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Pascoli, Giovanni

di Silvana Castelli - Enciclopedia dei ragazzi (2006)
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Pascoli, Giovanni

Silvana Castelli

Una poesia nuova, ricca di futuro

Grande erudito, vincitore di dodici medaglie d’oro al concorso di poesia latina ad Amsterdam, Giovanni Pascoli fu professore per tutta la vita, ma aprì la strada alla rivoluzione poetica del Novecento. Si liberò dalle pastoie della tradizione e riscoprì la bellezza e il mistero che si nascondono nel cuore delle cose, ritrovando lo sguardo di un bambino di fronte all’orto di casa e all’Universo infinito

Una tragedia nel nido dell’infanzia

Pascoli nacque il 31 dicembre 1855, quarto figlio di una famiglia numerosa, e visse la prima infanzia nel calore e nel benessere della casa di San Mauro in Romagna fino alla tragedia che la sconvolse il 10 agosto 1867. L’assassinio del padre fu il primo di altri dolorosi lutti, provocò la dispersione della famiglia e segnò tutta la sua vita. Dopo il liceo trovò una protezione nella stima di Giosuè Carducci e un’occasione per ribellarsi alle ingiustizie sociali nei movimenti sindacali e nel socialismo. Un’esperienza, quest’ultima, che gli costò mesi di carcere e una forte depressione.

Insegnò nei licei di diverse città fino ad approdare all’università e alla cattedra che era stata del suo maestro Carducci. Ma il suo costante desiderio era quello di ricostruire un casa dove vivere in pace con l’ultima sorella rimastagli accanto, Mariù. Nella casa di Castelvecchio, in un isolamento geloso, forse un po’ morboso, quel desiderio degli ultimi anni sembrò realizzarsi. Morì a Bologna nel 1912.

Riscoprire la realtà

Con la raccolta di Myricae del 1891 (accresciuta in successive edizioni fino all’ultima del 1897) la poesia italiana sembra scrollarsi di dosso le incrostazioni della tradizione per riuscire a far riemergere le cose, la natura, fino ai più umili animali e alle più piccole piante, come se fossero stati appena scoperti dall’occhio umano. La metrica, la musica stessa del verso appare più libera, piena di echi e di rinvii che si prolungano nell’animo del lettore. I colori, gli odori e i suoni si mescolano per creare paesaggi e atmosfere che assumono un potere incantatorio, quasi ipnotico. Qualcosa come una leggera nebbia stempera i colori e attenua le voci collocandoli a una distanza che è propria del ricordo o del sogno. Un’inquietudine diffusa avverte di un pericolo incombente, come un presentimento di morte.

In una prosa del 1897, dal titolo Il fanciullino, Pascoli definiva il suo modo di intendere e di fare poesia: il segreto era di affidarsi a uno sguardo nuovo come quello di un bambino che riscopre la realtà, ovvero ricrea il mondo liberandolo dalla patina delle abitudini. Quello sguardo è la poesia stessa dotata di sensi più sottili e audaci in grado di accedere al mistero che circonda la realtà e al dolore che minaccia anche le forme più splendenti. I versi non danno risposte ma riportano alla luce la bellezza delle cose insieme al loro segreto, tanto più struggente perché condannato a un tempo breve.

Il nido ritrovato

Quando cercava di adeguarsi al suo ruolo ufficiale, alla sua fama, Pascoli diventava poeta più convenzionale. È quello che avviene nei Poemi conviviali (1904), ispirati alla Grecia antica, e in Odi e inni (1906), dettati dagli eventi storici e civili della nazione. Anche nei Primi poemetti (1904) e nei Nuovi poemetti (1909) la poesia della natura e della vita rurale appare meno ispirata: eppure, anche in questo, che è stato definito il suo «romanzo georgico», s’incontrano molti brani di vera poesia dettati dal dolore e dal rimpianto.

Nei Canti di Castelvecchio (1903) il grande poeta ritorna a evocare, in modo più complesso e disteso, il mistero della sua vita. Nella casa, dove ha cercato di ricostruire il nido distrutto della famiglia con la sorella Mariù, la bellezza e la fragilità della natura appaiono ancora più minacciate mentre una voce lontana o il profumo dei «fiori notturni», o le ombre della sera fanno tornare le inquietanti presenze dei morti. E un dolore comune unisce le piccole piante e i monti lontani, le umili bestiole e le stelle.

Già nel 1910 un critico definì quella di Pascoli «la poesia più ricca di futuro che la nostra letteratura contemporanea possegga». Oltre al senso di perdita e alla nostalgia del padre, le sue parole comunicano una nuova tensione, a volte onirica e allucinatoria. Mentre sembrano disfarsi in musica e colore, esse rivelano un fascino che risiede nella loro assoluta precisione.

Vedi anche
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