GIOVANNI II

Enciclopedia dei Papi (2000)

Giovanni II

Maria Cristina Pennacchio

Di G. non si conoscono né la data né il luogo di nascita, ma secondo il Liber pontificalis era di famiglia romana, figlio di un tale Proietto. Durante il suo pontificato, che durò poco più di due anni (fu eletto il 31 dicembre 532 e morì nel 535), si trovò ad affrontare delicate questioni di ordine teologico e disciplinare.

G. inaugurò l'usanza del cambiamento del nome al momento della consacrazione papale: secondo il Liber pontificalis si chiamava infatti Mercurio, ma verosimilmente, una volta eletto, ritenne sconveniente mantenere il nome di un dio pagano. Fu presbitero nella basilica di S. Clemente, come attestano numerose iscrizioni e la dedica di un altare; secondo alcuni studiosi a questo periodo della sua vita, e non al luogo di nascita, allude la notizia del Liber pontificalis sulla sua provenienza "de Caelimonte" (L. Duchesne). Alcuni indizi farebbero pensare che la sua ascesa al seggio papale non fosse stata priva di difficoltà: in questa occasione fu infatti ripristinato da Atalarico il decreto di un senatoconsulto contro la simonia emanato nel 530. Tale provvedimento rivela che probabilmente erano stati commessi degli illeciti: rendeva nulle, infatti, le promesse fatte dai candidati per assicurarsi i voti, limitava l'entità delle somme che il candidato poteva promettere di distribuire in carità dopo l'elezione e ordinava che il denaro elargito per sollecitare i voti venisse restituito da coloro che lo avevano ricevuto e fosse invece devoluto per un pio uso; inoltre privava della facoltà di voto tutti coloro che erano stati implicati in tali traffici. Atalarico notificava l'adozione di queste misure in una lettera inviata al papa e a tutti i vescovi d'Italia. In effetti il predecessore di G., Bonifacio II, proprio per evitare questo genere di disordini aveva designato come suo successore il diacono Vigilio, ma Atalarico aveva costretto il papa a ritirare il decreto. Non si può escludere però che al momento della successione Vigilio avesse accampato pretese. Ancora, la vacanza di due mesi e mezzo verificatasi dopo la morte di Bonifacio II conferma l'ipotesi sui contrasti precedenti l'elezione di Giovanni II.

Per quanto riguarda i rapporti con la Chiesa d'Oriente G. si trovò a dover dirimere la controversia teopaschita che, scoppiata alcuni anni prima si era temporaneamente assopita, ma ora mostrava una recrudescenza.

Una prima fase della polemica si era consumata, infatti, sotto papa Ormisda, quando alcuni monaci della Scizia avevano cominciato a propagandare a Costantinopoli la formula "unus de Trinitate passus est carne" con l'intento di scongiurare le possibili interpretazioni nestoriane della formula calcedonese. L'affermazione della presenza in Cristo di due nature, come professava il simbolo di Calcedonia, appariva pericolosa agli Sciti in quanto ravvisavano in essa una tendenza nestoriana. Il problema dell'interpretazione della formula calcedonese risiedeva nell'equivoco che ingenerava il diverso significato attribuito al termine "natura". Per i monofisiti infatti, esso corrispondeva ad "ipostasi", "sussistenza": affermare dunque due "nature" in Cristo equivaleva, secondo loro, a professare l'eresia nestoriana in quanto si riconoscevano in Cristo due persone. Gli sciti si erano in seguito recati a Roma per sottoporre la questione al papa, ma erano stati cacciati da Ormisda il quale aveva rifiutato la formula proposta affermando che i decreti dei concili di Efeso e Calcedonia erano sufficienti a dirimere la questione.

L'avvento al trono di Giustiniano aveva segnato un profondo cambiamento dell'atteggiamento dell'autorità imperiale nei confronti delle controversie cristologiche: mentre fino al tempo di Giustino si era cercato di reprimere le eresie con la forza, Giustiniano, grazie ai suoi studi di teologia, era convinto della possibilità di trovare una formula che, pur nel rispetto assoluto di quanto decretato nel concilio di Calcedonia, fosse accettabile per i monofisiti. L'imperatore si inseriva in una tendenza conciliatrice che si era andata affermando verso la fine del V secolo, quando una frangia di difisiti aveva sentito il bisogno di smussare le punte più rigide della dottrina calcedonese per dimostrare agli avversari che non c'era nessun pericolo di ritorno al nestorianesimo. Questa corrente, definita dai moderni "neocalcedonese", interpretava la formula di Calcedonia in senso strettamente cirilliano e, del dottore alessandrino, assumeva la dottrina completa, comprese le posizioni più rigide espresse nell'ultima lettera a Nestorio e nei dodici anatematismi. Giustiniano dunque, anche per l'influsso dell'imperatrice Teodora, aveva promosso una politica di apertura nei confronti del monofisismo, tanto che quando i monofisiti gli presentarono un memoriale contenente l'esposizione della loro fede, riunì a Costantinopoli nel 533, per tre giorni, un'assemblea costituita da sei vescovi ortodossi e sei monofisiti per tentare di elaborare una formula di accordo.

L'imperatore riteneva che il nodo della controversia consistesse in un equivoco sostanzialmente terminologico: i monofisiti severiani, infatti, erano poco lontani dalla formula calcedonese in quanto, pur rifiutandosi di definire natura l'umanità di Cristo, per evitare l'errore nestoriano che predicava due soggetti, riconoscevano all'umanità una sua sussistenza senza mescolanza o confusione con la divinità. Il punto di principale contrasto consisteva perciò nell'affermazione calcedonese delle due nature in Cristo. Il confronto diretto tra le parti avverse, che Giustiniano aveva favorito con le conferenze di Costantinopoli, mirava dunque, non tanto a stabilire una formula che riscuotesse il consenso unanime per la sua genericità, come si era cercato di fare in precedenza, quanto piuttosto a chiarire e puntualizzare la professione calcedonese in modo da evitare qualsiasi possibile avallo alle tendenze nestoriane.

Al termine di queste conferenze, che inizialmente sembravano promettere buoni risultati, i monofisiti espressero il loro fermo disaccordo nei confronti dei sostenitori di Calcedonia per l'indulgenza mostrata dagli ortodossi verso Iba e Teodoreto e per il loro rifiuto di accettare la formula "unus de Trinitate passus est": così dei sei vescovi monofisiti uno solo si dichiarò convinto. Secondo i monofisiti, infatti, nel rifiuto della formula teopaschita era insito il pericolo di considerare la passione e la morte come un fatto riguardante esclusivamente l'umanità di Cristo, con il risultato di intaccare l'efficacia dell'azione salvifica. Giustiniano prese allora una posizione decisa e accettò in pieno la formula propagandata dagli sciti, promulgando un editto a Costantinopoli il 15 marzo 533 in cui esponeva la propria professione di fede e che inviò in copia al patriarca Epifanio il 26 marzo 533. La formula teopaschita in realtà non era che un'esplicitazione del concetto della "communicatio idiomatum".

Secondo l'interpretazione alessandrina di questo principio, grazie alla strettissima unione che si realizzava tra umanità e divinità di Cristo, le prerogative di ciascuna natura potevano essere attribuite all'altra. Era lecito dunque asserire che il Logos avesse sofferto nella carne, pur rimanendo impassibile la divinità. Ciò che rendeva inaccettabile questa teoria ai difisiti era che essi ne davano un'interpretazione più rigida e materialista, per cui erano portati a vedervi una confusione delle nature. L'introduzione di tale formula nella professione di fede cattolica significava quindi, per i calcedonesi più rigidi, una sensibile apertura nei confronti dei loro avversari.

Si riaccese in questo frangente la polemica tra monaci sciti, la cui posizione abbiamo già esposto, e monaci acemeti, calcedoniani convinti e radicali, che rifiutavano non solo la formula "unus de Trinitate passus est", ma anche il titolo mariano di theotòkos ("Madre di Dio"). Poiché gli Acemeti avevano inviato i loro rappresentanti, Ciro ed Eulogio, a Roma affinché l'autorità papale si pronunciasse in merito, Giustiniano inviò una lettera a G., attraverso i vescovi Ipazio di Efeso e Demetrio di Filippi che avevano partecipato alle conferenze di Costantinopoli dalla parte ortodossa. Con essa informava il papa circa le "dottrine malignamente e giudaicamente propagandate da alcuni monaci secondo l'eresia di Nestorio". Sottolineava poi che alcuni elementi, infedeli alla Chiesa cattolica, negavano che Cristo, Figlio di Dio, incarnato nella Vergine Maria per opera dello Spirito Santo e crocifisso, fosse una persona della Trinità, consustanziale al Padre secondo la divinità, e agli uomini secondo l'umanità, passibile quindi, nella carne, ma impassibile nella divinità, aderendo perciò alla dottrina di Nestorio. Enunciava in seguito la propria formula di fede, che riproduceva i principi dichiarati nell'editto di Costantinopoli e ribadiva l'appartenenza di Cristo alla Trinità, la sofferenza nella carne del Figlio di Dio e quindi la legittimità dell'epiteto di "Madre di Dio" attribuito a Maria. L'imperatore si appellava poi all'autorità dei concili di Efeso e di Calcedonia, che non aveva affatto citato nell'editto del 533 per non incorrere nella disapprovazione dei monofisiti. Infine chiedeva che il papa mostrasse di approvare la formula di fede da lui esposta tramite una lettera ufficiale indirizzata all'imperatore stesso e al patriarca Epifanio e che inoltre condannasse gli eretici: "Chiediamo perciò [...] che ci rendiate manifesto che la vostra santità approva coloro che professano rettamente quanto esposto sopra e condanna la perfidia di coloro che osarono giudaicamente negare la retta fede". Sappiamo da Giustiniano che la lettera era accompagnata da una missiva del patriarca Epifanio purtroppo perduta, mentre il Liber pontificalis elenca i ricchi doni inviati come omaggio a G. dall'imperatore.

G., dopo aver consultato il diacono africano Fulgenzio Ferrando, stimato teologo, e aver ottenuto il consenso del clero romano, rispose con una lettera in cui sottoscriveva completamente la formula di Giustiniano e lo lodava per il suo zelo ("Haec est igitur vera vestra fides [...] haec certe religio"). Affermava poi di aver tentato di ricondurre all'ortodossia gli acemeti che si trovavano a Roma, Ciro ed Eulogio ("Abbiamo incontrato infatti in città Ciro, che proviene dal monastero degli acemeti, con i suoi seguaci, e abbiamo tentato di ricondurli con argomenti apostolici alla retta fede e richiamarli all'ovile del Signore come pecore che andavano errando"), ma che, scontratosi con la loro ostinazione, il 24 marzo 534 li aveva ufficialmente condannati: "Non li accogliamo nella nostra comunione e ordiniamo che siano allontanati da ogni Chiesa cattolica". Chiedeva però all'imperatore che, qualora si ravvedessero, venissero trattati con indulgenza: "Chiedo la vostra clemenza nel caso che, abbandonato il proprio errore e ripudiata la malvagia intenzione, volessero tornare all'unità della Chiesa [...] li perdoniate con animo benevolo".

G. scrisse anche una lettera ad alcuni notabili ravennati che gli chiedevano ragione dell'appoggio dato all'imperatore. Il papa rispose dimostrando, attraverso testimonianze scritturistiche e passi patristici, come la posizione di Giustiniano fosse assolutamente cattolica: elencava le tre proposizioni della formula giustinianea, cioè che Cristo è una persona della Trinità, che il Figlio di Dio ha sofferto nella carne, che Maria è detta in senso proprio e vero Madre di Dio, provandone la veridicità in base alle dichiarazioni dei concili precedenti, di passi profetici e neotestamentari, di citazioni patristiche. La posizione assunta da G. nell'ambito della controversia teopaschita ha suscitato perplessità tra alcuni studiosi moderni che hanno interpretato la scelta di questo papa, di inserire nella formula di fede ufficiale la dottrina teopaschita, una innegabile contraddizione con l'atteggiamento tenuto in merito dal suo predecessore Ormisda. Altri autori hanno invece sottolineato come quest'ultimo non avesse mai esplicitamente condannato la formula, quanto piuttosto l'avesse considerata superflua.

In effetti nella valutazione della controversia teopaschita G. sembra essere stato particolarmente accondiscendente verso la volontà dell'imperatore. D'altro canto, i documenti esaminati per ricostruire la vicenda forniscono notizie significative anche riguardo al rapporto che si era instaurato tra Costantinopoli e la Chiesa durante il regno di Giustiniano. Nella lettera di Giustiniano a G., infatti, sono frequenti le espressioni che alludono al più profondo rispetto dell'imperatore verso l'autorità della Chiesa di Roma (per esempio "Onorando come sempre è stato ed è nostro desiderio la sede apostolica e la vostra santità, e venerando la vostra beatitudine come si deve verso un padre [...]"); inoltre Giustiniano dichiara apertamente la preminenza della Chiesa romana su tutte le altre Chiese, che devono essere in accordo e comunione con essa ("è sempre stata nostra grande cura infatti che vengano custoditi l'unità della sede apostolica e lo stato delle sante chiese di Dio [...]"); definisce il papa "capo di tutte le chiese" ("caput est omnium sanctarum ecclesiarum") e, nella lettera a Epifanio, "capo di tutti i santissimi vescovi di Dio" ("caput omnium sanctissimorum dei sacerdotum"). Alcuni studiosi hanno interpretato queste affermazioni come un chiaro riconoscimento, da parte di Giustiniano, della supremazia dottrinale di Roma rispetto alle altre Chiese (P. Batiffol). Non sembra però che queste espressioni di deferenza implicassero più che un riconoscimento della primazia d'onore di Roma. L'uso dell'aggettivo "omnium" ("omnium ecclesiarum", "omnium sacerdotum"), fa notare L. Magi, dimostra che nella concezione di Giustiniano il papa è il capo di "tutte" le Chiese e il primo di "tutti" i sacerdoti, quindi riconosce una primazia di Roma, pur non aggiungendo nulla a quanto era ormai stabilito dalla tradizione fin dal II secolo. Non sembra che Giustiniano volesse alludere a prerogative particolari o intendesse investire la Chiesa di Roma di un ruolo nuovo. Il compito di salvaguardare l'unità delle Chiese non prevede una giurisdizione di Roma su di esse. La concezione giustinianea dei rapporti tra Chiesa e Impero si inserisce nella tradizione postcostantiniana per cui l'imperatore assurgeva ad autorità suprema anche della religione dell'Impero, che era quella cristiana, il che comportava l'attribuzione di importanti prerogative anche nell'ambito del diritto. Giustiniano infatti aveva una concezione dell'autorità politica e religiosa fortemente accentrata sulla figura dell'imperatore che doveva garantire la prosperità dell'Impero. Poiché il benessere dell'Impero cristiano dipendeva dal favore divino, che era assicurato da una retta conduzione della Chiesa, era naturale che l'imperatore si sentisse investito del compito di intervenire anche nelle problematiche interne alla Chiesa, quindi ritenesse vincolante la sua opinione nelle questioni dogmatiche. Nonostante dunque la profusione di espressioni di omaggio e rispetto, non sembra che Giustiniano intendesse sottomettere la sua autorità a quella della Chiesa.

Uno scambio epistolare tra G. e Cesario d'Arles documenta che il papa fu interpellato da questo vescovo a causa di un episodio di cui era stato protagonista un vescovo della Gallia, Contumelioso di Riez, il quale si era comportato in modo scorretto. Cesario chiedeva consiglio al papa sulla condotta da tenere nei confronti di questo vescovo e su come regolarsi per la sostituzione. G. rispose con tre lettere indirizzate a Cesario, ai vescovi della Gallia e al clero di Riez, in cui ordinava che il vescovo fosse rimosso dall'ufficio e si ritirasse in un monastero affinché si pentisse e invocasse il perdono di Dio; in attesa dell'elezione del successore si sarebbe dovuto nominare un ispettore.

Nell'ambito dell'attività edilizia è significativo il ruolo svolto dal pontefice nel programma decorativo e di arredo liturgico della basilica di S. Clemente sul Celio. Su un frammento di cornice, appartenente ad un altare o ad una sua recinzione, si è conservata un'epigrafe: "altare tibi d(eu)s salvo Hormisda papa Mercurius p(res)b(yter) cum sociis of(fert)" (G.B. de Rossi, p. 143, tav. X). Sempre al "presbyter Mercurius" è da attribuire una coppia di colonne con capitelli bizantini, riutilizzata nel monumento sepolcrale quattrocentesco del cardinale Venerio posta nella navatella meridionale della basilica superiore di S. Clemente; infatti uno dei due capitelli reca l'iscrizione con il suo nome: "Mercurius p(res)b(yter) s(an)c(tae) ec[clesiae romanae] s(ervus) d(omi)ni" (ibid., tav. XI). Questi elementi architettonici documentano una prima fase decorativa della basilica compiuta per iniziativa di Mercurio durante il periodo del suo presbiterato, inquadrabile durante il pontificato di Ormisda; a questo primo intervento ne segue un altro, a pochi anni di distanza, attribuibile allo stesso committente: una serie di plutei marmorei, con relativi pilastrini, attualmente riutilizzati nella recinzione cosmatesca della basilica del XII secolo. Alcuni di questi plutei recano un monogramma da attribuire a papa G., che è il nome dello stesso "presbyter Mercurius" dopo la sua nomina a pontefice. Questa identificazione è ulteriormente confermata dal Liber pontificalis (I, p. 285: "Iohannes qui est Mercurius [...]") e da un'iscrizione oggi conservata nella basilica di S. Pietro in Vincoli datata al 532: "[...] Iohanne(s) cognomen/to Mercurio ex s(an)c(ta)e eccl(esiae) rom(anae) presbyte/ris ordinato ex tit(ulo) s(an)c(t)i Clementis ad glo/riam pontificalem promoto beato Petro / [...]" (A. Silvagni, tav. XI, 5). Nella basilica di S. Clemente bisogna quindi presupporre una fase di attività decorativa omogenea ma piuttosto diluita nel tempo, forse a seconda delle disponibilità finanziarie del presbitero Mercurio-papa G. oppure in funzione dei suoi probabili viaggi nella capitale bizantina. È difficile stabilire se questo tipo di interventi, strettamente pertinenti all'arredo liturgico, sia da inquadrare in un rifacimento complessivo della decorazione oppure documenti cambiamenti funzionali degli spazi all'interno della chiesa, anche se non si può essere certi che alla donazione di marmi seguì immediatamente la loro posa in opera forse da collocare, almeno per quanto riguarda la recinzione, nel periodo successivo alle guerre gotiche. Il monogramma di G. compare anche su un altro gruppo di quattro capitelli, probabilmente pertinenti ad un ciborio, impiegati, almeno fino al XVI secolo, nella basilica dei SS. Cosma e Damiano. G. morì l'8 maggio del 535 e fu sepolto in S. Pietro "extra [secretarium] in vestibulo" come testimonia Maffeo Vegio, dunque nell'atrio della basilica vaticana. L'autore del carme sepolcrale (Inscriptiones Christianae, nr. 4154) ne tesse l'elogio ricordando come, nel periodo precedente il pontificato, crebbe alimentando la propria coscienza con gli insegnamenti della parola di Dio (v. 1: "[…] Christi nutritus in aula") compiacendosi soltanto di compiere il bene con schiettezza e, quando rivestì il ministero di presbitero, si sottomise docilmente ai comandi dei suoi superiori (v. 3: "blandus in obsequiis […]"). Ottenne quindi il "pontificale decus", per rispetto del quale il suo immediato successore Agapito (v. 9: "pro quo rite tuum venerans Agapetus honorem") allestì il suo monumento sepolcrale (v. 10: "praestitit haec tumulo munera grata tuo").

fonti e bibliografia

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