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GIOLITTI, Giovanni

di Antonio De Simone - Enciclopedia Italiana (1933)
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GIOLITTI, Giovanni

Antonio De Simone

Uomo di stato, nato il 27 ottobre 1842 a Mondovì, morto a Cavour il 17 luglio 1928. Laureatosi in legge giovanissimo (1860) all'università di Torino, entrò (1862) a far parte dell'amministrazione dello stato, nella quale, salvo una breve parentesi di magistratura a Torino, restò sino ai quarant'anni, salendo ben presto ai più alti gradi, che lo posero in diretto contatto con Quintino Sella, M. Minghetti, A. Depretis. Nel 1882 era consigliere di stato, e allora entrò nella vita politica con l'elezione a deputato al parlamento per il collegio di Cuneo. Tra il 1882 e il 1886 fece parte d'importanti commissioni parlamentari, ma si fece notare soltanto nel 1888 per i discorsi contro la politica fantasiosa del Magliani, ministro delle Finanze. Dal marzo 1889 al novembre 1890 fu ministro del Tesoro nel gabinetto Crispi, e vi si segnalò perché pose in primo piano il pareggio del bilancio. Provocando la caduta del gabinetto Di Rudinì, gli succedette (10 maggio 1892) con un ministero di sinistra. Capisaldi del suo programma furono: in politica estera, accettazione della Triplice, ma interpretata come alleanza puramente difensiva: in politica finanziaria, contrariamente alle abitudini della sinistra, restaurazione del bilancio; in politica interna, pratico esperimento di democrazia: "la più ampia libertà nei limiti della legge". Volle interrompere la tradizione dello stato costante alleato e strumento delle classi benestanti, lasciando organizzare le forze operaie e, in quel tempo, specie le rurali (Fasci dei lavoratori di Sicilia), considerando i loro moti come espressione e rimedio di un profondo squilibrio sociale. Ma scoppiati gli scandali della Banca Romana, accusato di sottrazione di documenti, fu costretto a ritirarsi (novembre 1893). Si difese abilmente, e, passando all'offensiva, consegnò (dicembre 1894) alla Camera il famoso plico, nel quale, fra l'altro, erano documenti che miravano a colpire F. Crispi. Tornato al potere, in qualità di ministro degl'Interni (febbraio 1901-ottobre 1903), nel gabinetto Zanardelli, si appoggiò alle forze dell'estrema sinistra, ne favorì il processo di costituzionalizzazione, e le oppose alle correnti conservatrici e reazionarie. Presentendo la caduta del gabinetto, che infatti poco dopo si ritirò per motivi di politica estera, si dimise ed ebbe così l'incarico extraparlamentare (ottobre 1903) di costituire un suo gabinetto. Vinta una breve opposizione socialista, determinata dal suo netto appoggiarsi alla monarchia, affermò di continuare con fede crescente la politica della più ampia libertà, che, permettendo ai lavoratori di raggiungere notevoli benefizî, aveva reso possibile una grande pacificazione sociale, sia pure dichiarando che non intendeva subirne le ideologie sovvertitrici; se non che, provocato dagli elementi più intransigenti, scoppiò (settembre 1904), con terrore della borghesia conservatrice, lo sciopero generale. Per stroncare il demagogismo, G. sciolse bruscamente la Camera, indisse (novembre) le elezioni, favorendo le tendenze moderate e appoggiandosi alle forze cattoliche (nel giugno 1905 si ebbe così l'enciclica papale che aboliva di fatto il non expedit), ma impose alla nuova Camera importanti riforme sociali. Il grosso dell'estrema sinistra e del socialismo fu così avviato inevitabilmente alla pratica riformistica, e per non turbare questo processo che, secondo lui, rafforzava la compagine nazionale, di fronte all'intransigenza dei sindacati dei ferrovieri, ai quali aveva imposta la militarizzazione, si dimise (marzo 1905). Tornato al potere nel maggio, accentuò il carattere economico della sua politica, favorendo le classi produttive, con l'intensa legislazione sociale e con un'enorme somma di lavori pubblici; e ancora una volta, per fronteggiare opposizioni sovversive, si riappoggiò ai cattolici (elezioni 1909), assalendo la plutocrazia e la ricchezza improduttiva, con i progetti delle convenzioni marittime e dell'imposta progressiva. Essendo stati respinti, si dimise (dicembre 1909). Come prova la felice conversione della rendita dal 5 al 3½% l'economia italiana ebbe uno sviluppo mai prima raggiunto. Nella politica estera G. continuò il logoramento della Triplice, dopo l'appoggio alla Francia sulle questioni marocchine; e nell'ottobre 1907 avvenne la visita dello zar di Russia a Racconigi. Tornato al potere (marzo 1911) riprese la politica di sviluppo equilibrato delle varie forze. Limitò l'influenza clericale, chiamando i radicali nel ministero e riappoggiandosi al socialismo, ma quasi a contenere queste altre forze, dichiarò (ottobre) la guerra, preparata da tempo, alla Turchia. Poco prima della conclusione della pace, fece accettare il suffragio quasi universale e il monopolio delle assicurazioni sulla vita. Dopo la pace, rinnovò (dicembre 1912) in anticipo la Triplice, richiestone dagli alleati già durante la guerra libica. Dalle elezioni del 1913 uscì una maggioranza meno compatta e G., colta l'occasione del distacco dei radicali, lasciò il potere. Sul finire del processo di decomposizione dei vecchi partiti si manifestarono nuove correnti più intransigenti, meno disposte a subire il livellamento dialettico giolittiano. La guerra mondiale lo sorprese a Londra, dove apprese la decisione per la neutralità che approvò calorosamente e che sostenne in seguito, dubitando che lo stato italiano avesse sufficiente solidità per partecipare a una guerra così immane; e pur convinto che "parecchio" (lettera del 5 gennaio 1915 all'on. Peano) poteva ottenersi senza guerra, dichiarò di approvarla, una volta imposta dalla necessità. Giunto a Roma (9 maggio), provocò in favore della neutralità una dimostrazione extra-parlamentare da parte di più di 300 deputati e 100 senatori, mettendo in crisi il gabinetto Salandra, che però fu riconfermato dal re. A giustificazione del suo operato, G. sostenne nelle Memorie di non aver avuto notizia del Patto di Londra, fatto che pare confermato e dal diario del Bertolini (cfr. Nuova Antologia, 1923) e dal fatto stesso che G., dopo un colloquio col re, non credette di accettare il potere. Comunque, uomo di altra generazione, mostrò di non avere netta intuizione della nuova situazione, sia per l'impreparazione militare nella quale lasciò il paese, malgrado sapesse dei tentativi, da lui stesso sventati, dell'Austria contro la Serbia (luglio 1913), sia perché ritenne che la giustificazione della guerra si sarebbe esaurita nella conquista di un tratto di territorio.

Il ritorno al potere del G. (giugno 1920), dopo il pericoloso disordine del dopoguerra, parve a tutti la soluzione più soddisfacente. Infatti, la sua azione non fu del tutto negativa, sebbene andasse incontro alla nuova realtà con i vecchi e ormai inadeguati sistemi (occupazione delle fabbriche, settembre 1920) e sotto l'influenza della stanchezza del paese abbandonasse Valona, sia pure concludendo dignitosamente il difficile trattato di Rapallo e denunciando quello italo-greco che assicurò all'Italia definitivamente il Dodecaneso. Le elezioni del maggio 1921, indette con la speranza di fiaccare la demagogia, non diedero altra novità se non la comparsa alla Camera di un agguerrito manipolo fascista. Respinto il suo progetto sulla burocrazia, abbandonò (giugno) definitivamente il potere. Di fronte al fascismo vittorioso, sebbene passasse all'opposizione (novembre 1924) e con le ultime parole in parlamento (16 marzo 1928) condannasse la legge per la Camera corporativa, pure mantenne un leale e sereno atteggiamento

Bibl.: G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano 1922; C. Castorina, Sicilia e G., Catania 1909; Ademaro, G. G. e la politica del nuovo regno, Roma 1910; V. Chiusano, G. G. nella storia sociale it. degli ultimi 30 anni, Pinerolo 1913; F. Burzio, G., in La Ronda, settembre 1921; V. Pareto, Due uomini di stato, in La Ronda, luglio 1921; Spectator, G. G., in Nuova Antologia, 1 aprile 1928; A. Labriola, Storia di dieci anni 1899-1909, Milano 1910; F. Papafava, Dieci anni di vita italiana 1899-1909, Bari 1913; L. Salvatorelli-T. Palamenghi-Crispi, G. G. Saggio storico biografico, Roma 1913; A. Salandra, La neutralità, Verona 1928; id., L'intervento, Verona 1930; G. Volpe, L'Italia in cammino. L'ultimo cinquantennio, Milano 1928; B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari 1929; R. De Cesare, Mezzo secolo di storia it., Milano 1911.

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