitudini dell'instabile politica democratica, certo dal lato morale. Infatti, crescendo di continuo la sua reputazione, egli ricevette dai proprî concittadini frequenti incarichi e onori, alcuni dei quali graditissimi al suo cuore di poeta. Così nel '50, essendo inviato ambasciatore in Romagna, ebbe anche l'incarico, adempiuto certo con lieto animo, di consegnare dieci fiorini d'oro, da parte dei Capitani d'Or S. Michele, alla figliola di Dante, Beatrice, religiosa nel monastero di S. Stefano dell'Uliva, in Ravenna; e se nel 1341, per il deprecato richiamo paterno da Napoli, non aveva potuto conoscere di persona il Petrarca, da lui sinceramente ammirato come un genio, allorché quegli si recava alla corte del re Roberto, alla vigilia dell'incoronazione in Campidoglio, nell'autunno di quello stesso anno 1350, ebbe alfine la gioia di salutare e accogliere nella sua Firenze il poeta dell'Africa, di passaggio per quella città e diretto da Parma a Roma, nell'occasione del giubileo. Fu allora che si strinse fra i due un'affettuosa amicizia, la quale durò sino alla morte, proficua a entrambi, ma specialmente al giovane B., che molto aveva da apprendere dallo spirito meditativo e austero, nonché dalla cultura dell'insigne amico, ch'egli del resto non si stancò mai di chiamare e considerare, con devota umiltà, suo maestro. Grande perciò dovette essere il suo giubilo, allorché, per incarico del Comune, alcuni mesi dopo egli si recava a Padova, presso il cantore di Scipione, latore di una lettera della Signoria, con cui gli si prometteva la restituzione dei beni paterni e gli si offriva una cattedra nello Studio fiorentino. Se tale proposta non fu accettata dal Petrarca, poco disposto a rinunziare alla sua cara indipendenza, essa però offrì ai due amici l'occasione di conoscersi meglio.

Non furono questi i soli uffici tenuti in quegli anni dal B., giacché nel '51 egli faceva parte autorevole dell'ufficio dei camerlenghi del Comune, poi rappresentava la Repubblica nei negoziati con la regina di Napoli, per trattare col siniscalco Niccolò Acciaiuoli la cessione della città di Prato; e infine, nel mese di dicembre, era inviato ambasciatore nel Tirolo al duca Lodovico di Baviera, per proporgli un'alleanza contro Giovanni Visconti. Contemporaneamente egli attendeva a compiere il Decameron, iniziato con ogni probabilità fin dal 1348, divulgato in un primo tempo nelle prime tre giornate, e finito nel '53. Pertanto a quarant'anni egli aveva raggiunto, con quel capolavoro, la maturità artistica e toccato l'apice della sua carriera letteraria.

Turbamento morale. - Dopo, un profondo turbamento cominciò a insinuarsi nell'animo di lui; quella serenità e quella calma, che gli avevan fruttato, da parte dell'Acciaiuoli, il nome di Iohannes tranquillitatum, quasi ch'egli fosse insensibile alla sventure umane, si vennero offuscando, di modo che certi avvenimenti, che per l'innanzi gli avrebbero appena tratto sulle labbra un arguto sorriso, ora lo irritano e lo deprimono. Così il rifiuto oppostogli da una vedova fiorentina (siamo nel 1354, e il B., abituato ai successi amorosi, non si era forse reso conto di non esser più giovane) lo punse sul vivo; e mentre in passato egli si sarebbe agevolmente consolato dello smacco, questa volta non seppe frenare la collera e nascondere il proprio torto; onde, sull'esempio dello scolare Rinieri della celebre novella da lui poco prima composta, sfogò il suo malumore con l'arma pericolosa della vendetta, scrivendo il Corbaccio. In questo libello, con pungenti sarcasmi e con violenza inaudita, egli non s'accontenta di assalire la vedova che lo aveva respinto, ma travolge tutto il sesso femminile nella stizzosa acerbità della sua satira, piacevole a leggersi per la vivacità dello stile e per alcuni gustosi quadretti del costume fiorentino.

La visita del Ciani. - Qualche anno dopo, un fatto ancor più grave venne a sconvolgere l'equilibrio del suo spirito, già agitato da preoccupazioni religiose, come attestano alcune egloghe latine, nate appunto in questo periodo. Nella primavera del '62, veniva a trovarlo a Firenze, in gran mistero, il monaco Gioacchino Ciani, il quale, da parte del certosino senese Pietro Petroni, morto poc'anzi in odore di santità, si faceva premura d'informarlo di certe rivelazioni avute da quel sant'uomo, prima di morire: per esse, lo spensierato scrittore avrebbe dovuto aspettarsi la morte fra poco e prepararvisi seriamente, rinunziando alle seduzioni della poesia profana, per dedicarsi tutto ad argomenti più elevati di religione e di morale. Il povero B. rimase fulminato da questo avviso, ch'egli, nel turbamento dell'animo suo, non dubitava fosse ispirato dalla misericordia divina; la paura della morte lo invase a tal punto, ch'egli fu tentato di dare alle fiamme tutte le sue carte e finirla con la gloria mondana. Fortunatamente, egli ebbe la prudenza di consigliarsi col suo grande amico Petrarca che gli rispose con tale nobiltà e opportunità di argomenti, da dissipare interamente ogni timore e da farlo persistere negli studî prediletti. Tuttavia, d'allora in poi, il pensiero della morte sentita come cosa naturale e inevitabile, e degli studî concepiti come un continuo perfezionamento dell'anima, non si dipartì mai più dalla mente del B., il quale si convinse sempre meglio a seguire l'esempio del Petrarca dedicandosi quasi del tutto a studî umanistici e di erudizione. Pertanto, fatta eccezione per i pochi scritti volgari in onore di Dante, da lui sempre profondamente sentito e venerato, egli non scrisse più che in latino, cominciando dal Bucolicum carmen, per venire al De casibus illustrium virorum, al De claris mulieribus, al trattato mitologico De genealogiis e al dizionario geografico De montibus.

Le opere di erudizione. - In queste opere, il B. cerca di penetrare a fondo nel pensiero, nella storia, nella religione e nell'arte del mondo pagano, mettendo a disposizione di tutti le fatiche sostenute per comprenderlo, e ordinando metodicamente le molte cognizioni acquistate, senza dimenticare per altro i fatti più notevoli e i personaggi più rappresentativi del proprio tempo.

Il Bucolicum carmen, che riunisce insieme le sedici egloghe composte in diverse occasioni, presenta il difetto comune alla poesia bucolica, da Virgilio in poi, di adombrare avvenimenti personali sotto le artificiose sembianze della vita pastorale; onde quei componimenti appaiono zeppi di oscure allusioni, di gravi dubbî religiosi, di calde espressioni d'entusiasmo verso il Petrarca che gli aveva ispirato l'ambizione di meritarsi il nome di poeta.

Più originale, più suggestivo e drammatico è il volume De casibus illustrium virorum, dove l'autore, distribuendo la materia in nove libri, immagina che le ombre dei grandi infelici, da Adamo al Duca d'Atene e al Petrarca, gli appariscano in sogno, descrivendogli, l'un dopo l'altro, le proprie sventure e come, dalla più alta felicità, siano caduti nelle più insopportabili sciagure; sicché questa dolorosa storia aneddotica in azione acquista un'efficacia altamente educativa.

Pure morale è il fine che l'autore si propose di conseguire nel De claris mulieribus, dedicato ad Andreina contessa d'Altavilla, sorella del siniscalco Acciaiuoli: una lunga serie di biografie di donne illustri, dai tempi antichi fino alla regina Giovanna di Napoli, composta sull'esempio e a complemento dell'opera petrarchesca De viris illustribus, e non priva di festività nella rappresentazione di certe figure femminili (la papessa Giovanna, la storia di Paolina romana), in cui risorge col suo arguto sorriso l'impenitente peccatore del Decameron.

Molto più importante di questa fortunata operetta è l'ampia enciclopedia De genealogiis deorum, dedicata a Ugo lV re di Cipro, che ne aveva espresso più volte il desiderio, e costata molti anni di accurate ricerche. Il copioso materiale mitologico, tratto da numerosi scrittori latini sacri e profani, e persino dai poemi omerici, viene diligentemente distribuito e disciplinato in quindici libri, nei quali il B. costruisce per ogni divinità l'albero genealogico e tenta di spiegare il recondito significato dei miti per tre diverse vie, come deificazioni di persone reali, come rappresentazioni di fenomeni della natura, e come allegoria d'un ammaestramento morale. Questo eclettismo esegetico conduce inevitabilmente a risultati incerti, e anche a inesattezze ed errori; ma non bisogna dimenticare che si tratta d'un primo e audace tentativo di compilare un'enciclopedia della scienza mitologica, con mezzi ancora imperfetti; e perciò quel che v'ha di manchevole è imputabile ai tempi, mentre ci sembrano altamente encomiabili, non solo il concepimento d'un così vasto disegno, ma la grande dottrina posta a benefizio comune e la scrupolosa cura di giungere, in materia così ardua, a soluzioni concrete. Particolarrmente importanti sono gli ultimi due libri, poiché qui, più spesso che altrove, l'autore parla di sé, delle sue opinioni e relazioni personali, onde la trattazione si fa più viva e interessante.

Allo stesso scopo di facilitare la lettura e la comprensione delle opere classiche, è ispirato il dizionario geografico De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, de nominibus maris, composto per svagarsi, durante la faticosa compilazione dell'opera principale. In esso vengono registrati alfabeticamente, nelle diverse sezioni, i nomi dei monti, dei laghi, dei fiumi, ecc., con informazioni più o meno copiose e minute, secondo l'importanza che l'affetto del compilatore attribuiva ai diversi luoghi.

Mentre questo infaticabile esploratore dell'antichità attendeva a disseppellirne i monumenti e le glorie, le strettezze della povertà lo costringevano ad assicurarsi un'esistenza meno disagiata; pertanto, ricusato per ragioni di delicatezza un generoso invito rivoltogli dal Petrarca, di recarsi a convivere con lui in fraterna comunanza di vita, preferì invece dirigersi a Napoli, presso Niccolò Acciaiuoli, che lo aveva chiamaio e fatto invitare dal comune amico Francesco Nelli (morto nel 1363), già priore della chiesa dei Ss. Apostoli a Firenze, ed ora spenditore del gran siniscalco. Ritornò così a Napoli nell'ottobre del '62; ma il cattivo trattamento ricevuto dal vanitoso mecenate lo fece ben presto pentire di aver intrapreso a cuor leggiero un sì lungo viaggio; talché indignatissimo abbandonò, dopo soli sei mesi, la città, per raggiungere a Venezia il suo Petrarca. Dopo tre mesi di dolce vita in comune, confortato dallo studio e da elevate conversazioni, se ne tornò, non più a Firenze, ma nella solitudine di Certaldo, donde scriverà un'erudita e lunghissima Epistola consolatoria a messer Pino de' Rossi, esiliato da Firenze per una congiura contro lo stato.

Ormai, per le opprimenti angustie della povertà e anche per desiderio di quiete operosa, il paesello dei padri ha tutte le sue simpatie; e da Certaldo non si muoverà più, se non per trasferirsi di tanto in tanto a Firenze, chiamatovi a coprire qualche ufficio pubblico, ch'egli, del resto, da quei reggitori ambiziosi e turbolenti accettava mal volentieri, e più per averne occasione a qualche onesto guadagno, che per cupidigia di onori, dai quali l'animo suo rifuggiva. Così nel '65, correndo voce che l'imperatore Carlo IV si accingeva a venire in Italia, fu incaricato dai Fiorentini di tentare ogni mezzo per scongiurare quella minaccia, recandosi presso il pontefice Urbano V ad Avignone, per offrirgli una solenne scorta d'onore, qualora si decidesse a rientrare in Roma. Due anni dopo, fu di nuovo mandato ambasciatore a Viterbo e a Roma al papa medesimo, innanzi al quale seppe così bene adempiere il suo mandato che ne riportò le più alte lodi.

Quello stesso anno 1367, dopo essere stato a Ravenna, volte giungere fino a Venezia, sperando di trovarvi il Petrarca; ma questi allora era assente, e in luogo di lui lo accolsero cordialmente la figlia del poeta, Francesca, col marito Francescuolo da Brossano. Né qui si arrestarono i suoi viaggi. Nonostante il ricordo della brutta accoglienza ricevuta dall'Acciaiuoli, Napoli lo tenta ancora una volta nel '70, ed egli vi si trasferisce. Deluso un'altra volta da un amico di giovinezza, Niccolò di Montefalcone, ricusa le profferte fattegli, per trattenervelo, dal conte Ugo di Sanseverino, a nome proprio e della regina Giovanna, ancorché confermate dal terzo marito della sovrana, Giacomo di Maiorca; per le stesse ragioni, non acconsente a stabilirsi presso il conte palatino Niccolò Orsini, nei possedimenti di questi tra Roma e la Toscana.

A queste lusinghevoli offerte egli preferisce il ritorno nella sua dolce terra di Certaldo, dove infatti lo ritroviamo nel '71, oppresso dal bisogno, ma tutto intento a compiere i suoi poderosi lavori di erudizione. A lungo andare, però, la sua salute se ne risente, ed il gaio autore del Decameron si riduce in tale stato, da non poter fare altro che dolersi continuamente delle proprie sofferenze, che non gli dànno mai tregua. Colpito gravemente dalla scabbia e da altre infermità, ne rimane attristato e spossato. Ma quando, con deliberazione del 25 agosto 1373, il Comune, in seguito ad una petizione di autorevoli cittadini, gli affida l'incarico di leggere pubblicamente tutti i giorni la Divina Commedia nella chiesa di S. Stefano di Badia con l'annuo compenso di cento fiorini d'oro, egli ritrova subitamente, nel nome di Dante, il suo coraggio e il suo entusiasmo, e si sobbarca volonteroso alla grave fatica.

Il corso dantesco. - La morte. - Egli iniziò il suo corso il 23 ottobre e lo proseguì con zelo per una sessantina di lezioni, che divennero poi il famoso Commento ai primi diciassette canti dell'Inferno. Disgraziatamente, le sue condizioni di salute andarono sempre più peggiorando; non gli mancarono neppure aspre critiche e biasimi, per il suo prostituire le Muse col dare in pasto il poema sacro al volgo ignorante; cosicché, stremato di forze, avvilito d'animo e convinto anche lui che non era opera saggia somministrare tali derrate a quegli "ingrati meccanici, nimici d'ogni leggiadro e caro adoperare", a un certo punto fu obbligato a smettere. Alcuni pietosi amici ebbero cura di trasportarlo a Certaldo, ove, per colmo di amarezza, gli giungeva con ritardo di tre mesi il triste annunzio che il suo Petrarca si era spento in Arquà, fin dal 18 luglio 1374. Ma poco di poi, il 21 dicembre 1375, anche il B. si spense, e, come aveva disposto per testamento, il suo corpo fu seppellito nella chiesa di S. Iacopo, mentre la sua libreria andò nelle mani di fra Martino da Signa, nel convento di S. Spirito a Firenze.

Due ammiratori ne piansero la grave perdita: Franco Sacchetti e Coluccio Salutati. Mentre quest'ultimo componeva in versi l'epitaffio che si legge tuttora sul cenotafio di Certaldo, l'altro vedeva tristemente, con la scomparsa del B., la fine d'ogni poesia:

Or è mancata ogni poesia,

e vote son le case di Parnaso.

E certamente a quei buoni fiorentini, che alla morte di Dante e poi del Petrarca vedevano seguire, a così breve distanza, anche quella del B. - la terza delle tre corone - doveva sembrare nella tristezza dell'ora, e non a torto, che ogni luce d'arte e di poesia fosse tramontata per sempre, giacché non appariva chi potesse degnamente sostituirli.

Il carattere. - Alieno dalle turbolenze delle fazioni e dai bassi intrighi della politica, ch'egli sinceramente deplorava, quel cittadino dabbene aveva servito con disinteresse e con senno la propria patria, tutte le volte che n'era stato richiesto, andando poi a nascondere la sua povertà e i penosi acciacchi della vecchiaia nel desolato romitaggio di Certaldo. La modestia e la probità del letterato, come non conobbero mai la iattanza, furono del pari esenti dall'invidia. Fervido ammiratore di Dante e del Petrarca, egli non tralasciò occasione alcuna per onorarli, mentre in tutti i suoi scritti non si trova una parola di vanteria per sé stesso e per l'opera propria, che pure fu grande e meritoria. Le sole parole di rimprovero, ch'egli due volte si permise di rivolgere coraggiosamente al poeta aretino, furono cagionate dal fatto, ingiusto e doloroso all'animo suo, di saperlo stabilito a Milano alla corte di Giovanni Visconti, gran nemico dei Fiorentini, e di non vederlo partecipe della propria illimitata ammirazione per l'Alighieri. E appunto, per indurre l'amico a meglio conoscere, ad apprezzare, ad amare l'esule glorioso, si faceva premura di mandargli un esemplare della Commedia, accompagnando il dono con una calda epistola latina di elogio per l'autore, la quale non rimase senza risposta. Ma, del proprio Decameron, egli non dovette mai fare il più piccolo accenno, nei frequenti colloquî e nell'ininterrotta corrispondenza epistolare ch'egli tenne col Petrarca, se questi, nel tradurre in latino il racconto di Griselda, dichiarava di aver conosciuto il libro per caso, e solo in quell'anno, che doveva essere per lui l'ultimo della vita.

Invece, nella scoperta dell'antichità e nel fervido amore per le lettere latine, i due amici procedettero sempre d'accordo, scambiandosi fra loro libri, informazioni e suggerimenti d'ogni genere, con una collaborazione assidua e cordiale che non venne mai meno. Ma quasi a compenso dell'essere rimasto inferiore al Petrarca nella perizia della lingua di Virgilio e di Cicerone, nell'originalità del pensiero e nelle eleganze formali, spetta unicamente al B. il merito di aver invitato e ospitato in casa sua, facendolo nominare altresì lettore di greco nello Studio fiorentino (1360-62), quell'ispido Leonzio Pilato, ch'egli indusse a tradurre, ancorché barbaramente, i poemi d'Omero, approfittando per proprio conto della favorevole occasione per approfondire volonterosamente la scarsa conoscenza che aveva di quella lingua, e per arricchire di nuove citazioni il suo trattato De genealogiis.

L'arte del Boccaccio. - Tuttavia la gloria del Boccaccio, meglio che all'opera sua alacre di precursore dell'Umanesimo, e di compilatore di dotte scritture latine, ormai sorpassate dall'avanzamento degli studî e certo inferiori di merito a quelle del Petrarca, rimane durevolmente affidata alle sue opere volgari, le quali rivelano con maggiore spontaneità e originalità le qualità del suo ingegno e certa sua modernità di tendenze. Dotato d'un temperamento impetuoso e generoso, facile alla collera, ma altrettanto facile a calmarsi, d'una fantasia agilissima, di uno spirito d'osservazione a cui nulla sfuggiva, con una particolare disposizione a cogliere mirabilmente il lato più drammatico, passionale e ridicolo d'ogni persona, egli venne educando, con lo studio assiduo e nello speciale ambiente in cui visse, queste felici attitudini; onde ne venne fuori quel singolarissimo impasto di lepida arguzia fiorentina e di accomodante epicureismo napoletano, quella vivissima disposizione all'indulgenza un po' beffarda e alla spassosa giocondità, che lo rendono un descrittore della società più facondo, malizioso e arguto, che austero e pungente, atto a maneggiare l'arma delicata del riso e dell'ironia, che divertono, piuttosto che la sferza implacabile della satira, che flagella e corregge i costumi.

Studium fuit alma poesis, egli avrebbe voluto che si scrivesse sulla sua tomba; ma, in realtà, se della poesia fu un fervente e fin troppo prolifico cultore, se di essa non si stancò mai di cantare le più alte lodi, contro il mercantilismo dei proprî concittadini, egli non raggiunse però le superbe vette, a cui eran giunti Dante e il Petrarca, come egli stesso ebbe più volte a riconoscere sinceramente: e non già per aver perduto, a causa dell'ostinata avversione paterna, i suoi anni migliori dietro al commercio o agli studi legali, ma solo perché al mondo poetico di lui fecero difetto le elevatissime idealità dell'Alighieri, e l'abito alla finissima analisi interiore, che ebbe il suo Petrarca.

Tuttavia, riuscì egli pure ad affermare in modo meraviglioso la propria individualità di scrittore, in quel mondo della realtà, dominata dall'intelligenza umana, ch'egli più profondamente sentiva e di cui si fece in vario modo il pittore originale, più e meglio nella prosa che nella poesia, e in questa, solo dove occorresse raccontare, descrivere, rappresentare contrasti di affetti e lotte interiori fra le indomabili esigenze della carne e le troppo deboli difese opposte dallo spirito. Così, con questo figliolo d'un fugace capriccio paterno, nato in terra straniera e abbandonato ai proprî istinti fin dalla tenera età, cresciuto in una città gaudente e voluttuosa come Napoli, l'attaccamento alla vita terrena e la facile sommissione alle leggi di natura si affermano e trionfano gioiosamente sul triste mistero della morte; ond'egli, più ancora dell'Alighieri e del Petrarca, si trascinerà dietro le future generazioni, con i suoi romanzi e i suoi poemi, ma soprattutto col suo capolavoro, in cui la commedia umana, anche più che non fosse intenzione dell'autore, si pone accanto e prevale per qualche secolo, sulla divina.

La produzione del Boccaccio si può dividere in due periodi: il primo, dal Filocolo, concepito nell'autunno del 1336, arriva al Decameron, e giunge così fino al 1353; il secondo, dal Corbaccio, attraverso le opere latine, si chiude col Commento dantesco ed occupa tutto il rimanente della vita. Mentre l'uno è dominato dall'amore di Fiammetta ed è rappresentato da una collana di svariate opere volgari, da lei ispirate, l'altro subisce fortemente l'influsso del Petrarca, ancor più che quello dell'Alighieri; talché sulle scritture volgari, ridotte di numero e d'importanza, prevalgono di gran lunga le laboriose compilazioni latine.

Filòcolo. - L'incitamento a comporre questo primo lavoro venne, come si è detto, da Fiammetta. Ce ne informa lo stesso autore nell'introduzione, ove racconta che, trovandosi ambedue nel parlatorio del monastero di Sant'Arcangelo a Baiano, cadde il discorso sugli amori di Florio e Biancofiore, allora diffusi in tutta l'Europa e conosciuti anche fra noi, per la lettura di romanzi francesi e persino d'un rozzo cantare italiano; talché piacque a Fiammetta d'invitare il suo amico a rendere omaggio alla fedeltà e alla costanza di quei due nobili amanti, scrivendo intorno ai loro casi "un piccolo libretto" in volgare. Il B. obbedì; ma, in luogo del piccolo libretto, compose un grosso volume in prosa, ove, attingendo gli elementi costitutivi del racconto a fonti diverse, da lui sprezzantemente chiamate "i fabulosi parlari degli ignoranti", rivestì quel commovente idillio di uno stile latineggiante, ornato e ridondante, stracarico di tutte le pompe dell'erudizione mitologica e classica di fresco acquistata, e studiosamente ostentata anche a costo di cadere in stridenti contraddizioni fra l'elemento pagano e il cristiano, e in talune strane incongruenze. Il titolo stesso di Filocolo, che è lo pseudonimo adottato da Florio, quando si mette alla ricerca dell'amata giovinetta, e che peri ciò dovrebbe significare "fatica d'amore", risulta dall'erroneo accoppiamento dì due parole greche male interpretate.

La favola del Filocolo si può brevemente riassumere così:

Florio, figlio di Felice, re pagano della Spagna, e Biancofiore, nata nello stesso giorno da due nobili romani che si recavano in devoto pellegrinaggio a S. Iacopo di Galizia, sono allevati insieme, nella corte di Marmorina, sotto il qual nome era designata Verona nelle cronache e nei poemi medievali. I due giovinetti s'innamorano perdutamente l'uno dell'altro; il re però, avversando tale affetto per la supposta ineguaglianza dei natali, manda il figlio a studiare nella vicina Montorio e cerca di disíarsi più volte della fanciulla, con false accuse; fino a che, fallitogli ogni tentativo, ella è consegnata ad alcuni mercanti, che la conducono in Alessandria e la vendono all'ammiraglio che governava quel paese. Invano si vuol far credere a Florio che l'amata sia morta; e, quand'egli alfine viene a sapere dalla madre la dolorosa verità, sotto mentito nome e con alcuni compagni si mette in viaggio per il mondo, alla ricerca della donna. A Napoli, dove una tempesta lo costringe a fermarsi, è accolto onorevolmente da una lieta brigata, in un amenissimo giardino presso la città, e così egli può assistere alla discussione, presieduta da Fiammetta, intorno a trediei questioni d'amore; poi, giunto ad Alessandria, riesce a penetrare di nascosto nella torre, dove stava rinchiusa la sua Biancofiore, e quivi la sposa davanti all'altare di Cupido. Sorpresi, i due amanti son condannati al fuoco; ma, scopertosi che Florio è nipote dell'ammiraglio, questi lo accoglie con gioia e fa celebrare le nozze sontuosamente. Al ritorno in patria, i due sposi, dopo molte avventure, giungono a Roma; quivi Florio si converte al cristianesimo ed è onorato dai nobili congiunti di Biancofiore. Indi raggiungono Marmorina, dove il re e la regina li accolgono benevolmente e lasciano loro il regno, dopo aver ricevuto il battesimo, insieme con tutto il popolo della Spagna.

Questa la trama del romanzo boccaccesco, non brutta in sé, ma che nell'insieme riesce soverchiamente complicata e prolissa, giacché lo scrittore, più che di condurre avanti l'azione e d'infondervi la vita dell'arte, si preoccupò principalmente di accumulare vistosi ornamenti e frange rettoriche, sfoggiando ogni passo un'indigesta erudizione mitologica e classica, anche là dove queste cose mal si confanno col soggetto semplice e popolare. Pertanto l'opera ha in sé ben scarso valore, e dell'autore disse giustamente il Carducci, ch'egli "apparisce più inebriato amatore, che non possessore dell'arte". Nondimeno, dov'egli ritrae più da vicino la realtà della vita e descrive turbamenti d'animo o scene voluttuose, allora nella sua mollezza sfarzosa e nella loquace esuberanza dello stile, sa essere pittore efficace e piacevole. Ciò si nota specialmente nell'episodio napoletano delle questioni d'amore, colto dal vero, in cui, con stridente ma felice anacronismo, vediamo intrattenersi giocondamente, intorno a Fiammetta, nominata regina della simpatica adunanza, gentiluomini e vaghe donne della città; né può mancarvi lo stesso B., nascosto appena sotto il nome di Caleone. Circostanza ancor più significativa, la quale preludia al Decameron, si è che, in due questioni, la sottile materia dei giuochi di società o, come allora si diceva, dei giuochi partiti - non ignoti alle letterature d'oltralpe - si allarga e prende leggiadramente sviluppo narrativo, in modo da formare due lunghe e belle novelle, che poi riappariranno, alquanto rimaneggiate, nella decima giornata del Decameron. Perciò, nonostante i difetti, il Filocolo preannunzia il Decameron, non solo per l'organismo generale, ma anche per le novelle e per certe particolari tendenze, non esclusa quella del periodare armonioso, fiorito, classicheggiante.

Filòstrato. - Il Filocolo fu terminato di scrivere, dopo cinque anni, non prima del '41; tanto che, nella seconda parte, qualche critico avverte i segni di un'arte più consapevole. Nel frattempo l'autore aveva già messo mano a stendere un'altra storia d'amore in ottava rima, anziché in prosa, la quale, dal carattere del protagonista, ebbe il titolo grecizzante di Filostrato, che "tanto viene a dire, quanto uomo vinto e abbattuto da amore". Perciò, la nota che vi predomina, in mezzo a scene di seduzione, di ardente sensualità e di beffarda malizia, è quella di accorato dolore, prodotto in un giovine amante dalla gelosia. Infatti il poemetto, come è dichiarato nella dedicatoria a Fiammetta, ebbe origine da un tentativo fatto dal poeta di cercar sollievo alle sue pene amorose, durante un'assenza della donna amata, e dalla conformità del proprio animo con quello del personaggio principale, che è Troilo.

La materia del libro si allaccia al ciclo troiano e deriva, anziché da fonti classiche, da un noto episodio d'amore del Roman de Troie, interminabile poema di Benoît de Sainte-More. Quindi l'originalità del Certaldese consiste nel modo personale di rielaborare il soggetto, con analisi, gradazioni e finezze psicologiche tutte proprie, oltreché nella felice rappresentazione dei caratteri, fra i quali, per verità, rilievo e nettezza di contorni individuali, si distinguono più specialmente quelli di Criseida, di Troilo e di Pandaro, l'amico compiacente fino a far la parte di assai destro Galeotto, che riesce così una delle più vive creazioni del B. L'azione semplicissima, ma chiaramente concepita, così si svolge in nove canti:

Troilo, principe troiano, durante l'assedio posto dai Greci alla sua città, s'innamora perdutamente di Criseida, figlia del sacerdote Calcante. il quale, prevedendo l'inevitabile distruzione di Troia, sua patria, provvede coraggiosamente al proprio scampo, col rifugiarsi nel campo greco. Il giovine intanto, per mezzo dell'amico Pandaro, cugino di Criseida, riesce a vincerne le titubanze; ed ella alfine, cedendo alle sue insistenti premure, rende felice l'amante. Avviene però che, in uno scambio di prigionieri, Criseida, reclamata dal padre, deve recarsi al campo greco, e con vivissimo dolore si distacca da Troilo, a cui promette di ritornare fra dieci giorni. Invano egli l'aspetta, nell'ansia più tormentosa; finalmente un giorno viene a sapere che, invaghitasi di Diomede, ella lo ha soppiantato. Risoluto di vendicarsene, mentre si getta tra le schiere nemiche in cerca del rivale, cade trafitto per mano di Achille.

Sarebbe troppo pretendere, in questa lasciva e patetica storia d'amore, la fedeltà alla tradizione omerica e il rispetto all'antico costume eroico: non son cose, alle quali ponga mente la poesia medievale. Tutto il pregio del poemetto sta nella verità e sincerità della rappresentazione: e anche il lettore moderno può gustarne la bellezza, pur essendo facilmente indotto a osservare che, sotto quei nomi antichi e solenni di Calcante, Criseida, Pandaro, Diomede, si spiega un quadro luminoso e preciso della società napoletana del Trecento, nel quale le intrigate vicende amorose, la fremente sensualità, le scene di seduzione, di gelosia, di leggerezza e incostanza femminile, son ritratti con tale penetrazione, con tali sfumature, gradazioni e colori, da attestare ampiamente, non solo il progresso dell'arte boccaccesca, rispetto al Filocolo, ma altresì l'esatta conoscenza che lo scrittore aveva ormai del cuore umano. Anche l'ottava, che nel campo della poesia d'arte, apparisce qui per la prima volta ed è di origine popolare, scorre generalmente facile, armoniosa, colorita, tranne in qualche punto del racconto, nel quale il tono è soverchiamente prosaico, o declamatorio. Per questi notevoli pregi, il poemetto piacque a lungo in Italia ed ebbe buona accoglienza anche all'estero: infatti, per tacere delle traduzioni in altre lingue, Goffredo Chaucer, alcuni anni dopo, lo ridusse in inglese e lo Shakespeare ne trasse, in seguito, il dramma Troilus and Cressida.

Teseida. - Dopo la prova felicemente superata col Filostrato, doveva credere il poeta, verso il 1339, di avere acquistato tal padronanza del genere narrativo, da potersi cimentare a colmare una lacuna che, secondo un'osservazione già fatta da Dante nel De vulgari eloquentia, egli vedeva tuttora aperta nella letteratura italiana; la quale se possedeva la lirica amorosa, col Canzoniere di Cino da Pistoia, e quella morale con le rime dottrinali di Dante, mancava però della poesia glorificatrice degli "affanni di Marte", cioè dell'epopea. E un poema epico, infatti, volle egli comporre, scegliendosi un nobile e antico argomento, il quale aveva avuto nella letteratura latina un primo e ammirato esempio con la Tebaide di Stazio; di più, esso vantava un rifacimento in lingua francese, condotto secondo il gusto medievale, nel Roman de Thèbes. Sperava inoltre il poeta che, mercé questo nuovo lavoro, solennemente intitolato Teseida e diviso in dodici libri, a somiglianza dell'Eneide, egli avrebbe potuto riacquistarsi l'affetto di Fiammetta, perduto senza speranza, rappresentandole, come egli avvertiva nella dedicatoria, i tormenti della gelosia e dell'amore non corrisposto. In realtà, l'opera meditata con tanta cura e accompagnata da tante speranze, riuscì appena mediocre, in quanto che il poema, nel suo intreccio troppo complicato e prolisso, manca di vera unità e d'interesse, così nella descrizione minuta della doppia guerra di Teseo contro le Amazzoni e contro Creonte re di Tebe, come negli svariati episodi - sfide, duelli, travestimenti, giuochi, tornei - ai quali si fan partecipare eroi famosi, nonché gli stessi dèi pagani: tutte cose morte, conosciute dai libri, e non già colte immediatamente dal tumulto della vita. La parte sostanziale, poi, è costituita da una nuova e patetica storia d'amore, che, se è romanzesca nell'azione, nella condotta e nei sentimenti, non può certo chiamarsi eroica.

Si racconta, infatti, che due giovani tebani, Arcita e Palemone, si accendono d'amore, in Atene, per la stessa donna, la bellissima Emilia, sorella della regina Ippolita e cognata di Teseo. Naturalmente, divampa fra i due rivali un'implacabile gelosia, che dà luogo a un aspro duello; fino a che, per volere di Teseo, la decisione viene rimessa a un torneo, da combattersi solennemente nel teatro d'Atene, ove ciascun campione comparirà scortato da cento cavalieri. Vince Arcita, protetto dal dio Marte; ma, essendo rimasto mortalmente ferito per uno stratagemma di Venere, che favorisce l'avversario, prima di spirare egli chiede che la donna venga accordata a Palemone. Vi acconsente Teseo e gli sposi si uniscono in matrimonio.

Tale è l'azione fondamentale del poema, non priva, qua e là, di efficaci descrizioni, di scene tenere e commoventi. Tutto il resto, per un errore d'impostazione, è contorno ornamentale ed esteriore, e forma più la cornice che il quadro. Ne risulta il difetto non lieve, che l'accessorio ha preso il posto del principale, e che l'azione, invece di avviarsi verso il suo naturale scioglimento, spesse volte è ritardata da troppo frequenti episodî secondarî, per i quali l'impressione si raffredda e l'interesse vien meno, anche perché, a mezzo il poema, si prevede già quale ne sarà lo svolgimento. Nonostante ciò, anche questo lavoro incontrò per qualche tempo un discreto favore tra il pubblico, e oltre a esser voltato in varie lingue, non dispiacque neppure al Chaucer, che in forma di novella lo inserì fra i suoi Canterbury Tales.

Ameto e Amorosa Visione. - Non riuscirono, dal lato dell'arte, di molto più felici i tentativi che il B. fece più tardi, d'idealizzare, nel genere allegorico-morale, la passione amorosa, scrivendo - sicuramente dopo il '41 - il Ninfale d'Ameto, o Commedia delle Ninfe fiorentine, romanzo pastorale misto di prosa e di diciannove canti in terza rima, sbocciato come una "rosa tra le spine dell'avversità"; al quale seguì un poema allegorico pure in terzine, formanti complessivamente cinquanta capitoli: cioè l'Amorosa Visione. Più che per gl'intrinseci pregi artistici, non grandi, queste composizioni si raccomandano per certi particolari avviamenti del pensiero boccaccesco, in quanto mostrano come il B. subisse sempre più l'influsso dantesco e cercasse di accostarsi alla Divina Commedia, derivandone peraltro solo qualche elemento esteriore e secondario, anziché la viva sostanza della poesia. Intanto il centro delle sue rappresentazioni si veniva spostando, da Napoli verso Firenze. Infatti, se l'Amorosa Visione appare ancor dedicata a Maria-Fiammetta, come si rileva da un interminabile acrostico, costituito dalle iniziali delle mille e cinquecento terzine, e che forma nell'insieme ben tre sonetti; l'Ameto, invece, è dedicato a un amico fiorentino Niccolò di Bartolo del Buono.

Poco interessa nei due citati componimenti la strana rappresentazione di simboli e di concetti morali, velati sotto figurazioni sensuali, e meno ancora piace l'esaltazione delle virtù teologali e cardinali, che il poeta non sentiva intimamente: qualche lampo di poesia guizza, invece, nei frequenti accenni autobiografici, che traspaiono dai diversi racconti e dagli appassionati atteggiamenti di Fiammetta, presentata e descritta in ambedue le opere. Inoltre, mentre l'Ameto ha un'ossatura più complessa e più vicina all'invenzione del Decameron, che non quella precedente del Filocolo; la Visione offre, dal canto suo, una bella testimonianza del culto che il B. aveva per Dante.

Fiammetta e Ninfale Fiesolano. - Da queste concezioni, allegoriche e astratte, il Boccaccio fortunatamente non rimase preso a lungo; onde, nella Fiammetta e nel Ninfale Fiesolano, lo vediamo, di lì a poco, tornare di nuovo con ardore a quel mondo reale, che era più confacente al suo temperamento. E infatti, quella specie di romanzo psicologico e sentimentale in forma autobiografica, che s'intitola dalla donna amata, e il poemetto idilliaco a fondo mitologico, in ottava rima, composti tra il 1343 e il '45, sono certamente le migliori produzioni dell'arte boccaccesca, superate solo dal Decameron.

Quel che importa di più nella Fiammetta, è il problema psicologico. Anche in altre opere il B. aveva accennato con insistenza alla storia del suo amore; ma ivi era sempre l'uomo, comunque denominato, che appariva tradito dall'amata, e perciò si rammaricava a ragione della leggerezza femminile e dell'avversa fortuna. Qui invece, chi si lamenta di essere stata abbandonata e tradita, è proprio Fiammetta, dal momento che il suo Panfilo, richiamato a Firenze dal vecchio genitore, era partito e poi, dimentico d'ogni promessa, si era dato ad altro amore. Le parti sono dunque invertite, e l'abbandono della donna è mera finzione, nuova per altro dal lato artistico e feconda d'interessanti sviluppi psicologici, oltreché sapientemente collegata con alcune circostanze di fatto. Vero è, infatti, il paterno richiamo di Panfilo, cioè del B., a Firenze; vero altresì l'accenno all'avvenuto matrimonio del vecchio padre, annunzio che giungeva deformato e temuto fino agli orecchi della donna abbandonata; veri altri particolari riguardanti il giovine fiorentino, che fanno trepidare e soffrire Fiammetta. Tuttavia, nessuno è disposto a credere che costei, dopo averlo definitivamente soppiantato, fosse capace di tante sofferenze e di così viva tenerezza per la lontananza di Panfilo.

Appunto per questo si domandarono i critici il perché di quella curiosa inversione di parti: e chi la spiegò come una vendetta dello scrittore, impossibile ad ammettersi, perché il tono è schiettamente elegiaco e non satirico, né vi è una sola parola che suoni irriverente per la donna; chi volle scorgervi un nostalgico tentativo per rientrare nelle grazie di lei, rappresentandole lo strazio ch'ella ne avrebbe sofferto, qualora egli avesse veramente mancato alla fede data. Comunque, non si è sempre tenuto conto che il B., oltreché innamorato, era anche un artista, e quindi qualunque situazione un po' drammatica poteva divenire per lui un'occasione per scrivere un libro. Questa elegia anziché un documento autobiografico, vuol essere, ed è soprattutto, un saggio d'arte. Essa segna un notevole progresso sui romanzi anteriori, in quanto evita le allegorie e restringe in più sopportabili limiti l'apparato mitologico-classico, pur adagiandosi nelle forme allora ammiratissime delle Eroidi ovidiane e abusando spesso di colori retorici e di comparazioni erudite non adatte a una donna in preda allo scoraggiamento. Cosicché, quando il De Sanctis lo giudica "un romanzo prolisso, noioso", ci sembra che guardi più alle lungaggini e ai difetti del libro, dei quali neppur qui lo scrittore ha saputo interamente disfarsi, anziché ai pregi, che sono anch'essi evidenti e tali da renderlo caro ai lettori d'ogni paese. Chi, infatti, può non ammirare la finezza dell'analisi psicologica, con cui Fiammetta descrive i tormentosi dubbî, le speranze, le dolci illusioni accarezzate nella solitudine e nell'abbandono dalla sua fervida immaginazione, alle quali seguono inesorabilmente, sempre più cocenti, più tristi, più disperati, i disinganni? Ma v'ha di più. Al dolore e alla furente gelosia della donna, che la spingono a cercare la morte, fa contrasto il soave ricordo della breve felicità già goduta in compagnia dell'amante, i conforti amorevoli della vecchia balia, e infine l'affettuoso interessamento dell'inconscio marito, che si avvede della angoscia di lei e tenta ogni mezzo per consolarla, conducendola ai bagni di Baia, in mezzo alla turba spensierata e gaudente. D'altra parte, non bisogna dimenticare che in Fiammetta ci sta davanti la prima donna che abbia voce, sentimenti, passioni, secondo verità e secondo natura, e non una donna già spiritualizzata oltre ogni limite umano. Ella tutta si confessa nella fragilità della carne, nell'intimità dei proprî istinti e sentimenti, nella fatalità ineluttabile della sua passione e della sua colpa, ora infiammata d'amore, ora di gelosia, ora con l'animo disposto a fiducia, ora in preda alla più nera disperazione. Donna, insomma, e non dea: "una delle più belle figure di donne disperate - dice bene il Cochin - che l'arte abbia dipinto". I particolari, poi, nei quali leggiadramente si descrivono scene e costumi della vita napoletana, giustamente ammirati dai critici, formano quadretti gustosissimi e aggiungono attrattive a questo singolare romanzo psicologico del XIV secolo.

Ma ancora migliore è, senza dubbio, il Ninfale Fiesolano, dove l'autore riesce alfine a liberarsi dall'involucro dell'erudizione e dalla retorica, per acquistare una semplicità piena d'effetto e una franchezza d'esposizione, che si riflettono beneficamente anche nello stile, limpido, fresco, spigliato, e nella fluidità quasi popolare dell'ottava e del verso. La mitologia rimane solo nello sfondo, come elemento ideale e remoto, atto a conferire nobiltà all'agreste verismo della favola; e costituisce, non più un ingrediente posticcio, esornativo ed estrinseco, ma il nocciolo sostanziale, il presupposto necessario del poemetto. Questo, per mezzo d'un tragico idillio d'amore fra il pastore Affrico e la ninfa Mensola, si propone di spiegare poeticamente l'origine di due fiumicelli, i quali, scendendo dai colli di Fiesole, mescolano insieme le loro acque presso Firenze, prima di gettarsi nell'Arno. Il mito ha sapore classico, ma l'invenzione di esso spetta interamente al B., che s'ispirò all'esempio di certe favole delle Metamorfosi di Ovidio, a base di trasformazioni d'uomini in elementi naturali. La felice invenzione e condotta del racconto, lucente d' immagini schiette e vive, la naturalezza e verità dei caratteri, fra i quali specialmente ragguardevoli quello di Girafone, padre amorevole di Affrico, e quello di Mensola - la vergine ingenua consacrata a Diana, che cede all'ardente amore di Affrico, diviene madre e poi, presa dal rimorso, lo fugge, combattuta tra l'affetto materno e il timore della divina vendetta -, la delicatezza assai suggestiva, con cui vengono descritti gli affetti familiari, e infine la fatalità che domina irresistibilmente con le imperiose leggi della natura: tutti questi elementi fanno del poemetto la cosa più squisita del Certaldese, onde poteva giustamente dire il Carducci che "basterebbe il Ninfale Fiesolano, purché non fosse negato al Boccaccio l'onore di poeta anche in versi".

Decameròn. - Ci avviciniamo così all'arte fresca e viva del Decameron, a quest'opera immensa e pur semplice e organica, in cui circola l'aria, il moto, la vita, concepita fuori di ogni altro intendimento, che non quello dell'arte, e perciò indifferente a ogni idealità di religione, di morale, di politica.

L'occasione venne al B. dalla terribile pestilenza del 1348, che egli descrisse, com'ebbe a osservare un suo biografo, "da storico, da filosofo e da poeta" vale a dire ch'egli tracciò della peste un fosco e ampio quadro, con sicurezza d'informazioni e compiutezza di analisi, con stupenda varietà di luci e di ombre, sì da riuscire un pittore magnifico di quella calamità, sia per la sapiente disposizione e concatenazione delle parti, sia per la scelta degli episodî più atti a destare profonda impressione, sia per l'evidente, precisa, vivace descrizione di fenomeni naturali e umani, materiali e morali. Ne risulta pertanto un contrasto vivissimo, pieno d'effetto, fra questa rappresentazione desolata della morte, che tutto abbatteva e a cui non vi era umano provvedimento che potesse resistere, col conseguente allentarsi d'ogni vincolo legale, religioso e morale, ed il quadro luminoso di vita spensierata e gioconda, che lo scrittore ci presenterà in seguito, sulle ridenti colline, dove tutto è gioia e oblio degli affanni sostenuti, in mezzo ad una vegetazione lussureggiante, fra lieve stormire di frondi, lieti voli d'uccelli e il dolce gorgogliare delle acque correnti. La fosca e solenne descrizione della peste rimane, dunque, nello sfondo. Mentre la mortalità più infieriva nella città tribolata - racconta il B. - si ritrovano a caso una mattina, nella chiesa di S. Maria Novella, sette giovani donne e tre giovani innamorati; i quali, avendo perduto i loro cari, si accordano facilmente insieme di abbandonare la città, per ridursi a vivere, durante il contagio, or qua or là nelle loro ville. Cosi l'allegra:comitiva si trasferisce in amenissimo soggiorno in campagna, dove per quindici giorni quei giovani vivono beatamente, come suggerivano i medici e come molti Fiorentini realmente facevano, fra suoni, danze, belle passeggiate, liete conveersazioni e buoni desinari, scacciando qualsiasi pensiero molesto che potesse turbare la loro tranquillità e richiamare al loro spirito gli orrori della morte.

Ad accrescere il godimento, si stabilisce fin dal principio che nelle ore calde del pomeriggio, tutti debbano adunarsi in cerchio, all'ombra fresca delle piante e al grato mormorio d'una fontana, raccontando ciascuno una novella, sopra un tema prestabilito, e chiudendo ogni giornata con la danza e col canto. Ma, perché tutto questo possa procedere con ordine, giorno per giorno si nomina un re o una regina, che autorevolmente governa la gaia brigata, prescrive le diverse occupazioni e fissa il tema del novellare. E siccome l'effimero scettro passa per le mani di tutti i dieci giovani ed il novellare si estende complessivamente per dieci giorni, giacché il venerdì e il sabato si fa riposo in onore di Gesù e della Vergine, così l'opera s'institola Decameron, che vuol significare "libro delle dieci giornate", per analogia con l'Hexameron di S. Ambrogio.

Questa lucida e felice invenzione, è animata da svariate descrizioni di paesaggio e dai simpatici profili dei dieci attori che son nascosti, alcuni, sotto pseudonimi tendenti a rappresentare con i soliti grecismi i loro caratteri (Panfilo, "tutto amore"; Filostrato, "vinto da amore"; Dioneo, "dedito a Venere", da Diona madre della dea; inoltre Fiammetta, Pampinea, ecc.). E dentro a quella cornice l'autore ha libero campo di darci, alla fine delle giornate, le sue più belle liriche, e di sfoggiare, nei racconti, una grande ricchezza d'argomenti, tragici, comici, romanzeschi, fantastici e morali, storici e favolosi, antichi e recenti, nei quali si agita, opera e vive un'immensa moltitudine di caratteri, di figure, di tipi, di tutte le età e di tutte le condizioni sociali. Le novelle sono raggruppate giornata per giornata sotto speciali temi, e i raggruppamenti, mentre sono di tale ampiezza da non ostacolare la libertà di scelta dei singoli argomenti, offrono il vantaggio, saggiamente usato, di assicurare all'opera unità e organicità di concezione, ordine e armonia nell'insieme e nelle parti. Ne risulta un'opera d'arte e di vita veramente ammirevole, una raccolta di cento novelle e al tempo stesso un romanzo maraviglioso, in cui stupendamente si rispecchia la società contemporanea nei suoi aspetti più notevoli; un organismo complesso e gagliardo dalle cento membra sapientemente distribuite, dove ogni organo è destinato a compiere una funzione ben determinata.

Nessuno scrittore ebbe, più del B., gagliardo e sicuro il senso della vita, né maggior prontezza e immediatezza d'osservazione; nessuno, dopo Dante e prima dello Shakespeare, creò e colorì con più ricca tavolozza tanti caratteri e tante figure, né lumeggiò più vivamente così svariate situazioni. Da ser Ciappelletto a frate Puccio, da Masetto di Lamporecchio a frate Alberto, da Ferondo a frate Cipolla e al suo degno servitore Guccio Balena, da Calandrino a maestro Simone da Villa, a Chichibio, al prete di Varlungo, al giudice Ricciardo di Chinzica, a Maso del Saggio, che sapeva così bene raggirare i gonzi, numerosa è la folla dei personaggi comici, sì laici che religiosi, dell'uno e dell'altro sesso, tutti efficacemente individuati e stupendamente disegnati. E attorno a loro, che splendido corteo di mariti beffati, di mogli linguacciute e gaudenti, di studenti vendicativi, di preti e frati corrotti e corruttori, di stolti villani, d'ingenui bigotti, di artisti, di giudici, di servitori, di medici esilaranti! Non è arrischiato perciò affermare che il B., due secoli prima che fra noi risorgesse l'antica commedia, ne aveva già creato i viluppi e gl'intrecci, indovinato il costume, scolpito i caratteri, e quel che più conta, trovato il linguaggio adatto e il dialogo; ond'ei sarà il maestro di tutti i commediografi del Cinquecento, che gli arderanno incensi come a Plauto e a Terenzio.

Da questa galleria di vivaci pitture fiamminghe alla Teniers, si passa piacevolmente ai grandi quadri alla Rembrandt, pieni di contrasti e di ombre, quando tragicamente luttuosi, quando stranamente romanzeschi e avventurosi, quando raggentiliti dal costume cavalleresco, tra sfondi di selve paurose, nidi di masnadieri, isole disabitate e inospitali, mari sconvolti dalle tempeste e infestati dai pirati, aeree torri di castelli feudali, pianure solitarie riarse dal solleone, misteriose celle di conventi e di monasteri, sentine di fetida lussuria e di vizî. È tutto un mondo che si schiude al nostro sguardo, dove il paesaggio, sobriamente delineato senza divagazioni di sorta, forma lo scenario indispensabile per lo svolgimento dell'azione.

Folta è specialmente la schiera delle donne risolute ed eroiche, che sfidano il mondo e la morte, come la Ghismunda, che si uccide sdegnosa per non sopravvivere al giovine amato strappatole dalla violenza paterna, o come la dolce Isabetta da Messina, che innaffia delle sue lacrime il vaso di basilico, ove tien sepolto il teschio dell'amante, o come la delicata Salvestra, che si spegne di dolore, dietro al suo tenero amante: soave figura di donna, che piaceva tanto alla sensibilità romantica del De Musset. Ma, accanto a queste eroine della passione e del sentimento, anche il sesso forte è degnamente rappresentato, come, per esempio, nel siciliano Gerbino o come nel fiorentino Girolamo.

Se l'ideale cavalleresco è magnificamente impersonato nelle nobili figure del conte d'Anguersa, di Carlo d'Angiò, di Pietro d'Aragona e di Federigo degli Alberighi, il caso - questa capricciosa divinità boccaccesca che sostituisce l'antico fato e la Provvidenza cristiana - prepara spesse volte ben strane sorprese, per terra e per mare, nelle novelle della seconda e quinta giornata; tra le quali meritamente famose quelle di Landolfo Ruffolo, di Gostanza da Lipari, di madonna Beritola, di Andreuccio da Perugia, di Alatiel.

Dire che il B. ebbe pari la fantasia e l'arte a ogni sorta d'argomenti, sarebbe forse alquanto esagerato. Se egli dimostra luminosamente la potenza del suo ingegno nel genere romanzesco, nel drammatico, e soprattutto nel comico, là dove, insomma, ha da ritrarre la natura nelle tempeste delle passioni, nella fragilità della carne, nelle debolezze e contraddizioni del cuore umano, fra scoppî di pianto e incontenibile festività di risa, ovunque si richieda eloquenza, arguzia, fine malizia e beffardo scetticismo; è però certo che riesce generalmente meno bene quando si tratta di rappresentare virtù eroiche e superiori, che esigerebbero dallo scrittore più fede, più salde idealità, maggiore entusiasmo. Amici come Tito e Gisippo, dei quali il secondo cede al primo la fidanzata, e questi, per salvare quello, si accusa di delitti non commessi; o come Nathan, che spinge la propria cortesia sino a insegnare al proprio nemico che modo debba tenere per ucciderlo più sicuramente e senza pagarne le conseguenze; o come la troppo ammirata Griselda, la quale consegna al bizzarro marito, senza mutar viso, i proprì figlioletti, pur sapendo che son destinati alla morte, rimangono vuote astrazioni, non esenti da esagerazioni e dagli speciosi artifizî della retorica, per quanta diligenza vi abbia messa l'autore, per rendere tali personaggi umani e verosimili.

Lo stesso elemento fantastico, che del resto non sovrabbonda nel Decameron, riesce ben accetto, non tanto per sé, ma in quanto acquista nuovo e gradito sapore, mescolato e fuso sapientemente con altri elementi, come nella famosa novella di messer Torello, in quella di messer Ansaldo, o nell'altra veramente stupenda di Nastagio degli Onesti.

Appunto per quest'assenza d'intendimenti, siano religiosi o siano morali e civili, il Decameron ti presenta i problemi della vita, non già, per richiamare una storica frase del De Sanctis, come se fosse avvenuta "una catastrofe o una rivoluzione, che da un di all'altro ti presenti il mondo mutato"; ma tuttavia in modo da far vedere chiaramente che il tempo delle visioni e dei terrori d'oltretomba volge ormai al tramonto. Il B. scherza e ride su tutto e su tutti, pur di divertirsi e divertire i suoi lettori; e in questa superiorità dell'uomo colto, egli non risparmia neppure la religione, tanto meno i suoi indegni ministri, che non eran rari a quei tempi. La novella dei tre anelli, quella più pungente di Abraham giudeo e tante altre, condite di un così amabile scetticismo, informino. In realtà, se la fede non è interamente bandita dal Decameron e conserva ancora molte delle apparenze esteriori, la sua intima essenza vi appare come spogliata della raggiante aureola della divinità, del tutto priva di quel senso pauroso e solenne di mistero, di quella fiamma di carità e d'amore, che le son proprî; sicché, ridotta quasi alle proporzioni di umana istituzione, è perciò anch'essa discutibile, anzi talora fatta oggetto di motteggi, di scherni e di risa irriverenti. La fede ardente di Dante, di Santa Caterina, di fra Iacopo Passavanti, che trae loro di bocca accenti d'ira sublime contro i profanatori del tempio; parole di fuoco innanzi alle iniquità, alla corruzione e al pervertimento degli uomini, qui si spegne nel lago tranquillo dell'indifferenza, o, se ne increspa la superficie, è solo per trarne un sorriso di malizia o un ghigno beffardo; come avviene per la strana protezione concessa da S. Giuliano ospitaliere ai viandanti suoi devoti, che non dimentichino di recitare il suo paternostro e di raccomandarsi a lui per avere un buon albergo.

Che dire poi degli uomini di chiesa? La loro corruzione, la vanità, l'avarizia, vengono particolarmente prese di mira e trafitte ogni momento; ma questi vizî del clero costituiscono più materia di spasso e di buon umore che di sdegno e di disgusto; onde la satira non scaturisce più, come in Dante, da superiori idealità che si ritengano offese, ma da considerazioni puramente umane. Anzi, quando il peccato è commesso per debolezza della carne, o quando il peccatore sa dimostrare dello spirito, anche ai religiosi viene accordato quel compatimento che tanto facilmente si concede ai laici, specie se donne: come avviene per la festevolissima predica di frate Cipolla a quei grossi villani di Certaldo, ai quali egli vorrebbe far vedere una penna dell'Agnolo Gabriello, e trovando inaspettatamente nella scatola, in luogo di quella, dei carboni, sostituiti a sua insaputa da certi burloni, senza punto perdersi d'animo assicura, con impronta scaltrezza, esser quelli che arrostirono S. Lorenzo; sicché non ne scapitano, né le elemosine, né la devozione.

In alcune novelle, se monache, preti e frati sono più apertamente e violentemente biasimati, ciò deriva dal fatto ch'essi nascondono le loro turpi azioni sotto la maschera dell'ipocrisia. Peggio ancora, se abusano del delicato ministero della confessione, per raggirare le donne ingenue e contaminare le famiglie, sull'esempio di quell'astutissimo frate Alberto, che approfittava della stolta vanità di madonna Lisetta. Quindi è naturale che, se per tanti inganni impunemente orditi dagli ecclesiastici i narratori invocano così spesso un'adeguata punizione sui colpevoli, essi manifestino il proprio compiacimento quelle poche volte, in cui le parti si presentano comicamente invertite, e la vipera ha morso il cerretano. Tale è il caso di quella donna innamorata, la quale, servendosi furbamente di quella stessa confessione, che aveva fatto cadere tante povere illuse, induce un solenne frate a farsi mezzano dei proprì amori.

Per tutto ciò, e per altro ancora, il Decameron, se non è un libro malsano, non può dirsi nemmeno un libro morale; e lo sapeva bene lo stesso autore, che nell'età matura si pentiva d'averlo scritto, ed esagerando quello che v'ha di troppo libero e di men che decente, ne sconsigliava la lettura alle nobili donne di casa Mainardi. Ma, tant'è, il piacevole volume correva ormai il mondo, era nelle mani di tutti, e non v'era resipiscenza d'autore che potesse fermarlo nel suo cammino trionfale, se più tardi Franco Sacchetti, accingendosi a comporre la propria raccolta, dichiarava, sia pure con esagerazione, "che infino in Francia e in Inghilterra l'avevano ridotto alla loro lingua".

Né poteva essere altrimenti, giacché il Decameron è un'opera di vasto orizzonte e di profondo significato, la sola comparabile per universalità, come osservò bene il Carducci, alla Commedia divina di Dante. Nella storia dei tempi di mezzo, è la prima volta che un geniale scrittore, con sicura coscienza e con magistero di forma, dà un addio al Medioevo.

Egli venne giusto in tempo per svelare, se non per il primo, certo con parola più alata e potente, i nuovi valori della vita terrena, contrapposti ai vecchi ideali del Medioevo: l'amore non più proscritto, ma legge di natura, sovrano del mondo e livellatore delle ineguaglianze sociali, con i suoi impeti generosi e con le sue lascive intemperanze; la liberalità, l'abnegazione e la cortesia, segni di vera nobiltà e virtù necessarie al viver civile; lo splendore dell'ingegno e dell'arte messo a servizio della travagliata umanità, per rendere bella l'esistenza, contro tutte le forme della credulità, della superstizione, dell'impostura.

Tutto immerso in quel mondo sereno dell'immaginazione, il B. non ha mai fretta, e le sue forme, lavorate accuratamente da uno spirito sempre presente a sé stesso, riescono piene, rotonde, morbide, tutte grazie e malizie e vezzi. Direbbe il Giordani, ch'egli ha la musica dello stile; e infatti, avendo educato il gusto, l'orecchio e l'anima sulla poesia e sulla prosa magnifica dei nostri padri, la sua immaginazione agilissima, felicemente assimilatrice e creatrice ad un tempo, divenuta più franca dopo i ripetuti esperimenti giovanili, sa cavarne fuori una prosa armoniosa, limpida, originale, che ha tutti i sali di Plauto e la solennità, lo splendore, l'eleganza di Cicerone e di Livio.

Talvolta si avvertono nel suo periodare gli eccessi dei suoi stessi pregi; onde il Foscolo, sia pure per reazione contro i troppo fanatici ammiratori, poteva tacciare di "freddissimo" lo stile con cui vien descritta la pestilenza; e il De Sanctis, da parte sua, osservava che, nelle parti serie e nelle considerazioni morali, la forma boccaccesca "è troppo uguale e placida", ed "il periodo è un rumor d'onde uniforme, mosse faticosamente da mare stanco e sonnolento".

Sono le impressioni talvolta esagerate di noi moderni, abituati ormai ad un genere di prosa molto diversa, più rapida, più mossa e meno distante dal modo di parlare; ma tale non fu per secoli l'opinione dei nostri padri, i quali considerarono lo stile boccaccesco un miracolo d'arte e di bellezza, il modello ideale della rinnovata cultura classica, tanto più pregiato, quanto meglio riusciva ad emulare l'ampiezza, l'armonia e il decoro della lingua latina; ond'essi proclamarono il B. padre della prosa italiana, come Dante e il Petrarca erano stati i creatori della poesia, ed a lui solo guardarono, come ad unico e superbo modello da imitare, confondendo spesso l'eccellente col mediocre, quel che v'ha di spontaneo e di vivo con l'artificioso e col troppo elaborato.

Del resto, anche con i difetti non bisogna esagerare. I periodi eccessivamente complicati e freddi, che stancano con le contorsioni forzate e con i verbi in punta, col cumulo delle particelle e delle proposizioni subordinate, gerundive, participiali, relative, incidentali, le quali s'intrecciano, s'accavallano ed attraversano la strada levandoti il respiro, appariscono solo nella parte meno vitale del Decameron; cioè, nei proemî ad alcune novelle, in qualche pomposa narrazione di azioni liberali e magnifiche, e nelle gravi orazioni di certi personaggi eroici, come quelle di Tito e Gisippo, condotte secondo le norme più accreditate della retorica. Se però, come accade nella maggior parte dei casi, lo scrittore partecipa più intensamente con la fantasia alle vicende dei suoi personaggi e si lascia trasportare dall'argomento, allora l'ampia toga romana vien buttata in un canto, lo stile diventa mirabilmente snodato, vivo, animato, drammatico, nelle proposizioni rapide e scultorie della parlata fiorentina; allora egli si muove liberamente, senza impacci e senza preconcetti, nelle fomie del discorso comune, ravvivate dagl'idiotismi, dagli anacoluti, dai proverbî, dalle locuzioni e dagli scorci più pittoreschi ed efficaci.

Eccellente è pertanto lo stile comico, ove qualunque artifizio scompare, ciascun personaggio adopra il linguaggio che gli è proprio, persino il dialetto, e Calandrino, frate Cipolla, maestro Simone, Chichibio, il prete di Varlungo e monna Belcolore, ed insieme con loro tant'altra brava gente, si profilano netti e distinti col loro colorito schiettamente paesano, sullo sfondo classicheggiante dell'immenso quadro boccaccesco.

Per tutto ciò che vi è di meraviglioso e d'eterno nel vecchio libro, nella tragedia e nel romanzo e nella commedia, un poeta straniero amante dell'Italia e imbevuto della nostra letteratura, Alfredo de Musset, facendosi interprete dell'universale ammirazione per il proteiforme creatore della commedia umana cinque secoli prima del Balzac, poteva nobilmente mostrargli il suo affetto sentito e profondo, e cantare di lui:

La Fontaine a ri dans Boccace,

où Shakespeare fondait en pleurs.

Ediz.: Le opere volgari furono pubblicate tutte da I. Moutier, Firenze 1827-34, in 17 voll.; si hanno inoltre per ciascuna di esse buone edizioni antiche e moderne. Filocolo, 1ª ed., Venezia 1472; ed. E. De Ferri, con introd. e note, Torino 1921; Filostrato, 1ª ed., Venezia circa 1480; Strasburgo [1911]; Teseida, 1ª ed., Ferrara 1475; Ameto, 1ª ed., Roma 1478; insieme con la Fiammetta, Corbaccio e Lettera a m. Pino de' Rossi, in Opere minori, Milano 1879; Amorosa visione, 1ª ed., Milano 1521; Lanciano 1915; Fiammetta, 1ª ed., Padova 1472; Strasburgo [1910]; Ninfale Fiesolano, 1ª ed., Venezia 1477; testo critico, a cura di B. Wiese, Heidelberg 1913; di A.F. Massèra, con introd. e note, Torino 1926. Perduto l'autografo del Decamaon, i manoscritti più reputati sono due: il cod. Laurenziano Mannelli, del 1384, fedelmente riprodotto nell'ed. di Lucca 1761, da cui l'ottima ristampa postillata da P. Fanfani, 12a ed., Firenze 1926; e il cod. Hamilton di Berlino, su cui è condotta l'ed. di A.F. Massèra, Bari 1927. M. Barbi, in Studi di filol. italiana, I (1928) ha mostrato che il futuro editore del Decameron dovrà tener conto, oltre che di questi, anche degli altri codici, che eontengono lezioni che rimontano assai probabilmente al B. L'edizione principe uscì a Venezia nel 1470; assai reputata l'ed. fiorentina del 1527, mentre è famigerata per la goffa rassettatura imposta dal S. Uffizio quella dei Deputati alla correzione del Decameron, Firenze 1573 (cfr. G. Biagi, Aneddoti letterari, Milano 1887, p. 282 segg.). Corbaccio, 1ª ed., Firenze 1487; Strasburgo [1911]; Vita di Dante, 1ª ed., Venezia 1477; testo critico, a cura di F. Macrì-Leone, Firenze 1888; Commento a Dante, 1ª ed., Napoli 1723; Il commento alla D. C. e altri scritti intorno a Dante, a cura di D. Guerri, 4 voll., Bari 1918-1926. Rime, testo critico a cura di A. F. Massèra, Bologna 1914.

Gli scritti latini furono scorrettamente pubblicati nei secoli XV e XVI, e in parte trascritti dai manoscritti da O. Hecker, B.-Funde, Brunswick 1902. Il Bucolicum carmen fu ripubblicato da G. Lidonnici, Città di Castello 1914; le Lettere autografe da G. Traversari, Castelfiorentino 1905, e in Opere latine minori, da A. F. Massèra, Bari 1928; De casibus illustrium virorum, 1ª ed., circa 1473; trad. it. di G. Betussi, Venezia 1545; De claris mulieribus, 1ª ed., Ulma 1473; trad. it. di Donato degli Albanzani, Bologna 1475, di Ant. da S. Elpidio, Venezia 1506, di G. Betussi, Venezia 1545; De genealogiis deorum, 1ª ed., Venezia 1472; trad. it. di G. Betussi, Venezia 1547; De montibus, 1ª ed., Venezia 1494; trad. it. del Liburnio, Venezia s. a. e Venezia 1598. Di quasi tutte queste opere esistono traduzioni anche in francese, spagnolo, tedesco e inglese.

Bibl.: I più notevoli saggi di bibliografia boccaccesca furono dati da F. Zambrini e A. Bacchi della Lega, in Propugnatore, Bologna 1875, VIII, p. 370 segg. Seguirono F. Ferrari, Bibl. boccaccesca, Firenze 1888; G. Traversari, Bibl. boccaccesca, Città di Castello 1907, e col suo bel volume H. Hauvette, B.: étude biographique et littéraire, Parigi 1914, pp. 479-493. Per il Decameron, v. G. B. Passano, I novellieri ital. in prosa, I, Torino 1878.

La vita scrittane da F. Villani fu pubblicata dal Baldelli, innanzi alle Rime di G. B., Firenze 1826; per altre biografie, cfr. A. F. Massèra, Le più antiche biografie del B., in Zeitschrift f. romanische Philol., XXVII (1903), p. 298 segg.; A. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e B., Milano [1904]. Il primo lavoro condotto con metodo fu dato da G. B. Baldelli, Vita di G. B., Firenze 1806; indi M. Landau, G. B., sein Leben und Werke, Stoccarda 1877, trad. e accresciuto da C. Antona-Traversi, Napoli 1881; G. Körting, B.s Leben und Werke, Lipsia 1880; A. Wesselofsky, B. e la società del suo tempo (in russo), Pietroburgo 1893; E. Hutton, G. B., a biographical study, Londra 1910; A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medioevo, rist. Torino 1925, p. 357 segg.; F. Torraca, Per la biografia di G. B., Roma 1912; G. Lipparini, la vita e l'opera di G. B., Firenze 1927. E cfr., naturalmente, Fr. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce, Bari 1912, I, cap. 9°; G. Carducci, Ai parentali di G. B., in Opere, I, p. 267 segg.; oltre che H. Cochin, B., Études italiennes, Parigi 1890, trad. da D. Vitaliani, Firenze 1901.

Filocolo: V. Crescini, Contributo agli studi sul B., Torino 1887; B. Zumbini, il Filocopo del B., Firenze 1879; P. Rajna, L'episodio delle questioni d'amore nel Filocolo, in Romania, XXXI (1902), p. 28 segg.; A. Albertazzi, Il romanzo, Milano 1904, p. 18 segg., e così pure per gli altri romanzi.

Filostrato e Teseida: P. Savj-Lopez, Il Filostrato del B., in Romania, XXVII (1898), p. 442 segg.; E. H. Wilkins, Chriseida, in Modern language Notes, XXIV (1909); K. Young, The origin and development of the story of Troilus and Chriseyde, Londra 1908; S. Debenedetti, Per la fortuna della Teseide e del Ninfale Fiesolano, in Giorn. stor. cit., LX (1912), p. 259 segg.; G. Vandelli, Un autografo della "Teseide", in Studi di fil. it., II (1929), dove si dimostra che il titolo voluto dal B. è Teseida.

Ameto e Amorosa visione: V. Crescini, l'allegoria dell'Ameto del B., Padova 1886; id., Qualche appunto sopra l'Ameto, in Atti e mem. dell'accad. di scienze, lettere ed arti di Padova, IX (1893); E. H. Wilkins, B. Studies, Baltimora 1909; E. Carrara, La poesia pastorale, Milano 1909, p. 111 segg.

Fiammetta e Ninfale Fiesolano: R. Renier, La Vita nuova e la Fiammetta, Torino 1879; G. Gigli, Per l'interpretazione della Fiamemtta, nel vol. Studi su G. B., Castiglionfiorentino 1913; B. Zumbini, Il Ninfale Fiesolano di G. B., Firenze 1896; F. Maggini, Ancora a proposito del Ninfale Fiesolano, in Giorn. stor., cit., LXI (1913), p. 32 segg.

Il Decameron vanta una letteratura mondiale, onde segnaleremo i lavori speciali più considerevoli. Agli studî sopra indicati si aggiunga: D. M. Manni, Istoria del Decamerone, Firenze 1742; U. Foscolo, Sul testo del Decameron, in Opere, Firenze 1923, III, 7 segg.; C. Trabalza, Studi sul B., Città di Castello 1906; L. di Francia, il Decameron, nel vol. Novellistica, Milano 1924, I, 98 segg.; A. Graf, Alcuni giudizi di F. De Sanctis concernenti il Decamerone, in Studi su G. B. cit., p. 214 segg.; V. Cian, L'organismo del Decameron, ibid., p. 202 segg.; J. E. Shaw, Il titolo del Decameron, in Giorn. stor. cit., LII (1908), p. 289 segg.; U. Bosco, Il Decameron. Saggio, Rieti 1929; B. Croce, Il B. e F. Sacchetti, Napoli 1930. Tra i commenti va segnalato quello di A. Momigliano, Milano 1924.

Cfr. inoltre: M. Landau, Die Quellen des Dekameron, Stoccarda 1884; L. Di Francia, Alcune nov. del Decameron illustrate nelle fonti, in Giorn. stor. cit., XLIV (1904), e XLIX (1907); G. Gröber, Über die Quellen von B.s Dekameron, Strasburgo 1913; P. Rajna, La leggenda boccaccesca del Saladino, in Romania, VI (1877), p. 359 segg.; G. Paris, Le cycle de la gageure, ibid., XXXII (1903), p. 481 segg.; B. Zumbini, Di alcune nov. del B. e dei suoi criteri d'arte, in Atti accad. della Crusca, 1905, p. 25 segg.; B. Croce, La nov. di Andreuccio da Perugia, in Storie e leggende napoletane, Bari 1919.

Corbaccio: H. Hauvette, Une confession de B., in Bulletin Italien, I (1901), p. 3 segg., trad. da G. Gigli, Firenze 1905; V. Cian, La Satira, Milano 1924, p. 216 segg.

Vita di Dante e Commento a Dante: G. Carducci, Della varia fortuna di Dante, in Opere, Bologna 1893, VIII, p. 141 segg.; O. Bacci, Il B. lettore di Dante, Firenze 1913; P. Toynbee, Dante studies and researches, Londra 1902, e B. Commentary of the Div. Commedia, in Modern language Review, II (1907), p. 97 segg. L'autenticità del Commento, negata da D. Guerri, op. cit., IV, è invece validamente sostenuta da G. Vandelli, Su l'autenticità del Commento di G. B., in Studi danteschi, XI (1927), e da altri dantisti.

Gli scritti latini furono dottamente studiati da A. Hortis, Studi sulle opere latine del B., Trieste 1879. Vedi inoltre: H. Hauvette, Recherches sur le De casibus de B., in Entre camarades, Parigi 1901, p. 279 segg.; L. Torretta, Il Liber de claribus mulieribus, in Giornale stor. cit., XXXIX-XL (1902), p. 252 segg.; G. Traversari, Appunti sulle redazioni del De claris mulier., in Miscellanea in onore di G. Mazzoni, Firenze 1907, I, p. 225 segg.; E. Woodridge, B. defence of Poetry in De genealogiis deor., in Publ. of the Modern language Assoc. of America, XIII (1900), p. 333 segg.; B. Zumbini, Le Egloghe del B., in Giorn. stor. cit., VII (1886), p. 24 segg.; F. Corazzini, Le lettere edite e ined. di m. G. B. trad. e commentate, Firenze 1877.

Per l'azione esercitata dal B. sulle letterature d'Europa: J. Dunlop, Geschichte der Prosadichtungen, trad. in tedesco da F. Liebrecht, Berlino 1851, p. 219 segg.; per la Francia: P. Toldo, Contributo alla storia della nov. francese, Roma 1895; G. Paris, in Journal des Savants (1895), p. 289 segg.; H. Hauvette, Les plus anciennes trauctions françaises de B., Bordeaux 1909; id., Musset et B., in Bulletin Italien, XI, p. 2 segg.; A. D'Ancona, A. de Musset e l'Italia, in Varietà stor. e letterarie, Milano 1883, I, p. 185 segg. - Per la Spagna: A. Farinelli, B. in Ispagna, in Italia e Spagna, Torino 1929, I, p. 89 segg.; G. B. Bourland, B. and the Decam. in Castilian and Catal. literat., in Revue Hispanique, XII, p. 41 segg.; Menéndez y Pelayo, Orígenes de la novela española, Madrid 1907, II, passim. Per la Germania: A. Cesano, Hans Sachs ed i suoi rapporti con la letterat. ital., Roma 1904, e G. Manacorda, Beziehungen H. Sachsens z. italien. Literatur, in Studien z. vergleichenden Literaturgesch., VI. - Per l'Inghilterra: E. Koeppel, Studien z. Gesch. d. italien. Novelle in d. englischen Litterat., Strasburgo 1892; P. Rajna, Le origini della nov. narrata dal Frankeleyn, in Romania, XXXII, p. 204 segg.; R. K. Root, Chaucer and the Decam., in Englische Studien, XLIV, p. 1 segg.; C. Chiarini, G. Chaucer, I racconti di Canterbury, Firenze 1912-13; I. Tosi, Longfellow e l'Italia, Bologna 1906, p. 89 segg.

L'iconografia fu studiata da F. Corazzini, op. cit., e ripresa da H. Hauvette, Boccace, cit., p. 469 seg. Il ritratto più antico è a penna, in un manoscritto del Filostrato del 1397, riprodotto da B. Wiese ed E. Pèrcopo, Gesch. der italien. Litter., Lipsia-Vienna 1899, p. 148, e trad. italiana, Torino 1904, p. 173; un altro meno nitido, da un ms. Laurenziano, sta nel frontespizio della Lectura Dantis per il sesto centenario del B., Firenze 1913. Una tradizione vuol riconoscere nel cappellone degli Spagnoli, in S. Maria Novella, la persona del B., i cui lineamenti riappaiono nel noto ritratto di Andrea del Castagno; ma si tratta di documenti posteriori.

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