Della Casa, Giovanni

Enciclopedia Dantesca (1970)

Della Casa, Giovanni

Michele Messina

Letterato (Firenze, o Mugello, 1503 - Montepulciano 1556); nei suoi scritti sentì il mondo dantesco lontano dall'ideale di sereno equilibrio che è alla base della vita del Rinascimento, distante dalla civiltà cortigiana del Cinquecento. Il suo modello ideale per la prosa è il Boccaccio, e il Petrarca per la poesia. Del vigoroso vocabolario dantesco non avverte la potenza espressiva, la forza della passione, e lo vede a volte scadere sul piano della trivialità, anche se in D. apprezza la proprietà e l'efficacia dello scrivere e ha parole di lode per l'immediatezza e la verità di molte sue espressioni. Nel Galateo (XXI-XXII) lo biasima per aver usato parole " disoneste o sconce e lorde, vili, rozze, immonde, brutte, durissime ", e cita a esempio If XVII 117, XVIII 133, XXV 2, Pg XVIII 111 e 113-114, ecc. Giunge persino a dire che " forse meritò alcun biasimo la nostra Beatrice, quando disse: L'alto fato di Dio sarebbe rotto / se Lete si passasse e tal vivanda / fosse gustata senza alcuno scotto / di pentimento [Pg XXX 142-145]; ché, per avviso mio, non istette bene il basso vocabolo delle taverne in così nobili ragionamenti. Né dee dire alcuno la lucerna del mondo [Pd I 38] in luogo del sole, perciocché cotal vocabolo rappresenta il puzzo dell'olio e della cucina; né alcuno considerato uomo direbbe che san Domenico fu il drudo della teologia [Pd XII 55-56] e non racconterebbe che i santi gloriosi avessero dette così vili parole come è a dire: e lascia pur grattar dove è la rogna [Pd XVII 129], che sono imbrattate della feccia del volgar popolo; siccome ciascuno può agevolmente conoscere ".

Sprovveduto filologo e ancor più sprovveduto nell'informazione storica e linguistica, il Della C. con il suo giudizio non ha nociuto affatto alla fama di D., anzi si è attirato il duro biasimo di Leonardo Salviati (Orazione..., Firenze 1564, 19), del Varchi (Ercolano, ques. 9°), di Vincenzo Borghini (Prose fiorentine IV IV 292). Nei primi anni del Seicento, Alessandro Guarini coglie acutamente l'insistenza critica del Della C. nel non aver egli capito " che la nobiltà e la grandezza di Dante nasce principalmente dall'essersi sottratto con nuova arte di poesia alla catena di certe regole e alla strettezza di alcune leggi, tra le quali se contenuto e' si fosse, già non sarebbe egli riverito ed ammirato quasi miracolo tra' toscani poeti " (Il Farnetico Savio, Ferrara 1610, 14). A mezzo il Seicento il Dati giustifica, spiegandole storicamente, le locuzioni dantesche che il Della C. aveva condannato (Difesa di D. dalle accuse dategli da mons. Della Casa nel suo Galateo, in Prose scelte, Venezia 1826, 117-136), e l'Ubaldini, con sicura dottrina filologica e larga informazione storica, esamina partitamente e ne confuta ogni obiezione in un'opera rimasta frammentaria in un manoscritto barberiniano: Il Giordano, ovvero nuova difesa di Dante.

Bibl. - M. Barbi, Della fortuna di D. nel sec. XVI, Pisa 1890; G. Vitaletti, Schermaglie dantesche nel Seicento, in " Giorn. stor. " XXVII (1896) 177-183, 262-271; XXVIII (1896) 51-61; U. Cosmo, Con D. attraverso il Seicento, Bari 1946, 16 ss.; E. Bonora, Il boccaccismo del " Galateo ", in Stile e tradizione, Milano 1960, 83-85; G.F. Chiodaroli - G. Barbarisi, G. D. C., in Letteratura italiana. I Minori, ibid. 1961, II 1199-1219 (con bibl.).

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