DOLFIN, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 40 (1991)

DOLFIN, Giovanni

Gino Benzoni

Terzo degli otto figli maschi - dei quali, peraltro, almeno due morirono in tenerissima età - di Giuseppe di Benedetto e di Maria di Dionigi Contarini, nacque a Venezia il 15 dic. 1545.

D'un qualche rilievo la carriera pubblica del padre Giuseppe (1521-1585), che risulta governatore di nave, provveditore al Sale, alle Biave, alle Entrate, sopra gli Atti, nonché membro del Senato e del Consiglio dei dieci. Ma più inciso è il profilo d'operatore economico di Giuseppe sia sul versante della proprietà fondiaria sia su quello imprenditoriale e mercantile, ché svolge, ampiamente e sistematicamente, quella compresenza d'interessi terrieri e commerciali già individuabile nel padre (e nonno, dunque, del D.) Benetto o Benedetto di Daniele (forse identificabile con quel consigliere ducale che, nel 1527, aveva caldeggiato un criterio meno rigido nell'applicazione della proibizione di più membri dello stesso clan familiare nelle commissioni, suggerendolo valido solo nel caso di strettissima parentela: R. Finlay, La vita politica nella Venezia del Rinascimento, Milano 1982, pp. 139 ss.), il quale, nel 1516, ha a che fare tanto col "viazo di Barberia" e colla "scala" di Tunisi quanto coll'affitto di "possession de la Signoria" in "quel di Lendinara", dove i Dolfin si sono già insediati nel XV secolo. Proprietario d'un palazzo nel centro di Fratta (ora istituto don Guanella) - vistoso segno della presenza dei Dolfin anche di altri rami nella zona, attestata contemporaneamente a Lendinara da un elegante edificio progettato, pare, da Sansovino e da un articolato "casamento" nei pressi, in località Braia (Palladio e il palladianesimo in Polesine, Rovigo 1984, pp. 24, 28, 112 n. 7) - nonché, stando al testamento del 1º ag. 1575, di "terre et case et il passo del Pavolin et la Pichera et Bagnacavala sì dentro d'arzeni come di fuora ... et altre grave", Giuseppe è interessato, attorno al 1556, a gestire "o per via di compreda over a livello" il "lago Precono", è presidente del consorzio di bonifica Pincara Bagnacavallo (diretto il suo interesse di proprietario: a Pincara, dove era già presente suo padre Benedetto, acquista terreni soprattutto il 22 marzo 1556, mentre una "composition" tra lui e un cittadino bresciano dell'8 nov. 1542 lo mostra, già da allora, impegnato nell'"intestar in alcuni arzeri" nel "luogo detto Bagnacavalla"), è fautore, nel 1582, d'un canale collettore per ridurre a coltura 250 campi (e prima di lui un Girolamo Dolfin s'è fatto promotore, nel 1557, d'un "ritratto" nella valle di S. Biasio presso Lendinara; F. Braudel, Civiltà e imperi..., I, Torino 1976, p. 67). Del pari ragguardevole il suo giro d'affari come trafficante in legname e, soprattutto, in coralli. Attorno al 1560 egli ed i suoi soci sono attivi ad Alessandria, con sei atti di vendita per un valore complessivo di 200.000 ducati. È però congiunturalmente sfortunato, ché i suoi interessi vengono simultaneamente colpiti con estrema durezza dalla storia e dalla natura: durante la guerra veneto-turca i suoi carichi di coralli vengono sequestrati, assieme a due suoi figli, ad Alessandria, mentre qualche anno dopo un'inondazione del Po gli toglie "tutti li sementi", Un tremendo colpo quello commerciale per il padre del D., già fiero delle "grossissime facende al viazo d'Alessandria", già orgoglioso dei "boni uteli" ricavati dalla "botega de legname", che sommati coi rilevantissimi "guadagni", appunto, della mercatura, gli avevano permesso d'accasare onorevolmente ben "cinque fiole" (e precisamente: Lucia, nel 1559, con Imperiale Contarini di Alessandro; Orsa, nel 1562, con Alvise Cappello di Pietro; Fiordalisa, nel 1565, con Marcantonio Longo di Antonio; Cecilia, che rimasta vedova si sposa nel 1578 con Gian Alvise Soranzo di Francesco, nel 1568, con Alvise Mocenigo di Pietro; Elisabetta, nel 1573, con Girolamo Querini di Francesco). Donde la disastrosa contrazione della sua attività che lo costringe a supplicare, nel 1577, un sostanzioso alleggerimento del trattamento fiscale - 50 ducati di tassa e 20 "d'aggionto alla decima" - riserbatogli dagli "ultimi tansadori". Mi "sono ridotto - lamenta Giuseppe - in stato che non solo non ho potuto continuare le mercantie, ma, per pagar li molti debiti, ... ho desfato a poco a poco la bottega et poi venduta affatto", essendo anco costretto a "vender molti terreni", senza, per questo, sanare del tutto la sua pesantissima situazione debitoria. Sintomatico, comunque, che, per fronteggiarla, venduto tutto il legname, venda pure il magazzino, rinunciando, nel contempo, ad ogni rischio in mare, facendo, invece, leva - per risollevarsi - sulla, peraltro assottigliata, proprietà fondiaria. È grazie a questa - per la costituzione della quale Giuseppe ha diluito nel tempo gli investimenti in denaro sì da versare, di volta in volta, cifre di più modesta entità rispetto a quelle destinate alla mercatura: 500 ducati, ad esempio, gli è costato, il 27 marzo 1546, l'acquisto da Scipione Pincaro del "pedaggio e ospizio dei Pavolin con 8 stazi di terreno nel territorio di Rovigo in villa detta Pincara loco detto il Pavolin", il possesso del cui "passo", peraltro, lo mette in contrasto coi Diedo vantanti "dirito" sopra il "passo, della Canda" - che può provvedere al mantenimento dei "sei fioli maschi", che può pensare d'accasare pure le "altre tre fiole" ancora nubili. La sicurezza, insomma, viene dalla terra. E sono, infatti, i raccolti, i "cavali", le "vache" che il padre del D. raccomanda nel suo ultimo testamento del 30 luglio 1583. Dei suoi figli solo il primogenito Benedetto o Benetto (1548-1603) continua a guardare al mare, tant'è che, alla fine del Cinquecento Giorgio Vlasto della Canea acquista, per suo conto, un vascello (così appare da una decisione, del 12 giugno 1596, del Consiglio dei dodici, dove Vlasto viene nominato "patron" dell'imbarcazione, dato il rifiuto d'assumere l'incarico di Giovanni de Marco, in Venezia, Archivio di Stato, Bailo, reg. 382). Ma il fatto che lo stesso venga sepolto nella chiesa di S. Agostino a Bovolenta ci dice che pure egli non s'è sottratto, alla fine della vita, alla calamitante attrazione - dilagante allora nel patriziato lagunare - della campagna.

Quanto al D., l'accurata istruzione cesellata dalla laurea patavina in utroque iure dà l'impressione che il padre Giuseppe abbia soprattutto puntato su di lui per una prestigiosa affermazione pubblica, a costo di sacrificare la sua presunta - e in seguito vantata - timida "inclinatione alla vita ecclesiastica". Tra i quaranta giovani patrizi indossanti "una romana d'ormesino di color rovano cangiante con le maniche lunge..., con li doppioni di velluto nero" destinati al servizio d'Enrico III di Valois durante la sua sontuosissima comparsa lagunare del 18-27 luglio 1574, il D. non va, però, confuso - com'è stato fatto - col contemporaneo GiovanniDolfin (1543-1592) di Marco (1514-1568).

È quest'omonimo, infatti, non il D., che, già provveditore a Peschiera, si distingue nel rettorato di Belluno - dove entra il 16 ott. 1575 per rimanervi sino a tutto l'aprile del 1577 - sbarrando, con drastici provvedimenti isolanti la città e il territorio, il passo alla peste che, invece, si fa sentire nel Feltrino. Ma i provveditori alla Sanità - preoccupati che l'interruzione, da lui decretata, d'ogni rapporto commerciale con Feltre e il suo contado impedisca a questi un minimo di vettovagliamento - gli ingiungono, il 18 ag. 1576, la revoca di disposizioni tanto severe sicché debba "subito, per publico proclama, liberar" Belluno e il Bellunese dall'"interdetto", riattivando, sia pure "con le debite fedi di sanità", il "praticar et negotiar" colla contigua Feltre, ripristinando quindi la circolazione di "mercantie et vettovaglie come... per innanti". Apprezzata, ad ogni modo, dalla popolazione a lui sottoposta l'energia di Giovanni Dolfin nella sua lotta - coadiuvata dal vicario Alessandro Cremona e dal "fisico" comunale Agostino Abbioso - contro il morbo, a causa del quale muoiono solo alcuni "secretamente" infiltratisi da Venezia a Bribano, dove, peraltro, grazie al suo pronto intervento, l'epidemia viene del pari circoscritta e soffocata. Contrastato, di contro, il suo operato quando, trascurando il parere dei quattro consoli statutariamente previsto, pretende, in un processo criminale, di condannare a suo esclusivo giudizio. Donde - con suo smacco - l'intromissione della sentenza da parte dell'avogador di Comun Niccolò Barbarigo e il successivo "taglio" della Quarantia criminal. Né migliore sorte arride al suo incanto, con "capitoli" da lui stesso formati, del dazio del vino, di per sé di spettanza del Consiglio cittadino, ai cui otto "statutari" compete, inoltre, la stesura dei relativi "capitoli". Nel ricorso contro siffatta indebita ingerenza gli si dà, infatti, torto imponendogli, appunto, la "retrattatione" dell'incanto e il "reincantar" sulla base dei "capitoli fatti dalli statutari". In entrambi i casi - la sentenza poi "tagliata", l'incanto poi revocato - Giovanni Dolfin esprime un atteggiamento d'insofferenza nei confronti dei "privilegi" e delle consuetudini locali che non è solo autoritarismo temperamentale, ma è pure impulso ad un decidere rapido e tempestivo il quale, laddove tende a scavalcare le remore consuetudinarie, riflette, forse, un'esigenza d'ammodernamento non estranea a suggestioni, teoriche e pratiche, provenienti da forme e contenuti dell'esercizio del comando altrove in atto. Ed è, infine, lo stesso già rettore a Belluno - e quindi non il D. - a promuovere, il 20 luglio 1587, un processo per invalidare un "acquisto" effettuato da Bernardo Zane di "affitti di case" di sua "ragione".

È il D., invece, che - dopo essere stato savio agli Ordini, magistrato al Cottimo, provveditore alle Pompe, senatore, savio di Terraferma - viene eletto, il 7 apr. 1584, ambasciatore in Francia. Una volta specificata, il 29 agosto, la commissione, il D. si mette in viaggio raggiungendo alla fine di settembre la corte.

S'ingegna, quindi, in un'atomosfera satura di sospetti, intorbidata da manovre, sottesa di odi viscerali, minacciata dal tracollo finanziario, resa convulsa dalla frenetica ridda di voci e dalle contraddittorie notizie sull'andamento militare, sulle mosse in atto e preparazione, coll'assiduo contatto cogli altri rappresentanti, coll'avvertita frequentazione dei protagonisti, colle confidenze dei personaggi di minor conto, di controllare il flusso delle informazioni, di individuarvi una possibile direzione, di intuirne il possibile senso. Percepisce, comunque, il delinearsi, sia pure contorto e accompagnato da momenti di fervida preghiera, di aspri digiuni, di mistici rapimenti, della volontà d'Enrico III - la cui intensa devozione il D. valuta politicamente, registrando altresì l'influenza sul re del gesuita Edmond Augier, figura anomala rispetto all'oltranzismo leghista dei suoi confratelli - di distacco sempre più accentuato dai Guisa, man mano che cresce nel sovrano la consapevolezza questi siano tramite della nefasta penetrazione spagnola, fungano da strumento per le mire di Filippo II che, "per natura", è "male affetto alla natione francese et, per interesse di Stato", è "molto inimico alla grandezza di questa amplissima corona". Il D. capisce che il re vuol procedere per suo conto, a costo di non venire approvato dalla madre Caterina la quale, per parte sua, cova velleità di svolgere, a sua volta, una propria politica. Tant'è - rimarca il D. - che essa "procura con ogni studio possibile che, quando li ambasciatori vano all'udienza" del figlio, separatamente "vadino ancora da lei". Il dato di fondo è, tuttavia, la "prudenza meravigliosa" di Enrico III che da un lato, con estrinseche esibizioni di intransigenza, si comporta come colui che solo brama di proseguire ad oltranza la lotta contro gli ugonotti, dall'altro nutre intimamente "inclinatione grande alla pace" con questi. Donde la "dissolutione dell'accordato" con "li signori di Guisa". Non si tratta solo di abili mosse, di doppiezza astuta. Si ravvisa nel re una crescente consapevolezza della propria dignità non più disposta a tollerare "iniurie" gravemente lesive. Sempre più esplicita, pertanto, nel sovrano, la volontà d'un'assunzione piena del comando. Di qui il rifiuto di "pubblicar la bolla In coena Domini", di qui lo "strangolamento" del teologo troppo ciarliero, ispiratore di prediche irriguardose, di qui l'energia contro quanti, anche dal pulpito, "han parlato licentiosamente" della "persona sua", hanno sparlato di lui e del suo favorito duca d'Epernon. Nel contempo non sfugge al D. come, man mano che Enrico III tende a rendere effettiva la sua sovranità, aumenti, del pari, la sua impopolarità, monti dal basso l'odio contro di lui.

Lasciata, nel gennaio del 1588, la Francia e rientrato a Venezia, il D. vi viene designato, il 5 ag. 1589, rappresentante della Serenissima presso l'imperatore. Munito delle istruzioni contenute nella commissione del 3 marzo 1590, il D., passando per Trento, ove si trattiene in attesa dei bagagli, e per Innsbruck, arriva, il 26 aprile, a Praga, venendovi ricevuto l'8 maggio da Rodolfo II, il cui cattivo stato di salute risulta preoccupante "in questi presenti tempi ne' quali si vede il mondo tutto in tanto moto et li prencipi heretici" più forti che "in passato".

Smentita, per fortuna, la presunta "regola del numero ternario", a detta della quale, essendo morti Ferdinando e Massimiliano rispettivamente dopo nove e dodici anni di regno, toccherebbe questa volta, ora che s'approssima al quindicesimo, a Rodolfo II di confermarla. Ma egli si ristabilisce non senza disdoro - osserva il D. - di quanti "fondano li loro giudizi sopra cose simili".

Certo che l'imperatore - anche quando è fisicamente in forma - non è l'interlocutore dell'attività diplomatica del D.; è, infatti, incline a disertare le noie della politica, cui preferisce la "ricreatione", specie i "piaceri della caccia". Né, d'altra parte, Praga dà al D. l'impressione d'essere autentico centro decisionale emanante direttive a tutto l'Impero. Sembra, invece, quasi passiva cassa di risonanza d'"avisi" e "nove" provenienti alla rinfusa da ogni parte. Vanno e vengono i corrieri, s'incrociano le lettere, interferiscono le missive, mentre pare manchi chi voglia e sappia decidere.

Il D. ha un bel protestare per le malefatte uscocche; la colpa, gli si fa capire, è di Graz. Ciò non toglie la corte sia ben più sensibile alle lamentele arciducali per le ritorsioni venete che sdegnata per le azioni piratesche che le hanno provocate. Scettico, pertanto, il D. nei confronti delle escogitazioni, di fatto tergiversanti, del "consiglio di Stato"; senza seguito, infatti, le "deliberazioni" di "questi ministri". Inutile, a veder del D., la costituzione a Segna d'un "presidio" di "paesani" impegnati a "viver come si deve", se il "nuovo governator" di quella non sarà inderogabilmente tenuto a "risponder colla sua roba e vita" delle "tristezze et ruberie" degli abitanti. In caso contrario, non c'è che l'irritante balletto del palleggio delle responsabilità nel traccheggio di dichiarazioni, ipocritamente generiche, di buona volontà. In effetti - nell'assenza d'un preciso punto di riferimento, nello sfaldarsi della stessa dimensione del comando - campeggia surrogatoria l'intensificazione del rilancio della notizia successiva alla ricezione di questo o quell'"aviso". E al D. non resta che riportare, a sua volta, quel che si dice, quel che s'è scritto, quel che s'è "inteso".

Nella latitanza dell'imperatore - "non ha trattato da 50 giorni in qua alcun negotio", scrive il D. il 16 apr. 1591 - i suoi dispacci si fanno, a loro volta, evanescenti o, suo malgrado, pettegoli. D'un qualche interesse la lettera del 3 sett. 1591, ove il D. trasmette una raccomandazione del ministro cesareo Giacomo Curzio a favore di T. Brahe - "il primo huomo del mondo" nella matematica - che anche Venezia dovrebbe aiutare, con rilevazioni in loco, nella grandiosa impresa avviata "in diverse parti del mondo per prender le misure della longhezza et larghezza del polo". Compito del D., che all'uopo si reca anche a Vienna, "stabilire qualche buon ordine" per regolarizzare l'invio a Venezia di "formenti" e "bovini" nel rispetto dei quantitativi pattuiti o, se ciò non si verifica, quanto meno nella fissazione d'un congruo risarcimento. Deve, però, per pretendere condizioni vantaggiose, fugare con energiche smentite la voce - a Praga dilagante - Venezia non abbia, per i suoi rifornimenti specie di carne, altri a chi rivolgersi che le terre imperiali, dalle quali, allora, dipenderebbe totalmente per "provvedere alli bisogni suoi". Venezia, argomenta il D., può rifornirsi altrimenti. Sarà, in tal caso, l'imperatorre a subirne "gran danno per la perdita di tanti utili che ne ricava". Ad ogni modo l'approvvigionamento della sua città cruccia il D. e, "parendogli sia bene a questi tempi pensare et udir tutti quelli che parlano attorno a materia così importante", il 17 dic. 1591 trasmette una "suplica" del medico francese Nicolò Barnaval richiedente, in questa, sia concessa a lui e ai suoi "partecipi" l'apertura, a Venezia, di quattro "pistorie" per "far pane di fromento et d'altre biade ... bello ... ben levato ... ben cotto ... nutritivo digestibile ... buono". In cambio della concessione, il "phisico" promette di "dar agli sudditi" veneziani il "5% di multiplico sopra il pane che ordinariamente si usa, cioè sopra ogni libra di pane dar meza onza et un quarto di più".

Purtroppo, a partire dal settembre del 1592, il D. è afflitto da "mal di vertigine", da "debolezza di testa" e, a partire dal marzo del 1593, s'aggiungono prostranti forti febbri. Vanamente s'affanna al suo capezzale lo stesso medico dell'imperatore, il lucchese Pietro Simone Simoni. Opportuna, pertanto, la "dicenza" di rimpatrio recatagli, in giugno, dal nipote Alessandro Contarini (1560-1610), figlio della sorella Lucia. "Posto - così il segretario Giacomo Vendramin - in carrozza a coltra et lenzuola a punto come stava nella sua camera", il D. solo il 27 luglio può partire da Praga arrivando - così giacente - a Venezia entro l'inizio di settembre.

Eletto, con Vincenzo Gradenigo, l'11 maggio 1594, ambasciatore straordinario ad Enrico IV, il D., ricevuta la commissione del 6 ottobre, si mette in viaggio, alla fine del mese, col collega e col neoambasciatore ordinario Pietro Duodo e - passando per Milano, Grenoble, Lione Nevers, Orleans - giunge a Parigi il 30 genn. 1595.

Seguono alla trionfale accoglienza le due udienze del 3 e 9 febbraio, in entrambe le quali ad Enrico IV - professante, grato del riconoscimento veneziano al suo insediamento, grande amicizia per la Repubblica - il D. eloquentemente attesta la "somma affezione ed osservanza" venete. Ed è nella seconda udienza che il sovrano, sapendolo designato ambasciatore a Roma, gli raccomanda di testimoniarvi la sua "buon volontà" verso la Santa Sede, che, "per rispetto degli Spagnuoli", non s'è ancora decisa ad "approvare" la sua incoronazione. Ad ogni buon conto Enrico IV precisa che si sente "giovane", quindi "più forte", quindi "più gagliardo" di Filippo II, suo irriducibile nemico anche perché succube del "consiglio dei gesuiti".

Rientrato, per la Lorena e la Germania, a Venezia, il D., ottenuta la commissione del 5 settembre, ne riparte alla volta di Roma, dove arriva il 19 ottobre venendo, il 24, presentato al pontefice dal suo predecessore P. Paruta. Tante le questoni vecchie e nuove sul tappeto: il "negotio" di Ceneda; la "libera estrattion" delle "entrate" dei sudditi veneti in Romania; l'accrescimento dei privilegi del primicerio di S. Marco; la giurisdizione adriatica per colpa della quale, protesta la Santa Sede, resta, tra l'altro, "travagliato et impedito" il "commercio d'Ancona"; il conferimento di vescovati ed abbazie veneti a sudditi della Serenissima; il ripristino delle condizioni di favore ai corrieri veneti nel "viaggio di Bologna"; l'acquisizione effettiva della "libraria" donata alla Serenissima da Aldo Manuzio; la fissazione di "confine notabile fra lo Stato" veneziano e "quello", inglobato dal papa, di Ferrara; le "pretensioni" sul "castello di Bossiglina" dell'arrogante vescovo di Traù Antonio Guidi; il veneziano fontego dei Tedeschi, dal quale, checché dica Clemente VIII, non proviene "alcun scandalo"; la sospensione della scomunica inflitta ad Antonio Cavalli, capitano della cavalleria a Candia, dal vescovo sostituto Giovan Pietro Fortiguerra; la difesa, di contro al papa accusante Venezia di "tener le mani alla cintola", della rigorosa neutralità adottata nei confronti della guerra turco-imperiale, nella quale, invece, Clemente VIII profonde continuamente denaro senza frutto ché, a suo stesso dire, Rodolfo II è totalmente inetto; la "revocatione delli motu proprii" d'esclusiva di stampa a danno delle tipografie lagunari. Particolarmente convinto, da parte del D. ("entend fort bien l'etat de la France" assicura, il 16 luglio 1596, a Nicolas de Neufville signore di Villeroi il futuro cardinale Arnauld d'Ossat; fervida la sua "afection" per la Francia, concorderà l'ambasciatore Philippe de Béthune; ha "le coeur tout français" ne dedurrà Amelot de la Houssaye), l'incoraggiamento alla svolta impressa da Clemente VIII coll'assoluzione, del 17 sett. 1595, d'Enrico IV, per la quale continua ad elogiare il pontefice mettendolo parallelamente in guardia nei confronti della non dismessa intransigenza spagnola.

Continui e spesso anche gravi i motivi d'attrito tra la Santa Sede e la Serenissima, epperò smussati abilmente e duttilmente dal D. che si guadagna così - con suo morbido atteggiamento - la simpatia del papa. Ai frequenti scoppi di furore di questo egli sa, infatti, sempre "rispondere con modesta maniera", avendo, nel contempo, l'avvertenza d'attendere - prima di replicare - che l'ira sbollisca, lasciandolo, appunto, "acquetar un poco". E solo a questo punto entra nel merito argomentando pacato sì da renderlo "addolcito", sino, a volte, a convincerlo quasi "vinto - si vanta - dalle ragioni introdotte da me". Né il D. sa solo ammansire il pontefice. È anche capace di commuoverlo, come quando (per ringraziarlo dell'elevazione alla porpora dei tre veneti Lorenzo Priuli, Francesco Mantica e Francesco Corner nella creazione di sedici cardinali del 5 giugno 1596), anziché profondersi in parole, si pone "in genochi avanti a lui", rialzandosi solo dopo ripetute sollecitazioni.

Partito da Roma attorno al 20 marzo del 1598, il D. il 30 è a Ferrara, dove è presente - come spiega il 9 maggio il nunzio a Venezia Antono Maria Graziani, lo si vuole, appunto, a Ferrara "per l'opinion che si ha qui dell'industria sua nel negotiare e della buona gratia che gli dimostra" Clemente VIII - alla solenne "entrata" del 10 maggio del papa "portato con gran regno in testa". Affettuoso il congedo del 19 giugno, sempre a Ferrara: "baciai i piedi" al pontefice, riferisce il D., e questi, "abbracciatomi amorevolissimamente, ... mi benedì e mi comandò di portar la sua santa benedittione" a tutto il Senato.

Né è solo coll'alone della stima affettuosa di Clemente VIII che il D., il 22, rientra - omaggiato da un gran numero di nobili, tutti ansiosi di riverirlo e applaudirlo - a Venezia, ma pure, con un cospicuo bottino di reliquie, già del cardinale veneto Gian Francesco Commendone, che il papa, per suo tramite, fa avere alla Serenissima, perché le custodisca - e c'è all'uopo una solenne processione con gran concorso di popolo, cui partecipano le autorità e i rappresentanti esteri - nella basilica marciana, ove gli oranti, davanti all'altare ad esse destinato, nel giorno di S. Giovanni Battista, godranno, come concede l'apposito breve papale, d'indulgenza plenaria, purché, freschi di confessione e comunione.

Un successo personale del D. l'arrivo in laguna con la "cassetta" delle reliquie raccolte dal Commendone durante la nunziatura in Germania. "Ottimo ostentator de' suoi gesti", commenta pungente lo storico Nicolò Contarini, viene, per questo, applaudito dalla città, purtroppo "propensa", si rammarica Contarini, a "simili devotioni", ché, insiste lo stesso, la "maggior parte" della popolazione e, pure, della nobiltà "molto riguarda" a tali "apparenze".

Immediato, sul piano politico, il riscontro ché, il 23, battendo, come dice lo stesso doge al nunzio, la concorrenza di ragguardevoli senatori di lui più anziani, il D. vien eletto, in Maggior Consiglio, a grande maggioranza di suffragi - 1007, infatti, i voti a favore, 233 i contrari - procurator di S. Marco de supra. Dopo "un servizio che - come precisa il D. - dura 27 anni e 3 mesi", la designazione suona per lui incoraggiamento proseguirlo sempre "per esaltation et ... grandezza" della patria.

Nel contempo il D. presenta la relazione conclusiva sulla rappresentanza romana, la quale - spaccato anatomico estremamente lucido e disincantato disegnato alla luce d'una valutazione conseguentemente ed esclusivamente politica degli uomini, dei rapporti di forza, degli orientamenti, degli interessi - è del tutto esente da particolare riverenza nei confronti di Clemente VIII. "Ancor egli è uomo", osserva il D., il quale, poi, nei confronti del collegio cardinalizio, e sin sprezzante: è una sorta di gregge obbediente "per fini privati al cenno del papa", senza dignità, senza ruolo autonomo, senza volontà di decidere. Donde la sarcastica conclusione che, perciò, "lo stato" cardinalizio non merita la "tanta estimazione" e la "tanta invidia" in genere riserbategli, ché - sembra sottintendere - i porporati non sono che cortigiani subalterni e servili. Ed ancor più pesante è il giudizio del D. su "certi cardinali" ostili a Venezia e su "certi altri che fanno mercanzia di zelo e si dimostrano gelosi della giurisdizione ecclesiastica". Ciò non toglie che, in termini operativi, la relazione caldeggi l'allentamento della tensione con Roma, inviti alla "composizione", suggerisca una linea di condotta accomodante che sappia, ad esempio, transigere nell'esercizio della giurisdizione adriatica altrimenti foriera, se applicata alla lettera, di "travaglio di gran momento".

Il D. così finisce col propugnare una politica antitetica a quella sostenuta da Leonardo Donà e dai "giovani", che a lui guardano con diffidenza e, via via, con antipatia ed astio, giudicandolo subdolo ed ambizioso, screditandolo come adulatore interessato, come intrigante e manovriero ricorrente - per occultare o per nobilitare intrighi e manovre - a discorsi ventosi e vacui. D'altro canto il suo prestigio s'afferma tra i "vecchi" di cui diventa esponente autorevole e accreditato portavoce. È sul D. che i "vecchi" fanno confluire i voti, anche per affiancarlo, a mo' di freno prudente, agli eletti dalla parte avversa. Il 17 ottobre, ad esempio, viene nominato ambasciatore straordinario in Ispagna assieme al "giovane" Francesco da Molin.

Con questo, in ottemperanza alla commissione del 17 apr. 1599, il D. si mette, di lì ad un mese e mezzo, in viaggio, giungendo - dopo aver fatto tappa a Desenzano, Milano, Pavia - il 22 giugno a Genova, dove s'imbarca il 24 sì da arrivare, l'8 luglio, a Barcellona. Qui, il 12, c'è l'udienza di Filippo III cui il D., col collega, porge le condoglianze per la morte del padre, esprime il "giubilo" per la successione al trono e i rallegramenti per "l'alto e glorioso matrimonio" con Margherita d'Austria, a sua volta complimentata per "vederla destinata in matrimonio a questo così grande ... re". Trattenuti da cause di forza maggiore a Barcellona (c'è un sospetto d'epidemia, le navi pel ritorno non arrivano), solo il 7 settembre il D. e Molin riescono ad imbarcarsi, giungendo il 14 a Genova e di lì portandosi, al solito per Pavia, alla volta di Venezia.

Nominato, il 15 luglio 1600, riformatore allo Studio di Padova, è in tale veste che il D., coi due colleghi, concede un anticipo di stipendio a Galilei "sendo egli per locar una ... figliuola nubile et trovandosi in molto stretta fortuna". Dopo la rapida missione, di complimento con Enrico IV per le nozze con Maria de' Medici, in Francia svolta dal D., nella primavera del 1601, con Antonio Priuli, subentrato a Leonardo Donà designato con il D. ambasciatore straordinario il 3 nov. 1600 (ed è indicativo quest'accostamento tra le figure più eminenti di due orientamenti contrapposti), il D. viene eletto, il 4 marzo 1602, savio all'Eresia.

Lo contraddistingue - nell'arroventato dibattito politico lagunare del primissimo Seicento lungo il quale sempre più si divaricano le posizioni dei "vecchi" e dei "giovani" - il costante invito alla cautela e alla prudenza, a costo di mascherare, come annota un diarista della corrente avversa, "la verità del fatto", a costo di ignorare le provocazioni spagnole provenienti dal Milanese, per cui, ad esempio, il 19 ottobre, sconsiglia l'invio di cappelletti (stradiotti) a Crema. D'accordo, in genere, sulle singole questioni, con Giacomo Foscarini, l'antagonista per eccellenza di Leonardo Donà, il D. lo è soprattutto - sempre nel 1602 - quando si tratta di sostenere assieme l'opportunità di venire incontro - in attesa di un giudizio circostanziato - alle proteste congiunte di Francia e Spagna per la vendita, operata da sopracomiti veneziani, d'un vascello, francese di bandiera e con carico spagnolo, sottratto ai corsari. E, quando il Foscarini muore, con gran rammarico del nunzio pontificio Offredo Offredi, questi, peraltro, si consola all'idea che il D., nel quale "solo - come scrive il 25 genn. 1603 - sono volti gli occhi d'ogn'uno", possa risolutamente "contrastar", come per tanti anni già Foscarini, "l'auttorità, l'eloquenza e l'ostinatione" del Donà. Un auspicio che, in ogni caso, fa del D. l'esponente più di spicco del settore filoromano del patriziato. Ed è tale l'affidamento su di lui del nunzio Offredi che questo preferisce attendere sia, appunto, il D. di "settimana" in Collegio per poter trattare vantaggiosamente. Ed è il D., allora savio del Consiglio, l'incaricato d'ascoltare le proposte di Fathi beg, l'inviato d'Abbas I, giunto, all'inizio di marzo, a Venezia con ricchissimi doni per il doge.

Ma il D. non è soltanto il politico lagunare più prestigioso del patriziato più conservatore, il più affidabile agli occhi di Roma. Da tempo un intreccio di considerazioni soggettive, di sollecitazioni dall'esterno, di pressanti occasioni lo sta dirottando verso la vita ecclesiastica che si profila non già come approdo d'un mistico ripiegamento, ma come soluzione dignitosa conveniente e, inoltre, pur sempre suscettibile di politici utilizzi. Già alla morte, il 26 genn. 1600, del patriarca di Venezia cardinale Lorenzo Priuli circola il suo nome come quello del probabile successore. Il D., a detta degli avversari, ci tiene moltissimo. Ed è certo che la non prevista elezione, del 28, di Matteo Zane è motivo di vivo disappunto per Clemente VIII che volentieri avrebbe visto il D. insediarsi nel patriarcato lagunare. Ma la vacanza - per la morte, del 1º ag. 1603, del titolare Michele Priuli - della diocesi di Vicenza offre, di lì a poco, al pontefice l'opportunità d'un'efficace rivalsa. Giocando d'anticipo, battendo, cioè, sui tempi il Senato, che solo il 17 perviene alla precisazione della rosa dei quattro qualificati nominativi da sottoporre alla scelta pontificia, Clemente VIII notifica (prima che l'ambasciatore veneto Francesco Vendramin possa materialmente trasmettere l'orientamento del Pregadi), il 19, per mezzo del nunzio, il breve, datato 15 (proprio il giorno in cui suo nipote cardinale Pietro Aldobrandini comunica a Vendramin che lo zio non s'è ancora espresso sulla successione, anche se prevede che "ben presto" si "sarebbe intesa ... la sua risolutione"), col quale indica il D., detentore di tutte le "qualità" - dalla "prudenza", alla "pietà", dalla preparazione culturale allo zelo religioso - richieste dal "governo di quella chiesa", appunto, quale vescovo di Vicenza.

Sconcertato il Senato dal motu proprio di siffatta designazione diretta che non solo lo scavalca, ma ignora a bella posta il divieto d'accettare dignità, onori, emolumenti dai principi presso i quali s'è rappresentata la Serenissima. Tuttavia non ha l'ardire d'opporsi, non ritiene opportuno esasperare - con un fermo rifiuto, con una netta ripulsa - i già tesi rapporti con Roma. Perciò, lo stesso giorno, da un lato acconsente, dall'altro - a sventare il ripetersi di casi analoghi - ribadisce solennemente la proibizione agli ex ambasciatori di ricevere vantaggi e favori dagli interlocutori della loro missione diplomatica. Nel frattempo, nell'udienza del 22, il papa comunica a Vendramin il conferimento del vescovado a "persona ... prudente, piena di valor et dignità" come il D.; allibito, l'ambasciatore concorda sulle doti del D., obiettando, però, sia pure con estremo riguardo, che trattasi d'indicazione accettabile purché "non repugni alle nostre leggi". Immediatamente induritosi nei tratti Clemente VIII replica con voce alterata: "non vorrei già haver così poca fortuna, che io non potessi ricever cosa più grata di questa et sentiressimo grandissimo dispiacere quando ci fosse fatta alcuna difficoltà". Ma, sempre il 22, Vendramin apprende del cedimento senatorio del 19 e, nell'udienza successiva, non gli resta che ringraziare calorosamente il pontefice della felice scelta. Quanto al D., si reca a Roma, dove, il 24 ottobre, riceve dalle mani del papa il "rochetto" in segno di particolari "reputatione e ... stima", ritrovandosi così "in habito formale di vescovo", anche se non ha ancora sostenuto il relativo "esame", cui, in genere, il papa tiene moltissimo e, a proposito del quale, s'è di recente impuntato col neopatriarca Zane. Nel suo caso l'"esame", del 20 novembre circa, si risolve in mera formalità; dopo di che, il 24, la designazione a vescovo di Vicenza si ufficializza colla solenne approvazione in concistoro, cui segue nel marzo del 1604, la consacrazione nella chiesa romana di S. Spirito.

Attende ora il D. la ricca (ma col pesante pedaggio di 4.200 ducati di nuove pensioni a diversi; anche per questo il D. si preoccupa di recuperare al più presto tutti i possibili crediti, quali, ad esempio, i 3.000 ducati coi relativi "interessi" di cui si dice, il 18 marzo, creditore sopra "le facoltà et beni" d'Evangelista Pellegrini "confiscati come piezo et principal pagador dell'ill.mo Bevilacqua, sì come per strumento publico apare") diocesi, nella quale fa, ai primi di maggio, il suo ingresso solenne, preoccupato di qualificarsi subito come presule conscio dei suoi doveri. Sicché il suo episcopato inizia con qualche gesto caritativo, con qualche spruzzo di generosità, coll'incoraggiamento al seminario, coll'avvio d'una scrupolosa e sistematica visita pastorale.

Ma si tratta appena d'un assaggio, ché la nomina, vistoso segno d'ulteriore benevolenza papale, del 9 giugno, a cardinale compromette questo suo larvale profilo vescovile, mentre si riaccendono, da parte dei "giovani", i sarcastici giudizi nei suoi confronti: infatti il sommarsi della porpora alla mitra viene inteso come "debita mercede" a chi - anziché battersi, come aveva auspicato il Paruta reduce da Roma, a sostegno della "riputazione pubblica" - ha anteposto, per tutto il corso della rappresentanza presso la Sede apostolica, il proprio personale tornaconto al servizio della Serenissima. E, in effetti, quasi a scagionarlo da sospetti di tradimento, Clemente VIII - all'ambasciatore veneziano Agostino Nani che, nell'udienza del 25 giugno, lo ringrazia della promozione del D. - ribadisce l'ottima opinione che ha del D., anche se, precisa il papa, come ambasciatore "nelle cose di Ferrara ci diede qualche disgusto", specie non intervenendo (colla scusa del "cocchiero" ammalato), al pari di "tutti gli altri ambasciatori", alla scomunica contro Cesare d'Este. È evidente che il papa, citando quel disgusto, vuole tacitare il malanimo dei "giovani" coi quali anche il Nani è schierato, si sforza di far apparire il cardinalato come premio alla "vita innocente" del D., come riconoscimento della sua profonda dottrina e specchiata moralità.

È giunta intanto, ancora il 24, a Venezia - dove, a sua volta, il D., lasciata prontamente Vicenza il 19, s'è trasferito prendendo alloggio a Murano nel palazzo già di Caterina Corner -, recata dal cameriere segreto del papa conte Guido Bentivoglio, la "bereta" cardinalizia. Solenne, alla fine del mese, e, insieme, festosa - con seguito di banchetti, musiche, regate -l'imposizione, officiata dal nunzio assistito dal Bentivoglio, nella chiesa muranese di S. Maria degli Angeli.

Quindi, l'8 luglio, il D. parte alla volta di Vicenza dove non rimane oltre settembre, distolto dagli impegni romani che l'indurranno - di lì a poco - alla "cessio" dell'episcopato (di cui però gli restano le rendite, eccezion fatta pei 1.000 ducati annui destinati al subentrante) al fratello Dionigi (1556-1626), sicché questi assume l'effettivo governo della diocesi a partire dal 19 giugno 1606, mentre egli diventa il "cardinal di Vicenza" per antonomasia.

Traccia della sua fuggevole residenza vescovile restano, comunque, le "regole speciali" pel seminario, il richiamo al rispetto della clausura da parte delle monache, l'invito alla buona condotta del clero in genere, l'assegnazione d'un officiante alla Congregazione dell'ospedale di S. Valentino, il divieto alla creazione di badesse dai troppo disinvolti trascorsi, il contenimento dei banchi privati nelle chiese, l'intervento in una controversia tra gli aderenti alla Confraternita della Vergine presso l'oratorio della cattedrale, l'arbitraggio - pel quale ricorre alla competenza giuscanonistica del cardinale Pompeo Arrigoni - tra i canonici e i mansionari di questa, il rinnovo delle investiture feudali accompagnato dalla riaffermazione delle prerogative vescovili valide anche pei nobili veronesi e padovani se detentori di feudi e livelli nella diocesi, il disciplinato uso delle campane, la parziale attuazione della visita pastorale.

Lasciando il vescovado, pel momento, nelle mani del vicegerente, il vescovo di Zante e Cefalonia Raffaele degli Inviziati (cui costerà caro il rispetto, anche se solo a titolo personale, dell'interdetto scagliato da Paolo V contro Venezia; sarà, infatti, bandito il 7 luglio 1606 ed il capitolo eleggerà al suo posto il canonico Massimo Panciera di lui assai più pieghevole alle esigenze della Serenissima), il D. parte per Roma dove il pontefice lo reclama pressantemente. È così spettatore delle ultime battute del pontificato di Clemente VIII ed è, soprattutto, vicino, a mo' di savio "Nestore" (così il cronista Sivos), al cardinale Pietro Aldobrandini quando questi - durante l'agonia della zio, prolungata, si sospetta, ad arte dai "liquori" dei medici - incalza senza riguardo il morente per fargli firmare "sottoscrizioni", "quietanze", "brevi", a vantaggio suo e della famiglia. Si dubita della liceità e della validità di firme così estorte. Ma il D. garantisce che, pur nel "perpetuo deliquio", l'agonizzante serba una certa lucidità. Non per niente brama di "ricever ... l'eucarestia", dopo la quale è "come trasportato in estasi e fuori del sentimento delle cose terrene" senza che ciò - a detta del D. - significhi appannamento delle facoltà mentali, incapacità d'intendere. Così, almeno, nella versione di Nicolò Contarini, non priva di tinte grottesche, sugli ultimi giorni di Clemente VIII, ove è evidente l'intenzione di screditare il D. come supporto della sfrenata avidità dell'Aldobrandini, come complice d'un'autentica truffa.

Uomo dell'Aldobrandini il D., ma soprattutto legato alla Francia. Indubbio il suo rapportarsi a questa sin dall'inizio ché, nei contatti, svoltisi a Venezia ancora tra la fine di giugno e i primissimi di luglio del 1604, cogli ambasciatori di Francia e di Spagna entrambi proponentigli una pensione mostra di preferire il denaro francese servendosi, peraltro, della contemporanea offerta spagnola solo per rendere più consistente l'"honorable pension" Prospettatagli da Philippe Canaye de Fresne, allora rappresentante d'Enrico IV presso la Serenissima.

Ed è quest'ultimo che, ad ogni buon conto, raccomanda all'ambasciatore a Roma de Béthune di fissare al più presto la cifra e di provvedere tempestivamente in merito sì da "prevenir la diligence" concorrenziale "des Espagnoles". Così il D., con suo "singulier plaisir", diventa stipendiato del re cristianissimo, "subject", si compiace Canaye de Fresne, "du tout acquis a sa Majesté". Una propensione che va alimentata con regolari pagamenti, come s'evince da una lettera, del 4 ott. 1605, del cardinale Jacques Davy du Perron ad Enrico IV sollecitante l'invio prima di Natale de "ce qui sera necessaire pour le payement" delle pensioni, incluso "l'avance de la seconde année du card. Dolfin".

Morto, ancora il 3 marzo, Clemente VIII, il D., in un frenetico andirivieni quotidiano, fa da tramite tra il nutrito gruppo di cardinali capeggiato dall'Aldobrandini e quello, più esiguo, ma in compenso più compatto, dei porporati francesi guidato da François de Joyeuse, non senza dar l'impressione di pencolare a tal punto verso questo da essere annoverato, in una relazione, ad esempio, d'un agente mantovano, tra i componenti di detto secondo raggruppamento.

Comunque sia, è al D. che il de Joyeuse fa presente l'impossibilità che l'Aldobrandini riesca a "faire pape une des des creatures", ed è sempre al D. che lo stesso confida, con apparente circospezione, ora questa ora quella sua "pensée", certo che il porporato veneziano si sarebbe precipitato a riferirlo all'Aldobrandini. È con il D. che de Joyeuse insiste - visto che l'Aldobrandini non la spunta - sulla necessità di "penser à quelque autre sujet, sans attendre davantage" ed è a lui che indica il "cardinal de Florence", ossia il filofrancese Alessandro de' Medici come papabile. Nominativo che il D. "monstre d'approver" soggiungendo, pero, "qu'il croit n'estre pas encore temps de le faire entendre à Aldobrandini". Attivamente immerso il D. nei bisbigli, sussurri, calunnie, patteggiamenti, calcoli, allusioni, reticenze, conciliaboli, incontri ristretti più o meno segreti - quello, ad esempio, "chez le cardinal" Bartolomeo Cesi cui partecipano, oltre al D., l'Aldobrandini e il de Joyeuse per "concerter quelque coup pour le cardinal Serasin", ossia Seraphin Olivier-Razali - e mosse palesi che precedono il conclave e poi lo sostanziano. Ed è il D. - allorché viene ventilata la candidatura del cardinal Camerino, ossia Mariano Pierbenedetti, che egli odia, a detta del de Joyeuse, da quando ha richiamato l'attenzione dei colleghi sul giudizio acido espresso dal D. reduce dall'ambasciata romana sui cardinali in genere - a darsi da fare per far accettare gradualmente la candidatura del de' Medici sia al gruppo aldobrandiniano sia allo stesso riluttante Aldobrandini.

Una vittoria, per il D., pertanto, l'elezione, del 1º aprile, di Leone XI disdettata però, il 23, dalla morte dello stesso che lo ributta nella girandola degli intrighi, nella ridda d'interferenti manovre. Sfortunato, questa volta, però il suo agitarsi a favore del cardinale Domenico Toschi, pel quale - così, il 19 maggio, ad Enrico IV, il de Joyeuse - "partoit grandement", ché la candidatura, sostenuta, in un primo tempo, da tutti gli aldobrandiniani, sfuma quando il cardinale Montalto alias Alessandro Peretti monta, con le sue "creature", strumentalmente quella di C. Baronio, sulla quale convergono anche i voti d'aldobrandiniani dissidenti.

Coll'avvio del pontificato di Paolo V, decisissimo a contrastare il giurisdizionalismo lagunare e determinato a distinguersi proprio su questo punto da Clemente VIII, a suo avviso troppo accomodante, la posizione del D. si fa imbarazzante. Arduo, in un clima arroventato da una sempre più aspra contrapposizione, essere o, per lo meno, apparire "bon venetiano" e "bon cardinale". Il D. corre il rischio d'essere inviso alla Serenissima e irritante per il papa che nella sua crescente "collera" attizzata - di contro ai vani tentativi del D. d'ammorbidirla - dai cardinali più fanatici o, più semplicemente, filospagnoli, via via si convince che Venezia maltratta la "religione", scivola "in molte cose nell'heresia". Paolo V, quando il D., non senza coraggio (e lo stesso Nani, rientrato a Venezia, elogerà, il 12 giugno 1606, il suo prodigarsi in "tanti negotii pubblici" a vantaggio della Repubblica), s'adopera per indurlo alla ragione e vanta, pur di farlo ricredere, le benemerenze cristiane della sua patria, l'investe furibondo con una sequela d'"improperii" e d'"ingiurie". Ciò non toglie che la maggioranza del Senato, ormai arroccata su posizioni di fermezza, non s'adonti a sua volta con lui quando chiede, sia pure con tono riguardoso, il 10 sett. 1605, che la "cognitione" del "caso" del canonico Saraceni, che vive a Vicenza, che è della sua diocesi, venga rimessa al foro ecclesiastico, anche perché - minimizza, eludendo il fatto che non è in questione l'entità del reato, ma la sua specificità di, appunto, reato comune; donde la competenza, nella teoria e nella prassi lagunari, del foro laico - si tratta "di causa che per se stessa non contiene materia di Stato", essendosi limitato il canonico vicentino al semplice imbrattamento d'una porta. Così il D., conciliante e semplificante, evitando di precisare che la porta lordata era quella della donna che a lungo aveva respinto le impetuose profferte di Saraceni. Ed è anche perché Venezia non cede in proposito che, nel concistoro del 17 apr. 1606, con plauso di tutti i cardinali eccezion fatta pei veneziani Valier e D., Paolo V, ignorando i suggerimenti diretti o indiretti, del D. alla "flemma" e "pazienza", scomunica il governo della Repubblica ed interdice la vita religiosa nell'intero territorio di questa. A rottura avvenuta, troncate perciò le normali relazioni diplomatiche, il D. - non senza pericolo; ma si può, d'altro canto, ipotizzare che Paolo V, proprio per suo tramite, mantenga aperto uno spiraglio di comunicazione non inquinata da enfasi propagandistica, svincolata da obblighi d'ostentata intransigenza - provvede ad informare Venezia, con lettere indirizzate al nipote Alessandro Contarini che immediatamente le porta a conoscenza del governo, dei "disegni e pensieri", inclusi i propositi bellici, del papa. Nel contempo preme anch'egli sull'ambizioso e velleitario protagonismo di Carlo Emanuele I perché in qualche modo persuada il Senato ad avanzare per primo una qualche proposta d'accomodamento. Ma, anche perché sgradita ad Enrico IV, tale mossa ben presto rientra, mentre il lavorio - dapprima sotterraneo, poi palese - del D. mira a favorire l'intervento della Francia, interessata alla decantazione del conflitto purché questa vada ascritta a suo merito, non della Spagna. Suggeritore dietro le quinte il D., che orienta talune mosse della dispiegata diplomazia francese, che tallona du Perron, che mette tutta la sua scaltrita esperienza a disposizione del mediatore de Joyeuse, che con lui concerta il da farsi. Fondamentale l'apporto del D. alla felice conclusione della mediazione. Donde, nel conseguente riattivarsi dei normali rapporti diplomatici veneto-pontifici, l'ordine del Senato a Francesco Contarini, in procinto di recarsi come ambasciatore a Roma, di compiere col D. (che, ad ogni buon conto, per tutto il periodo dell'interdetto ha continuato a percepire indisturbato le sue rendite venete) "quell'offitio di ringratiamento che conviene per li tanti buoni offitii" da lui "fatti" nell'"occasione" della composizione nonché per la "diligenza" antecedentemente "usata di tener avvisati i governanti lagunari di quanto concorreva" nella fase più accesa del contrasto.

Un successo anche per il D. la ricucitura - sia pure destinata a rivelarsi insoddisfacente, nella persistenza dei motivi d'attrito - delle già lacerate relazioni tra Venezia e la Santa Sede, nella quale Enrico IV ha impegnato tutto il suo prestigio arbitrale. Ed è sul re di Francia - il quale si rivolge nelle lettere al D. come a "mon cousin" e al D. ricorre per l'assegnazione d'un'abbazia ad un suo protetto - che il D. conta per proteggere Pietro Aldobrandini dalle ire vendicative di Paolo V, fiducioso altresì nella sua ulteriore affermazione dalla quale si ripromette per quanto personalmente lo concerne ridondi sino a lui qualche vantaggio. Ma non si tratta solo di pensione più consistente. Il D. è intimamente antispagnolo, è intimamente filofrancese. Sincero il suo dolore nell'apprendere - tra i primi in Italia: quando, il 22 maggio 1610, la notizia arriva al rappresentante francese a Venezia Jean Bochar de Champigny, questi sta conversando in giardino col D. - dell'assassinio di Enrico IV ad opera di Ravaillac. Ed evidentemente ne paventa le conseguenze se - come denuncia sconcertato, nella sua lettera del 29 a Roma, il nunzio Berlinghiero Gessi - il D., in singolare "intelligenza" proprio con quel Nicolò Contarini da sempre suo avversario e, come storico, suo severissimo giudice, sta approfittando del suo soggiorno veneziano (che si protrae a lungo, dal momento che, il 6 marzo 1611, convoca "nel palazzo della" sua "habitatione della parochia di S. Antonio" il notaio Fabrizio Beaciani per consegnargli, affinché provveda a depositarla nella "cancelleria inferior", la "cedola testamentaria scritta di propria ... mano et sigillata col" suo "sigillo" il 20 febbraio) per stimolare il Senato "non solo alla conservatione del regno di Francia, ma anco ad essere contra Spagnoli". Quasi preoccupato che la scomparsa d'Enrico IV si rifletta immediatamente a Venezia in termini di ripiegamento e di cedimento, il D. - rivela allibito e scandalizzato Gessi - fa sapere al Senato che persino il duca di Mantova ha "poca inclinatione" per il re Cattolico.

Pur avendo optato per l'abito religioso per tornaconto individuale e per strategia familiare - col D., infatti, inizia l'attestamento, destinato a diramato radicamento, del Dolfin sul versante, economicamente fruttuoso, delle rendite ecclesiastiche che attira, dopo il fratello Dionigi, i nipoti del D., nonché figli di Benedetto, Giovanni (1589-1659; prima abate, poi, dal 1626, vescovo di Belluno, ma costretto alla rinuncia forse per l'assassinio di Francesco Battistin suo "servitore in Bovolenta", pel quale, il 14 sett. 1633, da Ferrara chiede alla Repubblica di potersi scolpare; dopo la rinuncia alla diocesi del 26 giugno 1634, si ritira a Venezia donde, come informa il nunzio Francesco Giacinto Ignazio Boccapaduli all'inizio del 1654, molesta, per una pensione, il vescovo di Belluno Giulio Berlendis) e Daniele (1593-1631; una volta vedovo della nipote d'Acquapendente Semidea Fabris, diventa abate) e un terzo nipote, figlio d'Andrea (1559-1600), Giuseppe (1582-1623; canonico e maestro di teologia a Padova, nel 1616 gli viene assegnata una pensione annua di 1.000 ducati colla coadiutoria e il diritto di successione nell'episcopato vicentino, essendo pure eletto vescovo di Pafo) per la cui morte precoce la diocesi di Vicenza sfugge ai Dolfin che, peraltro, si rifaranno abbarbicandosi nel patriarcato di Aquileia - il D. non è riducibile a questa sola dimensione.La propensione per la Francia, manifestata già durante l'ambasciata romana e poi, una volta divenuto cardinale, addirittura formalizzata dalla pensione, è anche convinzione, ha anche il suo riscontro nell'avversione per la preponderanza spagnola, che andrebbe - a suo avviso - contrastata e ricacciata con piglio ben più combattivo di quello di Luigi XIII e della Serenissima. Questo il senso d'una sua lettera, del 19 ag. 1617 (a ridosso, quindi, del trattato di Parigi per la pace generale del 6 e della conferma madrilena del 26 settembre), nella quale si premura d'informare il doge che, mentre da Parigi viene costantemente aggiornato "attorno li affari importanti" (ed è evidente che ci tiene a rimarcare il suo rapporto privilegiato con la Corona), egli, a sua volta, ha scritto a Luigi XIII "che la prestezza delle sue gloriose imprese e delle sue armi haveranno più forza che tutte le trattationi del mondo", aggiungendo "che, per lo meno, chi non accompagna l'una coll'altra, difficilmente si goderà il frutto et di quella pace che desidera e che procura la Maestà Sua Cristianissima". Comunicando il contenuto della sua missiva, implicitamente rimproverante e pungolante, al re, il D. in realtà ambisce pure a rimproverare e a pungolare Venezia che proprio allora, rinunciando alla vittoria, punta sulla soluzione diplomatica della guerra di Gradisca. Una politica remissiva che il D. - in stupefacente sintonia coll'opinione di Sarpi, Micanzio e Nicolò Contarini - non condivide. Esprimendo il suo punto di vista - scrive il D., non senza fierezza al doge - è convinto di "sodisfare all'obligo di bon cittadino della mia patria et di bon italiano". Ma la lettera, nel suo velleitario antispagnolismo ad oltranza, è pure un soprassalto di mugugnante impotenza da parte d'un uomo che sta invecchiando e che si sente sempre più isolato e sempre meno considerato. S'aggiungono, ad esasperare questo senso di frustrazione, le cattive condizioni di salute.

L'ambasciatore sabaudo a Roma, dopo aver informato, in una lettera del 28 marzo 1620, dell'agonia del cardinale Anton Maria Gallo, aggiunge - quasi per automatico accostamento - che, quanto al D., "anchegli non istà bene", senza trattenersi dall'osservare che, così, con la morte imminente di Gallo e quella non lontana del D., "si va allargando il campo della futura promozione" di cardinali. S'appannano, nell'accentuata senescenza, le facoltà mentali, sembra talvolta offuscarsi persino il "senno" di questo prelato già oggetto di "stima". La coabitazione coll'ambasciatore lagunare Renier Zeno - il D., ancora il 1º giugno 1605, era stato insignito del titolo di S. Marco comportante l'alloggio, appunto, nel palazzo di S. Marco - diventa occasione d'incresciosi episodi, di rissose escandescenze. Lo Zeno ritiene indecoroso soggiorni nella sede della rappresentanza veneta un cardinale notoriamente assoldato dalla Francia e in quotidiano contatto coll'ambasciatore a Roma di questa, mentre il D. malamente sopporta la riduzione degli spazi a sua disposizione e trova irriguardoso il comportamento dello Zeno nei suoi confronti. E la convivenza diventa impossibile dopo che il D., fattosi sempre più ombroso e irascibile, inveisce, abbandonandosi a "qualche scandalosa violenza", contro i quattro ambasciatori straordinari giunti ad omaggiare il neopontefice Gregorio XV. A questo punto, nelle "differenze ... per conto del palazzo di S. Marco", l'opinione prevalente in Senato è - come informa da Venezia il nunzio Paolo Emilio Zacchia - "in favor" dello sdegnatissimo Zeno. Opportuna soluzione il trasferimento, del 23 giugno 1621, di titolo, per cui il D. assume quello di S. Girolamo Illirico (mutato pure questo, il 22 ag. 1622, il D. assente, in quello di S. Carlo "ad Catinarios"), mentre quello di S. Marco passa al più giovane cardinale Matteo Priuli, anch'egli, naturalmente, veneziano, colla "retentio" del palazzo S. Marco "pro" del D., il quale preferisce ritirarsi - all'incirca tra il settembre e l'ottobre del 1621 -, col consenso del papa, a vita privata a Venezia.

Qui il D. acquista, per 12.000 scudi, dai Secco un palazzo - sede della splendida festa, dell'11 febbr. 1709, in onore di Federico IV di Danimarca, sarà restaurato nell'Ottocento ed è attualmente la foresteria (nota, appunto, come Ca' Dolfin) dell'università di Venezia - nella zona di S. Pantalon, dove trascorre i suoi ultimi giorni assistito dal nipote Nicolò, designato, nell'ultimo suo testamento del 18 ott. 1622 che detta "sano nella mente et intelletto benché alquanto indisposto nel corpo", erede universale. E graditi "oltre modo" gli giungono, in attesa della fine, i saluti di Galilei che ricambia, tramite il nipote, il 29 ottobre.

Di lì a poco, il 25 nov. 1622, a Venezia, il D. muore, venendo sepolto - in ottemperanza a quanto più volte ha raccomandato nei suoi vari testamenti - nella chiesa di S. Michele in Isola, dove il nipote gli erigerà un grandioso monumento le cui statue della Fede e della Prudenza vengono attribuite allo scalpello di Pietro Bernini, probabile autore pure del busto del D., ché del tutto priva di fondamento s'è rivelata la fantasiosa assegnazione al figlio Gian Lorenzo.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 52, c. 396; 3827/13 (relativamente ai "beni in Pincara"); 4084/9.25; Ibid., Capi del Consiglio dei dieci. Lett. di ambasciatori…, buste 8/53-56; 13/148-156, 198-200 (riguardano invece l'omonimo figlio di Marco Lett. di rettori, buste 153/125-129 e 292/36, 37 nonché Provv. alla Sanità, reg. 14, c. 282 e Segretario alle voci. Magg. Cons., 5, cc. 137, 156); Ibid., Notarile. Testamenti, 56/71, mentre concerne il padre Giuseppe (sul quale vedi anche Senato. Terra, filza 72, alla data 31 dic. 1577) 1265/XIII, cc. 97r-99 e XIIII, cc. 1r-4r; Ibid., Petizion, 342.7.73; Ibid., Senato. Deliberazioni Roma, regg. 10 (da c. 131r), 11, 14 (da c. 25v), passim; Ibid., Senato. Dispacci Roma, filze 51, nn. 20, 33, 73, 76, 78, 80; 52, nn. 34, 40; 84 (deperita e illeggibile, con tutta probabilità doveva contenere dettagli sui litigi del D. con lo Zeno); 87, nn. 308 s., 330, 332, 335, 342 (con rimostranze dello Zeno sul nipote del D. Giovanni e con allusioni, per lo più implicite, al D.); Ibid., Senato. Secreta, regg. 85, 88, passim; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Arch. Morosini Grimani, 310, c. 243; 379; Ibid., Codd. Cicogna, 973/IV; 1089/I; 3281/IV, 55, 56; Ibid., Misc. Correr, LXXIV/2559; Ibid., Mss. P. D., 250/111, 24; 547/103, 104; C 339, c. 23; C 672/22, 46 (acquisti del padre del D.); C 657/IX e 756/48 (attestazioni degli interessi polesani già del nonno paterno del D., Benedetto di Daniele, lo stesso di cui in M. Sanuto, Diarii, XXXIII, Venezia 1888, coll. 185, 535); C 1142/9 (per il processo promosso dall'omonimo del D. contro Bernardo Zane); C 1151/2 (per il contrasto tra il padre del D. e i Diedo); Arch. segr. Vaticano, Nunziat. Venezia, 33, cc. 25v, 28r, 52v-53r, 62r, 67v-68v, 70r; 4211, cc. 42r-43r, 63v-64r, 94v; 85, lett. del 24 genn. 1654 relativa al nipote già vescovo di Belluno; 3 lett. al D. in L. Groto, Lettere..., Venetia 1601, ff. 97r, 125v-126r, 135v-136r; F. Manfredi, Degnità procuratoria…, Venetia 1602, p. 93; Rime di diversi ... in laude dell'illustr. ... G. D. vescovo di Vicenza, Verona 1604; dedicata al D., da parte di Cleto Artusio, l'Opera omnia di Lorenzo Giustinian, Venezia 1606 (e la dedica è riprodotta nell'ed. veneziana del 1751 e, rist. anast. con pref. di G. Gracco, Firenze 1982); M. A. Quirini, Rime sacre…, Venetia 1612, con dedica al D.; Id., Lettere..., Venetia 1613, ff. 84v-85r, e Seconda parte delle lettere…, Bergamo 1615, ff. 3v, 111v; G. Bonifacio, Delle lettere…, Rovigo 1627, pp. 271 s.; J. D. du Perron, Les ambassades et negotiations…, Paris 1633, pp. 266, 319-341 passim, 356, 358, 385, 416, 427, 439, 441, 469, 486, 497, 501, 507, 509, 563, 569; P. Canaye du Fresne, Lettres et ambassade…, Paris 1645, II, 2, pp. 264, 281; III, p. 505; A. d'Ossat, Letres…, a cura di N. Amelot de la Houssaye, Amsterdam 1708, I, p. 495; II, pp. 17, 168, 400; IV, p. 205 n.; A Morosini, Hist. ven., in Degl'ist. delle cose ven., VI, Venezia 1718, p. 686; VII, ibid. 1720, pp. 57, 174, 184 s., 221 s., 248, 275, 286, 295, 320, 390; S. Castellini, Storia... di Vicenza, XIV, Vicenza 1822, pp. 138, 159; Le rel. degli amb. ven. al Senato..., a cura di E. Alberi, s. 2, IV, Firenze 1857, pp. 353, 444, 449-504; Le rel. ... lette al Senato dagli amb. ven. …, a cura di N. Barozzi-G. Berchet, s. 3, I, Venezia 1877, pp. 70-71, 131, 190 e II, ibid., 1878, p. 255; Storia ... d'Italia raccontata dai ven. amb., a cura di F. Mutinelli, III, Venezia 1858, pp. 29-30, 35, 43 s.; Recueil des lettres ... de Henri IV…, a cura di M. Berger de Xivrey, VII, Paris 1858, pp. 838 s.; Paolo V e la Repubblica ven. Giornale…, a cura di E. Cornet, Wien 1859, pp. 14 n., 53 s., 76 n., 101 n., 208 s., 229, 266 s., 285, 322-337; Paolo V e la Rep. ... Nuova serie di docc. …, a cura dello stesso, in Arch ven., V (1873), pp. 41-44, 48, 229, 274 s., 289; P. Paruta, La legazione di Roma..., II, Venezia 1887, p. 310 n. 1; Calendar of State papers ... in ... Venice, a cura di H. F. Brown, VIII-IX, XI, London 1894-1904, ad vocem; Lettres de Catherine de Médicis..., a cura di G-R.-F. Baguenault de Puchesse, VIII, Paris 1901, pp. 220, 356; IX, ibid. 1905, p. 258; Carlo Emanuele I e la contesa fra la Rep. ... e Paolo V …, a cura di C. de Magistris, Venezia 1906, ad vocem; Per la storia del componimento ... tra la Rep. ... e Paolo V…, a cura dello stesso, Torino 1941, pp. 15 s., 36, 37 n., 65-67, 150-163, 289; G. Galilei, Le opere (ed. naz.), XIII, p. 100; XX, pp. 432 s.; I Libri commemoriali della Rep. di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli. VII, Venezia 1907, pp. 73-77 passim, 89 s.; G. Piloni, Historia ... di Belluno…, Belluno 1929, pp. 621-626 (per l'omonimo); Sommaire Mémorial ... de J. Gassot..., a cura di P. 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