CINELLI CALVOLI, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 25 (1981)

CINELLI CALVOLI, Giovanni

Gino Benzoni

Nato a Firenze, il 26 febbr. 1625, da Domenico di Giovanni - ed è ipotesi azzardabile che il nonno paterno sia quel Giovanni Cinelli "phisico fiorentino" autore, nel 1617 circa, d'un inedito trattato chimico-farmaceutico - è da Francesca Lazzeri, il C. indulgerà coll'andar degli anni a vantarsi "patrizio fiorentino" (un suo antenato sarebbe stato "squittinato", nel 1381, per la "somma dignità" di consigliere fiorentino) nonché "forlivese" per la presunta ascendenza romagnola della sua famiglia. Di fatto questa era socialmente ed economicamente assai modesta.

Ciò malgrado. il C. ebbe un'accurata istruzione: dopo i primi rudimenti, studiò presso le scolopie scuole pie di Firenze retorica con Carlo de' Conti, logica con Lorenzo Zati e fu introdotto alle "matematiche" dal padre Clemente Settimi di S. Carlo, che soleva, talvolta, accompagnare nelle sue visite a Galilei. E questi si sarebbe compiaciuto nell'udire il giovinetto "dire a mente" la quarta "proposizione del primo d'Euclide".

Allievo, nel 1642-44, d'Evangelista Torricelli, lettore di "matematiche" nello Studio fiorentino, fu uno - così dirà il Viviani al Magliabechi - dei suoi "migliori scolari". Si trasferì, quindi, nel 1645, a Pisa, al "collegio ducale" della Sapienza, laureandovisi in medicina, il 22 apr. 1650, sotto la guida dell'"anatomico" Giovan, Francesco Ridolfi, avendo quale "promotore del dottorato" il lettore di filosofia Alessandro Marsili. Periodo, questo pisano, nel quale la frequentazione dell'ospitale dimora del letterato Giovan Battista Ricciardi, ove conobbe, tra gli altri, Salvator Rosa, stimolò il, C. ad aprirsi anche ad altri interessi. Medico, per oltre un anno, a Fossombrone che abbandona a causa d'un' incipiente idropisia, s'accasa, il 6 ag. 1651, a Pisa con Giulia Gucci e, dopo una breve permanenza a Firenze, si sistema, nel 1653, sempre come medico a Portolongone. Qui la moglie, cagionevole di salute e stremata dall'ininterrotto succedersi delle gravidanze, muore nel 1656. Il C. allora preferisce spostarsi con i quattro figlioletti avutine - Dorotea che andrà sposa all'alfiere Antonio Maria Cittadelli, Domenico Antonio, Giaciuto e Vincenzo (quest'ultimo diverrà vallombrosano col nome di Silvestro ed è, forse, quel "padre abate Cinelli cisterciense" nominato in qualche punto dell'epistolario muratoriano) - alla "condotta" di San Sepolcro, ove, esasperato dalle difficoltà economiche ("la povertà l'ha sempre tenuto... affogato" dirà di lui il Magliabechi) e dalle incombenze domestiche, rivela un'indole irascibile e litigiosa, inasprita dalla concorrenza dei colleghi.

Clamorosa soprattutto una sua rissa pon un certo dottor Bottazzi che s'era azzardato a prescrivere una cura ad una sua paziénte; incontratolo, l'insultò, questi reagì e ben presto lo scambio di parole degenerò in una zuffa plateale nella quale il Bottazzi, colpito da una sassata in pieno volto, fu ridotto ad una maschera di sangue, mentre il C. rimase ferito, al capo e al braccio, da varie coltellate.

Risposatosi con Eufrasia Carsughi, dalla quale ha altri figli, il C. fissa - certo prima del 1670 - la sua residenza a Firenze, dove può contare sull'amicizia d'Antonio Magliabechi, della cui casa, "palazzo d'Apollo e delle Muse", diventa assiduo frequentatore. Di nuovo nella città natia il C. può finalmente appagare, in un ambiente congeniale, l'urgere d'una smania erudita affiorata prepotente nel corso delle sue disagiate condotte.

Persistono i crucci quotidiani, le beghe della professione nella quale non riesce ad affermarsi (lo si sa, ad ogni modo, medico assistente nell'ospedale di S. Maria Novella nel 1677-1678). Ma c'è, ora, il compenso del corroborante contatto con l'indaffarato fervore della cultura locale che, per quanto immeschinita da insopportabili vezzi cruscanti e intestardita in puntigli immicipalistici, era purtuttavia segnata dal turbante ricordo della lezione galileiana e animata dagli avventurosi imprevisti della ricognizione in un enorme accumulo di libri e manoscritti. Un'erudizione onnivora agita una frotta di pedanti non privi di scatti umorali ed estrosi. In questo clima il C. si immerge senza risparmio; al medico bilioso e attaccabrighe s'aggiunge l'erudito accanito ed incontinente Purtroppo l'essere, come osserva Magliabe: chi, "senza entrata alcuna", con "parecchi figli" a carico inibisce al C. uno studio severamente distaccato. Sempre intento a ricavare un po' di "piastre", sempre angosciato dalla necessità di "campare", il C. "vuole" realizzare immediati guadagni cercando di "stampare: troppe cose". Ma è tutt'altro che facile trovare "gente ambiziosa che, perché esso gli dedichi i libri, voglino", almeno, "far la spesa della stampa". Tanto più che il C. non riesce a frenare la sua indole litigiosa, a diluire i succhi polemici delle sue personali avversioni che colpiscono ora il Viviani "analfabeto geometra" ora il Redi "viso rancido" ora il Minucci "rozzo ed intemperato etiope".

Non privo di meriti, ad ogni modo, il suo intervento culturale volto alla caccia d'inediti da riesumare, estraneo, tutto sommato, a condizionamenti medicei. La sua operosità di corto respiro, talvolta gretta, con le sue scoperte minute e le sue rivendicazioni localistiche è via via corredata da un'imponente trama informativa di cui saprà valersi il successivo sforzo settecentesco di sistematica ragionata catalogazione. È del C., infatti, una sorta di repertorio bio bibliografico sulla letteratura toscana, bipartita tra "pretti fiorentini" e "toscani al dominio fiorentino sottoposti", quella abbozzata Istoria degli scrittori toscani, sulla quale poggerà la posteriore fatica di Anton Maria Biscioni; e sarà cocente "dolore" pel C., che dirà d'avervi speso ventitré anni di ricerche, non aver potuto "farla stampare" a sue spese si da essere "sforzato lasciarla Dio sa in che mani". Un gusto divagante e umorale più che un criterio di decifrabile coerenza caratterizza nel contempo le sue scelte editoriali; svanita l'ambizione d'editare gli opera omnia del Chiabrera e del Filelfo, inascoltata la sua aspirazione, di allestire una collezione di storici fiorentini, specie inediti, in volgare all'interno della quale avrebbe dovuto campeggiare la Cronica di Dino Compagni, la varietà e la casualità più capricciose sembrano infatti presiedere alle pubblicazioni da lui promosse prefate e, talvolta, commentate.

Queste si succedono ravvicinate specie negli anni '70 del XVII secolo, ora suggerite dal desiderio di lucro, ora consigliate dall'autorevolissimo Magliabechi. Si va da Le vite di Dante e del Petrarca di Leonardo Bruni cavate da un "manuscritto... della libraria" del C. (Perugia 1671) alle liriche d'Orazio nella versione di Federico Nomi (Firenze -672); da Ibrindisi de' Ciclopi, sonetti... Opera postuma di Antonio Malatesti (Firenze 1673), tratti da IlPolifemo di questo (di cui il Magliabechi possedeva il manoscritto) alle Riverenze canore del giurista Pier Francesco Minozzi inneggianti alla Biblioteca medicea ingrandita da Cosimo III (Lione 1673); dalle Poesie liriche diverse di Gabriello Chiabrera (Firenze 1674 e, nello stesso anno, anche a Bologna) al Testamentum sive praeparatio ad mortem... del cisterciense (e futuro cardinale) Giovanni Bona (Florentiae 1675), di cui il C. approntò pure la versione italiana pubblicandola in più luoghi; dalle Poesie di Francesco Buoninsegni (Pistoia 1676; si tratta, comunque, d'un'edizione irreperibile) alla "seconda impressione" (con ampliamenti rispetto alla prima uscita a Roma nello stesso anno) dello Specchio, o vero descrizione della Turchia... di Michel Febure o Febvre (Firenze 1674), pseudonimo del cappuccino Justinien de Tours (ma l'opera è stata pure attribuita al cappuccino Jean Baptiste de Saint Agnan: vedi P. Clemente da Terzorio, Ilvero autore del "Teatro della Turchia" e "Stato presente della Turchia", in Collectanea franciscana, III [1933], pp. 384-95). Spia, quest'ultima edizione, d'un qualche interesse turcologico nel C., confermato anche dall'uscita del Vocabolariotoscano e turchesco (Firenze 1677), il cui autore, il napoletano Antonio Mascis, lo ringrazia, nella Prefazione, d'averlo spronato all'"opera"; e certo il C. dovette nutrire anche curiosità per l'esotico e il diverso che l'indurrà a dare "in luce", gabbandola come novità, La Lapponia... (Venezia 1705) - si tratta, in realtà, della "prima lettera" de Il viaggio settentrionale già apparso completo a Padova nel 1700 e a Forlì nel 1701 - dell'arciprete ravennate Francesco Negri che conobbe, "nella libreria segreta del granduca", ove s'era recato a salutare Magliabechi, nel 1676e che rincontrerà a Ravenna nel 1687.

Ma, per quanto ogni tanto guardi altrove, Firenze - la sua lingua, la sua letteratura, la sua arte - continua a costituire il centro degli interessi del C., spinto dal desiderio di "magnificare... la patria", "l'amor" per la quale era, per lui, "più d'ogni altro possente", a rieditare, con notevoli aggiunte precisazioni correzioni e aggiornamenti, Le bellezze della città di Firenze... di Francesco Bocchi (Firenze 1677 e, di nuovo, Pistoia 1678), argomento che affronta pure direttamente nel trattato, rimasto inedito, Anonimo d'utopia a Filalete. In questo, al di là dell'astio che impronta le punte polemiche contro Filippo Baldinucci, suo odiatissimo rivale (cui non riconosce nemmeno il merito dell'ordinamento cronologico e per scuole dei disegni degli Uffizi, riconducibile, a suo avviso, al Lippi e al Volterrano) nell'agone dell'erudizione artistica, al di là delle scivolate di gusto che gli fanno, ad esempio, ammirare "l'immagine miracolosa di Maria... Annunziata nella chiesa de' Servi... fatta nel 1252", si rivela capace d'osservazioni sorprendenti e, comunque, più penetranti di quelle del suo operosissimo amico Ferdinando del Migliore, favorito in ciò proprio dalla sua estraneità ad ogni problematica figurativa e dall'assenza d'un benché minimo orientamento teorico.

Guidato esclusivamente dalla smania di contraddire il Baldinucci e sensibile solo alle tradizioni elogiative locali, sostiene che gli artisti anteriori a Cimabue non erano per niente "goffi" e, citando il campanile di S. Maria, del Fiore "la fabbrica della stessa" nonché il duomo di Milano quali opere "d'architettura gotica sì, ma bellissima", rifiuta, di fatto, l'identificazione tra rozzo e gotico di cui era, invece, convinto il Baldinucci. Lo stesso apprezzamento caloroso del romanico bizantino-toscano, anche se risale al Manetti e al Vasari, perde tuttavia nel C. ogni connotazione antigotica, deriva dalla persuasione, fortemente radicata in lui, che "in que' secoli infelici... non era rozza l'architettura".

L'arte fiorentina, dunque, anche quella remota e, insieme, la lingua della città anche nei suoi cincischiamenti letterari moderni; donde la troppo disinvolta edizione - vero colpo di mano ai danni di Paolo Minucci incaricato dal cardinale Leopoldo de' Medici di curarla (ma la sua fatica, filol ogicamente più scrupolosa e corredata da un imponegite commento, vedra la luce solo nel 1688, ignorando peraltro bellamente l'editioprinceps del C.) - de IlMalmantile racquistato. Poema di Perlone Zipoli (pseudonimo del defunto Lorenzo Lippi), uscita a Finaro (cioè a Firenze) nel 1676, che tante inimicizie susciterà contro il C., il quale, fra l'altro, si vide distrutti quasi tutti gli esemplari d'una prima tiratura ove figurava, a mo' di prefazione, un suo sfogo contro quanti avevano, ostacolato questa sua sortita editoriale.

Instancabile esploratore di soppalchi librari e di depositi di manoscritti tra i quali s'aggira con affinato fiuto di curiosissimo eccitato segugio - e la raccolta palatina messa a sua disposizione dal Magliabechi costituiva per lui un'inesauribile fonte di ghiotti ritrovamenti -, il C. volle disciplinare questa sua maniacale passione, che rischiava di risolversi in sterile dispersività, offrendo - consigliato in tal senso anche dal Magliabechi - ai dotti un catalogo, il più possibile esteso e corredato da notizie sui contenuti, dati biografici, segnalazione di manoscritti e riferimenti, d'opuscoli rari e spesso, impressi com'erano su fogli volanti, dalla fragile e precaria esistenza, sempre prossimi alla distruzione e all'irreperibilità. Donde il titolo di Biblioteca volante, quanto mai indovinato e sollecitante per una cultura che. deposte da tempo le velleità didascaliche nei confronti del potere, ha esaurito il filone. della "ragion di Stato" ed ha perso, nel contempo, interesse per le narrazioni storiche, mentre trionfa sovrana, tra le macerie franuniste della trattatistica politica e delle ripieganti ambizioni storiografiche, l'erudizione con le sue innocue manie e le sue puntigliose bizze.

Discende dalla metafora dell'intitolazione quella, altrettanto felice, di "scanzie" a designare le singole parti nelle quali il C. suddivide il suo ragionato repertorio bibliografico destinato ben presto ad una circolazione europea; ed è tuttora utilissimo e consultatissimo grazie alla più agevole edizione - in quattro tomi maneggevoli, ove la disposizione alfabetica degli autori è generale, non più spezzettata per singola "scanzia" - veneziana del 1734-47 voluta da Apostolo Zeno e approntata da Angelo Calogerà, il quale, comunque, l'avrebbe desiderata ben più rimpolpata d'integrazioni e precisazioni.

Avviata nel 1677 coll'uscita, a Firenze, delle prime due "scanzie", la bizzarra vicenda della Biblioteca... - irregolare la periodicità, irregolare l'ordine stesso dell'uscita delle singole puntate (la IV precede la III, la X esce dopo quelle dalla XI alla XV), svariati i luoghi di stampa, da Firenze a Napoli, da Parma a Roma, da Modena a Venezia, da Padova a Ferrara, delle 18 "scanzie" cinelliane (cui se ne aggiungeranno altre cinque, due a cura del medico di Comacchio Andrea Dionigi Sancassani e tre a cura del carmelitano Mariano Ruele) -, la, pubblicazione, a Napoli nel 1682, della IV "scanzia" provoca un vero e proprio putiferio.

In questa il C., riferendo d'una vivace polemica tra due medici, Bernardo Ramazzini e Giovanni Andrea Moniglia, propendendo per le "ragioni" del primo "come più incalzanti", irritò a tal punto il secondo (medico di corte nonché prediletto autor comico di quella) da indurlo a mobilitare tutti i suoi più consistenti appoggi per ottenere il massimo risarcimento morale di contro alle riserve del C. presentate come ingiuriosa imperdonabile diffamazione. E il Moniglia venne accontentato dai suoi influenti fautori con una grottesca messa in scena: l'11 marzo 1683, nel cortile del Bargello, col commento sonoro del rintocco funebre della campana, il boia brucia i pochi esemplari sequestrati della "scanzia" incriminata, mentre il C., nel frattempo incarcerato, ottiene la liberazione - così il Moniglia in una sua "informazione" ad un cardinale del S. Uffizio - solo impegnandosi alla ristampa del "libretto espurgato dall'infamia" e dichiarando, in più, "che egli non già, ma qualche suo nemico aveva stampato in quella forma".

Una volta fuori dal carcere, dove è stato rinchiuso per ben novantatré giorni, il C. abbandona Firenze lasciandovi "la seconda moglie" paralizzata da almeno tre anni e i "sette" o "otto figliuoli viventi" (sono parole del C. e l'incertezza sul numero dei figli lo indica padre relativamente scrupoloso) e - istigato dal Magliabechi e da altri tutti ostili al Moniglia -, anziché ritrattare, pubblica una fiera Giustificazione... a difesa da ciò ch'è stato scritto controdi esso nella relazione di... quello ch'è seguito nella controversia... fra... Moneglia e... Ramazzini (Cracovia, ma in realtà Venezia, 1683).

L'"incendio" del suo "opuscolo", vi sostiene, fu una semplice "esequzione", mancando "sentenza" o "decreto" che lo dichiarasse "infame"; quanto al Moniglia, la sua incompetenza medica è totale essendo noto come fosse, ad esempio, "intervenuto per... fare il taglio ad un personaggio ad effetto di cavargli la pietra dalla vescica, che poi non si trovò". Né il Moniglia rimaneva passivo ché - dopo aver denunciato l'inadempienza del C. in una "relazione del fatto" pubblicata a Siena - faceva stendere, fornendogli il materiale, a tal Nicolò Francesco Bertolini un libello ingiurioso, Io. Cinelli et... Magliabechi vitae che usciva anonimo nel 1684 colla falsa indicazione "Fori Vibiorum". Violentissimo col Magliabechi individuato come mandante, lo scritto era pure livido col C. raffigurato come uomo di malaffare, brutto, turpe, carico di debiti, responsabile d'aver fatto morire di stenti la prima moglie. Privo della necessaria autorizzazione inquisitoriale, l'infamante opuscolo venne, tardivamente, ritirato dalla circolazione; e solo il tipografo, VincenzoVangelisti, fu temporancamente incarcerato, mentre il Moniglia, al solito forte di autorevolissime protezioni, riuscì ad evitare fastidi.

Impossibile, invece, pel C., il rientro a Firenze: "povero d'averi, gnudo di forze", ricco solo "di sincerità e di fede" - così ama effigiarsi nella Giustificazione... - lo attendono i disagi d'una vita randagia. Può contare solo sull'appoggio del Magliabechi e del Ramazzini - che già s'era adoperato per farlo uscire dal carcere e l'aveva finanziariamente aiutato - nonché sul sostegno, se non altro morale, delle accademie di cui è già membro o di cui via via lo diventa (gli Apatisti di Firenze, gli Intrepidi di Ferrara, i Ricovrati di Padova, i Concordi di Ravenna. gli Incitati di Faenza, i Dissonanti di Modena, i Gelati di Bologna, gli Intronati di Siena). Troppo poco per fondare un'esistenza tranquilla in un luogo. Di qui l'irrequieta peregrinazione che caratterizza la vecchiaia del Cinelli Calvoli.

Per poco a Bologna, quindi docente di lingua toscana nello Studio modenese di S. Carlo, quindi medico temporaneo a Gualtieri, Fanano, Montese, Vergato, Bertinoro - donde raggiunge, talvolta, centri maggiori -, Forli, attorno al 1691 si sposta nelle Marche per tornare. nel 1695, a Forlì. Di nuovo nelle Marche dal 1696, finalmente, all'inizio del sec. XVIII, monsignor Melchiorre Maggi, governatore di Loreto da lui efficacemente curato, lo sistema quale medico condotto della S. Casa. Un minimo di serenità e di pace pel C. che nel frattempo ha continuato a brigare per stampare le sue "scanzie", ha pubblicato (coll'anagramma di Cavillo Levagnini Licino) una Censura fatta alla lezione dell'imprese dell'abate Francesco Ermini (Firenze 1689; uscita nello stesso anno a Firenze la Lezione a cura di Ostilio Contalgene - anagramma di Agostino Coltellini - era, in realtà, di Benedetto Buonmattei, non dell'Ermini suo allievo), ha steso una sorta d'autobiografia - doveva pur riabilitarsi di contro alle denigrazioni dei Moniglia rtalmente zeppa d'accuse violente e talmente veemente nel tono che il figlio vallombrosano Silvestro preferì distruggere il manoscritto. E il C., che gliel'aveva recapitato perché lo pubblicasse lui morto, doveva dichiarare sconsolato che la Vita propria gli "fu lacerata". Ora, comunque, negli ultimissimi anni meno crucciati di Loreto, più tranquillo nell'intimo, decantati i rancori più tenaci, il C. riprende in mano la Giustificazione... per offrime un testo più pacato, per tentare una riconsiderazione più distaccata della propria esistenza; e completa le "scanzie" XVII e XVIII.

Morì a Loreto il 3 apr. 1706.

Scompare così un uomo che lo Zeno giudicava "dottissimo"; mentre il grosso dei suoi libri finisce ad un "libraio", i più rari - lamenta lo Zeno -, specie "il Decamerone del 1527, Dio sa quale destino abbian corso". Quanto all'Istoria degli scrittori toscani rimase al Maggi presso il quale la vide, nel dicembre del 1717, Giusto Fontanini e Poi su "istanza" di questo passò al senatore Filippo Buonarroti "per uso del... Salvini e del... Biscioni". Molti altri gli inediti lasciati dal C., e, tra questi, la vita del minorita Benedetto Bacci, quella di Pietro Angelio da Barga, quella di s. Girolamo, tre panegirici in onore di quest'ultimo nonché un volgarizzamento delle regole delle monache che a lui s'intitolano, un'orazione in onore di s. Filippo Neri, una "selva" d'aforismi politici, le origini di San Sepolcro, un "itinerario" toscano, dei sonetti, le "bellezze" di Roma, Parma, Loreto, delle aggiunte al Lexicon medicum di Stewen Blankaart, un pungente attacco a Il medico alla moda (contro l'errata, a suo avviso, propensione, tipica anche dell'odiato Francesco Redi, di prescrivere "in ogni tempo ed... età acqua agli infermi"), un trattatello sul quesito "an sales in mixtis denuo generentur vel ab eisdem extralient ur" una confutazione di dieci opinioni errate "cantafavole erroneamente credute" - del volgo fiorentino, "prima fra tutte quella che Cimabue fosse il primo ritrovatore della pittura".

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