FALCK, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 44 (1994)

FALCK, Giovanni

Mario Fumagalli

Nacque a Mandello Lario (Como) il 16sett. 1900, secondogenito di Giorgio Enrico e di Irene Bertarelli. Il fratello primogenito Enrico, nato a Lecco il 21genn. 1899, morì a Milano il 15 giugno 1953; il terzogenito Bruno è nato il 3 febbr. 1902 a Laorca (ora frazione di Lecco).

Ebbe una formazione finalizzata all'ingresso nell'impresa paterna; interessi diversi ne ebbe e li coltivò (fu ad es. un buon pittore dilettante) ma senza che interferissero con quello principale. Al politecnico milanese si iscrisse a ingegneria, nella specializzazione industriale, né si fece distrarre dagli avvenimenti del primo dopoguerra. Alla laurea seguì l'apprendistato negli stabilimenti sociali, cui si accompagnarono numerosi viaggi soprattutto in Germania, Inghilterra e Stati Uniti, per studiare i progressi tecnologici esteri. Ebbe modo così di ammirare negli Stati Uniti, già negli anni Venti, i treni continui per larghi nastri a caldo, che rivoluzionavano la produzione dei laminati piani ma che richiedevano dimensioni ottimali altrove proibitive.

Quando insieme coi fratelli entrò in azienda nel 1926 le Acciaierie e ferriere lombarde avevano già assunto la loro fondamentale struttura, che in seguito sarebbe stata perfezionata ed ampliata.

Ai tre stabilimenti originari - Dongo, Vobarno e Unione di Sesto San Giovanni - si erano aggiunti quelli di Milano Porta Romana e di Arcore, nonché il Vulcano, il Concordia e il Vittoria che andavano a rafforzare il centro sestese. Era anche stato costruito l'insieme di impianti idroelettrici che, bilanciando i diversi regimi idrici alpini e appenninici, assicurava un coerente apporto di energia. Zogno, per la produzione di materiali refrattari, e le miniere di Schilpario sarebbero venuti poco dopo.

Il loro primo incarico fu di dotare gli stabilimenti di laboratori di ricerche e di controllo della qualità. Il F. in particolare promosse la conversione dello stabilimento di Dongo alla produzione di ghisa malleabile e di raccordi per tubi in una fonderia altamente automatizzata, che iniziò l'attività nel 1928 e che venne ben presto annoverata tra i più qualificati produttori, gareggiando con la Fischer di Zurigo. Si occupò quindi di istallare al Vulcano i forni elettrici per ghisa alimentati con ceneri di pirite, un sottoprodotto del ciclo dell'acido solforico relativamente abbondante in Italia. Si occupò inoltre della prevenzione degli infortuni, introducendo innovazioni che gli meritarono la medaglia d'oro dell'ENPI (Ente naz. prevenzione infortuni). Collaborò col padre allo sviluppo del sistema di autoproduzione idroelettrica che affrancò la società dalle forniture esterne. Nel 1935 aveva sposato Maly Levi Da Zara, da cui ebbe due figli, Gioia e Giorgio Enrico.

In quasi un ventennio percorse tutta la scala gerarchica dell'azienda di cui era diventato procuratore legale nel 1928. Il 23 apr. 1943 entrò, insieme coi fratelli, nel consiglio di amministrazione, e fu nominato insieme con essi direttore centrale, cominciando a condividere col padre la responsabilità della conduzione dell'azienda. Ciò avvenne in pieno periodo bellico, che determinò una quinquennale stasi nell'ampliamento degli impianti, e alla vigilia del 25 luglio e dell'8 settembre. I tre fratelli avevano fatto la loro scelta di campo. Il F., già impegnato a evitare l'asportazione dei macchinari in Germania, venne in contatto con la Resistenza e fu per questo incarcerato due volte, una prima con l'ing. Riccardo Lampugnani, dirigente della società e poi direttore generale, e la seconda a Como col fratello Enrico. Questi, amico di Piero Malvestiti, militava nella Resistenza con un ruolo di primo piano nella Democrazia cristiana milanese e nel CLNAI (Comitato di Liberazione naz. Alta Italia), ed a Como subì una lunga detenzione. Il F. collaborò anche attivamente col CLN a mettere a punto e poi a realizzare un "piano di difesa" per proteggere tutti gli impianti minacciati, e riuscì con un'abile intermediazione ad evitare che il comando tedesco distruggesse al momento della ritirata 58 stabilimenti da tempo minati.

Il 30 apr. 1945, quando il padre si ritirò, fu eletto vicepresidente col fratello Bruno, affiancando il fratello primogenito Enrico che succedeva alla presidenza. La sua attività fu molto intensa, sia nella società sia all'esterno nella ricostruzione delle associazioni imprenditoriali e nei rapporti con le pubbliche autorità.

Nei primi anni della ricostruzione ebbe un ruolo di collegamento fra il mondo imprenditoriale e il CLNAI, che nel febbraio 1944, in piena clandestinità, lo aveva designato futuro commissario straordinario della Associazione territoriale della provincia di Milano; l'elezione formale avvenne il 29 apr. 1945 in occasione della prima riunione della giunta clandestina, da parte di Cesare Merzagora, presidente della commissione centrale economica del CLNAI. La ricostituzione dell'Assolombarda - l'atto ufficiale è del 25 giugno 1945 - durò oltre un anno e comportò per il F. un duro lavoro: la sede era stata distrutta dai bombardamenti dell'agosto 1943, quanto si era potuto salvare era stato devastato nell'aprile 1945. Nello stesso tempo concordava con le forze politico-sindacali intese di notevole importanza. Tra queste, l'accordo sulla indennità di contingenza, la revisione, generale e per categorie, dei minimi retributivi; la perequazione generale degli stipendi e dei salari nell'Italia settentrionale; il sistema di scala mobile di contingenza; la concessione della gratifica natalizia; la regolamentazione del blocco dei licenziamenti; la definizione del trattamento dei dirigenti di azienda e di altre categorie. Si interessò anche al sistema delle assicurazioni previdenziali e di malattia affidate all'INPS (Ist. naz. previdenza sociale) e all'INAIL (Ist. naz. assicurazione per gli infortuni sul lavoro), che la guerra aveva lasciato in condizioni precarie. All'assemblea del 20 marzo 1946 fu acclamato presidente, ma nel luglio seguente si dimise, per dedicarsi meglio all'azienda, e per ritrosia ad assumere ruoli di primo piano.

Gli anni dell'immediato dopoguerra furono duri, ma non tanto per le distruzioni belliche degli stabilimenti societari, relativamente limitate e inferiori a quelle della siderurgia peninsulare: risultarono danneggiati solo quelli di Vobarno, di Napoli (colpito da bombe alleate), di Castellammare (devastato dai Tedeschi); il cuore dell'impresa, a Sesto San Giovanni, e gli impianti elettrici uscirono indenni. Le difficoltà maggiori vennero dalla precarietà dei trasporti, che limitava l'approvvigionamento e le scorte sotto i limiti prudenziali; dall'invecchiamento degli impianti, non rinnovati durante la guerra, dalle tensioni sociali innescate dal crescere del costo della vita; dall'asprezza del confronto sindacale in un clima di esasperazione ideologica; dall'instabilità politica; dall'inflazione elevata; dall'indebitamento di molte imprese. Il nuovo vertice della Falck poté tuttavia contare su una situazione aziendale complessivamente buona, per l'avveduta gestione nei quarant'anni dalla fondazione e in particolare per aver evitato un pesante coinvolgimento nelle produzioni orientate ai fini bellici. Con prudenza, ma anche con decisioni coraggiose, gli anni più difficili vennero superati; nel frattempo l'ambiente generale andava facendosi più favorevole.

La ricostruzione procedette rapidamente; il reddito nazionale lordo, che nel 1945 risultava più che dimezzato rispetto ai 146 miliardi del 1938 (massimo livello prebellico), prese a crescere e pareggiò di nuovo quei valori già nel 1949 (ma il reddito per abitante pareggiò l'anno dopo per l'aumento della popolazione, dai 43 milioni del 1938 ai 46,7 del 1949). Il settore siderurgico ritornò ai livelli prebellici nel 1950 per la produzione di acciaio (2,36 milioni di tonnellate contro 2,32 nel 1938) e nel 1952 per la ghisa (1,10 milioni di tonnellate contro 1,06 nel 1940). La Falck nel 1948 realizzò una produzione di acciaio di 200.000 tonnellate, pari al 10,1% del prodotto nazionale complessivo, a fronte di una punta massima di 290.000 nel 1935 (13%). La società, come tutte le altre imprese italiane ed europee, trasse non poco giovamento dall'European recovery plan ideato da George Marshall nel 1947 e varato nell'aprile dell'anno successivo; grazie ad esso poté ricostruire lo stabilimento di Vobarno, e sostituire sei linee produttive invecchiate, una a Vobarno stesso, una ad Arcore, una a Napoli e tre a Sesto San Giovanni. Qui lo stabilimento Unione, dotato di sei forni Martin e di sei forni elettrici, aveva la più grande acciaieria nazionale con una capacità produttiva pari al 12% del totale; tale resterà fino al 1952, quando entrerà in funzione il centro a ciclo integrale di Cornigliano.

Il periodo di vicepresidenza del F. ebbe breve durata: il fratello Enrico, sempre più attratto dall'azione politica come mezzo per affermare i principi cristiani della solidarietà, e nel 1948 risultato eletto al Senato per il collegio di Lecco, gli affidò nello stesso anno la presidenza della società, che tenne fino al 30 apr. 1971, quando la passò al fratello Bruno. Alla ricostruzione seguì per l'Italia quell'intenso sviluppo economico durato un quarto di secolo, che ne mutò profondamente la struttura produttiva.

La costruzione di infrastrutture, gli investimenti delle imprese, l'attività edilizia stimolata dalle migrazioni interne, il diffondersi di beni di uso durevole quali l'automobile e gli elettrodomestici accrebbero il consumo di acciaio dai 3 milioni di tonnellate nel 1950 ai 20,25 milioni nel 1970. La rivoluzione dei trasporti marittimi e la scoperta di ricchissimi giacimenti in paesi nuovi quali il Brasile e l'Australia ridussero drasticamente i costi complessivi (prezzo all'origine più assicurazione e noli) delle materie prime siderurgiche consentendo condizioni di parità competitiva. Le innovazioni tecnologiche e la disponibilità di rottame aprirono nuovi orizzonti alle acciaierie elettriche - e in parte a quelle Martin - che potevano contare sul vantaggio della maggiore flessibilità. La produzione di acciaio grezzo aumentò con ritmo non dissimile da quello del consumo, passando dai 2,36 milioni di tonnellate nel 1950 ai 17,28 milioni del 1970.

Durante la presidenza il F. si trovò di fronte a scelte non facili. Già al termine del conflitto si era chiesto quali basi dare alla ricostruzione della siderurgia italiana e lungo quali direttrici impostare il suo futuro sviluppo. Tre tesi si scontravano in quei giorni. Quella "liberista" optava per un abbandono delle produzioni siderurgiche ritenute "innaturali" in mancanza di materie prime, per l'abbattimento dei dazi e per l'approvvigionamento di acciaio all'estero. Quella "espansiva", sostenuta dall'IRI (Ist. per la ricostruzione industriale) e che prese poi forma concreta nel "piano Sinigaglia", si basava sul duplice presupposto che la domanda nazionale si dovesse espandere a ritmo sostenuto e che il fabbisogno aggiuntivo dovesse essere soddisfatto da impianti litoranei a ciclo integrale alimentati con carbone e minerale esteri approvvigionati via mare. Quella "intermedia" ipotizzava uno sviluppo limitato del consumo di acciaio e riteneva sufficienti per la sua copertura gli impianti esistenti, in buona parte a carica fredda. Il F. sicuramente temeva che la siderurgia pubblica potesse operare in condizioni di favore rispetto ai privati, falsando i presupposti della concorrenza, e pensava che investimenti massicci, e forse intempestivi e troppo ottimisti rispetto allo sviluppo della domanda, potessero comunque squilibrare il mercato con un eccesso di produzione. Fu dunque molto critico nei riguardi del "piano Sinigaglia", preoccupato com'era di garantire un futuro alla sua impresa e a tutta la siderurgia privata italiana. In realtà nella deposizione alla commissione economica del ministero della Costituente, nel marzo del 1946, concordò sulla possibilità di sviluppare anche in Italia una siderurgia a cielo integrale, ma solo quando si fosse attuato quel Mercato comune europeo del quale già si cominciava a parlare. Il suo atteggiamento fu piuttosto rigido, probabilmente anche perché rappresentava tutta la siderurgia privata italiana e per questo doveva far proprie anche le tesi più conservatrici, che volevano una elevata protezione doganale, e il limite della capacità produttiva totale a non più di 2-3 milioni di tonnellate, evitando la produzione di massa al ciclo integrale e le localizzazioni nuove, ricorrendo invece a impianti esistenti e a procedimenti collaudati.

Nel maggio del 1950 Robert Schuman propose, con il piano che portava il suo nome, di risolvere il problema di ricostruire la siderurgia tedesca senza mettere per la terza volta in pericolo la pace in Europa, con la creazione di un Mercato comune del carbone e dell'acciaio da porre sotto la guida e il controllo di un'alta autorità a carattere sovranazionale. Il F. manifestò subito "un pieno consenso alla volontà di giungere a grandi mercati internazionali e fra questi, massimamente, a quello europeo. La caduta, all'interno, delle barriere doganali e il formarsi, verso l'esterno, di una assai modesta protezione ... lo trovarono intensamente d'accordo" (Frumento, in Ricordo di G. F. ...). Occorreva, tuttavia, muoversi con prudenza. La mancanza di materie prime, la sfavorevole posizione geografica, eccentrica rispetto ai maggiori distretti europei di produzione, il ricordo ancora vivo della spartizione del mercato italiano tra Francia e Germania da un lato (che si riservarono il Centronord) e Belgio dall'altro (che ebbe il Mezzogiorno) giustificavano almeno in parte il timore che la nostra siderurgia fosse ancora una infant industry e che meritasse quella protezione tariffaria del 30-40% da molti richiesta. La scommessa europeista, tuttavia, si mostrò vincente e tutta la siderurgia italiana trasse giovamento dall'apertura delle frontiere.

Alla fine degli anni Cinquanta un altro problema si poneva alla Falck. La siderurgia a ciclo integrale, dopo l'impianto di Cornigliano nel 1952, raddoppiava con la costruzione di un nuovo centro a Taranto. Questa crescita creava qualche difficoltà all'impresa sestese, che nello stesso tempo doveva cominciare a vedersela con la concorrenza dei nuovi produttori bresciani, vivissima anche sul mercato dei rottami. La produzione di ghisa al forno elettrico cominciava a palesare sempre più i suoi limiti, tecnici ed economici, ed il Vulcano avrebbe spento i forni insieme con quelli degli altri analoghi stabilimenti. La produzione di acciaio in grandi quantità lontano dal mare si mostrava sempre più difficile, e varie soluzioni venivano ipotizzate negli anni Sessanta. Si progettò l'installazione di altiforni a Vado Ligure, che alimentassero con ghisa fredda le acciaierie dell'entroterra; venne proposto che il centro di Cornigliano fosse gestito da una società comune tra Falck, FIAT e Finsider (Società finanziaria siderurgica); si pensò, a proposito dei ricorrenti progetti di rendere navigabile il Po, alla possibilità di far risalire lungo il fiume il minerale, da caricare in ipotetici altiforni padani. L'atteggiamento del F. verso queste possibilità fu di grande attenzione ma anche di cauta diffidenza: giustificata in alcuni casi, forse meno in altri se un suo grande amico, I. Montanelli, ammise poi che "i suoi rigidi criteri di conduzione dell'impresa possono aver nuociuto all'azienda... facendole perdere il passo con i tempi" (in Ricordo ...). Non gli mancò tuttavia una visione concretamente europea dello sviluppo del settore. All'inizio degli anni Sessanta fece partecipare la società con una quota non trascurabile del capitale alla SIDMAR, un'impresa belgo-lussemburghese che installò l'acciaieria costiera a ciclo integrale di Selzaete presso Gand: una delle poche iniziative siderurgiche veramente "comunitarie" di quegli anni.

Nei ventitré anni della guida del F. le Acciaierie furono un protagonista di primo piano nello sviluppo siderurgico nazionale, adattandosi alle situazioni sempre nuove del mercato e dello sviluppo tecnologico. L'insieme degli stabilimenti restò sostanzialmente immutato rispetto alla struttura già presente alla fine degli anni Venti, ma fu sottoposto ad una continua opera di rinnovo e di potenziamento che ne aumentò la capacità produttiva e la produttività, migliorò la qualità, accrebbe la gamma offerta ai clienti. Fra il 1952 e il 1959 l'acciaieria Unione venne completamente rinnovata con l'installazione di quattro forni Lectromelt; nel 1953 venne costruito ad Arcore un secondo stabilimento per la produzione di tubi senza saldatura; al Concordia nel 1956 entrò in esercizio il treno "Mesta" per lamiere; nel 1958 entrò in produzione l'impianto per tubi saldati di grande diametro; nel 1963 venne installata una nuova acciaieria completata nel 1970 con un impianto di colata continua per bramme e slebi. Nel 1964 venne incorporato nelle Acciaierie lo stabilimento di Novate Mezzola (ferro-cromo suraffinato e silico-cromo), nel 1966 venne avviato il nuovo laminatoio per billette e tondoni dell'Unione e nel 1969 l'impianto "Assel" di Arcore per la laminazione a caldo di tubi senza saldatura meccanici di precisione per cuscinetti a rotolamento. Si tratta comunque di un elenco incompleto delle numerose iniziative del periodo.

Anche la produzione sociale, come si è detto, aumentò notevolmente: agli inizi degli anni Settanta quella di acciaio grezzo arrivò a 1.250.000 tonnellate, pari all'8% del totale nazionale. Se diminuiva il peso percentuale delle Acciaierie, ciò dipendeva da decisioni avvedute e prudenti. Lontana dal mare - e quindi tagliata fuori dagli approvvigionamenti di materie prime e troppo grande e complessa per misurarsi con le miniacciaierie sul terreno della flessibilità - l'impresa puntò sulla diversificazione dei prodotti, sulla verticalizzazione, sul servizio alla clientela, sull'aumento del valore aggiunto piuttosto che sul solo sviluppo quantitativo.

La conduzione della società non impedì al F. di svolgere attività pubblica e di coltivare vari interessi culturali. Fu a lungo membro della giunta esecutiva della Confindustria; fece parte, per ben 25 anni, del consiglio di amministrazione del politecnico di Milano e suggerì non pochi stanziamenti dell'Assolombarda a favore dei vari istituti: nel 1961 vi creò una cattedra di siderurgia istituendo nel contempo un "Fondo Falck" per l'acquisto e la dotazione di laboratori e di impianti e per provvedere all'attività didattica e scientifica. Seguì da vicino l'attività della Associazione italiana di metallurgia, creata nel 1946, e nel 1947 entrò a far parte del consiglio direttivo, patrocinando il passaggio sotto l'Associazione della prestigiosa rivista La Metallurgia italiana, nata nel 1909 per volere del padre, e l'istituzione di tre medaglie da conferire a cultori di metallurgia, intitolate a Luigi Losana, a Federico Giolitti, a Guido Donegani. Nel 1960, in occasione del joint meeting tra l'Associazione e l'Iron and steel institute, venne nominato vice presidente onorario di quest'ultimo. Fu anche presidente e consigliere di amministrazione di istituzioni quali gli Amici della Scala, il Museo di Brera, il Museo Poldi Pezzoli. Creò l'Associazione anziani G.E. Falck, che ha anche funzioni assistenziali per gli ex dipendenti, e, su ispirazione della moglie, le Case dei bambini Montessori per i figli dei dipendenti; concorse in modo determinante alla creazione della Pro Juventute di don Gnocchi.

Si spense il 6 genn. 1972 a Milano.

Fonti e Bibl.: E. Falck, Fabbriche in Lombardia, numero speciale de Il Mercurio, II (1945), 16; I. Montanelli, Ricordo di F., in Corriere della sera, 5 febbr. 1972; M. Pozzobon, L'industria padana dell'acciaio nel primo trentennio del Novecento, in F. Bonelli, Acciaio per l'industrializzazione, Torino 1982, pp. 159-214; D. Velo, La strategia FIATnel settore siderurgico. 1917-1982, Torino 1982, passim; Ricordo di G.F. (testimonianze di O. Beltrami, A. De Micheli, A. Coppi, W. Nicodemi, A. Frumento. I. Montanelli), Milano 1987; M. Pozzobon, La siderurgia milanese nella Ricostruzione (1945-1952). Ristrutturazione produttive, imprenditori, classe operaia, in La siderurgia ital. dall'Unità ad oggi, Atti del Convegno, Piombino, 30 sett.-2ott. 1977, in Ricerche storiche, VIII (1978), 1, pp. 277-306.

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