CALANDRA, Giovanni Giacomo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 16 (1973)

CALANDRA, Giovanni Giacomo

Roberto Zapperi

Nacque a Mantova nel 1488 da Silvestro fedele cortigiano dei Gonzaga, castellano e poi segretario del marchese Francesco.

Fratello di Federico, fonditore di cannoni e direttore della fonderia marchionale, ne apprese giovinetto l'arte che iniziò a professare con grande entusiasmo. Una lettera del fratello al marchese Francesco in data del 27 luglio 1500, gli attribuisce un particolare talento nell'invenzione di nuovi accorgimenti tecnici ("non me pare de zetare in dicta forma ma più presto lassare che mio fratello duri un puoco de fatica a refarne un altra che lui la farà volontera per haver honore maxime essendo stata soa inventione").

Abbandonò l'arte in data imprecisata, ma sicuramente in coincidenza con l'ingresso a corte per succedere al padre nella carica di castellano presumibilmente negli anni immediatamente successivi al 1502. Certo è che nel 1506 il C. figura già nel pieno esercizio di quelle funzioni di maestro di casa dei Gonzaga che erano state già del padre. Successivamente egli lasciò la carica di castellano al fratello Federico, per assumere quella di segretario e poi addirittura di soprintendente alla cancelleria marchionale della quale ebbe la vera e propria direzione. Certo è anche che le mansioni assolte dal C. furono sempre assai più vaste di quelle assegnate al padre e si estesero, almeno a partire dagli anni venti, al campo politico con un impegno piuttosto pronunciato.

Lo si può desumere da una lettera indirizzatagli da Roma il 16 luglio 1521 dal Castiglione per congratularsi per la brillante riuscita del negoziato diretto a procurare al marchese Federico l'ambita nomina a capitano generale della Chiesa. Alle trattative aveva partecipato attivamente da Mantova il C., del quale il Castiglione si dichiarò compagno "in un negocio e che si potrebbe dir più che fortuna di mare e più che di guerra, el quale essendone usciti felicemente devemo accettare peruno strettissimo nodo d'amicizia sopra ligato al primo che già gran tempo vi è stato". Nella stessa lettera il letterato-diplomatico lo pregava di interporre i suoi buoni uffici presso il marchese per scansargli le fatiche che gli avrebbe procurato la nomina prevista e non desiderata a capitano di cinquanta uomini d'arme. Semmai era disposto a continuare a servire il marchese come suo agente a Roma "dove è necessario tener ministro cognito a S.S.tà", per non dire tanto intimo quanto lui solo era. La richiesta fu esaudita per intervento del C. che evidentemente poteva molto sul giovane marchese, se a lui si rivolse il Castiglione l'anno successivo, con una lettera del 23 ott. 1522, per lamentare la scarsezza del soldo a confronto con i disagi della residenza in una città come Roma afflitta per di più da una epidemia di peste.

Meglio attestata è la sua attività di segreteria per gli anni dal 1525 al 1527. Nel dicembre del 1525 fu lui che rispose all'ambasciatare mantovano a Roma Francesco Gonzaga per declinare l'offerta di Clemente VII di elevare il marchese Federico sul trono di Napoli. Nelle vicende convulse che precedettero il sacco di Roma, abbandonata dall'infingardo marchese, capitano generale della Chiesa, al suo destino (invece di difenderla dai lanzi li ospitò generosamente nei suoi possedimenti mantovani agevolando la loro marcia verso il Sud), il C. svolse un intenso lavoro di coordinamento diplomatico inteso a coprire le gravi responsabilità del suo signore e, in via subordinata, ad evitare l'irreparabile, promuovendo un tentativo di mediazione tra imperiali e pontifici. Di fronte alle ottuse resistenze di Clemente VII alle richieste del duca di Borbone, la diplomazia gonzaghesca si dovette riconoscere disarmata; al C. non restò che far conoscere alla Curia il disegno imperiale di marciare, dopo una diversione su Firenze e Siena, "de dritto a Roma et attendere alla persona del papa, pensando che per essere S. S.tà in città poco forte che la si ne debba fugire o che la si possi cattivare". I dispacci che Francesco Gonzaga gli indirizzò da Roma in preda al sacco nel maggio del 1527 vennero a confermare puntualmente una previsione che solo la corte irresponsabile di Clemente VII poteva ostinarsi a ritenere fino all'ultimo improbabile. Del lavoro di direzione della cancelleria gonzaghesca svolto dal C. per tanti anni non siamo informati con quella abbondanza di particolari che sarebbe necessaria. I giudizi lusinghieri del Luzio non sembrano tuttavia da condividere, stando alle considerazioni del cardinale Ercole che poco prima della morte del C. fece un quadro della cancelleria piuttosto sconfortante. A suo dire vi difettavano troppo i segretari capaci ed efficienti e la stessa organizzazione del lavoro comune era tutt'altro che eccellente.

Ben altrimenti rilevante fu però l'attività di maestro di casa e faccendiere dei Gonzaga svolta dal C. per lunghi anni con un impegno superiore persino a quello del padre. In tali incombenze lo favorì l'educazione artistica e letteraria che indubbiamente egli ebbe in misura superiore a quella del padre. Membro attivo ed influente della società colta mantovana che si raccoglieva intorno alla marchesa Isabella d'Este, egli compose persino un'operetta in volgare, Aura, nella quale, traendo spunto dal "caso dell'amator in Roma novamente occiso per man dell'amante beffata", dissertava delle contingenze di amore.

Scritta tra il 1507 e il 1511 in lode di Isabella d'Este, l'opera è perduta e di essa resta traccia in un capitolo dedicatole nel Libro di natura d'amore del letterato mantovano Mario Equicola. Il caso era stato raccontato a quanto pare nell'estate del 1507, da Paride Ceresara, altro letterato mantovano della cerchia della marchesa, a Cavriana dove soggiornava in quel momento anche il Bandello che ne ricavò una novella, dedicata al C. per via del libro che aveva scritto (quel caso "fu cagione che voi componeste e gentilmente ventilaste molte belle questioni amorose, e in un libretto in prosa volgare riduceste"). Della natura dell'opera non è difficile farsi un'idea precisa se si considerano i puntuali riferimenti dell'Equicola che riportò una fitta elencazione di quesiti proposti dal caso (tipico il seguente: "Qual sia maggior difficoltà, fuggir amore, ovvero amando dissimulare di non amare") e una lettera indirizzata dal C. l'8 luglio 1506 alla marchesa Isabella per esporre e commentare un altro caso, occorso questa volta "in una villa, non molto discosta da la città nostra". Anche in questa occasione il quesito conclusivo attesta una forma mentis inconfondibile ("La contemplatione di questo caso sciolve quasi un dubio de amore, che si suole proporre quale ami più fervidamente, o quello de dui giovani che non ha mai ancora accolto li frutti del suo amore, o quello che ha goduto de la persona amata"). In sostanza si trattava di un vacuo e ozioso raziocinare sul casi d'amore, secondo un gusto di galante conversazione vagamente filosofico e moraleggiante che poteva approdare solo al passatempo svagato e all'insipido gioco di società.

L'impegno letterario appena rilevabile si associava però brillantemente ad una sapienza, cortigiana che propose il C., soprattutto negli anni del governo del rozzo e ignorante Federico, come il mediatore ideale tra la corte di Mantova e la folla degli artisti e letterati, spesso di gran nome e sempre bisognosi di protezione e di denaro. Amico dei mantovani Bardellone, Equicola, Ceresara, di Niccolò d'Arco e di Baldassar Castiglione, conobbe anche il Bandello che lo ricordò come "gentilissimo e dotto" in varie sue novelle, e il pesarese Guido Silvestri, detto Postumo, che nel 1513 gli mandò "trecento endechasyllabi" per sferzare "i costumi di quella rabiosa tigre" di Giulio II. Nel 1515 l'umanista Marino Becichemo si rivolse a lui per una lista di personaggi influenti e danarosi da lodare in certo suo poema ("Si havete qualche cardinal, ovver qualche altro habitante in Roma docto in nostri studi, avisatemelo, similiter a Mantua, Ferrara, Verona, Bologna, Firenze, Milan o in altra città, perché me ho affaticato et me affatico honorar tutti pervengono a mia notitia"), e il Giovio gli mandò nel maggio del 1522 il nono libro delle sue Historiae perché lo esaminasse insieme con gli altri dotti mantovani. Il suo nome ricorre in effetti con qualche frequenza nell'epistolario del vescovo di Nocera. Nel 1529 egli ebbe incarico dalla marchesa Isabella di fargli avere le risme di carta mantovana richieste per stampare "alchuni suoi dialoghi" e nel 1530 ricevette una relazione sul tentativo di Solimano il Magnifico contro Vienna fallito nel 1529 inviata dal Giovio "per dare spasso a V. S. e al signor marchese una sera".

Al C., che fu ricordato anche nell'Orlando furioso (XLII, 85), l'Ariosto si raccomandò già in una lettera del 15 ott. 1519 indirizzata all'Equicola. Molti anni dopo, nel marzo del 1532, il C. chiese all'Ariosto "quattro comedie" (cioè la Cassaria, i Suppositi, la Lena e il Negromante)e le ebbe in copia con la promessa di una quinta (cioè gli Studenti)se si riusciva a finirla, essendo il poeta occupatissimo con una nuova ristampa del Furioso (lettera dell'Ariosto al C. del 18 marzo 1532). La richiesta doveva essere in relazione con gli spettacoli teatrali predisposti dal C. a Mantova in previsione della visita dell'imperatore Carlo V, avvenuta in effetti nel novembre di quell'anno. L'organizzazione di questi spettacoli provocò anche una controversia con Giulio Romano, incaricato di allestire le scene e indotto dal C. a modificarle secondo i suoi intendimenti. Più intensi ma alquanto burrascosi furono i rapporti con l'Aretino che da Venezia si era impegnato a glorificare i Gonzaga, dietro adeguato compenso, con il poema Marfisa.

Il 27 genn. 1528 l'agente mantovano a Venezia, Francesco Malatesta, scrisse al C. che il lavoro procedeva alacremente e che non sarebbe mancata la doverosa "honorevole" menzione del solerte segretario di Federico. La borsa del marchese non era però così larga come l'esigente poeta pretendeva: al C. che gli aveva fatto avere una genealogia dei Gonzaga perché non tralasciasse i meriti di un solo membro della famiglia, l'Aretino replicò rimandandogliela indietro con l'avvertenza di avere "mutato di proposito" e di non volere "più finir l'opra in honore di chi mi lasciarà morir di fame". Alle proteste seguirono subito i fatti e toccò al Malatesta di segnalare al C. che la ben nota lingua maledica dello scrittore era già all'opera: al "cicalare et braveggiare" si accompagnava l'audace minaccia di riparare in Francia e di vendicarsi allora "con l'arme sue solite contra sua Ex. de la quale havea pure belli suggetti". Riuscì all'agente mantovano di arrivare, con l'assistenza del C., a unariconciliazione nella quale ebbero il loro peso minacce, non meno pesanti, di crudeli ritorsioni. L'Aretino ritornò alla Marfisa, ma senza affrettarsi troppo a finirla, finché i rapporti ritornarono a guastarsi nell'estate del 1530 per il solito motivo della ricorrente avarizia del Gonzaga, giudicata dallo scrittore assolutamente intollerabile ed addirittura offensiva. Alle prime avvisaglie diffamatorie il C. reagì questa volta con una durezza in tutto degna delle brutali e incivili abitudini del suo grossolano signore. Incaricò il nuovo agente mantovano a Venezia, B. Agnelli, di mettere a tacere lo scrittore con la minaccia che "se l'apre da mo' inanti la bocca a dire o la mano a scrivere pur del minimo non solo de la sua corte ma di Mantova, che ne resterà tanto offeso come se 'l dicesse di lui propria; et che al corpo di Jesù Christo li farà dare dece pugnalate in mezzo Realto" (Luzio, 1888, p. 100). La trattativa con l'Aretino, che accusò il colpo e lasciò cadere prudentemente ogni pretesa, si protrasse stancamente fino al 1533, ma senza approdare a risultati. L'astuto letterato riuscì infatti a disimpegnarsi agevolmente e la Marfisa restò nel limbo delle opere iniziate e non compiute.

Assai attivo fu il C. anche nei rapporti dei Gonzaga con gli artisti. Nell'estate del 1506 trattò per conto della marchesa Isabella l'acquisto del quadro Faustina per il quale il Mantegna chiedeva la somma di 100 ducati. Nel corso di queste trattative ebbe modo di esaminare l'altra tela, dedicata al Regno del Dio Como, che il maestro stava eseguendo per la marchesa. L'opera restò incompiuta per la morte del Mantegna e fu completata poi da Lorenzo Costa. Il C. la descrisse accuratamente alla marchesa in una lettera del 15 luglio 1506 che è il documento decisivo per l'attribuzione al Mantegna delle parti del quadro da lui eseguite. Due anni dopo, nel giugno del 1508, la marchesa gli chiese un distico da apporre al ritratto che di lei aveva eseguito il Costa. Rapporti di qualche importanza sono attestati anche con Lorenzo Leombruno, che il 16 marzo 1521 gli indirizzò da Firenze una lettera con il racconto di una garbata avventura di viaggio; con Giulio Romano con il quale trattò nel 1526, tramite l'agente mantovano a Roma Francesco Gonzaga, la cessione di certe "antiqualie" ai Gonzaga; con Francesco Primaticcio del quale nell'ottobre del 1527 seguì per conto del marchese i lavori di decorazione eseguiti nella sala delle aquile del palazzo del Tè. A lui si rivolse anche il ceramista lodigiano Alberto Cattaneo nel febbraio del 1526 per comunicare la sua intenzione di produrre porcellana, secondo la richiesta del Gonzaga. Particolare menzione meritano infine i rapporti intrattenuti con il Tiziano dal 1530 al 1534 con la mediazione dell'agente mantovano a Venezia Benedetto Agnelli. Fu il C. che ottenne al figlio del pittore, Pomponio, il beneficio tanto agognato di Medole e con il maestro trattò la commissione di vari quadri per il suo signore e per la marchesa Isabella.

Dopo una lunga vita operosa spesa al servizio dei Gonzaga, il C. morì a Mantova nel 1543.

Fonti e Bibl.: C. D'Arco, Not. di Isabella d'Este moglie a Francesco Gonzaga, in Arch. storico italiano, App., II(1845), p. 322; Id., Delle arti e degli artefici di Mantova, II, Documenti, Mantova 1857, ad Indicem;A. Luzio, Isabella d'Este e Leone X dal Congresso di Bologna alla presa di Milano (1515-1521)…, in Arch. stor. ital., s.5, XLV (1910), pp. 289-290; M. Bandello, Le novelle, a cura di G. Brognoligo, Bari 1928, I, pp. 163, 417; II, pp. 225, 335; P. Giovio, Lettere, a cura di G. G. Ferrero, I, Roma 1956, pp. 96, 101, 102, 104, 111, 124; L. Ariosto, Lettere, a cura di A. Stella, Milano 1965, pp. 48, 359, 360; G. Coddé, Delle esenzioni della famiglia di Castiglione e delle origine loro e fondamento, Mantova 1780, pp. 43 s.; G. B. Cavalcaselle-J. A. Crowe, Tiziano. La sua vita e i suoi tempi, I, Firenze 1877, pp. 314 s., 317 s., 326, 380; A. Bertolotti, Artisti in relazione coi Gonzaga signori di Mantova, Modena 1885, pp. 26 s., 71 s., 191 s.; A. D'Ancona, Ilteatro mantovano nel sec.XVI, in Giorn. stor. della lett. ital., V (1885), pp. 74, 76; A. Luzio, Pietro Aretino nei primi suoi anni a Venezia e la corte dei Gonzaga, Torino 1888, pp. 26, 79, 80 ss., 88, 91 s., 97, 100, 102, 104, 105; A. Bertolotti, Le arti minori alla corte di Mantova nei secc. XV, XVI e XVII, in Arch. stor. lomb., s. 2, V (1898), pp. 535, 538; R. Renier, Per la cronologia e la composizione del "Libro de natura de amore" di Mario Equicola, in Giorn. stor. della lett. ital., XIV(1889), pp. 226, 229 s.; A. Bertolotti, Figuli, fonditori e scultori in relazione con la corte di Mantova, Milano 1890, pp. 34, 48; A. Luzio-R. Renier, Mantova e Urbino, Torino-Roma 1893, pp. 252, 287; Id.-Id., La coltura e le relaz. letter. di Isabella d'Este Gonzaga, in Giorn. stor. della lett. ital., XXXIV (1899), pp. 49-54; XXXVII (1901), pp. 228-229; A. Luzio, Isabella d'Este e il sacco di Roma, in Arch. stor. lomb., s. 4, X (1908), pp. 21 s., 39 s., 51, 52-56, 63, 365, 374 s., 378 s., 382; C. Agosti Garosci, Per la cronologia di alcune novelle di Matteo Bandello, in Giorn. stor. della lett. ital., LIX(1912), pp. 95 s.; M. Catalano, Vita di L. Ariosto, I-II, Genève 1931, ad Indicem; Mantova. La storia, II, Mantova 1961, ad Indicem; Le arti, I, ibid. 1961, ad Indicem; Le lettere, II, ibid. 1965, ad Indicem.

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