GIOVANNI d'Andrea

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GIOVANNI d'Andrea

Giorgio Tamba

Nacque da Andrea e da Novella, probabilmente nel 1271. La data di nascita è desunta dall'ultima iscrizione di G. nell'elenco dei cittadini atti alle armi, relativo all'anno 1341. La definizione di "Bononiensis", attribuitasi dallo stesso G., e quella di "originarius civitatis Bononie", riportata in un provvedimento del Comune dell'aprile 1329, varrebbero a indicare in Bologna il luogo di nascita; ma non è da escludere che egli fosse giunto in città già fanciullo. Il casato dei genitori è ignoto. Si sa che erano originari di una località dell'Appennino, dalla quale si trasferirono in Bologna. Qui Andrea aprì una scuola di grammatica. Vi ebbe allievi i figli della ricca e influente famiglia Galluzzi cui legò la sua futura vicenda. Assunti gli ordini sacri, divenne rettore della chiesa di S. Maria Rotonda di patronato dei Galluzzi e di una lunga dimora in una casa posta tra questa chiesa e la torre dei Galluzzi lo stesso G. serbò il ricordo. Ebbe anche una sorella, Bartolomea.

Dal padre G. apprese i primi elementi di grammatica, che in seguito perfezionò alla scuola di Bonocio da Bergamo. Giovanissimo, manifestò una precoce curiosità per gli studi di diritto e il padre l'assecondò affidandolo, non ancora decenne, a un insegnante privato. Adolescente, seguì nel 1285 il corso di diritto civile di Martino Sillimani e le lezioni di teologia di Giovanni da Parma. Il suo interesse andò peraltro al diritto canonico. Ebbe come insegnante Egidio Foscarari; seguì le lezioni di Marsilio Mantighelli e soprattutto quelle di Guido da Baisio, detto l'Arcidiacono, alla memoria e agli insegnamenti del quale G. professò sempre piena reverenza. Sotto la sua guida e per il suo sollecito interessamento, divenne nel 1298 doctor decretorum.

Un documento del 17 dic. 1298 ne rivela la partecipazione, accanto a membri della famiglia Ubaldini e a studenti fiorentini, nella assunzione di un mutuo: traccia se non di un suo precoce insegnamento, quanto meno di un significativo contatto con l'ambiente dello Studio. Il suo insegnamento è attestato in modo inequivocabile nel 1302. Nel maggio fu coinvolto con i più reputati dottori dello Studio nella decisione di allontanare dalla città Fredo de' Tolomei, già rettore degli studenti citramontani, accusato di minacce e attentati ad altri studenti. Nel novembre prestava fideiussione per due suoi studenti di nazionalità boema. Nel 1303 fu nel ristretto gruppo di esperti, dottori dello Studio e giurisperiti, cui il Comune di Bologna chiese parere per acquisire l'enclave matildica di Medicina.

L'avvio dell'insegnamento ebbe per G. immediati e positivi riflessi economici. Il 21 genn. 1303 G. dava alla sorella Bartolomea, sposa del notaio Michelino Zagnoni, una dote di 350 lire. All'anno seguente risale la sua prima dichiarazione d'estimo. Da essa risulta che G. aveva acquistato recentemente la casa di abitazione in cappella di S. Geminiano, valutata 300 lire e aveva altresì la disponibilità di una vigna di 2 ettari a Barbiano, località della vicina collina, valutata 200 lire.

Sembra che questa vigna gli fosse pervenuta quale dote per il recente matrimonio con Milancia, figlia del canonista Bonincontro dallo Spedale. Dal matrimonio con Milancia nacquero cinque figli: Bonincontro, Federico, Elisabetta o Bettina, un'altra figlia di cui si ignora il nome e Novella, l'ultimogenita, nata nella primavera del 1312.

La carriera di G. quale docente nello Studio bolognese subì una brusca interruzione a seguito dell'interdetto con cui il cardinale legato Napoleone Orsini, allontanato a forza dalla città, la colpì nel giugno del 1306, dichiarando altresì decaduto lo Studio. Come molti altri professori anche G. abbandonò la città e si recò a insegnare a Padova. Bologna era comunque rimasta il centro dei suoi interessi, come appare dal suo estimo, registrato nel 1308, che attesta altresì un ulteriore incremento di valore dei beni giunto a 700 lire.

Il 31 luglio 1307 i rettori delle Università di diritto civile e canonico, preoccupati per la crisi degli insegnamenti, chiesero agli Anziani e consoli di far rientrare in città Iacopo da Belviso, passato a Padova, e di assumere a carico del Comune la retribuzione delle sue lezioni e di quelle di altri sette dottori. La richiesta venne accolta dagli Anziani e consoli, consapevoli che in tal modo i professori si sarebbero legati molto più strettamente alla città e avrebbero avuto meno motivi e tentazioni di abbandonarla. Agli otto dottori indicati dagli studenti, ne aggiunsero anzi altri sei e G. fu il primo di essi. Al momento l'iniziativa non ebbe peraltro successo. Solo dopo l'annullamento dell'interdetto, nell'ottobre del 1308, diversi professori rientrarono e tra essi, nell'autunno del 1309, anche Giovanni.

La ripresa dell'insegnamento in Bologna e delle connesse attività di autore e di consulente portarono a G. significativi incrementi in termini di prestigio e di danaro. L'estimo presentato nel 1315 ne rivela una ormai solida ricchezza, potendo egli disporre di beni stimati oltre 2750 lire. Si trattava di immobili in città, della già ricordata vigna di Barbiano, di due possessioni di 20 ettari a Medicina e di 60 ettari a San Giovanni in Persiceto, entrambe acquistate da poco tempo. Al passivo G. denunciava debiti per 380 lire: denaro, dichiarava con una punta d'orgoglio lo stesso G., concessogli sulla base della sua sola parola. Dall'estimo risulta altresì che G. aveva trasferito la residenza nella cappella di S. Giacomo dei Carbonesi, in locali di proprietà di enti religiosi, attorno ai quali egli stava via via acquistando singoli immobili e terreni.

Altrettanto elevato era il prestigio di cui G. godeva come insegnante quale risulta dagli avvenimenti del 1316. Nell'agosto di quell'anno il risentimento degli studenti per le ricorrenti violazioni da parte del Comune della loro antica autonomia sfociò in una serie di scontri. I rettori delle università studentesche si ritirarono in Argenta dopo aver giurato di abbandonare lo Studio bolognese. Gli Anziani e consoli inviarono ai rettori un'ambasciata, guidata da Giovanni d'Andrea. Egli riuscì a comporre la vertenza tramite una serie di concessioni agli studenti, che ne ripristinarono, almeno in parte, gli antichi privilegi. L'anno seguente gli studenti rinnovarono il testo dei propri statuti e ne affidarono il compito a G. coadiuvato da una commissione di 14 studenti. Il nuovo testo statutario sanciva tra le altre norme anche una posizione di aperto privilegio per G., quale insegnante e quale autore di testi obbligatori nel corso degli studi, nonché per tutti i dottori suoi discendenti in linea maschile, per quelli che ne avessero sposate le figlie e per quelli formatisi alla sua scuola. Era una sorta di predominio di G. sullo Studio, simile alla criptosignoria instaurata sulla città da Romeo Pepoli.

Questa sorta di predominio può forse spiegare qualche comportamento di G. non rispettoso delle severe norme statutarie bolognesi che vietavano ai professori dello Studio di insegnare altrove. Nell'autunno del 1319 un certo Bertolo di Domenico accusò G. di fronte al tribunale del podestà di aver insegnato a Padova nei mesi di agosto e settembre. L'accusa non ebbe seguito, forse anche per la relativa gravità della cosa. L'assenza da Bologna era stata infatti molto breve e aveva coinciso con la chiusura estiva dello Studio. Alla fine di settembre infatti, come risulta dalla stessa accusa, G. aveva ripreso l'insegnamento in Bologna.

Nel 1321 si apriva un'altra grave crisi dello Studio. Lo studente Iacopo da Valenza, che aveva cercato di rapire una ragazza, Giovanna, figlia del notaio Michelino Zagnoni, fu decapitato per ordine del podestà. Ne seguirono l'abbandono in massa di Bologna da parte degli studenti, i tentativi di Siena, Padova e Firenze di trarre profitto dalla situazione, la faticosa riconciliazione sancita solo alla fine di aprile del 1322. A differenza di quanto avvenuto cinque anni prima, G., forse perché personalmente coinvolto nell'episodio che aveva dato origine alla vicenda (la ragazza che Iacopo da Valenza aveva cercato di rapire era sua nipote), non ebbe parte di rilievo nei vari tentativi posti in essere dalla città per ricucire i rapporti con gli studenti. Si sa solo di una sua partecipazione nell'estate del 1321 a una balia incaricata di restaurare lo Studio, i cui risultati furono tuttavia nulli.

La ripresa dell'attività dello Studio aprì peraltro un nuovo periodo favorevole a G. sia nell'attività professionale, sia nella vita privata. Risalgono a tale periodo i rapporti amichevoli instaurati con il giovane Francesco Petrarca, frequentante lo Studio bolognese tra il 1323 e il 1326 e la presenza, occasionale ma non meno significativa, in casa dello stesso G. nell'aprile del 1324 di Cino da Pistoia. Favorevoli anche le vicende familiari. I figli Bonincontro e Federico e il figlio adottivo Giovanni Calderini, tutti dottori, si avviavano a seguire le orme del padre nello Studio cittadino. I figli illegittimi trovavano adeguate sistemazioni: Francesco fu creato cappellano pontificio da papa Giovanni XXII e un altro, forse di nome Gerolamo, divenne canonico della Chiesa di Ravenna. Le tre figlie si erano unite in matrimonio con altrettanti dottori: Bettina con Giovanni da San Giorgio, un'altra figlia con Azone Ramenghi e Novella con Filippo Formaglini. E proprio Novella, andata sposa appena quattordicenne, mostrava di possedere doti non comuni tanto che a essa il padre affidò in particolari circostanze una breve attività didattica: cosa che non mancò di colpire i contemporanei e soprattutto la fervida fantasia dei posteri. Certi, per testimonianza dello stesso G., sono altresì alcuni episodi di consulenza della moglie Milancia: testimonianza di un affettuoso rapporto coniugale, nonostante le evidenti infedeltà di G., e di una sorridente attenzione per l'interpretazione tipicamente femminile elargita dalla moglie a questioni giuridiche.

In questi anni apparve evidente anche l'adesione di G. a papa Giovanni XXII e delle sue iniziative politiche. Fu una posizione nota e apprezzata dallo stesso papa che in una lettera del 26 luglio 1326 lodava l'impegno con cui G. aveva contrastato il momentaneo accordo di Bologna con il ghibellino Rainaldo Bonacolsi. L'apprezzamento di Giovanni XXII si manifestò concretamente e a più riprese anche negli anni successivi. Nel novembre del 1327 impose al governo bolognese di consultare G. prima di procedere alla nomina dei rettori degli ospedali cittadini e nel febbraio del 1328 conferì allo stesso G. il godimento di diritti fiscali da località del territorio ferrarese.

Molto stretti furono di conseguenza i rapporti di G. con il nipote del papa, il cardinale legato Bertrand du Poujet (Bertrando del Poggetto), che dal febbraio del 1327 aveva instaurato una sua personale signoria sulla città. Prova ne fu l'ambasceria che nella primavera del 1328 il cardinale legato inviò ad Avignone, a papa Giovanni XXII, per impetrarne aiuti contro Ludovico il Bavaro. L'ambasceria, composta da G., Bormio Samaritani e Beccadino Beccadelli, venne ricevuta con favore da Giovanni XXII, ma non si conoscono i risultati da essa ottenuti. Nota è invece la disavventura patita da G. nel ritorno da Avignone. Giunto nei pressi di Casteggio, nel territorio di Pavia, venne assalito, derubato di ogni suo avere, ferito e rinchiuso nel castello di Silvano. Solo dopo otto mesi di prigionia e il pagamento di un riscatto di 4000 fiorini d'oro poté tornare a Bologna. La richiesta di risarcimento dei 4000 fiorini del riscatto e di altri 1285 per i danni subiti, avanzata da G. al Comune di Bologna venne accolta solo dopo che una commissione di dottori dello Studio l'aveva giudicata pienamente legittima e giustificata dalla mancanza di colpa del danneggiato. Il fatto trovò un'eco non solo nelle cronache, ma anche nella letteratura giuridica quale significativo precedente per il risarcimento dei danni subiti dal mandatario nell'esecuzione del mandato.

Nonostante il pesante passivo che l'ambasceria aveva comportato, le risorse finanziarie di G. restavano considerevoli. Ne erano fonti sia i proventi delle lezioni e dei consulti, sia una accorta attività economica, esercitata anche tramite l'affitto e la gestione di terre del monastero di S. Procolo. Nel 1330 l'estimo di G. raggiunse così il valore di 6000 lire. E il suo patrimonio si incrementò ancora, grazie a ulteriori investimenti, come l'acquisto di 54 ettari di terra a San Giovanni in Persiceto, comperati nell'ottobre del 1332 per quasi 2000 lire e grazie anche alla benevola condiscendenza di Bertrand du Poujet, che nel gennaio del 1332 esentava G. dalla gabella sulla dote ricevuta per conto del figlio Federico. Di questo ampio patrimonio G. destinava peraltro parti non indifferenti a opere caritatevoli e devozionali, contribuendo tra l'altro allo stabilirsi in città nel 1333 dell'Ordine dei certosini.

Nel marzo del 1334 Bertrand du Poujet, costretto ad abbandonare la città, riparava a Firenze e G. fu tra quelli che gli fecero da scorta, a garanzia della sua incolumità. Il nuovo regime, una velleitaria restaurazione delle forme del libero Comune, ebbe peraltro vita breve. Nell'agosto del 1337 Taddeo Pepoli fu acclamato signore. Nei confronti della nuova signoria le posizioni di G. e di alcuni suoi familiari vennero a divergere. Il genero Filippo Formaglini, deciso avversario del Pepoli, con la moglie Novella fuggì a Padova. Il figlio Bonincontro prese parte nel marzo del 1338 a una congiura, il cui fallimento lo costrinse ad abbandonare Bologna. G. non disdegnò invece di collaborare. Nell'autunno del 1338 insieme con Ferino Galluzzi fu a Padova e a Venezia a perorare la causa di Taddeo Pepoli. Nell'elenco dei componenti il Consiglio del popolo, i quali, preso atto della nomina di Taddeo Pepoli a vicario pontificio, approvarono la restituzione di Bologna alla Chiesa e il pagamento di un censo annuo di 8000 fiorini, il nome di G. è segnato immediatamente dopo quelli dei Pepoli.

Questa sembra essere stata l'ultima partecipazione di G. di rilievo pubblico. Negli anni seguenti i documenti attestano sue transazioni economiche con privati e Comunità del contado nonché acquisti immobiliari, tra cui quello di una terra nella "guardia" della città (territorio dipendente direttamente dal Comune), per l'importo di 364 lire, terra che, qualche decennio più tardi, risulta di proprietà del convento dei certosini.

Questi anni furono segnati anche da gravi lutti familiari. Intorno al 1340 morivano a Padova la figlia Novella e il di lei marito Filippo Formaglini. Nel 1346 moriva l'altro genero Azone Ramenghi e, quattro giorni dopo, la moglie Milancia. G. le sopravvisse solo due anni.

Morì infatti a Bologna il 7 luglio 1348 nell'infuriare della peste nera. Venne sepolto in S. Domenico, in una splendida arca, ora al Museo civico medievale di Bologna.

La fama di cui G. fu circondato in vita aveva salde basi nella sua produzione scientifica, comprendente grandi commentari, trattati su temi specifici e una numerosa serie di testi minori dei quali manca tuttora un preciso catalogo.

La serie dei grandi commentari si apre con la Glossa inSextum, opera giovanile, composta intorno al 1304 quale apparato al sesto libro delle Decretali. L'opera venne integrata tra il 1336 e il 1342 con le Additiones ad Apparatum Sexti, basate sulle recenti costituzioni Clementinae. G. pubblicò, inoltre, tra il 1338 e il 1342 quale revisione generale della prima opera, la Novella in Sextum.

Segue la Novellainquinque Decretalium libros commentaria. È l'opera più nota di G. e venne edita in numerosi testi manoscritti e a stampa. Iniziata nel 1311, fu completata nel 1338, ma alcune parti erano state nel frattempo rese note e fino al termine della sua vita G. vi apportò integrazioni. L'opera, che nel titolo richiama il nome della madre e dell'ultima figlia, è una raccolta di glosse non solo al testo delle Decretali, ma anche alla sua glossa ordinaria. È tratta dagli apparatus di intere generazioni di decretalisti, che G. arricchì con proprie osservazioni e commenti.

Opera successiva è la Glossa inClementinas. Compilata a partire dal 1322 e pubblicata nel 1326, divenne la glossa ordinaria alla raccolta emanata da Giovanni XXII nel 1317.

Altro grande commentario è la Novella intitulum de regulis iuris, nota anche come Quaestiones mercuriales. Il testo è il risultato di una lunga opera di composizione avviata con una raccolta di quaestiones (esami di problemi giuridici o di normative particolari) dibattute da vari giuristi e soprattutto dallo stesso G. e da questo compilata fin dagli inizi della sua attività di docente. Dalla raccolta G. trasse dopo il 1312 una prima collezione sistematica di quaestiones, che chiamò mercuriales perché dibattute nella giornata di mercoledì, ordinate sulla base degli ambiti tematici (tituli) delle diverse compilazioni del diritto canonico. In un secondo momento, precedente l'anno 1336, al fine di offrire uno strumento di agevole consultazione per la materia del titolo De regulis iuris del Liber Sextus, rielaborò la precedente raccolta. Vi inserì altre sue quaestiones, nel frattempo prodotte, e integrò il tutto con un vero e proprio commento. L'opera ebbe anche una nuova struttura espositiva, basata sull'ordine alfabetico degli incipit delle diverse regulae iuris.

L'ultimo grande commentario reca il titolo Additiones ad Speculum Guillelmi Durantis. Iniziata probabilmente nel 1338 e terminata verso l'inizio del 1347, l'opera è un complessivo commento, che si avvale di diversi testi elaborati dallo stesso G., al più ampio trattato di procedura giudiziaria prodotto nel secolo XIII.

Oltre a queste opere maggiori, si conoscono di G. diversi trattati su temi specifici. Alcuni ebbero anche edizioni a stampa e tra essi la Summa de sponsalibus et matrimonio, nota pure col titolo Summa super quarto libro Decretalium, che fu probabilmente il suo primo lavoro; la Summa de consanguinitate o Lectura arboris consanguinitatis; il De renuntiatione beneficiorum; il De interdicto; la Summula in materia testium. Altri sono noti solo attraverso manoscritti, come De emtioneet venditione, De celebratione missarum, De electione. Molto numerosi sono infine i consilia, le repetitiones, le distinciones. G. scrisse altresì di argomenti non strettamente giuridici come l'opera Hieronymianus o Vita s. Hieronymi: completata secondo alcuni nel 1334 e secondo altri nel 1346, è un trattato sulle opere del padre della Chiesa cui G. professava profonda devozione e considerazione e in onore del quale compose anche un inno e sette orazioni. Di G. è anche il Summaria Valerii Maximi per libros et capitula sull'opera del moralista che gli era particolarmente caro.

Sull'opera di G. quale giurista il quadro dei giudizi è fortemente articolato. Se unanime è il riconoscimento della sua padronanza di tutta la letteratura giuridica, canonica e civilista, e di gran parte di quella classica e teologica, non altrettanto lo è quello sul contributo da lui recato allo sviluppo del diritto. Storici del diritto del secolo XIX lo hanno tacciato di scarsa profondità di idee (Savigny, p. 618), nonché di incapacità di soluzioni veramente originali e di servile acquiescenza nei confronti della legge e della supremazia papale (Schulte, pp. 228 s.). La critica più recente ha tuttavia modificato radicalmente queste posizioni mostrando tra l'altro come dall'accurata presentazione e discussione delle idee altrui G. abbia saputo sviluppare personali interpretazioni e soluzioni che hanno recato significativi contributi allo sviluppo di varie dottrine giuridiche (Kuttner, 1963, p. XIV) e sottolineando nelle sue opere i precoci albori dell'umanesimo (Calasso, 1951, p. 179).

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