DEVOTI, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 39 (1991)

DEVOTI, Giovanni

Agostino Lauro

Nacque a Roma da Fabio, oriundo genovese, e da Maddalena Stella, veneziana, l'11 luglio 1744. Ricevuta l'istruzione primaria dal padre, compì gli studi umanistici dagli scolopi nel collegio "Nazareno" e aderì alla Colonia degli Incolti. Nel novembre del 1762 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza della Sapienza, dove occupava la cattedra delle pandette Emanuele Duni di Matera, che gli trasfuse il culto per il metodo storico nello studio del diritto, modellando il proprio magistero sulla lezione vichiana appresa a Napoli e propagata con acutezza di riflessione personale in contrasto con l'astrattismo accademico della scuola romana. Giovanissimo, esordì nella cerchia dei dotti in collaborazione col padre, il quale, pubblicando a Roma nel 1763 In aenigma Damatae deCoeli spatio in Terris quibusdam tres nonamplius ulnas patente commentarius, vi aggiunse un De Romana architectura sermo cum notis Ioannis filii; con cinquantaquattro note critiche (pp. 45-60) il D. arricchì di raffinate postille e di sicuri riferimenti bibliografici il breve carme satirico, composto per biasimare le sciatterie stilistiche di architetti maldestri o sprovveduti.

L'11 maggio 1766 egli conseguiva la laurea in utroque iure e nello stesso anno pubblicò a Roma l'opera De notissimis in iure legibus, che gli procurò subito notorietà e reputazione. La monografia, divisa in due libri, ebbe sei edizioni romane fino al 1830, due fiorentine (1784 e 1796), una ad Ancona (1837), in due voll. con la traduzione italiana a fronte del testo latino una a Palermo (1786), una a Bologna (1837) e una traduzione italiana Delle leggi più note della giurisprudenza (Bologna 1837).

Attraverso l'espediente della forma dialogica, il D. inquadra una serie di ragionamenti e di dispute con tre interlocutori, tra i quali il fratello Alberto (che fu governatore delle Marche e poi canonico nella basilica di S. Maria in Trastevere), su teorie e dottrine intorno a centocinquantadue leggi tra le più note. Immaginato sulle rive del Tevere fuori porta Flaminia, il dialogo è introdotto da una fervida apologia della scienza giuridica ormai troppo spregiata e da un dibattito sulle doti e sulle qualità del giureconsulto. Il metodo storico-erudito appreso dal Duni caratterizza la trattazione ed egli ne riassume il valore e l'efficacia con la massima: "neminem sine historiae, graecae linguae, eruditionis notitia optimum iurisperitum esse posse" (De notissimis..., p. 12). L'analisi e la penetrazione delle fonti, la rassegna delle opinioni più autorevoli, le annotazioni critiche, la compiutezza del giudizio e dei pareri, documentano nel D. cultura umanistica e ampiezza di informazione scientifica congiunte ad una consuetudine non convenzionale con le dottrine che discute misurandosi con acume e intuizione filosofica col vasto mondo del diritto. Dev'essere sottolineato, nondimeno, che dopo consensi ed elogi indirizzati al Muratori "magnus homo" si protesta riluttante ad apprezzare le istanze dei Difetti della giurisprudenza; dissimulando le proprie riserve mentali sulle finalità politico-sociali non condivise, obietta che nell'opera "multa sunt scripta non vere, multa minus accurate, multa etiam falso" (ibid., p. 118), per poter ripiegare più agevolmente sulle confutazioni antimuratoriane che G. P. Cirillo, menzionato con palese compiacimento, aveva pubblicato nel 1743.

Agli inizi del 1768 questa operetta gli facilitò la vittoria nel concorso a "soprannumerario" della "lettura legale", che lo abilitava alla supplenza in tutte le discipline della facoltà di legge, come allora usava all'archiginnasio romano, e pochi mesi dopo, deceduto Dario Guicciardi, gli assicurava la successione alla cattedra di istituzioni canoniche. Il ruolo di docente ordinario non lo dissuase dall'esercizio della professione forense già avviata con successo e che proseguì ininterrottamente fino al 1789 ritraendone grande rinomanza. Arrendevole alla mania dell'epoca, chiese e ottenne l'aggregazione al patriziato di Città della Pieve. Studi seri e ampi, assiduo lavoro intellettuale e costante aggiornamento nella materia giuridica si riflettono nei quattro volumi delle Institutionum canonicarum libri IV (Romae: I, 1785; II, 1787; III, 1788; IV, 1789), la cui dedica "Ad cupidam sacrorum canonum iuventutem" appare esemplata su quella che G. V. Gravina aveva steso per le Origines iuris civilis. Gli scopi e il metodo, enunciati con nitidezza, danno l'idea compiuta del piano didattico dell'opera che si sviluppa concretamente con una esposizione sistematica di tutto il corpus del diritto canonico.

La fortuna di questo manuale è comprovata dal successo editoriale raggiunto nell'Europa occidentale: a Roma ebbe non meno di dodici edizioni fino al 1860, tre a Bassano (1792, 1843 e 1857), a Bologna una in latino nel 1818 e due in italiano (1838 e 1850), una a Venezia (1834), una a Torino esemplata sulla quinta romana (Augustae Taurinorum 1855), una a Liegi (Leodien 1860 in due volumi) e una traduzione in castigliano curata da Galan y Junco, edita a Valencia nel 1830.

A Roma furono pubblicate, inoltre, nel 1835 Institutionum iuris canonici tabulae synopticae iuxta ordinem habitum, che ebbero una ristampa a Firenze nel 1840. Nel clima di restaurazione generale, Ferdinando VII re di Spagna nel 1817 ordinava che nell'ateneo di Alcalá il trattato del D. subentrasse alle Institutiones di Domenico Cavallari, condannate all'Indice il 27 gennaio di quello stesso anno. L'opera fu adottata anche nell'università di Lovanio e nel seminario di St. Sulpice a Parigi. Il Moroni attribuisce a Francesco Saverio Castiglioni (poi papa Pio VIII) le note storico-critiche di tutta l'opera, ma non pochi esegeti posteriori ne hanno diffidato, avanzando riserve e prove di insussistenza, sulla scorta di nuove ricerche si può ora ritenere con certezza che le note del primo volume sono interamente del D. e non del giovane Castiglioni, che giunse a Roma soltanto nell'autunno del 1785 (Fusi-Pecci, p. 35), anno della pubblicazione di quel volume. Ma la notizia del Moroni sul contributo del Castiglioni, nonostante lo scetticismo e le ritrosie dei censori, risulta avvalorata dal carteggio autografo con cui il giovane studioso ragguagliava i corrispondenti sulla propria partecipazione alle fatiche del D.; l'apporto sembra, tuttavia, doversi riferire non alla seconda edizione, come si è congetturato (ibid., p. 38), ma ai restanti tre volumi dell'opera, pubblicati tra il 1787 e il 1789.

Terminato il manuale, il D. iniziava la stesura della terza e più impegnativa opera di diritto: Iuris canonici universi publici et privati libri V (Romae: I, 1803; II, 1804; III, 1815, pubblicato in realtà nel 1817). Ideato come commento alle Decretali in sei volumi (ibid., II, p. V), sebbene incompiuto questo lavoro si impone ugualmente per il disegno di vasto respiro, per la sistematicità dell'impianto e per la solidità concettuale, che è coerente a esplicite posizioni ideologico-religiose. Il D. è uno dei primi canonisti che abbia posto la distinzione tra diritto pubblico e diritto privato nell'ordinamento canonico. Un suo commento al trattato di Z-B. van Espen è smarrito. L'inclinazione alla poesia, che pure coltivò, è attestata da alcuni componimenti recitati in Arcadia in cui fu denominato Robesio Tornaceo. Fu anche membro dell'Accademia di scienze, lettere e arti di Livorno e dal 4 febbr. 1804 socio dell'Accademia di religione cattolica di Roma, che perseguiva finalità consone ai suoi convincimenti, sia religiosi sia politici. Pio VI, al quale aveva dedicato le Institutiones, lo rimunerò con la nomina a vescovo di Anagni il 30 marzo 1789 e il 5 aprile seguente a prelato domestico e assistente al soglio. Aveva ricevuto soltanto la prima tonsura nel gennaio e i quattro ordini minori nel giugno del 1786 e perciò ricevette gli ordini sacri il 12, 14, 19 apr. 1789, nella cappella privata del cardinale Giacinto Gerdil, che gli conferì pure l'ordinazione episcopale nella basilica di S. Maria in Trastevere il 3 maggio successivo. Si insediò in diocesi l'8 giugno, preceduto da F. S. Castiglioni che aveva nominato suo vicario generale. Le cure dedicate alla diocesi si indirizzarono soprattutto al seminario, che ampliò notevolmente per ospitarvi un maggior numero di chierici, passati da cinquanta nel 1792 a settanta nel 1801, e alla revisione dei programmi di insegnamento che affidò a buoni docenti.

Durante l'occupazione napoletana dei territori della Repubblica Romana, nel dicembre del 1798, fu nominato deputato e governatore di Anagni, ma, ritornate le armate francesi, dovette riparare prima a Napoli e poi a Palermo al seguito di Ferdinando IV di Borbone. Nel dicembre del 1799 ricevette l'invito a raggiungere i cardinali convenuti a Venezia per l'elezione del nuovo papa e fu candidato alla segreteria del conclave; ma nella designazione gli fu preferito per un voto Ercole Consalvi ed egli se ne ritornò ad Anagni. Nel concistoro del 26 marzo 1804 Pio VII lo trasferì alla sede titolare di Zela, che chiese ed ottenne di mutare con quella arcivescovile di Cartagine il 29 maggio seguente. La traslazione comportò il suo inserimento nei ranghi della Curia romana con la nomina a segretario dei brevi ai principi, canonico della basilica liberiana, consultore delle congregazioni dell'Indice e della Immunità, seguita da onorificenze varie. Il D. fu uno dei quattro vescovi al seguito di Pio VII nel viaggio a Parigi per l'incoronazione di Napoleone; nel gennaio del 1809 fu nominato plenipotenziario della S. Sede nel negoziato intrapreso per la revisione del concordato con la Baviera. Nel corso degli eventi che sconvolsero lo Stato ecclesiastico sottoscrisse una formula condizionata del giuramento richiesto dal regime napoleonico, e due anni dopo ne firmò una seconda senza condizioni, ma subordinata a una protesta di fedeltà al papa. Egli stesso ricorda (Iuscanonicum, III, p. V) di aver ritrattato non appena conobbe la riprovazione del pontefice. Nel 1814, dopo il rientro di Pio VII, rinunziò ad ogni incarico e visse appartato.

Morì a Roma il 18 sett. 1820.

Le due ultime opere del D. rispecchiano compiutamente le tensioni religiose e politiche e il clima culturale in cui furono redatte: le controversie sulla costituzione interna della Chiesa con la tendenza dei giansenisti a sminuire i poteri del papa a favore degli organi periferici e, in particolare, dei vescovi; la crisi e lo svilimento dell'autorità pontificia stravolta da vicende traumatiche; le rivolte sociali e le agitazioni politiche, di cui egli stesso fu testimone immediato, influenzarono la sua attività intellettuale e rappresentano i tratti salienti intorno ai quali si sviluppa la sua costruzione teoretica. Il D. storicizza il fenomeno canonistico e crea un modello che egli medesimo vanta come assoluta novità metodologica, soprattutto tra gli studiosi cattolici: ricondotta alle origini, la ricostruzione storica dell'attività legislativa della Chiesa avrebbe dovuto esprimere la controffensiva adeguata alle malignità di quegli avversari che avevano addebitato al vescovo di Roma le prevaricazioni e il sovvertimento dell'antica disciplina ecclesiastica (Iuscanonicum, I, p. IX). Coerente col metodo che gli era congeniale, coltivò con assiduità i risultati della recente elaborazione della ecclesiologia sulle prerogative del pontefice, com'erano scaturiti dalle vivaci e feconde polemiche della seconda metà del sec. XVIII con gallicani, giansenisti, richeriani e febroniani sui poteri della gerarchia. Lo scontro, che aveva assunto anche significato politico e ideologico, alimentava ovunque la lotta anticuriale, sottilmente estesa alla stessa Roma dov'era sostenuta dagli esponenti filogiansenisti dell'Archetto capeggiati da G. G. Bottari. Tra i teologi del gruppo "romano" il D. contava autorevoli amici: E. D. Cristianopulo, T. M. Mamachi (del quale era stato allievo), F. A. Zaccaria, G. V. Bolgeni, P. Ballerini e G. S. Gerdil, tra tanti altri.

Il D. viene segnalato spesso come teologo, ma non risulta da alcuna fonte che abbia compiuto studi peculiari di teologia, neppure quelli prescritti per accedere al sacerdozio. Dalle opere, nondimeno, traspare con tutta evidenza come egli si sia mosso nell'orbita di quei teologi, oppure di storici e polemisti quali G. Fontanini, il minorita G. A. Bianchi, G. Cenni, L. Cuccagni, S. Borgia, dei quali ha condiviso pensiero, idee e principî, sistemandone la dottrina ed esprimendone le tendenze con enunciazioni giuridiche di grande perizia e di indubbia efficacia. Gli elementi che ne ha tratto e le determinazioni teoretiche che ne ha proposto dcostituiscono i capisaldi del suo sistema giuridico e rappresentano le caratteristiche della sua personalità. Fin dai "Prolegomena" delle due opere, procedendo nelle verifiche e nelle dimostrazioni col metodo storico-concettuale, specifica i rapporti sia esterni sia interni della Chiesa e contrappone sistematicamente lo sviluppo dottrinale di quelle opere teologiche, che reputa fonti autorevoli di parte cattolica, alle teorizzazioni degli avversari. Nelle Institutiones il D. si dichiara garante della ortodossia e indica il proprio manuale come solida guida per premunire gli allievi dagli equivoci più diffusi e soprattutto dagli errori contro il primato del romano pontefice. In realtà aveva scelto come bersaglio diretto - e lo annota espressamente - il magistero di Giovanni Valentino Eybel che considera il più rabbioso nemico della Chiesa cattolica e l'antesignano dell'eresia contemporanea per le aberrazioni profuse nella Introductio. Per stabilire presupposti adeguati e fondamenti logici all'impianto dottrinale programmato, nella definizione della Chiesa il D. consolida il concetto di "societas hominum" sottomessa a legittimi pastori uniti al capo supremo, nell'intento di contrastare frontalmente Domenico Cavallari, già suo emulo sulla cattedra di istituzioni canoniche nell'università di Napoli, al quale imputa una definizione di Chiesa "manca igitur et minus propria" per averne immiserito la compagine, i poteri e i requisiti, avvilendoli al meschino simulacro di "christianorum conventum" indirizzato al conseguimento della vita eterna da generici pastori di derivazione febroniana (Institutiones, I, p. 3). Non, quindi, popolo di Dio e comunità di fedeli guidati alla salvezza eterna da ministri rivestiti di sacra potestà, bensì, come egli risolve ricalcando i paradigmi del diritto pubblico che caratterizzano lo Stato, società ineguale "ad instar reipublicae", corpo organico, ente universale, in cui alcuni presiedono e comandano, altri sono governati e obbediscono: "tamquam vera et perfecta respublica quae suos habet rectores, suumque regimen, administrationem, iurisdictionem" (Ius canonicum, I, p. XIV).

Per poter liquidare più agevolmente i principî ispiratori del giurisdizionalismo e del regalismo e le singolarità teologiche della dottrina sui sacri poteri, nella sua sistemazione riserva uno spazio privilegiato ai rapporti tra Chiesa e Stato. Il D. accosta, confronta o contrappone con insistenza le due istituzioni e si avvale persino della nomenclatura per farne risaltare la parità dei diritti e la diversità dei poteri; quale soggetto giuridico capace di rapporti con lo Stato, la Chiesa non è una corporazione, un "collegium" o uno stato dentro lo Stato, com'è concepita dai protestanti e, in particolare, da Pufendorf seguito da Febronio, ma con esso "status uterque", due Stati distinti, perfetti e sovrani nel proprio genere, che coesistono esercitando poteri differenti in ambiti giurisdizionali propri, delimitati e invalicabili, naturale l'uno, soprannaturale l'altro: "itaque catholicis incertum esse non potest Ecclesiam verum esse Statum seu rempublicam" (Ius can., I, p. 170, n. 3). Travolte dagli eventi e dalle dottrine illuministe, erano definitivamente svanite le categorie storiche di potere diretto e indiretto o di supremazia della Chiesa sullo Stato, cardini di un'anacronistica concezione ierocratica che non gli appartiene e che tuttavia gli è stata affrettatamente attribuita senza giustificazione (Di Simone, p. 206). Mutate le prospettive politiche il D. ripiega sull'affermazione, energica e perentoria, delle prerogative e dei diritti della Chiesa e traccia simultaneamente i limiti e la sfera d'azione dello Stato: "aliae sunt partes civilis potestatis, aliae ecclesiasticae et utraque habet suum certum ac definitum genus in quo summa est" (Institutiones, I, p. 6 e, più ampiamente, in Iuscan., I, p. 235). In parallelo con l'ordinamento pubblico costruito su modelli illuministici, egli riordina sul piano storico-razionale e in prospettiva spiccatamente unitaria e monarchica le istituzioni ecclesiastiche, di recente scosse da dottrine avverse o funestate dai rivolgimenti giacobini. Stabilito un nesso inscindibile tra teologia, diritto canonico e diritto civile (Ius can., II, pp. VI-VII), analizza la natura e la costituzione della Chiesa e ricerca nei suoi primordi l'origine di quegli istituti che avrebbero poi trovato piena sistemazione agli inizi del secondo millennio, con incremento e stabilità nei secoli posteriori. Tra le enunciazioni teorico-programmatiche abbozzate nelle prefazioni ai tre volumi del Ius canonicum e i risultati concreti delle specifiche trattazioni, la rispondenza è piena ed egli la realizza inserendo l'indagine sugli istituti di rilevanza costituzionale, nella dialettica scientifica delle discipline teologiche, giuridiche e storiche, con un'analisi critica della letteratura non ortodossa e con frequenti richiami a Grozio, Dupin, Basnage, Voltaire, Rousseau "homo absurdissimi ingenii" (Ius can., I, p. 14) e altri, dei quali confuta le tesi di fondo, riaffermando la dottrina e i valori della tradizione in piena sintonia con la pubblicistica confessionale. Ma l'obiettivo primario da colpire rimane il Ius ecclesiasticum universum di Van Espen ("Hoc ego opus aggredior", in Ius canon., I, p. XII), il principale avversario da battere, il sistema dottrinale da smantellare inficiandone la credibilità con l'indicazione puntuale delle manipolazioni, dei travisamenti e delle menzogne accumulati intorno alla dottrina dei poteri e dell'autorità pontificia. L'esposizione del diritto delle cose non presenta elementi di rilievo se non dove egli disquisisce sugli impedimenti matrimoniali ed esamina la correlazione tra sacramento e contratto civile e rileva l'antitesi tra il dispositivo del Tridentino sul potere della Chiesa di stabilire e disciplinare quegli impedimenti e la negazione opposta con durezza da luterani e calvinisti, da M. A. De Dominis e da P. Sarpi e riesumata dai giansenisti tra i quali egli segnala il Nesti e il Tamburini (Institutiones, II, p. 243). I dati storici acquisiti sull'ordinamento giudiziario gli facilitano la denunzia delle deviazioni ideologiche e dei traviamenti dottrinali recensiti in un arco lunghissimo, dove accomuna nel medesimo errore eresiarchi, giurisdizionalisti, regalisti, gallicani e giansenisti, dall'ariano Aerzio a Grozio, Bodin, Van Espen, Févret, Dupin, Giannone "hostis infensissimus" della potestà giudiziaria nella Chiesa (Institutiones, III, p. 7, n. 1). Anche nella trattazione del diritto penale il confronto tra le due potestà è serrato e risalta la cura che il D. dedica alla difesa della immunità personale e del foro privilegiato degli ecclesiastici, che appartiene alla Chiesa "tamquam perfecta ac distincta respublica" (Institutiones, IV, p. 17; Ius can., I, p. 268). Per avvalorare la tesi sostenuta, riferisce l'opinione convergente di Pufendorf e di Heinecke sulla privativa di chi legifera e governa di irrogare pene al suddito che delinque e biasima ancora una volta Van Espen e Cavallari, rei di aver fraudolentemente identificato nelle Pseudo-Isidoriane la iniziale regolamentazione giudiziaria delle contese tra chierici e laici e le prime tardive sanzioni penali emanate dall'autorità ecclesiastica (Institutiones, IV, p. 201), col recondito e insidioso scopo di scalzarne l'oggettiva continuità legislativa. Ma la trama delle due opere è polarizzata intorno al tema dei rapporti interni della Chiesa e il D. ne tratta con la convinzione di difendere valori non più universalmente riconosciuti perché devastati da molteplici distorsioni dottrinali sulla potestà del pontefice e sul potere dei vescovi. L'enfatica recensione al secondo volume delle Institutiones (2 ediz.), apparsa sul Giornale ecclesiastico di Roma del 25 maggio 1793, che segnalava le "interessanti addizioni" concernenti i primi secoli, quando era "assai più limitato l'esercizio della vescovile autorità", il contrario cioè di quanto aveva divulgato il "ciarlatanismo Tamburiniano", che assegnava "una fantastica e perniciosissima autorità ai vescovi", rispecchia con puntuale fedeltà le ragioni precipue del favore riscosso dal trattato fra i paladini della tradizione. L'apparato espositivo su principi tanto controversi e segnati da tante ripercussioni nella vita della Chiesa, rivestito di dignità scientifica e poi sviluppato nell'Iuscanonicum con adeguato spazio, riflette precise scelte teologiche nella determinazione del rapporto gerarchico tra primato pontificio e Collegio episcopale: il D. propende, in ogni caso, per la restrizione dei poteri episcopali e a conferma della preferenza, univoca e generalizzata, respinge l'opinione favorevole alla potestà primigenia straordinaria del Collegio episcopale unito a Pietro nel governo della Chiesa universale, che pur era difesa da teologi suoi contemporanei, e opta per una interpretazione riduttiva di quei poteri, giustificata dalla congettura che Cristo li avrebbe riservati ai soli apostoli, rendendoli intrasmissibili al corpo dei successori nell'episcopato. L'orientamento - avvertito come antidoto all'episcopalismo giansenista - è rafforzato dall'assolutezza terminologica e concettuale con cui fissa nella dommatica giuridica la distinzione tra giurisdizione universale di diritto divino trasmessa al Collegio episcopale unito al suo capo, e giurisdizione particolare di diritto ecclesiastico affidata ai vescovi nelle proprie diocesi (Ius can., I, pp. XVII, 112-25). Più che un episodio tardivo della polemica antigiansenista, il D. è una pagina nuova del largo dibattito sul primato pontificio; il taglio assiomatico con cui enuncia i concetti di autorità, di potere e di giurisdizione, derivanti da proposizioni teologiche ricche di sfumature, depaupera fatalmente i fermenti e il patrimonio acquisiti nell'ultimo cinquantennio del Settecento. Le soluzioni che consolida e gli indirizzi che favorisce imprimono una forte accelerazione al processo di accentramento gerarchico, prodromo di quella severa rigidità teoretica nella determinazione del rapporto tra Papato ed episcopato del secolo XIX, che culmina nella codificazione del 1917.

Fonti e Bibl.: Roma, Arch. stor. del Vicariato, Parr. di S. Luigi dei Francesi, Liber baptizatorum VI (aa. 1701-1760), f. 175v; Ibid. Liber ordinationum ab a. 1779usque ad a. 1789, ff. 336, 363, 500; Arch. di Stato di Roma, Università, Registri degli studenti 1753-1774, B. n. 255, litt. D.; Ibid., Ruolo dei lettori 539-1783, B. n. 94, ff. 610v, 617v, 619v, 625v; Ibid., Catal. dei lettori dall'a. 1615 all'a. 1815, ff. 155-173 (tab. annuale, a stampa, dal 1768 al 1789); Arch. segr. Vaticano, Fondo Concist., Acta Camerarii 40, f. 175v; 50, f. 7; Secret. Brev. 4140, ff. 18 s.; 4490, ff. 21 s.; 4492, ff. 25, 52; Ibid., Processus Datariae 163, ff. 1-12 (a ff. 7-8 attestato di laurea); Ibid., Secr. Epistulae ad principes 216, ff. 136 s. (nomina a plenipotenziario per il trattato con la Baviera); Ibid., Segr. di Stato, Epoca napoleonica, Baviera, 4, fasc. int. A (carte 1802-1808, trattato); Ibid., Congr. del Concilio, Anagnina, Relationes super statu dioecesis, 9 sett. 1792, 16 dic. 1795, 13 dic. 1801; Ibid., Liber litterarum visit. S. Limin., 35, f. 274 (5 maggio 1793); 36, ff. 84v-85v (20 giugno 1796), 267 s. (15 dic. 1802); Diario ordinario di Roma, 21 genn. 1769, p. 6; Rime degli Arcadi, Roma 1781, pp. 349-56 (testo di sei componimenti); Novelle letterarie (Firenze), n. s., XVI (1785), coll. 97 s.; XVII (1786), coll. 413 s.; XX (1789), coll. 232 s.; Giorn. eccles. di Roma, III (1788), pp. 123, 125; IV (1790), pp. 45, 51, 270; VIII (1793), pp. 45, 77; IX (1794), pp. 12, 148; J. Andres, Dell'origine, progressi e stato attuale d'ogni letteratura, VII, Parma 1799, p. 696; F. M. Renazzi, Storia dell'univers. di Roma, IV, Roma 1806, p. 254; Diario di Roma, 23 sett. 1820, p. 1 (annunzio della morte); B. Pacca, Memorie storiche del ministero de' due viaggi in Francia e della prigionia..., Roma 1830, p. 405; N. P. Wiseman, Ricordanze degli ultimi quattro papi, Milano 1858, pp. 33, 238; V. Forcella, Iscriz. delle chiese di Roma, II, Roma 1873, p. 414, n. 1283; J. F. von Schulte, Die Gesch. der Quellen und Literatur des canonischen Rechte, III, 1, Stuttgard 1880, p. 528; F. X. Wernz, Ius Decretalium, I, Romae 1905, pp. 85 s., 431; I. Rinieri, Napoleone e PioVII (1804-1813), Torino 1906, pp. 132, 533, 535, 556;P. Zappasordi, Anagni attraverso i secoli, II, s. l. 1907, pp. 269, 277, 279 s.; N. Spano, L'università di Roma, Roma 1935, pp. 69, 108, 111, 339;F. Ruffini, Igiansenisti piemontesi e la convers. della madre di Cavour, a cura e con introd. Di E. Codignola, Firenze [1942], pp. 82 s.; A. van Hove, Prolegomena, Malines-Roma 1945, pp. 540-48; M. R. Gagnebet, L'origine de la jurisdiction collegiale du corps épiscopal au concile selon Bolgeni, in Divinitas, V (1961), pp. 456 s.; G. Alberigo, Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale, Roma 1964, pp. 376-89; O. Fusi-Pecci, La vita del papa Pio VIII, Roma 1965, pp. 35-38 e passim; G. Pignatelli, Aspetti della propaganda cattolica a Roma da Pio VII a Leone XII, Roma 1974, p. 248; A. M. Giorgetti Vichi, Gli Arcadi dal 1690 al 1800, Onomasticon, Roma 1977, p. 221; M. R. Di Simone, La "Sapienza" romana nel Settecento, Roma 1980, pp. 205-08;G. Moroni, Diz. di erudiz. stor.-eccl., LIII, pp. 172 s.; E. De Tipaldo, Biografie degli ital. illustri, V, pp. 162-68; H. Hurter, Nomenclator literarius..., V, coll. 780 s.; Dict. de theol. cath., IV, 1, coll. 678 ss.; Dict. de droit canon., IV, col. 1192;R. Ritzler-P. Sefrin, Hier. cath., VI, Patavii 1958, p. 81; VII, ibid. 1968, pp. 72, 135, 402; Encicl. catt., IV, col. 1510.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE