GIRAUD, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 56 (2001)

GIRAUD, Giovanni

Guido Gregorio Fagioli Vercellone

Nacque a Roma il 28 ott. 1776 dal conte Ferdinando, fratello del cardinale Bernardino, e da Teresa Folcari, secondogenito di quattro maschi, dei quali Pietro a lui maggiore e Giuseppe e Francesco cadetti. La famiglia, di origine francese, si era trasferita da Lione a Roma oltre un secolo prima con Jean, bisnonno del G., e il cognome era ormai pronunciato all'italiana (Giràud). La famiglia aveva conseguito nella nuova sede un censo e una posizione sociale ragguardevoli. Pur amato dal padre, che era tuttavia espressione di un ambiente fra i più chiusi e retrivi, il G. fu affidato per la prima educazione a un sacerdote marchigiano, G. Della Meldola, "sufficiente grammatico", come egli lo definisce, ma gretto, superstizioso e fanatico cabalista del giuoco del lotto, il quale con i suoi metodi rigidi lo spinse a non amare lo studio. Fortunatamente, questo precettore, avuta un'eredità al suo paese, lasciò l'incarico quando il G. aveva undici anni; lo sostituì un don S. Del Piglio che, anche se non molto più preparato, era almeno più affabile e indulgeva volentieri all'inclinazione dell'allievo a osservare e studiare i caratteri delle persone intorno a lui, per descriverli in bozzetti e divertenti caricature. Inoltre, gli consentì di leggere nel tempo libero le opere di C. Goldoni, che lo appassionarono. Nonostante questi dichiarati interessi, il padre non gli permise di assistere a rappresentazioni teatrali fino ai 14 anni, e anche allora furono spettacoli edificanti dati da religiosi, presso i padri teresiani o presso il Conservatorio dei pericolanti; solo nel Carnevale del 1791 il G. poté assistere a una vera commedia, intitolata Il mondo della luna, riportandone una vivissima impressione.

È possibile seguire le sue prime esperienze sceniche attraverso le memorie di quel periodo da lui premesse all'edizione romana delle sue commedie del 1808: con l'aiuto dei fratelli, dell'aio e di un attore professionista ingaggiato per quelle occasioni, durante il Carnevale egli si appassionava ad allestire in casa spettacoli di burattini e di filodrammatici in erba, su canovacci di Ciccio Carlone e dell'abate P. Chiari, ma talvolta anche con scenette originali, abbozzate da lui in versi martelliani, nelle quali sosteneva sempre le parti principali, spesso femminili, per un pubblico familiare.

A sedici anni perse il padre: il temperamento vivace e ribelle lo spinse, fra amorazzi e stravizi, a una vita assai libera, che però almeno gli consentì di dare sfogo alla sua passione per il palcoscenico, sia frequentando assiduamente i teatri, sia svolgendo un'intensa attività filodrammatica, sia approfondendo con criteri metodici e critici la conoscenza dell'opera goldoniana e di altri autori teatrali. Di bell'aspetto, il G. possedeva molteplici talenti, e li coltivò: disegnava, dipingeva a olio, abbozzava in cera, incideva su pietra tenera, declamava con eleganza (aveva preso lezioni di dizione da P. Ferretti), suonava il violino e il cembalo, oltre naturalmente a scrivere. La sua prima commedia rappresentata fu La conversazione al buio, messa in scena a sua insaputa a Venezia nel 1804, ma il suo vero esordio professionale ebbe luogo a Roma nel 1805 con L'onestà non si vince, rappresentata dalla compagnia di G. Perotti, che la portò al successo anche a Ferrara e Bologna. Sembra tuttavia che i primi lavori da lui composti siano stati Il merlo al vischio (1797), mai rappresentato, e La gelosia per equivoco (1799), ispirata a Le cocu imaginaire di Molière, che, più volte rimaneggiata, fu rappresentata a Spoleto solo nel 1807 dalla citata compagnia Perotti, con grande successo. Dopo due anni di silenzio, dal 1805 al 1807, il G. uscì con sei commedie nuove, che insieme con altre confluirono nella citata edizione romana delle Commedie, proprio alla vigilia della seconda invasione francese.

In politica, quando le vicende avevano imposto delle scelte, le tradizioni familiari l'avevano indotto a schierarsi in difesa dell'opulenta società aristocratica e clericale alla quale apparteneva, la stessa contro cui in seguito indirizzò gli strali della sua satira pungente. Ammesso col grado di alfiere nell'aristocratica compagnia "dei rossi" della milizia pontificia, ne fu radiato per aver accettato una sfida a duello. Ciononostante, nel 1796, a capo del secondo squadrone di volontari a cavallo, prese le armi contro i Francesi, come fecero anche gli zii paterni Alessio e Stefano, che fornirono a loro spese al papa 30 uomini armati a cavallo. In quell'occasione il G. fu mandato a recuperare Serravalle (presso Foligno), e vi riuscì. Tornato alla vita civile dopo il trattato di Tolentino, alloggiò con la famiglia nel palazzo Ruspoli al Corso, cominciando a mostrare qualche tratto di bizzarria e di misantropia che il tempo avrebbe accentuato, facendo di lui un "inconscio rivoluzionario" (T. Gnoli): in casa aveva voluto crearsi uno spazio tutto suo, dividendo con tramezzi in sette stanzette un grande salone che si trovava proprio sopra i locali del caffè Nuovo al pianterreno, rinomato luogo d'incontro di artisti e scrittori, del quale il G. fu assiduo frequentatore. Gli epigrammi pungenti, che non risparmiava a nessuno (neppure ai familiari), e il temperamento vivace gli crearono molti nemici e lo misero spesso in situazioni difficili: per esempio il 4 genn. 1809, dopo una lite a un ricevimento dei Torlonia, solo una tempestiva incarcerazione poté evitargli un duello col principe di Piombino, L. Boncompagni, di cui aveva messo in ridicolo la moglie.

Delle citate commedie rappresentate nel periodo 1807-09, tutte di successo, si misero particolarmente in luce Don Desiderio disperatoper eccesso di buon cuore e L'ajo nell'imbarazzo, data al teatro Valle di Roma nell'autunno del 1807 e sospesa dalla censura pontificia dopo tre sole rappresentazioni. Essa fu però tradotta in francese (lo fu poi in russo da N.V. Gogol´, fu musicata nel 1824 dal G. Donizetti) e rappresentata a Parigi con tale successo da essere contemporaneamente in cartellone in tre diversi teatri. Sull'onda di questo trionfo il G. decise nel 1809 (tutti i Giraud erano divenuti filobonapartisti accesi) di recarsi in quella città, allora vera capitale culturale e politica d'Europa, per cercare di ottener qualcosa nella gran distribuzione di cariche e onori che vi si svolgeva. Non avendo avuto successo, viaggiò all'estero e in Italia (Mantova, Modena, Milano e specialmente Bologna, dove pensò di stabilirsi), ma controvoglia dovette rientrare a Roma per affari di famiglia, e vi si ammalò di febbri malariche, andando a trascorrere la convalescenza in una sua villetta sui colli Albani. Nel 1812, al rientro da un viaggio in Inghilterra, si fermò nuovamente a Parigi, e questa volta poté ottenere la nomina imperiale a direttore dei Teatri nei dipartimenti dell'Impero al di qua delle Alpi, conferitagli il 12 giugno 1813. Nel breve tempo che ricoprì quell'incarico egli ispezionò i teatri del Piemonte e della Toscana, redasse un progetto per la regolamentazione dei diritti d'autore e cercò di promuovere la fondazione di una compagnia stabile a Roma. Alla caduta di Napoleone non solo non esitò a far buon viso alla Restaurazione, ma accorse a Parigi dove, sollecitato dal celebre compositore F. Paër, compose un inno in onore di Luigi XVIII, musicato e presentato al re dallo stesso Paër; subito dopo passò a Londra, invitato dal governo a scrivere un Cantata per il Gran Teatro, destinata alle feste in onore dei sovrani alleati riuniti a Parigi. Poi però durante i Cento giorni non ebbe difficoltà a rinnovare il suo ossequio al Bonaparte, col quale ebbe un abboccamento a Lione (in quell'occasione irritò Napoleone correggendolo ogni volta che pronunciava il suo cognome alla francese).

Rientrato in Italia in condizioni finanziarie non floride, nel marzo 1815 si trovò a Firenze con un permesso di soggiorno di tre mesi, ma tanto brigò e tanto brigarono i suoi amici che vi rimase per nove anni. Volle farvi rappresentare alcune sue nuove commedie, che ebbero però un esito incerto. Sia per questo appannarsi della sua popolarità, sia (e forse più) a causa della pioggia di satire pungenti di cui aveva inondato la città ("brindisi temerari, atroci sonetti, taglienti epigrammi, satire mordaci": Gnoli, p. 77), vide chiudersi per lui le porte di molti salotti, fra cui quello della contessa d'Albany Luisa Stolberg-Gedern, che gli aveva offerto l'occasione di utili contatti col mondo letterario; gli rimase fedele la contessa Giulia Orlandini Guadagni, di cui pare sia stato seriamente innamorato, il cui salotto era però sorvegliato dalla polizia come pericolosamente liberale. Fu allora che, trascinato dalla sua indole fantasiosa, decise di darsi alle speculazioni commerciali (ne aveva qualche esperienza giovanile per aver partecipato a Roma con i parenti materni Folcari a traffici di grani e oli, e a una fabbrica di sapone). Fondata una casa di commercio, nel novembre 1817 si recò a Roma e vi liquidò quasi tutto quanto possedeva, impiegando i capitali nell'impresa. Inizialmente i risultati sembrarono soddisfacenti, ma già nel 1822 la situazione era divenuta preoccupante. Allora, forse suggestionato dalle speculazioni cabalistiche di cui lo aveva infarcito il suo primo precettore, pensò di organizzare una grande lotteria (la lotteria di Coltibuono), dalla quale si aspettava la ricchezza. Invece l'esito fu disastroso, ed egli venne coinvolto in alcune operazioni non proprio onorevoli, tanto che nel 1824 fu costretto dalla polizia a lasciare il Granducato, rientrando a Roma, dove lo richiamavano i fratelli. Nel 1816 a Firenze aveva pubblicato in due volumetti (cui era premesso un Discorso suldialogo in versi) una raccolta di brevi componimenti scenici e di proverbi, in prosa e in versi martelliani, destinata alle piccole recite casalinghe e ai burattini, con intenti moralistici, cui diede appunto il titolo di Teatro domestico.

A Roma continuò a perseguire le sue chimere commerciali improvvisandosi banchiere: nel 1825 presentò al papa il progetto per una Cassa di sconto che fu approvato e applaudito nell'ambito dei ministeri, ma incontrò l'opposizione del pubblico, sobillato dai suoi molti nemici e da quanti ritenevano quell'impresa lesiva dei propri interessi. La banca, cui si erano associati Gherardo De Rossi e Giuseppe Gozzani, intimo amico del G., con un capitale di 300.000 lire, aprì gli sportelli nel 1826, ma le cose presero subito una cattiva piega e le azioni della società andarono a picco; il G. per punto d'onore volle ritirarle tutte pagandole alla pari e si addossò l'intera perdita, di cui si rifece in parte cedendo al governo la privativa, dalla quale nacque la poi famigerata Banca romana. Il G. era ormai divenuto un personaggio un po' patetico: divideva il suo tempo fra il caffè Nuovo, dove aveva una "nicchia" personale e, nella buona stagione, l'Acqua acetosa, da dove rientrava la sera guidando una vecchia rozza, fra i lazzi dei ragazzini. È di quel tempo la sua unica lirica, Le maledizioni, gonfia di risentimento e imprecazioni. Tuttavia nel 1831 trovò ancora l'energia di abbozzare col governo un contratto molto favorevole per l'appalto della neve dei Campi di Annibale, che gli fu sottratto all'ultimo istante da mons. A. Di Pietro, il futuro cardinale, del quale si era fidato. Si vendicò con un atroce sonetto, l'ultimo suo.

Ridotto dall'opulenza a uno stato di quasi indigenza, si vide talvolta costretto ad alienare preziosi oggetti di famiglia; nell'estate del 1834 cadde in uno stato di grave depressione che minò la sua salute. Fu colpito da una paresi al lato sinistro e da penosi disturbi intestinali; sentendosi per di più guardato con sospetto dalle autorità, per la sua spregiudicatezza e per l'acuta critica che i suoi scritti facevano di quella società (tra quelli dell'ultimo periodo emblematici la commedia Il galantuomo per transazione, che poté essere rappresentata solo postuma nel 1841 al teatro Argentina, e la riuscita Satira sulla giustizia), si ritirò dapprima ad Albano, poi si trasferì a Napoli per tentare la cura dei bagni, alloggiando all'albergo di Russia a S. Lucia. Il 3 settembre fece testamento, nominando erede fiduciario il fratello maggiore Pietro, al quale raccomandò di onorare ogni suo impegno, dimostrando grande attenzione per la propria reputazione.

Il G. morì a Napoli il 1° ott. 1834 e fu sepolto in un convento di frati. Gli fu eretto un cenotafio nell'atrio della chiesa di S. Eustachio a Roma.

Vista l'ingente e disordinata mole delle opere del G., per un diligente elenco dei lavori teatrali si rimanda alla voce di N. Gallo nell'Enciclopedia dellospettacolo (V, coll. 1333 s.), che li divide in editi o rappresentati e inediti o mancanti di dati sulla rappresentazione; e, per le satire e altre composizioni poetiche, al lavoro di T. Gnoli. Ci si limita qui a fornire l'indicazione delle principali edizioni delle opere teatrali: Commedie delconte G. Giraud, con una prefazione autobiografica, Roma 1808 (prevista in 5 tomi, ma interrotta al IV); Teatro domestico… (2 tomi, Firenze 1816 e 1825); Commedie del conteG.Giraud, ibid. 1825 (contiene in altro ordine tutte le commedie dell'edizione 1808, più Don Desiderio disperato per eccesso dibuon cuore, L'onestà non si vince, I gelosi fortunati e Il maestro e la serva); Commedie scelte delconte G. Giraud, Parigi 1829; Opere edite edinedite, in 16 voll., con nota autobiografica del G. nel vol. XVI (edizione farraginosa e scorretta, censuratissima e priva delle satire), Roma 1840-42; Théâtre d'A. Notaet du comte Giraud, ou Choix des meilleures pièces…, Paris 1839; Commedie scelte di G. Giraud,precedute da uno studio critico di P.Costa, Roma 1903; L'ajo nell'imbarazzo, a cura di F. Martini, Milano 1922; L'aio nell'imbarazzo, in Il teatro italiano, V, La commedia e il dramma borghese dell'Ottocento, a cura di S. Ferrone, 1, Torino 1979, pp. 3-52. Va infine sottolineato come, nonostante la sua proclamata sudditanza al Goldoni, il teatro del G. si collochi piuttosto "nel filone della commedia larmoyante e della nuova tendenza realistico-romanzesca […]. Mosso da vari interessi umani e sociali, con occhio attento anche se non profondo, egli colse aspetti e vizi del suo tempo portandoli sulle scene con lo stesso spirito acre che gli dettò le satire […]. Puntò soprattutto al giuoco delle situazioni comiche e dei caratteri, […] alla rappresentazione di una società corrotta e decrepita, ora nei modi satirici degli epigoni molieriani, ora in quelli più propriamente farseschi da opera buffa […]. Di mediocre cultura, ma in possesso della più agguerrita tecnica teatrale (anche con precise didascalie e ripetuti avvertimenti agli attori), riuscì a dar vita ad alcuni tipi, come l'ajo, don Desiderio, il figlio del signor padre, che rimasero con successo sulle scene per tutto l'Ottocento" (Gallo, col. 1333), e talvolta ancora oggi, specialmente a Roma.

Fonti e Bibl.: Roma, Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele II, Coll. autografi, Epistolario G. Giraud - G. Gozzani (45 lettere dal 1816 al 1834, e 54 senza data); A 23 e A 49: Lettere di G. Giraud a vari; A 196, Basi di unabanca di sconto a Roma; A 23/5: Progetto per laformazione di una società di dilettanti a Roma; A. 49.5: Giraud famiglia, carte varie; Roma, Museo storico del Risorgimento, bb. 340, 28/1; 341, 17; 548, 32/1-2, 33/1, 34/1, 35/1 (sette lettere del G. a vari, dal marzo 1824 al dicembre 1834); G.I. Montanari, Necrologio di G. G., in La Ricreazione (Bologna), 16 ott. 1834; Stendhal, Rome, Naples et Florence, Paris 1826, pp. 122 s.; L. Cardinali, Biografia di G. G., in L'Album (Roma), 26 genn. 1839, pp. 369 s. (con ritratto); G. Giraud, Memorie sulla Cassa disconto, in Id., Opere…, XVI, Roma 1842, pp. 82 ss.; T. Amayden, La storia delle famiglie romane, I, Roma s.d. [ma 1860], p. 242; V. Carrera, Il conte G. G., Firenze 1871; I. Ciampi, La commedia italiana, Roma-Imola 1880, pp. 304 ss.; F.F. Carloni, Gl'italiani all'estero…, II, Città di Castello 1890, p. 313; D. Cortesi, Memorie della scomparsa societàromana:G. G., in La Vita italiana, II (1895), 5, pp. 22-28; G. De Frenzi [L. Federzoni], Un commediografo banchiere: il conte G. G., in Rivista politicae letteraria, 15 marzo e 15 maggio 1901; Id., G. G. e le suecommedie postume, in Flegrea (Napoli), 5 ott. 1901, pp. 34-42; T. Gnoli, Le satire di G. G.,con uno studio biografico-critico, Roma 1903; P. Costa, Prefazione critica, in G. Giraud, Commedie scelte…, Roma 1903; Id., Roma e G. G., in Roma, I (1923), 2, pp. 22-25; R. Barbiera, G. G., ilconte commediografo, in Id., Vite ardenti del teatro (1700-1900) da archivii e da memorie, Milano 1931, ad ind.; G. Mazzoni, L'Ottocento, I, Milano 1934, pp. 139-145; S. D'Amico, Dramma sacro e profano, Roma 1942, pp. 53-66; A.G. Bragaglia, Le maschere romane, Roma 1947, pp. 450-457; N. Gallo, G., G., in Enciclopedia dello spettacolo, V, Roma 1958, coll. 1332-1334; S. D'Amico, Storia del teatro drammatico, III, Milano 1958, pp. 82-89; D. Silvagni, La corte pontificia e la società romana nei secoli XVIII e XIX, Roma 1971, I, pp. 90, 323, 329; II, pp. 95, 98, 195; III, pp. 9, 13, 16, 63 s., 250 s., 260, 264; M. Apollonio, Storia del teatro italiano, II, Firenze 1981, ad ind.; G. Pullini, Teatro italiano dell'Ottocento, Milano 1981, ad ind.; R. Merolla, Lo Stato della Chiesa, in Letteratura italiana (Einaudi), Storia e geografia, II, L'età moderna, 2, Torino 1988, pp. 1083, 1093; F. Portinari, S. Pellico e il teatro romantico, in Storia della civiltà letteraria italiana (UTET), IV, Torino 1992, p. 332; C. Meldolesi - F. Taviani, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, Roma-Bari 1995, pp. 215 s. e ad ind.; S. Ferrone - T. Megale, Il teatro dell'età romantica, in Storia della letteratura italiana (Salerno), VII, Il primo Ottocento, Roma 1998, pp. 1034 s.; E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri, VI, Venezia 1838, pp. 426-433; F. Regli, Dizionario biografico dei più celebrati poeti ed artisti melodrammatici, ad vocem; Dizionario del Risorgimento nazionale, III, p. 236 (E. Michel); G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, LXXIX, p. 81; G. Casati, Dizionario degli scrittori d'Italia, III, ad vocem (con bibliografia delle opere e le trame delle principali commedie); Catalogo dei libri italiani dell'Ottocento, Autori, III, p. 2190.

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