BANCHINI, Giovanni di Domenico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 5 (1963)

BANCHINI, Giovanni di Domenico (Giovanni Dominici, Banchetti Giovanni)

Giorgio Cracco

Nacque a Firenze tra il 1355 e il 1356 da Domenico di Banchino commerciante di sete (morto prima che il figlio venisse alla luce) e dalla nobildonna veneziana Paola Zorzi. Alla madre, che lo educò cristianamente, rimase sempre legato, e si deve a una lettera a lei indirizzata da Costanza nel 1416 se conosciamo qualche tratto della sua prima giovinezza già inclinata verso lo stato religioso: "Avete uno figliuolo il quale di anni diciassette si fece predicatore". Fu accolto infatti, verso il 1373, benché balbuziente, tra i novizi del convento domenicano di S. Maria Novella, dopo che la madre invano l'aveva mandato per due anni a Venezia a far pratica di mercatura. L'imperfezione fisica lo fece raccogliere nel ritiro e negli studi. Poté attingere a una quantità di autori sacri e profani presenti nelle biblioteche dell'Ordine. Oltre che a Firenze, dove gli fu maestro Giovanni de' Buondelmonti, studiò a Pisa, e soggiornò anche per qualche tempo a Parigi, senza ottenere tuttavia alcun grado accademico. Un'impronta decisiva per la sua formazione gli venne, com'egli stesso riconosce, dall'esempio di Caterina da Siena: la vide e l'ascoltò a Firenze e a Pisa, restando impressionato dal modo con cui aggrediva i peccatori, dal suo stile di riforma che investiva ìnsieme la vita ecclesiastica e quella civile. La devozione alla santa lo portò ben presto a contatto con i cateriniani più fervidi, specie con Raimondo da Capua, e con i circoli di pietà femminile che facevano capo a Chiara Gambacorta. Verso il 1380 fu ordinato prete, e da allora iniziò la sua ascesa nell'Ordine. Nel 1381 era sottopriore in S. Maria Novella, e nel biennio 1385-87 tenne la carica di priore. In quest'epoca, "sentiens se habere desiderium predicandi... in salutem animarum", com'egli stesso narra, avrebbe ottenuto miracolosamente, per intercessione di s. Caterina, la grazia della parola. È certo che egli si segnalò ben presto, con i suoi discorsi, tra quella ristretta cerchia di religiosi, che, come Vincenzo Ferreri, chiamavano a penitenza le masse, tra presagi di fine dei tempi. Nel 1388 il B. lasciò Firenze per trasferirsi a Venezia, dove Raimondo da Capua lo aveva nominato lettore nella scuola teologica di S. Zanipolo. Poco più che trentenne, era già pronto, per esperienza e cultura, a un lavoro di riforma che doveva interessare non solo le case dell'Ordine, ma anche la società veneziana. Negli anni 1391-1393, raccogliendo, primo in Italia, l'invito di Raimondo da Capua, ripristinò la regolare osservanza in tre conventi lagunari: in S. Domenico di Castello, nel convento di Chioggia e in S. Zanipolo, concentrando in essi religiosi provenienti da tutte le partì della penisola. Con questi si impegnò in un lavoro pastorale che riscosse vivi consensi presso i fedeli, oltre all'appoggio dei minori francescani, di alcuni preti, come Leonardo Pisani e Giovanni da Pozzo, della stessa gerarchia (con Angelo Correr) e del governo veneziano. Per quanto assorbito da molti compiti (nel 1393 fu nominato vicario generale dei conventi riformati d'Italia), predicava di continuo nelle chiese di Venezia, insistendo sui temi nuziali e sapienziali dell'Antico e del Nuovo Testamento, illustrando esempi tratti dalle Vitae dei santi, specie dalla Legenda maior di s. Caterina, allora (1395) portata a Venezia da Raimondo da Capua: temi ed esempi ch'egli cercava d'innestare sulle attese di una società inquieta per invitarla a ritessere la trama di una nuova storia santa.

Ampliava poi il frutto delle sue predicazioni nei contatti privati, nella direzione spirituale, nelle confessioni. Entrò ascoltato e rìcercato nelle case dei nobili, divenne intimo di Antonio Venier, il doge (com'egli lo ricorda) "misericordioso e justo" che "studiava riempier con suo gran costo la benedetta città di Vinegia di uomini spirituali". Si può dire che alla fine del secolo non c'era famiglia dell'aristocrazia veneziana che non lo conoscesse. Frutto della sua intensa attività furono le frequenti conversioni: nel giro di dieci anni, quasi una dozzina di patrizi vestirono l'abito di S. Domenico e più di settanta nobildonne entrarono nel monastero del Corpus Christi, da lui stesso fondato (come narra nell'Iter Perusinum) nel 1394 e dotato di apposìte costituzioni, che Bonifacio IX approvò nel 1398. A questa comunità, in cui si rifugiò anche sua madre, il B. sì legò di umana, pur se di continuo idealizzata, predilezione, come appare da una serie di lettere ad essa inviate, in cui apre le più gelose confidenze del cuore. Cade certo in questo periodo di intenso successo apostolico, sottolineato anche dalla coraggiosa assistenza ai contagiati durante la peste che infuriò a Venezia nel 1397-1398, la composizione in volgare del Libro d'amor di carità.

Si trova in esso quasi il manifesto e insieme il bilancio ideale della sua missione veneziana, un B. inebriato d'amore che si abbandona senza violenze o asprezze polemiche al commento del famoso passo paolino ai Corinzi, l'"abisso senza fondo", sul quale tornerà quarantadue volte (tanti i capitoli dell'opera), "non per venire al fine che in questa vita non si può trovare, ma per dimorare in ciascuno suo porto". Sulle orme di S. Francesco, di s. Domenico, di s. Antonio, egli si sente interprete della più genuina tradizione evangelica, fiduciosamente proteso a realizzare una compenetrazione tra il divino e l'umano, quasi potesse sublimare questo mondo nella purità degli angeli. Riflesso può essere, siffatto ottimismo, della pienezza fin troppo ardita della sua attività veneziana, sconfinante ormai oltre i limiti consueti, fino al punto da proporre pericolosamente forme di ascetismo pubblico: "conversi sunt - narra un suo fedele collaboratore, Tommaso di Antonio Caffarini - quamplures viri et mulieres ad tenendam aliam vitam devotam et ad proicendum omnes vanitates in tantum quod aliqua ad vanitatem pertinentia turic temporis quasi totaliter sunt de dicta civitate sublata de medio, artificibus prefatarum vanitatum id ipsum non parum egre ferentibus".

Risentì di questi slanci troppo accesi la stessa vita interna dei conventi: non tutti i frati erano disposti a "bruciare", in nome dell'impegno mistico, ogni realtà umana. Qualcuno chiese di essere trasferito, a scopo di studio, in altre case dell'Ordine, o di recarsi presso qualche università. Allora il B., nel tentatìvo dì frenare lo sfaldamento del gruppo di riforma, accentuò la severità dei suoi metodi di governo, arrivando anche, dietro insistenti pressioni del discepolo Niccolò di Maestro Giovanni e di Raimondo da Capua, a vietare ai suoi frati l'"usus librorum". Il motivo addotto, "generat inordinatum affectum, a servitio mentes impedit Creatoris" (come scriveva nel novembre 1398, reduce da una lunga predicazione in Toscana, ai confratelli di Città di Castello), dimostrava preoccupazioni esclusivamente pastorali, Ma il gesto gli alienò ancora simpatie. Nel contempo il suo invadente prestigio cominciava ad allarmare il governo suscitandogli contro fiere opposizioni. L'arrivo delle processioni dei Bianchi nella tarda estate del 1399 fu motivo sufficiente (e forse pretesto) per spezzare la "fortuna" del Banchini. La Serenissima aveva diffidato chiunque dall'introdurre i Bianchi in città, ma egli non si lasciò intimorire: entusiasta di questo movimento in cui vedeva realizzarsi i segni dell'ultima età, quella dell'espiazione, organizzò ugualmente, con nobili e popolo di Venezia, una processione che il 18 settembre si snodò, in veste bianca, tra canti di penitenza, per le calli della città, verso S. Zanipolo. Qui giunta, trovò schierata la guardia dei Dieci, che la disperse con violenze e ferimenti. La notte stessa il B. fu confinato a domicilio e, tre giorni dopo, riconosciuto colpevole, nonostante la difesa di alcuni suoi amici, condannato al bando da Venezia per cinque anni.

Lasciò la città con amarezza profonda, con la nostalgia propria di chi si sente improvvisamente sradicato dal luogo dei suoi affetti più cari. Si rifugiò dapprima a Città di Castello, donde scrisse la prima delle numerose lettere che doveva spedire alle sorelle del Corpus Christi: "Filiae Jerusalem, nolite fiere"; e poi a Firenze, dove fu fatto vicario in S. Maria Novella e diede inizio a una intensa predicazione cittadina. Ma niente più sembrava interessarlo, neppure il successo delle prediche. Pensava di continuo a Venezia, sperando assurdamente che il bando gli fosse revocato: "O quantum mihi melius erat stare Venetiis vel in Civitate Castelli ubi iste pravus homo vocabatur raptor puellarum, puerorum seductor, praedo viduarum, maritatarum deceptor... clericorum inimicus". E quando vide che ogni illusione era vana, pur accettando, rassegnato, il volere divino, non si trattenne dal lanciare contro Venezia, in occasione delle disgrazie che colpirono la città nel 1401, il suo tremendo "per ea quae facit homo, per ea torquetur". Tornerà a Venezia, per pochi mesi, quando ormai la ferita del suo cuore si sarà rimarginata, nel 1405-06. Al bando da Venezia si accompagnò, bruciante, un'altra avversità: nello stesso 1399 morì il suo grande amico e protettore, Raimondo da Capua. Bonifacio IX si affrettò a confermare al B. i poteri di vicario generale, ma, pochi mesi dopo, di fronte a una rivolta quasi unanime dei predicatori d'Italia ("hanc Ioannis vicariam prefecturam aegro ferebant animo non pauci"), il papa si trovò costretto a esonerarlo dalla carica. Tolto dall'Ordine, oltre che dall'apostolato veneziano, il B. ebbe l'acuta sensazione di un fallimento generale che solo per incidens coinvolgeva la sua persona e colpiva in ultima analisi le possibilità di riforma dell'Ordine e della Chiesa intera. Allora, mentr'era oppresso sotto il peso della sconfitta, la sua visione ecclesiologica si fece più cupa, percorsa sempre più spesso da lampi apocalittici, e da un presagio di prossima fine: "né virtù, né comandamenti, né doni più ci sono a nulla... altro dunque non ci resta se non giudicio. Che altro significa la veste bianca tinta in sangue, se non questi Bianchi levati... se non la veste intinta nel nuovo sangue, il quale nuovamente anno isparso i crocifissi per questo sancto tempo ?... E questo fia il settimo suggello e fia fine. Quando questa fine fia, nessuno... ci ponga bocca, però che solo è riserbato nel tempo di Christo. Ma sempre dobiamo stare aparecchiati". Così diceva in una sua predica fiorentina, e in altre, oltre che ritornare sul motivo del giudizio finale, inaspriva la sua polemica contro la gerarchia: "Tu vedi il papa diventa come il soldato, fare guerre e battaglie, dare tucto a danari, divisa la chiesa tucta per laici, cardinali e vescovi avari e simoniaci: che altro dunque ci resta se non a essere presso al fine?". Ma, accanto allo sfogo amaro, umanamente comprensibile, il B. continuava a costruire, da solo, l'edificio della riforma. Il 24 ag. 1400, mentre egli era a Città di Castello e si prodigava per assistere i confratelli colpiti dalla peste, inviò una lettera-trattato a Giovanni di Benedetto, un suo discepolo veneziano allora eletto alla sede patriarcale di Grado, in cui tratteggiava la figura del prelato ideale, sulla traccia del De consideratione ad Eugenio III e del De moribus et officio episcoporum di s. Bemardo. Come già a Venezia, pure a Firenze gli cresceva attorno un gruppo di religiosi devoti, tra i quali Antonino Pierozzi, con i quali rilanciò l'osservanza regolare nel convento di S. Domenico, da lui stesso fondato a Fiesole nel 1405-06. Il suo migliore successo lo colse tuttavia tra i fedeli, per l'immediata aderenza dei suoi temi oratori alle esigenze della società fiorentina vivente, dopo un'epoca di grandi ardimenti commerciali e politici, nel turbato clima dell'agonia del libero Comune.

Il notaio Lapo Mazzei offre un giudizio esemplare sui discorsi che il B. teneva in S. Maria Novella o in S. Maria del Fiore: "E dicovi che sì fatto sermone non udi, mai, né sì fatta predica. E di certo gli amici di Dio pare ricomincino a montar sù a ispegnere questa vita di poltroni chierici e laici. E dee predicar qui la quaresima (del 1400); e viene da Vinegia che tutto il mondo gli andava drieto. Pensate, vi parrà udire uno dei discepoli di S. Francesco e rinascere. Tutti piagnavamo e stavamo stupefatti alla chiara verità che mostra altrui". In lettere successive Lapo invitava l'amico Francesco Datini a frequentare le prediche del B., "anche se bene ha costui diffetto che parla troppo presto e furibonda predica fa". Il Datini andò dal B., si lasciò consigliare, come del resto tanti altri possidenti, sul come testare in favore dei "poveri di Cristo", e gli rimase devoto, malgrado l'asprezza con cui era trattato: "Pregovi - gli scriveva il B. nel 1401 - vi guardiate l'anima come fate il corpo; e ispacciatevi di dirizzare si i traffici mondani, che questo brieve tempo il possiate dare a Dio tutto". Eppure, a dispetto dell'aggressività con cui, per dirla col Mazzei, "traeva l'anime vive dal corpo", orientando uomini inquieti verso la fede, il B. era in Firenze e nella Toscana tutta universalmente amato.

La stessa signoria si rese interprete del favore della città verso di lui. Il 2 giugno 1403 chiese l'íntervento del maestro generale dell'Ordine, Tommaso da Fermo, per averlo lettore nello Studio per un triennio; e subito dopo pregò il papa di imporre allo stesso la permanenza continua in città per cinque anni, "cum... praedicaverit verbum Dei tanta admiratione cunctorum quod ad se traxerit urbem totam, maximamque partem nostri populi converterit in vias Domini, ad poenitentiam videlicet et confessionem et ad alia plurima quae pertinent ad salutem...". Nello scritto accompagnatorio della supplica, che si crede vergato dallo stesso Salutati, l'elogio del frate continuava più fervido: "totus noster populus summe speculatur in religioso viro... Iohanne Dominici... non solum ob facundiae veliementiam quam sibi Deus mirabiliter tribuit, sed etiam integritatem vitae... Eius enim opera, per Dei gratiam, a via sua prava multi, conversi sunt, et quotidie crescit in Deum tendentium moltitudo", Di fronte a tanta insistenza, il B. non si arrese del tutto: abituato a viaggiare, a spostarsi di continuo, fors'anche per dar sfogo al suo carattere inquieto (fu anche, si crede nel 1401, in pellegrinaggio ai Luoghi Santi), insegnò nello Studio fiorentino solo saltuariamente, impegnato soprattutto nelle prediche che teneva, oltre che a Firenze, a Lucca, nelle Marche e in Romagna, e in una vasta rete di contatti privati. Divenne intimo di Carlo Malatesta di Rimini, e per suo conto fece anche un'ambasciata a Firenze. A Rimini risiedette più volte, e vi si trovava anzi nel dicembre dei 1403 quando fu colpito da una grave malattia.

Leonardo Dati, priore di S. Maria Novella, lo fece trasportare a Firenze da due frati e qui, per tre mesi, ebbe a che fare con "febri, sciloppi, medicine, fremma, collera, fianchi, pietra colica, renella, con loro sequele", come scrisse nel Trattato delle dieci questioni, composto proprio in quel periodo in risposta ai dubbi di una sua prediletta figlia spirituale, la nobildonna Bartolomea degli Obizzi, moglie infelice di Antonio Alberti. Questa operetta coglie il B. in un momento di "riposo", che forse riflette una tappa significativa nella sua vita: ormai, lentamente, si stava liberando dall'acre pessimismo seguito, per l'esilio, agli entusiasmi di conquista del periodo veneziano, e subentrava una più realistica visione del mondo in cui il moralista aveva sempre da agitare condanne,madove l'esperienza dell'uomo riconosceva con maggiore saggezza i limiti propri e altrui.

Non per questo tuttavia il suo giudizio sui mali del tempo si era fatto meno vigile, anzi, come risulta dalle opere scritte in questi anni, più lucido e severo. Nella Regola del governo di cura familiare, composta nel 1401-1403 per confortare Bartolomea rimasta "quasi vedova" e con quattro figli dopo il bando del marito da Firenze, aveva indicato nella rinascita della famiglia l'ancora di salvezza per la società del suo tempo: una famiglia che non fosse mera entità giuridica e patrimoniale, ma soprattutto luogo di educazione dei figli per Dio e per la patria: "allevarsi si debbono innamorati di giustizia, zelanti della repubblica, servi di Dio, continui oratori". Con questo scritto apriva la battaglia non tanto contro la cultura classica quanto contro una mentalità umanistica che, a suo modo di vedere, rompeva (quantunque il Salutati si sforzasse di negarlo) l'antica solidarietà dei valori umani con il bene supremo della salvezza. Continuò e approfondì la sua battaglia nella Lucula Noctis,l'opera, poderosa per vigore dialettico e copia di "auctoritates", che scrisse nel 1405 per confutare, a sostegno di Giovanni di Sanminiato, le argomentazioni del Salutati in favore della poesia e della cultura classica.

Dopo aver riassunto in dodici capitoli le tesi di Coluccio, le demolì nei restanti trentacinque, respingendone l'impostazione volontaristica e la fiducia in una fruttuosa o perlomeno non nociva convivenza tra fede e cultura. Il fervore della polemica lo portò all'impennata famosa: "Utilius est Christianis terram arare quam gentilium intendere libris", che tuttavia, prima che condanna sommaria della classicità da parte di un frate ottusamente sconfinante su un terreno che non gli competeva, deve essere vista come riflesso esacerbato di un giudizio pessimistico sul suo tempo: in altre epoche - argomenta il B. - fu possibile leggere gli scrittori pagani, quando c'era maggiore santità; non più nella sua. E con ciò indicava implicitamente nella rinascita religiosa la garanzia per ricuperare il valore strumentale e non assoluto della cultura e della umana civiltà.

Non furono comunque le sue concezioni di pedagogia e di cultura ad intaccare il favore che godeva presso i contemporanei. Il suo prestigio rimase intatto finché l'inserimento nelle lotte dello scisma d'Occidente non gli innalzò intorno un muro di odio. Il B. era sempre stato un fedele servitore della patria d'origine, in stretti rapporti con la signoria. Nell'ottobre 1406 fu scelto anche a predicare in S. Maria del Fiore, durante le cerimonie indette per festeggiare la vittoria su Pisa. Ma già in questo anno i suoi interessi stavano aprendosi ai grandi problemi religiosi e politici della Chiesa. Desiderava diventare (e sollecitò l'appoggio dell'ambasciatore fiorentino a Roma) cappellano pontificio: "Ho caro avere la licenza del S. Padre di potere andare pe' fatti della sua Signoria dovunque vedrò opportuno per lo suo onore e stato". L'occasione di influire concretamente nelle vicende dello scisma d'Occidente si presentò alla fine del 1406, alla morte di Innocenzo VII. Inviato a Roma come ambasciatore di Firenze per esortare i cardinali a ricomporre i dissidi, giunse - narra il Bruni - a conclave iniziato, ma riuscì ugualmente a farsi ascoltare attraverso una fenestella eccezionalmente aperta. Dopo l'elezione di Angelo Correr, suo intimo amico dai tempi in cui risiedeva a Venezia, tenne in concistoro un altro discorso sul tema dell'unità della Chiesa, ma non riuscì (o non volle?), com'era sollecitato, far cadere su Firenze la scelta della sede in cui l'incontro dei papi doveva avvenire: Gregorio e Benedetto XIII si impegnarono infatti per Savona. Allora la Signoria lo esonerò dall'incarico di ambasciatore, ma visto che il pontefice l'aveva trattenuto come consigliere presso di sé, non cessò dal blandirlo, premendo anche, nel 1407, per farlo eleggere arcivescovo di Ragusa. Tuttavia, non appena fu chiaro che l'incontro di Savona svaniva ("Illi - si difese Gregorio XII - locum defendunt, ego unionem quaero"), come dimostrava la creazione improvvisa, nella primavera del 1408, di quattro nuovi cardinali, tra cui il B., la reazione fiorentina contro Gregorio e il suo supposto consigliere divenne furibonda: "Num tu - condannò più tardi, per tutti, il Bracciolini - ab hypocritis eximes Ioannem illum Dominici ex ordine Praedicatorum... ?... Multa egit laude digna, ambitionem et inanem gloriam maxime insectabatur; ea ipsius erat denique bonitatis opinio ut omnis civitas eius monitis obtemperaret. At is, Gregorio ad Pontificatum assumpto,... ad Circes habitaculum divertens... corpus et animam immutavit... Cum caeteris hypocritis sentire coepit, et quod placebat hortari... Inita pontificis gratia... inprimis Gregorio auctor... fuit ne renuntiaret". Condanna sbrigativa, dettata da passione politica, spesso condivisa, ma anche spesso confutata dalla storiografia successiva. Ogni giudizio moralistico sull'uomo lascia comunque nel mistero il ruolo avuto dal B., le ragioni profonde che lo portarono a sostenere e anche a orientare Gregorio XII: lo spettro di una nuova Avignone? la sfiducia nelle vere intenzioni di Benedetto? la volontà di non abbandonare posizioni di potere in nome di una riforma da estendere alla Chiesa universale? Molte ipotesi si possono avanzare, ma è da escludere tassativamente ogni accusa di servilismo e ambizione. Appresa, nell'aprile del 1408, la notizia della sua nomina a cardinale di S. Sisto, così il B. scriveva alle sorelle del Corpus Christi di Venezia: "Ieri el papa santo me elesse con tre altri suoi cardinali; la quale degnità m'è convenuta accettare come Cristo la corona delle spine... Non sento sensitivamente di tale promozione alcuna allegrezza". L'accenno al Calvario non era retorico: l'odio scatenato contro di lui lo colpì nei suoi seguaci prediletti (i frati di S. Domenico di Fiesole costretti a fuggire per restargli fedeli; le monache del Corpus Christi minacciate di bando se non avessero accettato l'obbedienza al papa eletto al concilio di Pisa, Alessandro V) e lo costrinse a spostarsi di continuo, insidiato dal pugnale o dal veleno dei sicari, per seguire il suo papa e per cercare, nella generale ostilità dei governanti (ma fu sempre confortato dall'affetto di Carlo Malatesta di Rimini), qualche appoggio amichevole. Conciliaristi e fedeli di Benedetto XIII ingrossarono, nel contempo, unendosi ai delusi politici, il fiume d'ingiurie contro di lui. Si deve forse ai primi (per il Sauerland ne sarebbe autore probabile il notaio Pegaletti) la composizione di un libello diffamatorio, la Epistula Satanae, con data 21 apr. 1408, in cui il diavolo, innalzato polemicamente a campione della lotta antiscismatica, "consiglia" velenosamente il vescovo ragusino (vedila, con relativa Responsio del B., in Bibl. Apost. Vat., cod. Vat. Lat. 4000, ff. 175v-176; Borg. Lat. 214, ff. 22r-23). Alle pesanti accuse, echeggiate anche in una vasta produzione controversistica allora corrente, rispose sempre, e con fermezza, il B., ribadendo le ragioni della ostinata e quasi solitaria resistenza sua e del suo papa (cfr. lo stesso cod. Vat. Lat. 4000, e il 4192, e la nobile lettera scritta da Siena a un priore di Firenze il 7 ag. 1408, la cui copia fu subito conosciuta a Venezia tramite il vescovo domenicano Giovanni da Pozzo: Bibl. Marciana di Venezia, A. Morosini, Cronica,ms. Ital.,cl. VII, 2048, ff. 551-554). La tempesta non lo sommerse, né gli impegnò ogni energia: fu ancora capace, malgrado tutto, di preoccuparsi della riforma del clero e dei religiosi, stimolando, insieme col papa e con due cardinali veneziani, Antonio Correr e Gabriele Condulmer, il ritorno all'osservanza di vecchi Ordini e il formarsi di congregazioni nuove. Ai primi del 1409, andò legato papale presso Sigismondo d'Ungheria e Ladislao di Polonia per convincerli a restare nell'obbedienza di Roma, poi tornò in Italia, alla fine dello stesso anno, per assistere a Cividale del Friuli al concilio indetto da Gregorio XII. Quindi seguì il papa a Gaeta e a Rimini, dove forse, si stabilì per qualche anno. Mancano ulteriori notizie su di lui. Riappare alcuni anni dopo, in veste di legato al concilio apertosi a Costanza nel 1414. Fu accolto con tutti gli onori, e il 4 luglio 1415 convocò e convalidò il concilio, insinuando l'invalidità delle precedenti sessioni e riuscendo così a dimostrare che il vero e unico pastore della Chiesa era ancora Gregorio. E dopo che Carlo Malatesta lesse la bolla di rinuncia del papa veneziano, si dice che anche lui, l'ambizioso B., avesse abbandonato lo scanno della presidenza e deposto le insegne cardinalizie; ma tutti, prelati e imperatore, l'avrebbero forzato a rimanere. Fuor di leggenda, la riconquistata unità della Chiesa garantì al B. ogni prestigio e l'impiego in altissimi compiti. Il 10 luglio 1418 andò, legato di Martino V, presso Sigismondo e Venceslao di Boemia, per arginare l'eresia ussita. La gravità della rivolta, che si nutriva anche di spinte sociali, lo indusse a chiedere a Sigismondo una crociata cruenta, ma, inascoltato, il B. si ritirò a Buda, lasciando anche cadere, se pure gli fu proposto, l'incarico di una legazione in Grecia per favorire un ritorno degli scismatici nell'unità romana. Consumò nella solitudine e nella carità per i poveri gli ultimi mesi di vita. Si spense il 10 giugno 1419 e volle essere sepolto nella chiesa di S. Paolo (la tomba fu dispersa nel 1541 quando Buda cadde in mano turca). La fama della sua santità si diffuse ben presto e rimase viva attraverso i tempi, finché Gregorio XVI, nel 1832, lo proclamò beato. Scarsa, se si eccettuano le quattro edizioni cinquecentesche dei Libro d'amor di carità, fu la fortuna dei suoi scritti. Ebbe il primo ritratto dalla mano di un discepolo prediletto, il Beato Angelico, nel fiorentino capitolo di S. Marco.

Nella storiografia la figura del B. ha subìto una valutazione contrastante, ma prevalentemente negativa. A parte l'apologia costante che a partire da s. Antonino gli riservò il suo Ordine, l'immagine che di lui emerge dalla più autorevole critica, resta severa: un asceta negatore dell'umano, astratto tomista in sede di pensiero, educatore di anguste vedute, nemico della cultura classica e di quella nuova visione del mondo che trovava nell'umanista Salutati l'"araldo indiscusso", ottuso anche se non proprio maligno ispiratore della condotta antiunionistica di papa Gregorio XII. Pur nella validità almeno parziale di questi giudizi, la fisionomia del B., indagata nella sua profonda unità di vita e di pensiero, appare molto più ricca e complessa, al punto che si può riproporre una questione Banchini, cioè il problema di un uomo che fu "medievale" solo nello stile, ma talmente inserito nel suo tempo da esserne il giudice e l'anima inquieta. Le sue opere (oltre le notissime, come il Governo di cura familiare e la Lucula noctis, anche le sconosciute, specie lettere e sermoni, ancora inedite) appaiono infatti, nella realtà, indissolubilmente legate con le vicende della vita, e legate dovrebbero perciò restare anche nell'interpretazione. Il B. fu soprattutto un uomo di battaglia; tutti i suoi scritti (tranne, forse, il Libro d'amor di carità) sono scritti d'occasione, nacquero cioè come "risposta", talora pacata, più spesso violenta, a impulsi interiori o a suggestioni religioso-civili del suo tempo. In tal senso offrono, anche negli aspetti più polemici, un quadro quanto mai vivo della mentalità e del costume coevi. L'impegno fondamentale del B. resta quello del maestro e dell'educatore ansiosamente proteso verso la rinascita della vita religiosa e civile della sua epoca: "ars artium est regimen animarum", proclamò nella Lucula. Equi rivela, più o meno risolte, a seconda dei diversi momenti, le contraddizioni tipiche della spiritualità del suo tempo: l'ondeggiare tra la libertà del mistico e l'immobilismo del dogmatìco, il contrasto tra la formazione teologico-canonistìca, che gli veniva dalla tradizione dell'Ordine, e la tendenza, in nome di un evangelismo crudo, sull'esempio di Caterína, a bruciare ogni residuo umano, fosse cultura, fossero altri valori terreni, per ripristinare il dialogo diretto, perfino al di là della stessa mediazione gerarchica, tra l'anima e Dio. Su questa strada, fu portato a trasferire il suo rigorismo conventuale, e cioè quelle virtù del perfetto religioso, povertà (cfr. G. M. Löhr, Die Mendikantenarmut im Dominikanerorden in 14. Jahrh. nach den Schriften von Johannes von Dambach O. P. und Johannes Dominici O. P.,in Divus Thomas, XVIII [1940], pp. 385 ss.), obbedienza, castità, che egli imponeva ai seguaci (vedi soprattutto le lettere alle sorelle del Corpus Christi), anche nel lavoro d'educazione dei laici, sia presi singolarmente, sia in quanto associati nella vita della famiglia e della comunità civile, facendo risaltare, spesso e pessimisticamente, l'insufficiente garanzia che la vita del secolo offriva in ordine alla salvezza. Ma anche qui il giudizio deve essere graduato in rapporto alle diverse fasi della sua vita. Nel Libro d'amor dì carità, nato, come opera meditata e organica, dal fervido e quasi trionfale periodo veneziano, la critica ai vizi del suo tempo è solo un momento, per nulla arcigno, raramente indignato, del suo sentire (quando, ad esempio, alludendo agli affanni che soffre chi si mette in mare, chi espone la vita per conquistare il potere, ricchezze, esclama: "La cupidità del mondo ancora fa molti martiri, i quali, solo a danari dati o mondani tesori, combattono insino alla morte ed assai muoiono per quelli"; o denuncia le colpe delle sette diffuse in quegli anni, ivi compresa quella dei "falsi ipocriti fraticelli della opinione chiamati infra sé catolici frati di santo Francesco, ma in verità suoi nimici"). Mentre riesce più felice e costruttivo laddove insegna a essere "umili, reverenti al chiericato, servatori d'unità, obedienti alla romana sedia", e si diffonde, con una prosa ricca di Scrittura e lontana tanto dall'impersonale stile delle Summae teologico-canonistiche quanto dalla piatta casistica morale, sul come costruire in sé e riconoscere negli altri la virtù della carità: nel predicare, nel darsi alla profezia, nell'accostarsi alla scienza di Dio e a quella degli uomini, nel modo di credere, di beneficare il prossimo, di praticare le virtù, per arrivare alla "vision beata". Dopo l'esilio da Venezia, i suoi scritti, specie le lettere e i sermoni, offrono materia d'indubbio interesse per lo studio del moto dei Bianchi, dell'escatologismo tardomedievale, dei problemì di etica economica (che tuttavia impegnarono il B., più che sul terreno dottrinale, su quello pratico, per la grande influenza che ebbe sulla distribuzione di capitali a favore dei poveri, "inter vivos" o "mortis causa"), ma riflettono, nel loro pessimismo accentuato, un bisogno di rapido successo che li fa scadere dagli orizzonti della grande meditazione spirituale (tranne, forse, certe pagine del Trattato delle dieci questioni) per invischiarli nel moralismo spicciolo o in proteste violente. Oggetto quasi costante dei suoi attacchi sono i chierici, i religiosi, la stessa gerarchia. Nel Governo di cura familiare arriva persino a dire: "Non ricevere i sacramenti da chi è pubblico concubino o notorio, simoniaco", riecheggiando i termini della nota protesta patarina; per non citare altre sue critiche, che offrono, del resto, una descrizione quanto mai precisa delle condizioni del clero e delle chiese nel primo Quattrocento. Risente di questo mutato respiro umano del B. anche la parte costruttiva delle sue opere: donde l'autoritarismo intransigente del Governo di cura familiare (specchio felice della società colta nel segreto delle pareti domestiche, con il suo modo di nutrirsi, di vestire, di essere religiosa, di interpretare i rapporti reciproci) e l'ostilità, ma non indiscriminata, per la cultura, che anima la Lucula. L'atteggiamento del B. sul problema pedagogico e su quello della cultura è stato comunque troppo esaltato, da parte cattolica, e condannato, da parte laicista, per non meritare una più serena valutazione. Un riesame ugualmente sereno potrebbe essere inoltre riservato all'apporto teorico (con lo studio dei suoi scritti inediti) e pratico del B. alle lotte per lo scisma.

Opere: Per i codici esistenti delle opere edite e inedite del B. serve egregiamente l'opera dell'Orlandi. A noi basterà ricordare titoli ed edizioni. IlLibro d'amor di carità,stampato inizialmente a Siena (1513), Venezia (1545, 1556), Firenze (1595), ha avuto una buona edizione per opera di A. Ceruti, Bologna 1889. L'Iter Perusinum èstato pubblicato da F. Corner, Ecclesiae Venetae..., dec. I, Venetiis 1749, pp. 126-133, e da F. D. V. [Francesco di Valscura, Un viaggio a Perugia fatto e descritto dal Beato Giovanni Dominici nel 1395 con alcune sue lettere che non si leggono tra quelle de' Santi e Beati fiorentini, Bologna 1864, pp. 11-27. Un trattatello scritto dal B. forse nel 1401-2, An liceat fratribus predicatoribus in communi vel in particulari possessiones habere,è stato edito da R. Creytens, L'obligation des constitutions dominicaines d'après le B.-J. Dominici, O. P., in Archivum Fratrum Praedic.,XXIII(1953), pp. 195-235. La Regola del governo di cura familiare ha dovuto attendere fino al 1860 prima di vedere la luce a cura di D. Salvi, Firenze 1860. Fu ristampata poi, con ritocchi al testo per scopi divulgativi, da P. Bargellini, Città di Castello 1927. Il Trattato delle dieci questioni èstato edito recentemente dal Levasti, Firenze 1957; la Lucula Noctis,l'opera del B. più famosa, uscì per la prima volta a Parigi a cura di R. Coulon nel 1908. Preferibile tuttavia è l'edizione, dall'ottimo apparato critico, di E. Hunt, Notre Dame (Indiana) 1940 (cfr. anche B. L. Ullman, Studies in the Italian Renaissance,Roma 1955, pp. 257-277). Notevole fortuna hanno avuto le lettere scritte dal B., quasi tutte indirizzate alle suore del Corpus Christi di Venezia: 21 ne pubblica A. M. Biscioni, Lettere di santi e beati fiorentini,Firenze 1736 (ristampate nel vol. XXXVIII della Biblioteca scelta del Silvestri, Milano 1864), tradotte anche in francese a cura di A.-M. Festugière, in La Vie spirituelle,XXVI(1931), pp. 292-304; XXVII (1931), pp. 58-65; altre lettere sono pubblicate in F. Comer, Ecclesiae Venetae...,dec. I, dec. XI (che contiene il Chronicon di Tommaso di Antonio Caffarini, nel quale è riportata anche, in forma di lettera, una Vita del beato Marcolino da Forlì scritta dal B. nel 1397); in Salvi, Regola del governo...; e in Levasti, Trattato delle dieci questioni... (6 lettere a Bartolomea Alberti); due lettere a Elisabetta Lion, nobildonna veneziana, sulla necessità di adempiere i voti, si trovano in Tractatus de ordine FF. de paenitentia s. Dominici di F. Tommaso da Siena "Caffarini",a cura di M.-H. Laurent, Siena 1938, pp. 130-137. Si occupò delle lettere del B. con una minuziosa ricerca nelle biblioteche fiorentine G. G. Meersseman, il quale cedette il suo materiale a G. Pozzi-M. T. Casella per la preparazione del volume che è stato ora annunciato nello Spicilegium Friburgense, Lettere e trattatelli spirituali di Giovanni Dominici O. P. († 1419). Quasi tutte le prediche del B. (soprattutto Sermones de sanctis et de tempore)giacciono ancora inedite; esiste solo su di esse un acuto saggio di A. Galletti, Prediche inedite di Giovanni Dominici,in Miscellanea di studi critici pubblicati in onore di G. Mazzoni,I,Firenze 1907, pp. 253-278. Restano ancora inediti altri scritti, soprattutto derivanti dal suo insegnamento: due commenti al Magnificat e tre al Cantico dei Cantici,di cui uno perduto (G. Di Agresti, Considerazioni intorno a due scritti del B. Giovanni Dominici,in Memorie domenicane,LXXIX [1962], pp. 115-125); De conceptione beatissimae Genitricis Dei Mariae (che permetterebbero di studiare l'aspetto mariologico della spiritualità del B.); Itinerarium devotionis; Lectiones in Ecclesiastem. Affatto studiata, tranne qualche accenno (Galletti, Prediche inedite...,pp. 275-76; Prosatori volgari...,pp. 23-24), è la produzione poetica del B., che comprende alcune canzoni o laudi. Si discute se la famosa "Dì, Maria dolce, con quanto desio" appartenga a lui oppure a Iacopone. Inedita è anche la traduzione in volgare della Vita della beata Maria d'Oignies scritta da s. Vincenzo Ferreri.

Fonti e Bibl.: La più scrupolosa (anche se non esente da qualche inesattezza) ricostruzione della vita del B. si deve a S. Orlandi, "Necrologio" di S. Maria Novella, II, Firenze 1955, pp. 77-108, con una ricca bibliografia disposta per altro in ordine alfabetico d'autore e non, come sembra più utile, in progressione cronologica. Alla bibliografia dell'Orlandi ha aggiunto un Supplemento A. Levasti, in Appendice all'edizione da lui curata del Trattato delle dieci questioni e Lettere a Madonna Bartolomea, Firenze 1957, pp. 153 s. Giova consultare anche Prosatori volgari del Quattrocento,a cura di C. Varese, Milano-Napoli 1955, pp. 21-24. Aggiungo solo: I. Origo, The Merchant of Prato,London 1957; G. Zippel, La lettera del diavolo al clero dal secolo XII alla Riforma,in Bullett. d. Ist. stor. ital. per il M. E.,LXXVIII (1958), pp. 151-154; Codice diplomatico del monastero di S. Maria di Tremiti (1005-1237), a cura di A. Petrucci, I, Introduzione,Roma 1960, p. LXXXIII, che mostra il B. commendatario del beneficio citato fino alla morte (per cupidigia di rendite o per vigilare la riforma canonicale ivi ordinata da Gregorio XII?); The Council of Constance. The unification of the Church,a cura di L. Ropes Loomis, J. Hine Mundy, e K. M. Woody, New York-London 1961, passim; B. L. Ullmann, The humanism of Coluccio Salutati,Padova 1963, pp. 63-70. Per quanto riguarda l'interpretazione della figura, l'opera più completa, invecchiata ma non ancora sostituita, è quella di A. Rösler, Cardinal Johannes Dominici O. Pr. (1357-1419), ein Reformatorenbild aus der Zeit des grossen Schisma,Freiburg i. B. 1893 (vedi le critiche che gli muove, a proposito dell'atteggiamento del B. verso la cultura, F. Novati in Epistolario di Coluccio Salutati, IV, 1,Roma 1905, in Fonti per la storia d'Italia,18, pp. 205 ss.). Se negli studi seguiti al Rösler (per i quali si rimanda all'Orlandi e al Levasti) è stato maggiormente dibattuto il ruolo del B. nelle lotte per lo scisma d'Occidente (cfr. L. v. Pastor, Storia dei papi... ,I, Roma 1942, p. 184; P. Brezzi, Lo scisma d'occidente come problema italiano. La funzione italiana del Papato nel Periodo del grande scisma, in Miscellanea storica in memoria di P. Fedele,Roma 1946, pp. 391 ss.), in ricerche recentissime è stato lumeggiato quasi esclusivamente il suo apporto alla storia della cultura (vedi, ultimamente, E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, Firenze 1961, passim; e, per il problema pedagogico, Il pensiero pedagogico dell'Umanesimo, a cura di E. Garin, Firenze 1958, pp. XI-XXVIII).

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE