GONZAGA, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GONZAGA, Giovanni

Gino Benzoni

Nato a Mantova nel 1474, terzo figlio maschio del futuro marchese Federico I e di Margherita di Wittelsbach, è istruito, nella primissima infanzia, con i fratelli maggiori Francesco e Sigismondo, da Giovan Mario Filelfo nel 1478-80 e quindi dal veronese maestro Colombino, già collaboratore dell'edizione mantovana del 1472 della Commedia. E, una volta marchese (24 luglio 1484) il primogenito Francesco II, è lungo il marchesato di questo che si svolge il grosso dell'esistenza del G., sin dall'inizio collocato nel cono d'ombra dell'eminenza del fratello, dunque subito destinato a funzioni sussidiarie e subalterne, quale quella di presenziare - in rappresentanza di Francesco - alle nozze, del 28 ott. 1489, a Pesaro della sorella Maddalena con il signore della città Giovanni Sforza, per poi partecipare ai gran festeggiamenti del 29 e del 30. E - stando alle descrizioni da lui inviate al marchese - è stato soprattutto il gran banchetto del 29 a impressionarlo. Certo che al G. le feste non dispiacciono. E ben lo sa la cognata Isabella la quale - scrivendogli, il 19 genn. 1491, da una Milano tutta festosa per le nozze di sua sorella Beatrice d'Este con Ludovico il Moro - da un lato si rammarica perché egli non possa godere di tanto divertimento, dall'altro, per fargli "gola gola" (c'è, nel corrispondere tra i due, un abbandono confidenziale non riscontrabile quando, invece, entrambi debbono scrivere al marchese; in tal caso entrambi sono un po' impettiti) gli preannuncia l'intenzione di una puntata a Genova.

Senza seguito di banchetti e spettacoli, invece, il matrimonio del G., del 20 giugno, a Bologna con Laura, figlia di Giovanni Bentivoglio. Giunto, con il marchese, lo stesso giorno da Mantova il G. - che ha preso alloggio da Carlo Grati, che ha combinato le nozze - riparte pressoché subito. Con tutta probabilità la consumazione del matrimonio viene rinviata al 10 febbr. 1492, quando il G. torna a Bologna rimanendovi per tutto il carnevale "in festa et allegrezza", essendo "da tutta la città molto riverito et accarezzato". Una "bellissima festa" viene organizzata in suo onore dal suocero; ed egli, in maschera e a cavallo di un asino, è attivo nella "battaglia delle uova".

Tornato a Mantova, il 20 giugno è di nuovo a Bologna per le nozze del cognato Alessandro Bentivoglio con Ippolita Sforza - che ha fatto il suo ingresso scortata dal marchese mantovano e dal G. - partecipando, il 21, alla giostra. E nuovamente a Bologna il G., con 40 cavalli, il 3 ottobre ospite del suocero per poi ripartire alla volta di Roma a omaggiarvi, per conto del marchese, il neopontefice Alessandro VI. Dopo di che, solo il 19 giugno 1493 è a Bologna a "visitare la sposa", che, nel frattempo, non s'è mai mossa dalla città. È solo all'inizio del 1494 che Laura - scortata da una eletta comitiva di 120 persone inviata dal G. per condurla finalmente a Mantova - si trasferisce presso il marito, che, nell'aprile, risulta a Urbino, donde, il 25, informa che Giovanni Santi, ammalato, non ha "forniti" i ritratti commissionatigli.

Già in settembre, il G. dovrebbe portarsi, con 50 uomini d'arme, al campo aragonese. E lo si attende a Barbiano, poi a Sant'Agata, poi a Faenza, "di dì in dì" - come scrive Piero Dovizi a Piero de' Medici - senza che in ottobre sia ancora comparso. Un "ritardo", pare, dovuto ai "vinitiani" che trovano a ridire sul fatto "meni huomini del marchese senza loro licentia". Di combattere, comunque, il G. non ha fretta. Voluta, invece, da lui con determinazione, all'inizio del 1495, la "festa" oltremodo "alegra", cui partecipa il marchese "vestito a la stradiotta con tutta la corte". Sontuosa la cena, seguita dalla recita d'una rappresentazione allegorica composta da Serafino Aquilano, ove questi impersona la Voluttà, mentre Tommaso Antonio Ranzone fa la parte della Virtù e il duca di Calabria Ferdinando d'Aragona fa quella della Fama. C'è, quindi, un'altra recita di "Zafarano" che ha per tema la pudicizia. E, infine, il ballo, di cui è "guidatore" Fritellino, ossia il buffone ferrarese Giovan Francesco Corione detto anche Frittella. Così, diffusamente, nella lettera del G. del 25 gennaio alla cognata Isabella allora a Milano, la quale replica - c'è tra i due una gara in fatto di divertimento -, l'11 febbraio, a sua volta con una lettera: "nui anchora", scrive al G., "stiamo qua ogni dì in feste et piaceri", nel sentire il racconto dei quali certo il G. proverà "grande invidia".

Entrato, nel maggio, al servizio del Moro - che lo assume per compiacere il fratello -, il G. partecipa all'offensiva antifrancese della Lega italica: è, quindi, all'assedio di Novara, per poi adoperarsi in incursioni in territorio sabaudo mirate a punire la reggente, la duchessa Bianca di Monferrato. Ancora impegnato militarmente il G. nel 1496: in aprile, con 50 uomini, è a Somma per "servire" il re Ferdinando II d'Aragona. E, insieme con il cognato Giovanni Sforza, opera al comando di 200 cavalli. Decisiva - a determinare la resa, del 21-22 luglio, di Atella - la cattura, da parte sua, nella notte tra il 18 e il 19, di una colonna di rifornimenti alla piazza assediata. Finita, con la caduta di questa, la campagna militare, il G. ritorna a Mantova donde, a fine novembre, si porta a Milano, "ad quid non se intese publice", annota Sanuto.

Sospettosa la Serenissima - e non a torto - del marchese di Mantova e attenta, di conseguenza, anche ai movimenti del fratello. Questi, comunque, nel settembre del 1498 risulta aspirare - attratto dal "soldo" della Repubblica che compensa "bene" - a un arruolamento sotto le insegne marciane. Ma non tanto a sé deve pensare il G., quanto al fratello. Sicché, nel novembre, tramite Donato di Preti, suo segretario, cerca di persuadere la Repubblica che il marchese la parola la mantiene, che rispetta "la fede data", che non si discosta dall'impegno di "servir" Venezia "con la sua conduta". Così, mentre Francesco sta per essere nominato, il 13 dicembre, capitano generale delle milizie sforzesche essendo subito costretto a piroettare per schivare d'essere travolto nella disgrazia del Moro e sottrarsi ai fulmini di Luigi XII. E utilizzato come pedina e parafulmini il G., nominato, il 12 sett. 1499, procuratore del fratello per trattare con il re di Francia, al cui seguito di lì a poco il G. entra a Milano. Sballottato sin fisicamente il G. dalle acrobazie politiche del marchese, che dovrebbe soccorrere il Moro, ma non lo fa.

Nel contempo Francesco spedisce a combattere al suo posto il G., che, il 19 febbr. 1500, è con il Moro nella conquista di Vigevano, che, a fine marzo, è, con 700 balestrieri a cavallo, a Marignano. Ne fugge, essendo "incalzato da li villani di Lodi" e riparando a Sant'Angelo Lodigiano. Ma viene catturato, con il cardinale Ascanio Maria Sforza e "molti nobili milanesi", l'11 aprile e con questi condotto a Piacenza, "prexon de certi villani". Si libera pagando, si dice, 3000 ducati, riparando, il 16, a Mantova "suso una cavala", tutto malconcio e "svalizato", mentre, da Milano, Giorgio d'Amboise va "manazando" sdegnato Francesco per l'aiuto prestato, tramite il G., al Moro. Ed ecco, allora, che il marchese assicura che il G. ha agito di sua iniziativa, non senza promettere che lo punirà con un severissimo bando. E, in effetti, il 26 a Venezia "par il marchexe di Mantoa" l'abbia "bandizato". Inopportuno, in ogni caso, che il G. rimanga a Mantova.

E, infatti, si allontana. Stando alle informazioni che su di lui giungono a Venezia, a fine luglio è a Pesaro, all'inizio d'agosto è ad Ancona per "navegar" di lì "a Fiume e in Quarner" con una caravella con la quale, nelle acque del Quarnaro, affronta una "saita", quasi voglia condurre una lotta personale contro il Turco. E pare che "vestito di beretin, con barba", con 30 cavalli e 40 persone voglia entrare in Bosnia a disturbarvi Iskender pascià. Ma successive notizie lo dicono a Fiume diretto a Lubiana per portarsi "dal re dei romani" Massimiliano. Per il capitano del Cadore Giovanni Navagero - così, il 23 agosto, una sua lettera - il G. "è passà di certo loco" con dodici cavalli. Tal Antonio Cassaro il 4 settembre avvisa i rettori di Brescia di averlo incontrato per via e di avergli parlato; e il G. gli avrebbe detto che va ad Augusta, da Massimiliano, "perché francesi lo vol per prexon". Evidentemente si appella alla protezione cesarea.

Nel contempo, la procura, rilasciatagli il 14 ottobre dal fratello, per la riscossione di qualunque somma ottenibile dall'eredità della loro zia Paola Gonzaga - scomparsa, al più tardi nel 1496, aveva sposato, nel 1478, il conte di Gorizia Leonardo, alla morte del quale, nel 1500, la contea passa agli Asburgo - chiarisce che il G. non è un errabondo cavaliere caduto in disgrazia, ma espressione della corte gonzaghesca. Sicché la sua andata in Germania si configura come una missione, nella quale sta a lui - come scrive il 27 ottobre da Norimberga - sollecitare un qualche intervento di Massimiliano che freni la protervia di Cesare Borgia. Latore, insomma, il G. di timori diffusi e non solo mantovani, se Caterina Sforza è a lui che si rivolge perché raccomandi "a quella maestà imperiale" pure "tutte le cose" sue. Certo che, contro il Borgia, di lì a due anni il G. addirittura scende in campo in soccorso del suocero. Repentinamente, il 2 nov. del 1502, entra nottetempo con cento armati a Bologna. Mossa aspramente disapprovata dalla cognata Isabella - reggente il Marchesato in assenza del marito -, che proibisce ai sudditi di militare per altri che per il "Valentino", che promette la forca a quanti, seguendo il G., disobbediscano. Uno sdegno artefatto quello d'Isabella contro il G., a stornare dal Marchesato ritorsioni di Cesare Borgia, a non suscitare su Mantova ire d'Alessandro VI, di quello padre.

Per fortuna, la "pace" tra Valentino e Bentivoglio rasserena la situazione. Ma il G., che per un po' si è compiaciuto di qualificarsi "reipublicae Bononiensis armorum gubernator", si ritrova cogli uomini d'armi, circa cento, assoldati inutilizzati. E li offre - tramite Agostino Maria Beccaria -, il 19 dicembre, alla Repubblica che, però, lascia cadere l'offerta. Indicativo, comunque, questo suo aspirare a un qualche impiego veneziano. Forse vuol sottrarsi al disinvolto destreggiarsi del fratello, forse spera, se arruolato dalla Serenissima, in un'affermazione prestigiosa non condizionata dal manovrare del marchese e di sua moglie. Fatto sta che, all'inizio del 1503, il podestà di Verona Bernardo Bembo segnala come il G. - al contrario della "marchesana" - sia sempre disposto a fornire alla Repubblica "biave di cavallo", continui a dirsi "servitor" di Venezia, insista ad assicurare che "voria esser con la Signoria nostra".

Assoldato, invece, il G. - del 16 maggio le credenziali dei Priori - da Firenze. È, dunque, "soldato de' signori fiorentini", come scrive al fratello il 28, lo stesso giorno in cui viene investito, a titolo di feudo, di beni situati nella zona di Revere, Borgofranco e Sermide, dallo zio Ludovico Gonzaga vescovo di Mantova. Un'investitura che sarà confermata, il 23 maggio 1511, dal fratello cardinale Sigismondo, a quello subentrato nel vescovado. Destinazione del G. il non ancora iniziato "guasto" di Pisa, per il quale Firenze va adunando forze. Comunque, nel tardo autunno, il G. è a Mantova, donde riparte all'inizio del 1504 con 50 uomini d'armi e 100 cavalleggeri passando, il 30 gennaio, per Ferrara dove visita "secrete" il vicedomino veneziano Marco Zorzi per fargli presente che, finita, il 20 marzo, "la sua ferma", suo vivo desiderio è passare a "servir" la Repubblica. Ma, ancora una volta, questa non coglie l'offerta. Sicché il G. rinnova la "ferma" con i "patroni fiorentini", anche se, come scrive da Prato il 29 marzo al fratello Francesco, la condotta di Giampaolo Baglioni, Ludovico della Mirandola, Marcantonio Colonna è sin per lui offensiva, sempre che "questi signori" di Firenze non lo "crescano" al loro "paro".

A siffatti "condutieri" non intende sottostare nemmeno "un'hora". Il "rimaner inferior" a "simil gente", insiste, va contro "l'honor" suo e della stessa "casa" gonzaghesca. Ciò non toglie che non voglia contrastare la volontà del fratello. "Non sono mai", assicura a quello, "per alienarmi dal [] parer de Vostra Excellentia, la qual suplico se degni [] consigliarmi, perché tanto farò quanto […] me saperà ricordare, come quello che non voglio mai rissolvermi in cosa veruna se non cum optima satisfactione et bona gratia de Vostra Excellentia". Sono parole che valgono a spiegare l'intera esistenza del G. e realmente impegnative specie dopo che il suo tentativo di una collocazione veneziana è andato a vuoto.

Ottemperante alle istruzioni del fratello del 28 genn. 1505, il G. conclude - dopo essere passato per Urbino (quivi acquistando per Isabella una "testa anticha" che risulterà una patacca: né "antiqua né bona" a giudizio d'Andrea Mantegna e Giovan Cristoforo Romani) - a Roma il "contratto" di nozze tra la figlia di quello Eleonora e Francesco Maria Della Rovere; e da lui, il 13 febbraio quando "el felice coniugio" vien "publicato" nel palazzo papale, "recitata", come scrive Baldassare Castiglione alla madre, "la carta" della "procura". Nell'orbita di Giulio II ora il Marchesato. E conseguente il militare del G. per le insegne pontificie già nel corso del 1505, quando è all'inizio di settembre in Romagna per il recupero di terre occupate da Venezia. Nel 1506 è del seguito del papa, quando, il 12 settembre, entra trionfalmente a Perugia e lo segue nella sua marcia alla volta di Bologna, donde i Bentivoglio, tra il 1° e il 2 novembre fuggono. Costretto dalle circostanze il G. ad andar contro il suocero, a concorrere alla sua cacciata, a scortare, l'11, il pontefice nel suo enfatizzatissimo ingresso a Bologna.

Schierato, d'altronde, con Giulio II il marchese di Mantova, che poi però si adopera per sottrarre i membri della sfortunata famiglia agli artigli vendicativi del pontefice, a nasconderli nel Mantovano. E ciò non senza irritazione del papa, non senza che ne risenta la sorte del Gonzaga. Tant'è che - come annota il 24 maggio 1507 Sanuto - Giulio II l'"ha cassato" dal ruolo di "capitanio di la soa guardia". E non per qualche sua colpa. Da addebitare la cancellazione al fatto che "soa santità" non è "ben contenta" di suo fratello.

Morto, l'11 apr. 1508, Guidobaldo da Montefeltro, il G. si precipita a Urbino con Benedetto Capilupi: così fa in tempo a presenziare alle esequie e così ha modo di sollecitare il successore, Francesco Maria Della Rovere, a portarsi a Mantova dove, da oltre tre anni, lo attende Eleonora. "Signor mio" così, persuasivo, il G. al duca, "quando vedesse" la sposa e "la raza" equina "del [] marchese", vedrà la più bella donna d'Italia e i più bei cavalli che "principe" possa vantare. Balzato, quindi, il marchese sull'ondata antiveneziana dei collegati cambraici, pure il G. impugna le armi contro la Serenissima, ancorché pensoso della carica distruttiva e per la penisola e per le sorti dello stesso Marchesato insita in una guerra siffatta. Laddove il fratello la vede come occasione per un consistente ampliamento territoriale, al G., lungi dall'esultare, viene da presagire - come scrive al marchese il 14 giugno 1509 - che "questi [] re", Massimiliano e Luigi XII, "in fine se partiranno tutta Italia tra loro". A ogni modo è l'amicizia con entrambi che va assiduamente coltivata.

È ben a tal fine che il G. l'11 è andato a ricevere Massimiliano a Egna, il 12 è andato a riverirlo a Trento, il 13 s'è premurato d'incontrare il plenipotenziario di Francia il cardinale Giorgio d'Amboise, il 14 si fa nuovamente ricevere da Massimiliano. E, sinché a Trento, è assiduo del maresciallo del Tirolo Paolo di Lichtenstein, cerca di guadagnarsi la simpatia dei "gentilhomini" del seguito cesareo con il "donare". E, per poterlo fare, sollecita l'invio da Mantova di pezze di formaggio, di "cervellati" (sorta di salsiccia) nonché d'"uno cisto grande de articiocchi", ossia di un cespo di carciofi. "Soldato" il G. "dil re di romani", a Caldiero, a Verona, a Tencarola (e di qui una puntata a Cittadella, a Castelfranco sino a sfiorare nei pressi di Asolo la visione di "uno palazio cum uno zardino et uno barcho fatto per messer Giorgio Cornaro che saria honorevole a uno re di Francia"; così, il 2 agosto, in una lettera alla cognata Isabella che attesta l'effettiva consistenza del luogo di delizie voluto dalla regina Caterina Cornaro e per lei realizzato dal fratello Giorgio), nell'agosto precipitantesi - dopo la cattura del fratello - alla "custodia de Mantoa", subendo per via un assalto di "zente marchesche". Fissata la stanza a Verona - donde è facile raggiungere Mantova; non altrettanto agevole, però, essere "orator di la marchesana" oltre che condottiero cesareo, ché Isabella, sottoposta al ricatto della prigionia di Francesco, nega al G. i mezzi per espugnare Legnago -, è, appunto, capitano generale delle truppe in questa stanziate che Massimiliano lo nomina il 30 apr. 1510.

Insignito il G., il 16 agosto, della nomina a capitano e governatore di Cugnan e, il 23, di quella di capitano e governatore di Lazise cui s'aggiunge, il 25 genn. 1511, la concessione dei relativi dazi. Vuote le casse imperiali; e compensato così il G., con intitolature, con il miraggio di qualche incasso virtuale. E nel frattempo le "vituarie" al "governo di Verona" dal Mantovano non arrivano, ché così ha disposto, dal carcere veneziano, il fratello Francesco. E sospettato nel frattempo il G. di sotterranei accordi con Venezia per e pur di liberare il marchese. Sin umiliante la sua effettiva situazione: nel febbraio del 1510 è a Verona con appena 12 cavalli; in novembre è sempre a Verona, con due soli uomini d'arme e senza denari. Però, impegnando gioie e argenti, eccolo - sempre in novembre - arruolare balestrieri. Decisamente risollevato il suo profilo con l'avvio del 1511: in missione esplorativa, in gennaio, a fianco del vescovo di Gurk Matteo Lang, il 5 agosto entra a Vicenza a capo di 200 cavalli, forte della nomina - ancora del 29 giugno - a luogotenente e governatore in quella città e nel suo territorio. Una titolatura che non ha gran contenuto visto che, essendo in atto l'"impresa di Treviso", il G. all'inizio di ottobre è a Conegliano, con "pochissima zente", con "pochi cavalli", nonché - così in una lettera del 10 ottobre di Leonardo Giustinian - con "gran paura" di trovarsi "lì", donde "manda assai scale in campo". Gran risate, allora, a Treviso, di "tal fantasia" de "dar bataia" colle "scale" alla città. Fieramente marchesca questa, decisa a tener testa a qualsiasi tentativo di assedio. E a tal punto spregiante il nemico da ritenere che - quand'anche le mura fossero sbrecciate, quand'anche con varchi di "100 passa" - non avrebbe "animo" d'entrare. Quanti l'oseranno - avvertono i difensori - "saranno tutti uccisi". J. de La Palice, che ha il suo quartier generale a Nervesa, privo di artiglierie, con le truppe falcidiate dall'epidemia, il 15 toglie l'assedio ritirandosi alla volta di Cittadella. Atterrito il G., come scrive il 21 il provveditore a Treviso Giovanni Paolo Gradenigo, rimasto con circa 50-60 cavalli e 30 carri di "vituarie", si mette addirittura a piangere dalla "paura", implorando di essere traghettato al più presto al di là del Piave. E, mentre Conegliano da lui sgomberata, il 22, tramite Bernardino da Prata, manifesta la propria volontà di tornare sotto il dominio marciano, il G., passato il fiume su "burchielle", punta su Vicenza, dove rimane sino al 29, lasciando anche questa con "quasi niun presidio". Agevole per la Serenissima in rimonta recuperare la città il 4 novembre.

Luogotenente, in compenso, il G. di Verona ancora imperiale e membro, con altri due consiglieri cesarei, del "governo" della città lungo il 1512. Ma ormai il suo destino lo sta agganciando alla sorte di Massimiliano Sforza che, a Mantova il 10 novembre, il 29 dicembre, con il G. tra i suoi accompagnatori, entra, da porta Ticinese, solennemente a Milano. Affiancato, per volontà dell'imperatore, il giovane duca nel governo dal G. con il titolo di "Caesareus capitaneus ac ducalis armorum gubernator". Del 23 febbr. 1513 la nomina a tal carica che prevede uno stipendio annuo di 1000 ducati d'oro da corrispondere in rate trimestrali. S'aggiunge, il 24, per il G. e i suoi discendenti il feudo di Piadena, Calvatone e Spineta. Stando a una sua lettera del 30 marzo da Piacenza alla marchesa, la vita che sta conducendo è divertente: i balli si susseguono, va a letto tardi e siffatte fatiche l'hanno talmente smagrito che, se Isabella lo vedesse, "iudicaria ch'io devenissi tisico". E, impegnato nel fronteggiare i Francesi, è a Isabella che il G. si raccomanda, il 6 maggio da Pavia, perché lo ricordi alla moglie "certificandola" che è "buon marito", serbante, come ha sempre fatto, la debita fedeltà.

Decisivo, di lì a poco, il 6 giugno, il vigore pugnace del G. nella battaglia dell'Ariotta. E a lui grato il duca che il 13 trasmette al G. i beni confiscati a Belgioioso al ribelle Carlo de Lugo, il 27 gli concede in feudo la stessa Belgioioso, il 17 gli comunica d'averlo "stabilito suo compagno et consiglier secreto cum provisione de 500 ducati d'oro" annui, come si affretta a scrivere il 18 a Mantova Benedetto Capilupi. Ulteriormente gratificato il G., il 23 agosto, con il feudo di Casalmaggiore; e confermata la donazione dall'imperatore il 26. Di risalto, il 20 dicembre, dopo la "deditione" di Cremona, la sua presa di possesso del "castello", da cui escono "il castellano et gente francese". Si aggiungono, nel 1514, i patti nuziali tra il primogenito del G. Alessandro e la sorella naturale del duca Ippolita, cui viene garantita una dote dal reddito annuo di 2500 ducati, nonché tra il secondogenito del G. Francesco e Lucrezia, figlia naturale del vescovo di Lodi Ottaviano Maria Sforza (a sua volta figlio naturale del duca Galeazzo Maria), anch'essa con dote dal reddito annuo di 2000 ducati. E concessa al G., il 20 aprile, in feudo la terra di Casteldidone nel Cremonese, mentre, il 25, i Comuni di Quattrocase, Casale Bellotto e Fossa Caprara gli donano 200 bifolchi e una terra in quest'ultima.

Eminente e prestigiosa ora la posizione conseguita dal Gonzaga. Quattro - così in una relazione del 31 marzo 1515 di un mercante milanese al re di Francia - quelli che governano Milano: Massimiliano Sforza, il duca; suo fratello Francesco; suo zio il vescovo di Lodi; il G., il quale "sta in castello", come il duca, insieme con la moglie.

Una posizione di cui subito approfitta Isabella che - prima ancora che muoia Galeazzo Sforza cui sono passate le "antiquità" del fratello Giovanni, non appena sa delle sue cattive condizioni di salute - sollecita il G. perché la collezione di quello le arrivi a Mantova. Poiché, per testamento, vanno al duca Massimiliano e poiché questi si è detto disposto a donarle alla marchesa, l'11 aprile, non riuscendo a tacitare il "gran desiderio di havere queste antiquità", Isabella nomina, prima ancora che il proprietario scompaia, il G. suo "procuratore a pigliare cura di farle conservare accioché" non siano "trafugate e occultate". E, finalmente decisosi a morire Galeazzo Sforza, il G. subito assicura la cognata che delle "antiquità" - indubbiamente "belle", valutabili, a tutta prima, sui 1000 scudi - sarà "bono procuratore", facendo sì che il duca le faccia partire al più presto per Mantova.

Ma il G. deve soprattutto pensare a presidiare una situazione che sta facendosi disperata. "Ferito", in maggio, in uno scontro, si fa medicare a Mantova; rischia, quindi, di lì a un mese, di esser fatto prigioniero - come il vescovo di Lodi, come Francesco Sforza - dagli Svizzeri. È "scampà di man di essi sguizari", scrive a Venezia, il 29 giugno, da Crema il provveditore Bartolomeo Contarini. Nominato, il 30 luglio, capitano di tutte le armi sforzesche nella guerra contro Venezia che, varcata l'Adda, ha aperte le ostilità, si porta a Lodi con mille fanti e 200 cavalleggeri. Di qui, il 3 settembre, accompagna a Monza il cardinale Matteo Schiner. Ma, dopo la sconfitta, del 13-14, a Marignano non resta che la resa del 4 ottobre, seguita, l'11, dall'entrata trionfale a Milano del re di Francia Francesco I. E garantita - e perché il G. stesso si è abilmente adoperato in tal senso e perché Massimiliano Sforza si è preso a cuore la sua sorte in sede di trattative e perché a lui favorevole Carlo di Borbone, il conestabile, il regio luogotenente, il comandante delle milizie francesi che, figlio di sua sorella Chiara e del conte di Montpensier Gilberto di Borbone, è del G. nipote -, nel trapasso, la posizione del Gonzaga. Compensata la perdita delle "grossissime doti" delle due nuore con un'entrata annua sostitutiva di 1000 scudi per ciascuna; e a lui assegnata una pensione di 2000 scudi. Ciò mentre passa al servizio del re di Francia, come titolare - così risulta in novembre - di una compagnia di 50 lance e di 100 "arzieri".

Un po' deluso il G. - che, proprio perché nella "pratica" della resa si è dato da fare per accelerarla, si attendeva il consistente compenso di un ruolo di maggior prestigio - dal ritrovarsi semplice capitano e amareggiato dal fatto che Francesco I abbia destinato ad altri il feudo di Casalmaggiore. Anche se s'è avuto per lui un occhio di riguardo, non è gran che soddisfatto. È sì stipendiato del re di Francia, ma, come tale, è anche licenziabile. E, in effetti, l'8 dic. 1516, Francesco I scrive al suo luogotenente in Italia, il visconte di Lautrec Odet de Foix, che il G. - che pur nel maggio, come Bernardo Dovizi il 17 da Modena scrive a Tolomeo Gonzaga, era stato inviato nel Parmense con 300 lance e 2000 fanti - e "altri italiani" dovrebbero andar "ad alozar a caxa loro". Il che significa - come scrive il 13 genn. 1517 a Venezia Caroldo - che il re "cassa" il G. "di soi stipendi", laddove - lo fa notare il 16 marzo al Senato veneziano il provveditor generale Andrea Gritti - lo stesso si guarda bene dal fare altrettanto con i militari suoi connazionali. "Vuol ridursi su le sue lanze bone", a giudizio di Gritti. A ogni modo - o perché la cancellatura dai ruoli degli stipendiati non ha effetti immediati o perché lo si è riassunto - il G. in aprile è nel Riminese tra i "capi" della "zente francese".

Stampato, sempre nel 1517, a Milano - come attesta il cronista Giovanni Andrea Prato, il quale precisa pure che è stato "composto" dal G. "in lingua mantoana cum additionibus del signor Manfredo Corezzo sotto la castigazione" di Giovanni Colla - del G. un Libellus de instituendo optimo principe. E stampato, probabilmente se non nello stesso anno all'incirca o un po' prima o un po' dopo, sempre del G., pure un Introductorio mirabile sopra l'arte del minare qualunque rocca fortissima. Un minimo, allora, messa per iscritto - in questi due testi purtroppo irreperibili; ma indubitabile, quanto meno, il primo sia stato effettivamente stampato - la sua esperienza e delle corti e della guerra.

Marchese di Vescovado - un feudo acquistato dai Gonzaga di Novellara nel 1519 - al più tardi dal 1521, dopo l'approvazione dell'acquisto da parte di Carlo V, è pure, insieme con la cognata Isabella e il fratello cardinale Sigismondo, giusta l'esplicita disposizione testamentaria del marchese defunto, titolare di una sorta di diritto-dovere di guida nei confronti del neomarchese Federico II. In realtà è Isabella quella che dei tre conta di più. Tant'è che, da parte romana, si vorrebbe comunicata solo a lei l'intenzione di fare del figlio il "capitano de la Chiesa". Se anche il G. viene informato è perché Baldassare Castiglione ha insistito con Federico perché non "pretermetta" di comunicare la notizia, oltre che al cardinale Sigismondo e al cognato duca d'Urbino, "anchor" al Gonzaga. In realtà, Castiglione la notizia l'ha già data a Francesco Maria Della Rovere. E dev'essere questi a insistere perché il "parere" in merito non resti nelle mani di Isabella, non senza far sì che Castiglione suggerisca a Federico di estendere detto "parere" pure a lui, essendo - come scrive Castiglione - "el signor duca d'Urbino", in quanto "savio et amorevole", il più adatto, in questa circostanza, a consigliare ponderatamente. Così Castiglione in una lettera del 21 luglio 1520 a Federico.

Da una successiva lettera, del 23 marzo 1521, di quello a questo si apprende che tal Bagatto avrebbe voluto assassinare il G., non senza sia circolata la voce che sia stato proprio Federico - il marchese - a istigarlo. Naturalmente il sospetto va fugato sul nascere: del tutto innocente Federico nella "pratica" dell'eliminazione del Gonzaga. Lo dice lo stesso Bagatto, direttamente interrogato da Castiglione. "Ho inteso da lui", così Castiglione al marchese, "che haveva determinato de ammazzare" il G. "vostro zio a complacentia" di monsignorino Visconti Borromeo. Costui, allora, il mandante nel progettato omicidio, per fortuna non attuato ché distratto l'istigatore dalla sopraggiunta "differentia" tra lui e il conte Federico Gambara. Provvidenziale per il G. la contesa cavalleresca insorta tra i due. Rinviato l'omicidio nel quale Bagatto doveva essere solo "exequotore", non "consultore". Tant'è che ne ignora il preciso motivo. Se il proposito è, però, trapelato è perché ne ha fatto incautamente cenno. E, incalzato dalle domande di Castiglione, il mancato sicario sa solo dire che l'assassinio per il quale era stato contattato forse era motivato dall'"odio" per il G. di monsignorino Visconti Borromeo risalente a "prima che esso monsignorino venisse a Mantua". Ma il perché di tanto "odio" il pur loquace Bagatto non lo sa spifferare.

E, intanto, il G. - che, all'inizio di novembre del 1520, si è recato a Milano a "visitazion" del luogotenente francese Lautrec, che, nell'agosto del 1521, è, con 50 "lanze", il primo della "lista de li capi" del nipote marchese - è sempre uomo d'armi. Solo non più dalla parte della Francia, se il 28 ott. 1521 si porta a Medole con 800 cavalli e 60.000 ducati da "pagarsi" alla "zente" del "campo" tedesco, agli "alemani", agli Svizzeri scalpitanti per i ritardati pagamenti. E li consegna, appunto, a Matteo Schiner, il "cardinal di sguizari". E nuovamente sforzesco oltre che cesareo il militare se, il 10 dicembre, Antonio Grumello l'avverte che "per refrenar le depredationi et insulti de li inimici" franco-veneti "su le terre" del duca Francesco Sforza "da queste bande di Pizigheton" necessitano 500 cavalli e 600 fanti. Ed egli - avverte, il 25 dicembre, il provveditor generale in Terraferma veneziano Girolamo Pesaro - per il momento si muove da Lodi con 200 lance, "per andar ad assicurar quelle terre di là da Po, dove francesi erano andati per recuperarle".

Impegnato, quindi, insieme con il marchese, nella pressione per allontanare da Rimini il nipote acquisito - è figlio di sua cognata Violante Bentivoglio e di Pandolfo Malatesta - Sigismondo Malatesta; il quale, entrato nella città il 27 maggio 1522, è costretto a lasciarla il 5 marzo 1523. Autorevole a corte il G., nella misura in cui è indicativa d'autorevolezza la presentazione, da parte dell'oratore mantovano, a palazzo ducale, di una sua lettera "congratulatoria", insieme con quella pure "congratulatoria" del marchese, al nuovo doge Andrea Gritti eletto il 23 maggio 1523. Il fatto, però, nel settembre dello stesso anno, sia il suo primogenito Alessandro a capeggiare 600 uomini operanti nella bassa Lombardia sta a significare che, per quel che concerne la milizia, il G. si è ritirato, pago sia il figlio a subentrargli.

Ormai la sua esistenza sta volgendo al termine. Muore il 23 sett. 1525, preceduto nella tomba dalla moglie nel 1523.

Da lei aveva avuto tre figlie: Ginevra (1497-1570), clarissa con il nome di Angelica, confermata cinque volte badessa nel monastero mantovano di S. Paola, scomparsa in odor di santità; Eleonora, sposa a Bernardino Schizzi; Camilla, accasata con Piermaria de' Rossi. Cinque i figli: Alessandro, l'uomo d'armi marito d'Ippolita Sforza, lo stesso una cui perdita al gioco, a detta di M. Bandello, avrebbe preoccupato il G., laddove, a detta di Castiglione, sarebbe stato questi a preoccuparsi di una perdita del padre; Federico (1495-1545), abate commendatario e preposto del monastero di S. Benedetto in Polirone nonché protonotario apostolico; Francesco (1496-1545), accasato con Lucrezia Sforza; Sigismondo (1499-1530), cui va il feudo di Vescovado; Galeazzo (1502-72), al servizio degli Estensi.

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Repertorio bibliografico, Firenze 1999, sub voce; A. Quondam, "Questo povero cortigiano"…, Roma 2000, ad ind. (ma a p. 152 trattasi di un omonimo); P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v. Gonzaga, tav. IV.

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