GIOVANNI di Ser Giovanni, detto lo Scheggia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 56 (2001)

GIOVANNI di Ser Giovanni, detto lo Scheggia

Laura Cavazzini

Nacque nel 1406 a Castel San Giovanni (l'odierna San Giovanni Valdarno), secondogenito di Jacopa e del notaio Giovanni; di cinque anni maggiore era il fratello Tommaso, il celebre pittore noto come Masaccio. È assai probabile che in realtà il vero nome di battesimo di G. fosse Vittorio, ben presto cambiato (secondo una prassi piuttosto diffusa in Toscana) in seguito alla morte del padre, avvenuta nell'anno stesso della sua nascita; lo si può dedurre dal fatto che in un documento pisano del 1426 ci si riferisce inequivocabilmente a G. come "Victorio vocato Johanni" (Tanfani Centofanti).

L'apprendistato di G. dovette compiersi a Firenze, nell'industriosa e affollata bottega di Bicci di Lorenzo, un pittore tradizionale, poco incline a quel linguaggio gotico che nei primi decenni del Quattrocento dominava con successo l'intera scena europea. Nel 1421 G., allora adolescente, riscosse in vece del capobottega un paio di acconti versati dall'ospedale di S. Maria Nuova (Beck, 1978, pp. 9-11). Ma la sua formazione proseguì in seguito accanto al fratello maggiore (che aveva anch'egli stabilito a Firenze residenza e attività), per conto del quale il 15 ott. 1426 si recava a Pisa, allo scopo di ricevere dalle mani di Giuliano di Colino degli Scarsi il cospicuo anticipo di 25 fiorini, relativo alla tavola da questo commissionata per la propria cappella nella chiesa del Carmine (Tanfani Centofanti). Al di là di questa circostanza contingente, sono le opere stesse di G. che dichiarano il senso profondo del rapporto con Masaccio. Nelle tavole e negli affreschi più antichi del suo catalogo è infatti evidente un debito sostanziale verso i modi del fratello: il monumentale S. Antonio Abate affrescato, insieme con dieci episodi della vita del santo, nell'oratorio di S. Lorenzo a San Giovanni Valdarno è così potentemente costruito a forti contrasti di luci e ombre da richiamare alla mente i protagonisti delle storie della cappella Brancacci, mentre la piccola Madonna del Museo Horne di Firenze (dipinta per un membro della famiglia Guicciardini, come palesa lo stemma raffigurato al centro del soffitto) nel rigoroso impianto architettonico rievoca la Trinità di S. Maria Novella. Ancora, il desco da parto del Museo Jacquemart-André di Parigi, dove è messa in scena la festa organizzata in occasione di una nascita, pare liberamente ma esplicitamente ispirato al tondo di Masaccio (Berlino, Gemäldegalerie): un'opera, questa, destinata al privato delle mura domestiche, che quindi poteva essere studiata (e imitata) solamente da chi avesse familiarità con la bottega dell'artefice che l'aveva ideata.

Se dell'esistenza di un fratello di Masaccio, pure lui pittore, dava già notizia Baldinucci, fino a tempi relativamente recenti pochissimo si sapeva della sua operosità. Non servì a far chiarezza in proposito nemmeno la scoperta sotto uno scialbo, nel 1903, di quella che ancor oggi rimane la sola opera firmata di G.: i resti di un affresco nel già ricordato oratorio di S. Lorenzo a San Giovanni Valdarno, datato 1457, e rappresentante il Martirio di s. Sebastiano, una figurazione purtroppo frammentaria e per di più in cattivo stato di conservazione.

Il merito di aver finalmente cominciato a chiarire molti aspetti del catalogo di G. si deve a Bellosi (1969), il quale s'avvide di come l'affresco di San Giovanni Valdarno s'accordasse perfettamente sul piano stilistico con un gruppo di opere che già da tempo alcuni storici dell'arte avevano individuato come coerenti e simili tra loro. Dipinti che Berenson riteneva di Francesco d'Antonio, nella fase tarda della sua carriera, mentre Longhi e Pudelko mantenevano nell'anonimato, creando i nomi convenzionali di Maestro del cassone Adimari (da una delle opere sue più notevoli alla Galleria dell'Accademia di Firenze) o di Maestro di Fucecchio (dall'ubicazione di una delle tavole di maggiori dimensioni del gruppo, la Madonna con Bambino e santi, Museo civico di Fucecchio, in provincia di Pisa).

Quando nel 1428 Masaccio morì, giovanissimo, mentre lavorava a Roma per il papa Martino V, G., che aveva 22 anni, si trovò costretto a organizzare autonomamente la propria professione, facendo a meno tanto della guida intellettuale quanto dell'appoggio logistico della bottega del fratello. Fu così che nel 1430 si iscrisse alla Compagnia di S. Luca, una sorta di società di mutua assistenza cui aderivano i pittori fiorentini (Frey); nel 1433 si immatricolò all'arte dei medici e speziali, che accoglieva per l'appunto anche i pittori, beneficiando di una forte riduzione sulla tassa proprio in virtù della sua parentela con Masaccio (Beck, 1978, pp. 11 s.); fin dal 1432, poi, si era affiliato all'arte dei maestri di pietra e legname, nelle cui matricole viene indicato come "forzerinaio e dipintore" (Bellosi - Haines, p. 38).

Un'annotazione, questa, che rivela come G., dimostrando al tempo stesso coscienza dei propri limiti e un ottimo fiuto per gli affari, aveva scelto fin da subito di ritagliarsi nel folto panorama della pittura fiorentina uno spazio particolare, specializzandosi nel campo della pittura profana per interni domestici. Cassoni, forzieri, spalliere, deschi da parto, lettucci, ritratti, colmi (anconette di devozione privata) costituiscono infatti il grosso del suo catalogo; opere nelle quali la scelta ricercata di soggetti letterari, spesso desunti dal mondo classico, la piacevolezza del racconto in costume, la profusione di oro, lacche e pigmenti preziosi e sgargianti finivano col prendere spesso il sopravvento sulla complessità dell'invenzione e sul livello più propriamente qualitativo. Non è escluso che a privilegiare proprio questo ramo del lavoro di pittore l'avesse in qualche modo ispirato il nonno paterno, Mone (Simone) di Andreuccio, che a Castel San Giovanni di mestiere faceva il "cassaio", era cioè un legnaiolo specializzato nella produzione di mobili (Procacci, 1932, p. 489).

Fu proprio con questa particolare attività che G. fu in grado di assicurarsi le commissioni di personaggi di primissimo piano, tra i quali, in ripetute occasioni, membri della famiglia de' Medici. Nel 1449 Piero di Cosimo de' Medici volle infatti che fosse G. a eseguire il desco da parto che doveva celebrare la nascita del proprio primogenito Lorenzo; l'orgoglioso padre desiderò che vi fosse raffigurato, oltre allo stemma di famiglia, un beneaugurante Trionfo della Fama (New York, Metropolitan Museum). E dovette essere assai apprezzata quell'opera in casa de' Medici se lo stesso Lorenzo, divenuto adulto, si sarebbe rivolto a G. per realizzare i pannelli dipinti della boiserie della propria stanza nel palazzo michelozziano dell'allora via Larga.

L'intera decorazione è andata purtroppo distrutta, ma gli inventari di palazzo ne conservano il ricordo puntuale insieme con il nome di chi eseguì le parti istoriate. Doveva essere un sontuoso insieme di legni intagliati, intarsiati e dipinti, con lo scopo di eternare visivamente la magnifica giostra (o torneo cavalleresco) organizzata da Lorenzo in piazza S. Croce nel 1469.

La camera del Magnifico dovette certo spiccare in città per il lusso e la ricchezza dei decori, ma non costituì un'eccezione per un pittore di mobili quale era G. trovarsi a coordinare il proprio lavoro con quello dei falegnami (che degli arredi delle stanze e del relativo mobilio componevano la struttura) e degli intarsiatori, cui, quando non veniva affidata parte della figurazione, si chiedeva di realizzare quantomeno basi e cornici a motivi geometrici.

Da una simile dimestichezza con l'ambiente degli artefici della lavorazione del legno era scaturito probabilmente il coinvolgimento di G. nell'esecuzione degli armadi intarsiati della sagrestia delle messe nel duomo fiorentino (1436-39), come prova la cospicua documentazione rinvenuta da Haines (1983).

Fu questa una tappa fondamentale nella storia di un tale genere di decorazione, che vide la messa in opera dei primi intarsi ideati secondo le regole della prospettiva matematica; e non v'è dubbio che tale progetto nascesse sotto l'egida di Filippo Brunelleschi che, in qualità di capomastro della cattedrale, sovrintendeva anche ai lavori delle due sagrestie. Vien fatto perciò di pensare che la parentela con Masaccio, che in vita doveva avere assiduamente frequentato il grande architetto, avesse favorito in qualche modo G. nell'assegnazione di questo prestigioso incarico, che lo vide responsabile dell'elaborazione dei cartoni relativi alla parete sudest. Un altro attestato della familiarità di G. col mondo degli intarsiatori viene da un cassone in collezione privata (Bellosi - Haines, p. 87), probabilmente quel che resta di una coppia di cofani nuziali, che reca lo stemma della famiglia fiorentina dei Peruzzi, cui fanno cornice quattro paffuti spiritelli in tutto simili a quelli che popolano i pannelli della sagrestia delle messe in S. Maria del Fiore.

Se l'occupazione privilegiata di G., quella che gli assicurò la fama e una certa prosperità, fu dunque la fornitura di oggetti e mobili destinati all'intimità domestica, egli non abbandonò mai del tutto la realizzazione di opere in scala più monumentale (pale d'altare e affreschi), incontrando tuttavia in questo campo solo il favore del pubblico più provinciale. È in particolare dalla natia San Giovanni - dove mantenne sempre attivi i propri affari, vendendo e comprando a più riprese terreni (Procacci, 1984, p. 239) - che per tutta la lunga carriera continuarono ad arrivargli significative commissioni per pale, affreschi e perfino per le ante di un organo, eseguite in collaborazione con Paolo di Stefano Badaloni, detto Paolo Schiavo, ancora per l'oratorio di S. Lorenzo, con Cori angelici (San Giovanni Valdarno, Museo della Basilica di S. Maria delle Grazie).

Questa produzione dimostra, non meno dei tanti tabernacoli di devozione privata, cassoni o spalliere, come G., avendo perduto con la morte prematura del fratello il proprio punto di riferimento pittorico, seppe comunque trovare altre fonti di ispirazione, bene orientandosi tra quei pittori che a Firenze avevano con più intelligenza assimilato e riproposto la lezione di Masaccio. È evidente, per esempio, che la messa in scena dell'Annunciazione (affresco staccato) di Badia a Soffena (Arezzo) è ispirata alle numerose varianti che diede di questo soggetto Beato Angelico (Guido di Pietro). E, ancora, G. sembrò rendere un esplicito omaggio, sebbene un po' sgraziato, alla Madonna del Tabernacolo dei linaioli (commissionato al domenicano nel 1433 e consegnato nel 1436) nella Madonna col Bambino (Museo della Basilica di S. Maria delle Grazie a San Giovanni Valdarno). Qui il roseto alle spalle del gruppo divino arieggia però una soluzione particolarmente cara a Domenico Veneziano (Domenico di Bartolomeo da Venezia), un pittore il cui limpido nitore prospettico dovette entusiasmare G. nel corso del quinto decennio del Quattrocento, ispirandogli anche la cristallina parata di cavalieri che scintilla di luce ai raggi del sole nel già ricordato desco realizzato in onore di Lorenzo de' Medici. Una vera e propria citazione da Domenico sembra poi il Gesù Bambino nudo, intento a infilare le manine nello scollo della madre, ma distratto dall'angioletto che suona alle sue spalle, nella graziosa tavola del Musée du Petit-Palais di Avignone: una soluzione praticamente identica a quella inventata dal Veneziano per il gruppo centrale della pala della cappella di S. Lucia dei Magnoli (Uffizi). Anche su Filippo Lippi, seppure più superficialmente, si posa lo sguardo di G., come rivela nel modo più eloquente la Madonna col Bambino del Musée Fabre di Montpellier: non solo nella preziosa nicchia composta di marmi policromi, ma anche nella dolcezza languida del volto della Vergine. Lo sfoggio ostentato di cornici a cubi e prismi in prospettiva, di troni tempestati di punte di diamante, di aureole in arditi scorci (tutti aspetti connessi ai suoi rapporti col mondo dei maestri di tarsia e con le esigenze di spigolosa esattezza che quel genere richiedeva ai pittori) indicano poi un'innegabile affinità con Paolo Uccello (Paolo di Dono), che a questo genere di esercizi si dedicò, stando al racconto di Vasari, con concentrazione quasi maniacale.

La carriera di G. fu straordinariamente lunga, protraendosi fino agli anni estremi della sua longeva esistenza, tanto che ancora nella portata al Catasto del 1480, quando aveva ormai 74 anni, dichiarava di tenere una bottega a pigione, e di condividerla col ricamatore Luca di Pietro. Ciò dovette portare a un rapporto di collaborazione tra i due che, con ogni probabilità, non andò molto più in là della pittura di un cataletto per la Compagnia di S. Zanobi presso S. Maria del Fiore, perduto, ma documentato da un pagamento del 1473 (Bellosi - Haines, pp. 62, 67).

Nelle ultime prove sopravvissute di G. pare comunque di scorgere un sia pur timido interesse per la nuova generazione dei pittori di età laurenziana: un aggiornamento, questo, che potrebbe essere stato sollecitato dall'ingresso nell'impresa paterna del figlio Antonfrancesco (nato nel 1441 e morto nel 1476), che diversi documenti attestano al lavoro al fianco di G. nel corso del settimo e ottavo decennio del secolo (ibid., pp. 59-62).

Il suo probabile intervento è stato riconosciuto da Bellosi (ibid., pp. 75, 95) in una delle due fronti di cassone nel Museu de art de Catalunya di Barcellona raffigurante le Virtù, e in quattro trionfi petrarcheschi della Pinacoteca nazionale di Siena, che dovevano originariamente far parte della decorazione di una spalliera.

G. morì nel 1486 a Firenze e fu sepolto il primo novembre nella chiesa di S. Croce (ibid., p. 64).

Il mestiere di famiglia (così come il soprannome Scheggia) fu trasmesso ai discendenti di Antonfrancesco: il figlio, Giovanni, e il nipote, per il quale s'era voluto recuperare il nome del prozio, Tommaso (ibid., p. 64).

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