PONTANO, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 84 (2015)

PONTANO, Giovanni

Bruno Figliuolo

PONTANO, Giovanni. – Nacque il 7 maggio del 1429, da Giacomo e da Cristina Pontano, membri della piccola nobiltà locale, a Cerreto di Spoleto.

Dopo l’assassinio del padre in una faida politica, la famiglia si trasferì a Perugia, dove Giovanni Pontano seguì gli studi superiori sotto il magistero di Guido Vannucci, professore di retorica nello Studio locale. A quell’epoca aveva già composto dei versi e aveva già assunto lo pseudonimo di Gioviano, giacché Biondo Flavio, che terminò la sua opera prima del 1452, nella descrizione dell’Umbria lo menziona con questo nome come ancora adolescente ma già promettente poeta elegiaco.

Probabilmente nel 1447 abbandonò il capoluogo umbro e la carriera giuridica verso la quale era stato avviato e si presentò al campo aragonese in Toscana, attiratovi dalla fama di mecenate del re di Napoli, Alfonso V d’Aragona, che allora iniziava a guerreggiare contro Firenze e la cui presenza in Toscana è appunto fissata tra l’ottobre di quell’anno e quella dell’anno successivo. Al termine della campagna bellica, Pontano seguì il sovrano di ritorno a Napoli, facendovi il proprio ingresso il 15 novembre del 1448.

Entrò subito nella cerchia di Antonio Beccadelli (Panormita), influente cortigiano e autorevole uomo di cultura. Questi lo raccomandò a Giliforte de Ursa di Messina, capo della Tesoreria regia, che lo prese al proprio servizio. Poco più tardi, Pontano iniziò a ricoprire i primi incarichi pubblici. Tra il febbraio e il settembre del 1451 accompagnò lo stesso Panormita e Luis Dez Puig, diplomatici già esperti, in una importante missione politica presso varie corti dell’Italia settentrionale, con destinazione finale Venezia, tesa a impedire il formarsi di un forte asse milanese-veneziano.

Dalle fonti ufficiali, in realtà, non risulta la presenza del giovane letterato umbro tra i membri dell’ambasceria; essa è però testimoniata dal più antico biografo di Pontano: Tristano Caracciolo. Si può perciò inferirne che il suo ruolo fosse secondario e si limitasse alla scrittura dei dispacci dettati dagli ambasciatori accreditati.

Nel 1452 fu assunto da Giovanni Olzina, primo segretario del re, in qualità di scrivano nella Cancelleria. A Napoli, oltre a perfezionare la propria preparazione, specialmente in lingua greca e nelle discipline astrologiche, studiando con Gregorio Tifernate, Lorenzo Buonincontri, Tolomeo Gallina e Giorgio Trapezunzio, tra 1455 e 1457 egli aprì anche una propria scuola, frequentata dai rampolli della nobiltà locale. Sopravvive, di questa attività, un quaderno di appunti delle lezioni, redatto da un suo anonimo scolaro, dal quale traspare come l’insegnamento pontaniano non si limitasse alla lessicografia e alla grammatica latine, ma lasciasse largo spazio anche alla lettura e al commento dei classici. Componeva intanto i suoi primi versi noti: si trattava probabilmente di un abbozzo iniziale degli Amores (raccolta che comprenderà poi quarantotto componimenti divisi in due libri e nella quale ne entrarono anche alcuni pensati per un precedente Liber de lascivia o Pruritus, da lui ripudiato) e del poemetto Meteororum liber, rubatogli e che egli anni dopo riscriverà in altra forma.

Grazie alla buona fama guadagnata, re Alfonso attorno al 1455 lo nominò precettore di Giovanni d’Aragona, figlio naturale del proprio fratello, Giovanni, re di Navarra. Il giovinetto era giunto a Napoli quattordicenne poco prima del Natale 1454, quando fu segnalato tra i partecipanti a un banchetto di corte. Per lui, destinato alla carriera ecclesiastica, Pontano compose carmi di ispirazione religiosa, intitolati De laudibus divinis, che trascrisse personalmente in un codice datato 11 maggio 1458. Molti anni più tardi, nel 1498, la raccolta, composta di undici carmi, sarà stampata a Barcellona. Rivista ed emendata di tutti i riferimenti al giovane, che aveva avuto il torto di schierarsi, al momento della successione a re Alfonso, al fianco del fratello Carlo di Viana e contro l’erede designato, Ferrante, figlio naturale del defunto sovrano, ed era perciò stato costretto, a seguito del fallimento della progettata congiura, a lasciare anch’egli il Regno, il 4 luglio del 1458, l’opera fu portata a termine probabilmente tra il 1500 e il 1501. Pontano ne eliminò il carme di dedica e ve ne aggiunse due nuovi. Due altri ancora, dedicati a s. Giorgio e da lui previsti per il De tumulis, vi furono spostati da Pietro Summonte, che dopo la morte del poeta ne ereditò le carte e che accolse la silloge, composta dunque ora di quattordici carmi, nell’edizione a stampa da lui curata di tutte le opere pontaniane.

Nel novembre 1458 Ferrante diede inizio alle operazioni belliche contro alcuni baroni che si erano rivoltati e contro il pretendente angioino al trono, da quelli chiamato in soccorso: Giovanni, duca di Lorena. La dura lotta, attraverso varie fasi, durò sino al 1464. Pontano, come testimonia egli stesso, vi prese parte attiva, accanto al proprio re, non è noto però se fin dal primo momento o dal 1460, giacché egli datava allora da Napoli una lettera a Pietro Salvatore Valla e Giovanni Ferrara, i quali gli avevano richiesto un giudizio (che egli diede e che non fu negativo) sulla traduzione latina dell’opera di Erodoto fatta da Lorenzo Valla, ma rimasta incompiuta per la morte dell’autore. Di certo, il 5 luglio di quell’anno si trovava nell’accampamento regio sotto Sarno, dove ricevette dal sovrano un privilegio che gli assegnava la provvigione annua di 40 once, quasi a titolo di risarcimento, vi si diceva, per aver interrotto i proprio studi e averlo seguito in guerra. Egli appare allora insignito del titolo di luogotenente del protonotaro. Nel 1462 vi aggiunse il titolo di consigliere regio e quello di luogotenente del gran camerario. Si trattava, in quest’ultimo caso, di un incarico di responsabilità, dovendo il titolare controllare i conti pubblici e avallare le spese della Corona, ma ben remunerato. In questa veste, Pontano siglò per presa visione, il giorno 8 agosto, nell’accampamento regio sotto le mura di Accadia, in Capitanata, un documento con il quale Ferrante condonava tutti i debiti del signore di Faenza, Astorgio Manfredi. Il 6 dicembre dello stesso anno scrisse ancora una missiva all’ambasciatore napoletano a Milano, Antonio Cicinello. Sul finire della guerra, nel giugno del 1464, gli venne affidata la prima missione diplomatica da svolgere in autonomia: recarsi a Roma, per annunziare a Pio II la cattura del ribelle Marino Marzano, principe di Rossano, messo in catene dal re il giorno 8 di quel mese. Già il 17 Pontano lasciò la città per far ritorno nel Regno.

L’impegno, l’intelligenza e la fedeltà da lui palesati nel corso della lunga campagna bellica gli valsero la conferma dei diritti di proprietà su di una bottega nella piazza degli orefici in Napoli; e, con atto del primo febbraio 1466, un supplemento di provvigione annua per l’ammontare di 26 once e 20 tarì, da corrispondergli vita natural durante, «pro eruditione et pro meritis quamplurima» da lui vantati. Soprattutto, però, all’incirca dal 1463, gli fruttarono la nomina a precettore del primogenito ed erede al trono di Ferrante: Alfonso, duca di Calabria. Prendeva il posto dell’ormai anziano Panormita.

Sempre verso il termine della guerra concepì il De principe, nel quale analizzò le virtù etiche e politiche necessarie per ben governare (lo diede poi alle stampe nel 1490), e scrisse il De aspiratione, un trattato di grammatica, ma in realtà ricco anche di trascrizioni di epigrafi e digressioni dotte (di ispirazione dunque fortemente umanistica), che uscì a stampa, senza che egli ne fosse informato, nel 1481. Subito dopo la guerra, tra il 1465 e il 1469, quasi di getto, compose il De bello Neapolitano, testimonianza dell’esperienza bellica appena vissuta di persona, corroborata dallo studio dei dispacci degli ambasciatori e dalla documentazione di Cancelleria. Non lo diede alla luce allora e lo riprese più tardi, tra il 1495 e il 1499, allorché si interrogò anche sul piano teorico e dottrinario intorno ai temi de conscribenda historia.

L’opera, che guarda esplicitamente soprattutto a Sallustio e a Livio, vuole mostrare come anche la storia sia letteratura, avendo in sé l’anima della poesia, e come essa abbia come proprio compito precipuo quello di insegnare, dilettare e commuovere: intento che si manifesta in concreto nel suo lavoro in specie attraverso il frequente ricorso alla narrazione di mischie e battaglie e al discorso diretto, con scelte linguistiche talora audaci, che lasciano ampio spazio ai neologismi, pur se su di un impianto generale lessicalmente raffinato.

Il 1° febbraio 1461 aveva intanto sposato Adriana Sassone, ricca rampolla della nobiltà napoletana. Dal matrimonio nacquero tre figlie: Aurelia (nata, pare, nel 1462), Eugenia e Lùcia Marzia (forse nata nel 1465 e morta nel 1479), e poi un maschio, Lucio Francesco, nato il 21 marzo del 1469. Per il piccino compose, tra la nascita e il 1471, dodici soavi Neniae, poi confluite nel De amore coniugale, la raccolta elegiaca che cantò appunto l’amore del poeta per la moglie e la famiglia, dove furono raccolte in tre libri trentatré elegie composte tra il principio del 1461 e la metà o poco più tardi degli anni Ottanta del secolo.

Seguì intanto il suo discepolo duca di Calabria prima in quella regione, che necessitava di essere pacificata, nel 1463, poi nella campagna di Romagna, combattuta dal giovane rampollo di casa d’Aragona contro l’esperto e già celebre Bartolomeo Colleoni, capitano generale della Serenissima, tra l’estate del 1467 e quella del 1468.

Nella sua veste di precettore è ricordato in una lettera del cardinale Iacopo Ammannati Piccolomini al giovane duca, databile tra la fine di luglio e l’autunno 1468, dunque al ritorno della spedizione bellica. Nella lettera il prelato, nell’esortare il rampollo reale a non trascurare lo studio delle lettere, dice: «Otium quoque litterarum, si tecum Pontanus est, egregium habes; animo tantum est opus».

Forse in ricompensa dei suoi buoni uffici pedagogici, il 20 aprile 1469 Ferrante gli concesse una torre con un’annessa casetta diruta nei pressi del seggio di Nido e non lontano dall’abitazione del Panormita. Pontano, dopo averle demolite, avrebbe costruito in quello spazio la sua casa e la cappella sepolcrale di famiglia.

Poco dopo essere tornato a Napoli, rifinì e licenziò alcune opere: tra la seconda metà del 1469 e i primi mesi del 1470 compose il Charon, nel quale prende in esame la follia degli uomini in diversi campi e in specie la loro superstizione, illustrata attraverso una feroce satira anticlericale. Lo pubblicò, insieme agli altri dialoghi, nel 1498. Nel 1472 licenziò anche il trattato De obedientia, nel quale tratta i vari generi di obbedienza, tra cui quello, allora attualissimo, relativo alla fedeltà dovuta dai feudatari al proprio sovrano. Nel 1471, con regio privilegio, ottenne la cittadinanza napoletana. Quell’anno assunse anche la guida del sodalizio di dotti che si raccoglieva attorno al Panormita, appena defunto, riunendosi sotto il portico della di lui casa. Nel 1475 divenne uno dei vari consiglieri del tribunale finanziario della Sommaria: incarico in parte onorifico, ma ben remunerato. Quell’anno entrò anche al servizio di Ippolita Sforza, moglie di Alfonso di Calabria, in qualità di primo segretario, in sostituzione di Baldo Martorelli, defunto in febbraio. La prima lettera siglata da Pontano in questa veste risale al 6 maggio.

Da questo momento la sua figura entra nel cono di luce proiettato dai dinasti di cui fu al servizio diretto per vent’anni e le informazioni che lo riguardano perciò si moltiplicano. È possibile in tal modo precisare meglio i suoi spostamenti e di sgombrare il campo da alcuni equivoci ed errori sedimentatisi nella storiografia critica nel corso di un paio di secoli almeno. Di certo, egli non fece parte della fastosa comitiva, capitanata dal duca di Calabria, che si recò a Barcellona nell’estate 1477 per andare a prendere Giovanna, sorella di Ferdinando il Cattolico e condurla a Napoli, dove era attesa per le nozze da re Ferrante, rimasto vedovo della prima moglie, Isabella Del Balzo Orsini. Doveva bensì farne parte, e doveva essere accompagnato da tre servienti, come risulta dall’elenco ufficiale dei componenti della comitiva principesca presentato alle autorità fiorentine, ma all’ultimo momento dovette defezionare. La folta rappresentanza napoletana (ben 849 persone), infatti, si imbarcò a Napoli il 10 giugno e vi fece ritorno il 9 settembre. Durante il lasso di tempo in cui avrebbe dovuto essere assente dalla capitale del Regno, però, la sigla autografa di Pontano compare sotto due lettere di Ippolita del 18 luglio e 31 agosto, vergate a Napoli.

Del pari, egli non seguì Alfonso nella cosiddetta guerra di Toscana, svoltasi tra il 1478 e il 1480. Non solo, infatti, non vi è alcuna testimonianza esplicita della sua presenza nella regione in quegli anni, ma egli risulta attivo in Campania, nella veste di segretario della duchessa, sino al 22 giugno 1478 almeno e di nuovo dal 24 settembre dell’anno successivo. Se quindi si recò presso Alfonso al fronte fu solo per un periodo intermedio assai breve. E neppure prese parte alla campagna militare per la riconquista di Otranto, occupata dai turchi nell’agosto 1480 e liberata dal duca di Calabria solo nell’ottobre dell’anno successivo. Nell’estate 1480, anzi, avrebbe dovuto recarsi a Siena in qualità di ambasciatore, ma all’ultimo momento si decise di sostituirlo. Tra il maggio 1477 e il gennaio 1482 Pontano svolse puntualmente e continuativamente il proprio incarico di segretario, trattenendosi quasi sempre al fianco di Ippolita. Se ne allontanò brevemente di sicuro soltanto nel dicembre 1481, per accompagnare Alfonso in Abruzzo, a Città Sant’Angelo, a passare in rassegna le truppe regie alla vigilia di una nuova fase di guerre. A quella data, però, era probabilmente già stata presa la decisione di trasferirlo al servizio dell’erede al trono, sempre in qualità di primo segretario.

In questa veste prese parte alla cosiddetta guerra di Ferrara, combattuta nel Lazio, in Emilia, in Romagna e in Lombardia tra il gennaio 1482 e il 7 agosto 1484, allorché vi pose termine la pace di Bagnolo, di cui proprio Pontano fu uno tra gli artefici principali, in quanto negoziatore plenipotenziario del duca. Nel corso della campagna durante la quale, ispirati dalla dolorosa lontananza, Pontano compose alcuni dei versi più belli e sentiti del De amore coniugali, fu sempre accanto ad Alfonso, sottoscrivendone le numerosissime missive in quel periodo inviate a tutti i potentati d’Italia. Sappiamo così dove entrambi si trovassero quasi ogni giorno, tranne brevissimi periodi, nel quale il segretario fu inviato altrove per missioni diplomatiche circoscritte. Così, nel maggio 1484, mentre Alfonso si trovava a Cremona, Pontano dovette recarsi a Milano a conferire con Ludovico il Moro. Si tratta, in verità, dell’unica assenza documentata del segretario dal campo ducale che sia durata più di un giorno.

L’esercito regio fece ritorno a Napoli solo il 3 novembre 1484. Nel decennio successivo, Pontano se ne allontanò di rado, spostandosi solo di tanto in tanto, assieme con i dinasti aragonesi di cui era al servizio, di volta in volta in Puglia, in Terra di Lavoro o in Abruzzo. Solo poche volte, durante questo lungo periodo, fu inviato fuori dal Regno in missione diplomatica, e per lo più a dirimere controversie sorte tra il suo sovrano e il pontefice. Il 29 giugno scoppiò infatti apertamente il latente conflitto tra papa Innocenzo VIII, che pretendeva dal re di Napoli il pagamento di un forte censo in denaro per investirlo del titolo, e Ferrante. Il duca Alfonso si trovava dal principio di giugno già in Abruzzo, per prevenire una prevedibile rivolta baronale, appoggiata dal pontefice. Il 28 giugno imprigionò i capi della ribellione, tra cui il conte di Montorio, Pietro Lalle Camponeschi, e li fece tradurre a Napoli, accompagnati da Pontano, che aveva il delicato compito di illustrare le ragioni di quell’atto di forza agli ambasciatori stranieri accreditati nella capitale del Regno. Il suo ritorno in Abruzzo fu quasi immediato: il 16 luglio pare si trovasse già di nuovo nella regione, a Sulmona, accanto ad Alfonso.

Il 20 luglio entrambi sono attestati nuovamente a Napoli e subito dopo, dall’11 al 18 agosto, il segretario ducale si recò brevemente a Venosa per cercare di spegnere per via diplomatica un altro focolaio di rivolta, che faceva capo ai potenti baroni locali Pirro e Angilberto Del Balzo. Nel corso dell’estate si recò probabilmente a Roma, dove conobbe papa Innocenzo VIII. L’intesa tra loro fu immediata, sia sul piano politico sia personale. In ottobre si recò a parlamentare a Bracciano con Virginio Orsini, uno dei condottieri di fiducia di Ferrante, per assoldarlo in funzione antipapale. La controversia pontificio-napoletana, però, non sfociò mai in conflitto armato e Pontano, grazie alle ottime relazioni personali che poteva ora vantare con papa Innocenzo, che in lui riponeva alta stima e piena fiducia (tanto da laurearlo poeta il 28 gennaio 1486), il 23 giugno dello stesso 1486 fu inviato a Roma, però come agente del duca e non come ambasciatore per sondare le possibilità di giungere a un accordo di pace. Doveva perciò trattarsi, agli occhi del sovrano napoletano, di una missione breve e interlocutoria, tanto che egli era atteso di ritorno già al principio di luglio. In realtà, riuscì a condurre a termine le trattative e a siglare una buona pace nella notte tra il 9 e il 10 agosto. Non poté però tornare subito a Napoli, perché la cattura fraudolenta di alcuni dei baroni ribelli, ordinata tre giorni più tardi da Ferrante, appena prima che la pace appena firmata venisse pubblicata, turbò nuovamente le relazioni diplomatiche nella penisola. Egli si trattenne perciò a Roma ancora un mese, cercando di ricostruire un sereno rapporto politico tra il sovrano napoletano e il papa. Rimise piede a Napoli solo il 20 settembre.

Da quel momento seguì quasi sempre il re, pur se non ancora con la qualifica di primo segretario. Le missive regie di quei mesi, infatti, sono siglate solo talvolta da lui: «El Pontano e lo abate Roggio [Benedetto Ruggi] sono più appresso al re che altri, e’ quali ài pratichi e sai quello che vaglono in cose di stati. El conte di Matalona [Diomede Carafa], lui non si travagla o poco in queste cose» (Corrispondenza, 2002-15, III, n. 67, p. 110), riassume con esemplare sinteticità la situazione al vertice della piramide decisionale del Regno un uomo politico di grande acume, Bernardo Rucellai, in una sua missiva del 3 novembre, nella quale è da sottolineare appunto la stima in cui sembrano essere comunemente tenute le doti politiche e diplomatiche di Pontano.

Ferrante non sembrava avere fretta di risolvere la questione della nomina di un nuovo segretario. Il 31 dicembre, anzi, inviò nuovamente Pontano a Roma, con il compito di negoziare il matrimonio tra Battistina Cibo, figlia del pontefice, e Luigi d’Aragona, figlio di Enrico, marchese di Gerace, a sua volta figlio naturale del sovrano; oltre che con quello di «ressettare el papa di questi modi servati pel re co’ baroni», come riferisce di nuovo Rucellai. Solo al ritorno di Pontano a Napoli, verso la metà di febbraio del 1487, Ferrante fece la sua scelta, affidandogli la cura della Cancelleria. Da quel momento, tutte le lettere che ne usciranno, tranne pochissime e solo quando egli sarà costretto ad assentarsi dal lavoro, porteranno la sua firma.

La scelta di Ferrante fu accolta non senza qualche iniziale perplessità da parte di coloro, nel mondo politico e diplomatico italiano, che vedevano Pontano poco adatto al nuovo ufficio, giacché si diceva usasse seguire, nello svolgimento del proprio compito, «certi soi termini de philosophia et de astrologia» (Corrispondenza, 2002-15, III, n. 98, p. 152). In realtà, Pontano sostanzialmente già godeva della stima dei colleghi e dei potenti d’Italia e fece presto a mettere a tacere gli scettici. Egli, anzi, interpretò con molta autorevolezza e sicurezza di sé il proprio ruolo, non temendo di adoperare, pur in quel felpato mondo, frasi forti che furono sovente riportate come memorabili dagli ambasciatori esteri che ebbero a che fare con lui; e ancora, di frequente, a esprimersi con metafore, paragoni e modi di dire sempre chiari, sapidi, e pertinenti. I legati, egli per esempio raccomandava a Rucellai, devono tenere in alta considerazione il proprio ufficio, giacché essi «sono i medici degli stati» (Corrispondenza, 2002-15, n. 144, p. 288). E ancora, rivolto a re Alfonso II, per stigmatizzare l’atteggiamento pusillanime e dilatorio degli alleati fiorentini di fronte al pericolo imminente dell’invasione francese: «Questo, sacra maestà, è un tracto fiorentino, così nella promptezza come nello scaricarsi et lassare tutto questo peso ala maestà vostra» (VIII, n. 254, p. 508). Una frase così tagliente che l’ambasciatore della Repubblica a Napoli, Dionigi Pucci, nella sua lettera dell’8 marzo del 1494 nella quale la riportò, citò in forma diretta.

La posizione politica di primo piano che egli da allora occupò fece sì ancora che sovente gli agenti diplomatici degli Stati esteri comunicassero puntuali notizie sul suo stato di salute, in specie sul male che lo tormentava alle gambe. Dionigi Pucci nel giugno 1493 annotò come, trovandosi Pontano indisposto, si avvertiva grave confusione negli affari di Stato, condotti, a causa della sua assenza, con «poco ordine» (Corrispondenza, 2002-15, VIII, n. 199, p. 374).

Il 22 dicembre 1488 egli redasse i capitoli matrimoniali tra Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Maria Sforza. Non si recò però certamente di persona a Milano ad accompagnare la giovane figlia del duca di Calabria nella nuova casa. Si rese anzi protagonista, in quel frangente, di un’azione che ne dimostra in maniera chiarissima il carattere forte e determinato; un’azione tale che avrebbe potuto condurre alla rottura delle relazioni diplomatiche con il ducato di Milano, giacché, come narra un oratore fiorentino a Napoli in un suo dispaccio del 16 gennaio 1489, dubitando che il cancelliere milanese, Stefano da Cremona, non si dileguasse con le scritture originali, «lo fece piglare et condurre per forza a casa sua, non sanza qualche battitura, et rinchiuselo in una camera, donde dipoi il re lo fece trarre» (IV, n. 141, p. 320); cosa della quale gli inviati milanesi poi fortemente si lamentarono.

Le asperità del suo carattere erano d’altronde note. Il primo agosto 1494, quando divenne di dominio pubblico che Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, non si sarebbe schierato accanto agli Aragonesi nell’imminente guerra che l’arrivo di Carlo VIII di Francia stava per provocare, l’umanista non nascose la propria indignazione: «Di che il Pontano riniega Dio per tanta mutatione», scrive nel registrarne la reazione il cancelliere fiorentino Francesco Cappello (VIII, n. 315, p. 641). E pochi giorni più tardi, il 10 agosto, lo stesso cancelliere e Baccio Ugolini, uomo di lettere e fedele agente mediceo, congiuntamente scrissero al loro signore che Pontano, nonostante la sua nota posizione filofiorentina, aveva perso la pazienza, come spesso gli capitava, addebitando alla Repubblica gigliata il fallimento del piano di occupare Genova dal mare e impedire così alla flotta francese di riunirsi e minacciare il regno: «Il signore Pontano, come è suo costume, alzò le parole, increpando la tardità et freddeza de’ signori fiorentini» (VIII, n. 319, p. 653).

Alla primavera del 1490 risale un celebre episodio, che di nuovo ne mette in luce il carattere franco e insofferente, ai limiti della presunzione. Gli fu infatti addebitata allora una tassa di venti ducati al mese dal fisco regio, alla cui imposizione egli reagì vergando una fiera lettera di dimissioni da ogni incarico pubblico, datata 7 maggio 1490, indirizzata a Ferrante, nella quale lamentava che non solo non lo si era sino allora ricompensato secondo i propri meriti, ma che ora si pretendeva addirittura di vessarlo. Il sovrano riconobbe le buone ragioni del segretario e gli condonò l’imposta.

Va però ribadito che se è vero che Pontano non godette mai di benefici feudali, pure la sua situazione patrimoniale era senz’altro solida. Oltre alle proprietà già menzionate, in città aveva due belle ville, dedicate alle muse Antiniana e Patulci, situate l’una al Vomero e l’altra a Piedigrotta; poteva contare, dal 21 giugno 1490, su un censo annuo di sei tarì da pagarsi su una bottega sita nella centrale platea di Portanova; il 2 settembre 1492 era stato in condizione di acquistare una nuova casa nel quartiere Nido, dove abitava, e nello stesso anno poté inaugurare la monumentale cappella sepolcrale che ancor oggi si può ammirare nel medesimo quartiere, lungo la via dei Tribunali.

I rapporti diplomatici tra il papa e re Ferrante, intanto, nonostante gli sforzi diplomatici di Pontano, erano tesi, in specie non essendo giunta a definitiva soluzione la questione dell’annuo censo in denaro preteso dal pontefice e tenacemente rifiutato dal sovrano napoletano; e ciò anche per involontaria responsabilità dello stesso Pontano, che in un colloquio con l’inviato fiorentino a Napoli, Piero Nasi, dei primi di luglio del 1491, riconobbe di essersi allontanato da Roma troppo presto, dopo la stipula della pace del 1486: «Ma partito mi fu’ da Roma, che volessi Idio non mi fussi partito così presto, venne Sancto Piero in Vincula da Genova [il cardinale Giuliano della Rovere] et imbruogliorono et perverterono tucti i capitoli. È vero che io promissi i censi, ma il papa medesimo mi decte intentione che non si pagherebbono» (Corrispondenza, 2002-15, VI, 1, n. 82, p. 112).

Di lì a poco ebbe però modo di riprendere tra le mani la questione e risolverla secondo le proprie convinzioni politiche generali, che si fondavano sull’assunto che il Regno avrebbe dovuto sempre procedere in buon accordo con il pontefice e con la Repubblica fiorentina. Il papa, infatti, non avendo ricevuto il versamento del censo nel giorno pattuito, il 29 giugno, scomunicò Ferrante, e l’11 settembre lo dichiarò decaduto. La situazione si faceva sempre più incandescente, anche perché durante l’estate 1491 gli ascolani si erano ribellati alla signoria pontificia e le truppe aragonesi, sotto il comando di Virginio Orsini, sembravano pronte ad appoggiarli. Pontano si rese conto che il momento era favorevole per rilanciare le trattative di pace e prese perciò vigorosamente l’iniziativa, non curandosi di stigmatizzare apertamente la politica attendista e dilatoria di Ferrante anche davanti ad ambasciatori stranieri, e addirittura di criticarne la prontezza intellettiva.

Come infatti scrive l’oratore fiorentino Piero Nasi, che apertamente dichiara di condividere l’analisi del segretario, il 4 agosto di quell’anno: «[Pontano] discese di poi alla natura del re, il quale dixe essere tardo d’ingegno, et per questo penare assai a risolversi, et poi si è resoluto è tardo allo exeguire et pocho pensitivo ad altro che a’ casi presenti» (VI, 1, n. 97, p. 132). Pontano è un fiume in piena: parla ininterrottamente per circa quaranta minuti e le sue critiche non si limitano alla politica internazionale del sovrano, ma si allargano a quella economica, dissentendo egli dalla decisione regia di vendere direttamente il grano pugliese in Africa settentrionale invece di concedere tratte ai mercanti che tradizionalmente lo commerciavano; e questo perché tale scelta gli avrebbe messo contro genovesi e veneziani, sì che invece di ottenere dei guadagni avrebbe subito delle perdite.

Finalmente, ‘importunato’ da Nasi e «punto dal Pontano insino nel vivo», al principio di ottobre 1491 Ferrante aprì uno spiraglio alle trattative con la S. Sede. Il 20 ottobre il segretario regio scrisse al papa una lettera affettuosa e ammiccante, in sostanza suggerendo di organizzare un incontro ufficiale. La risposta fu incoraggiante e Pontano il 1° novembre prese la via di Roma portando con sé «uno bello presente di profumi, di acque odorifere e di premure di Barberia» (VI, 1, n. 153, p. 243). Le trattative durarono a lungo, ma finalmente, il 25 gennaio 1492, la pace poté essere firmata. Il 7 febbraio, nel darne notizia a Carlo de Ruggiero, ambasciatore napoletano a Venezia, Pontano, che ne era stato certo il principale e caparbio artefice, non mancò di sottolineare le difficoltà incontrate, addossandone la responsabilità soprattutto al re, il cui trasferimento in Puglia per la tradizionale stagione di caccia aveva ritardato i tempi della ratifica.

Si trattenne a Roma sin verso la metà di febbraio. Il 21 era di nuovo in Terra di Lavoro a illustrare al re, nel corso di una battuta di caccia, i termini dell’accordo. Il 23 era a Napoli. I capitoli di pace furono però lungamente meditati dal sovrano. Pontano restò così in città sino al 16 o 17 maggio, allorché accompagnò a Roma il giovane Ferrandino, figlio del duca Alfonso.

In verità egli, come segnala il 19 di quel mese l’agente fiorentino Niccolò Michelozzi, non avrebbe dovuto recarvisi, «per essere male contento della possessione d’alchune chiese, che di qua non si erano date, fuor di quello che lui haveva promesso al papa. Pure, tandem è andato. Delle chiese non so quello sia seguito» (VI, 2, n. 71, p. 413). La notizia rende forse ragione del perché Ferrante avesse manifestato perplessità sull’accordo negoziato da Pontano e spiega un memoriale di quest’ultimo del 26 aprile indirizzato al sovrano, fortemente critico nei confronti della decisione regia di tornare su alcuni punti dell’accordo.

La ragione del viaggio romano della comitiva aragonese, comunque, non riguardava la negoziazione delle clausole della pace, ma l’investitura della successione del Regno al duca di Calabria, sancita dalla ratifica delle nozze tra Battistina Cibo e Luigi d’Aragona già a suo tempo negoziata da Pontano. Furono questi, tra la primavera 1490 e il principio del 1492, gli anni di maggiore frizione e di maggiore distanza politica con Ferrante. Ed è perciò probabile che risalga a questo periodo la composizione del dialogo Asinus, sull’ingratitudine, da interpretarsi appunto come una metafora dei sentimenti nutriti in quel momento dal segretario nei confronti del re presso il quale prestava servizio.

Pontano si trattenne a Roma di nuovo a lungo, giacché avrebbe dovuto attendervi la cerimonia della consegna del cavallo addobbato che il re di Napoli, in segno di riconoscimento del papa come alto signore del Regno, gli inviava tradizionalmente il 29 giugno; e soprattutto avrebbe dovuto convincere il pontefice a fare pressioni sul nuovo re d’Ungheria, Ladislao Jagellone, affinché prendesse in moglie Beatrice d’Aragona, figlia di Ferrante e vedova del precedente re di quel paese, Mattia Corvino. Egli fece infatti ritorno soltanto il mese successivo: l’11 luglio era ad Aversa e la sera del 13 a Napoli.

Il suo andirivieni con Roma non era ancora finito. Meno di due settimane più tardi, il 25 luglio, Ferrante ve lo rimandò ancora una volta, al posto del già designato Camillo Pandone, con una motivazione assai eloquente: «come homo che ha più esperientia di quella corte et conditioni de’ cardinali. Et per questo, et per essere homo sempre consueto di fare opere di pace et quiete, più accomodato in sul facto» (VII, n. 70, p. 93). Si trattava, infatti, di assistere all’incoronazione del nuovo papa, Alessandro VI, di prestargli l’obbedienza e di intavolare con lui le prime trattative diplomatiche. La fiducia che il sovrano riponeva nel suo segretario era tale che egli non sapeva risolversi neppure a stabilire quante persone, di che rango e in che ordine avrebbe dovuto inviare a Roma per quelle cerimonie se prima non ne avesse parlato con lui, tanto che lo aveva convocato a Napoli per consultazioni. Il papa, però, che pure lo aveva evidentemente in alta considerazione, gli aveva ingiunto di non lasciare Roma fino al momento dell’incoronazione, addirittura intimando, «sotto pena di scomunicatione, che in questo obedissi a sua santità» (VII, n. 79, p. 106).

Egli rimase così a Roma, consultato però sovente dal re, in specie quando si trattò di decidere quale orazione sarebbe stata pronunciata dagli inviati napoletani, anche a nome degli alleati milanesi e fiorentini, nel corso della cerimonia dell’obbedienza.

Ne erano state approntate cinque: un’opera del giurista Aurelio Bienati, vescovo di Martorano; una del catalano Leonardo de Cerbaria, vescovo di Montepeloso; una di Giovanni Pardo, cancelliere regio; una di Gabriele Altilio, precettore di Ferrandino, e l’ultima di Giovanni Musefilo, precettore in casa del conte camerlengo, Alfonso d’Avalos. Tre di esse, non è noto quali, al principio di ottobre furono inviate a Pontano affinché scegliesse la migliore per gli interessi della lega e ne inviasse il testo alle autorità fiorentine e milanesi.

Pontano non si fermò alla cerimonia, svoltasi l’11 dicembre, nella quale l’orazione da lui scelta fu poi recitata dal vescovo di San Marco, Rutilio Zenone. La sera del 26 ottobre, infatti, con in tasca l’agognata bolla d’investitura del Regno, giunse a Napoli.

La missione aveva segnato l’apogeo della sua carriera politica, giacché egli era riuscito a sconvolgere i piani milanesi di allearsi con il pontefice contro Ferrante e aveva condotto le trattative coadiuvato da parenti stretti e certamente da lui voluti al suo fianco: il nipote Giacomo Pontano e il genero Loise da Casalnuovo, marito di Eugenia. In definitiva, pur se definito da Bernardo Dovizi da Bibbiena, che giunse ambasciatore a Napoli nel febbraio 1494, «buon philosopho et basta» (e anche Ludovico il Moro lo definiva così), in realtà, con la sua concezione vastissima e aperta, davvero umanistica e non giuridica della politica, si mostrò interprete assai moderno di quell’arte.

Riprese subito il proprio posto a capo della cancelleria regia, con la consueta sicurezza di sé sia come politico sia come letterato. Nel maggio 1494, quando Dionigi Pucci gli mostrò la risposta che le autorità fiorentine avevano dato agli ambasciatori del re di Francia, giunti per strappare la Repubblica dall’alleanza aragonese, egli affermava come essa risposta, «per la sentencia et per lo stile», gli fosse molto piaciuta, «et confessava lui medesimo non l’haria saputa fare più al proposito della maestà regia» (Corrispondenza, 2002-15, VIII, n. 283, p. 564).

Quando Carlo VIII aveva già preso la via dell’Italia, nell’estate del 1494, egli accompagnò il sovrano in Abruzzo. Si tratta dell’ultima sua incombenza ufficiale di cui si abbia notizia. Non fu infatti lui ad andare in agosto in ambasceria a Firenze, ma il nipote Giacomo. Non smise però certo di esercitare la propria intelligenza critica, in specie con memoriali di grande lucidità indirizzati al re, nei quali ne stigmatizzava la neghittosità e la lentezza nell’affrontare la difficile situazione. In particolare, egli premeva perché si inviasse la flotta contro Genova. La situazione sul campo stava comunque ormai precipitando. Il 20 febbraio 1495 toccò a lui pronunciare un discorso in difesa dei napoletani davanti al viceré francese, Gilberto di Montpensier, inviato in avanscoperta da Carlo VIII, e consegnargli le chiavi di Castel Capuano.

Gli incarichi pubblici non ne spensero del tutto gli interessi culturali, anche se la sua attività in questo campo poté proseguire solo in forma ridotta.

Tra il 1481 e il principio del 1487 compose il De fortitudine, un trattato in due libri nel quale esamina questa fondamentale virtù principesca, che si colloca a metà strada tra la timidezza e la temerarietà, e che stamperà poco più tardi, nel 1490, quasi in contemporanea al De principe e al De obedientia. Alla metà degli anni Ottanta scrisse anche parte dei centotredici epigrammi sepolcrali del De tumulis; gli altri li compose una decina di anni più tardi. Nel 1491 pubblicò insieme i dialoghi Charon, composto tra il 1469 e il 1470, e Antonius, scritto poco dopo il 1483, riprendendo un abbozzo probabilmente messo su carta attorno al 1473. Un’opera, quest’ultima, di notevole impegno, che ingloba entro la sua cornice diversi generi letterari. Tra il 1481 e il 1499 compose ancora la Lyra, raccolta di sedici saffiche di sapore oraziano. Anche la maggior parte dei suoi dialoghi e trattati di ispirazione filosofica e morale vide la luce, per le sue cure dirette, nello stesso periodo, tra il 1480 e il 1498, allorché essi furono mandati sotto i torchi. Si tratta di opere che abbracciano un ampio spettro di temi e di generi letterari, e che si muovono parte sul versante ciceroniano, filosofico e dottrinario, e parte su quello lucianeo, comico e satirico, del genere. Sono, quelli, anche gli anni in cui prendono forma le sue opere astrologiche, coltivate sin dalla giovinezza: i trattati Commentationes super centum Ptolemei sententiis (il cosiddetto Centiloquium, traduzione latina, in due libri, delle apocrife sentenze tolemaiche) e De rebus coelestibus, dotto trattato di ispirazione aristotelica, ripreso e rivisto dopo la pubblicazione, nel 1495, dell’Adversus astrologus di Pico della Mirandola, e i poemi Urania, in cinque libri, l’ultimo dei quali ricco anche di spunti corografici, e Meteororum libri, oltre a un frammento De luna.

Il 1° marzo 1490 morì l’amata Adriana. Il grande e sincero amore per la consorte non gli aveva impedito però di intrecciare una relazione con una donna di Argenta, che egli chiamò Stella, conosciuta nei primi mesi del 1483, allorché si trovava in zona per prendere parte alla cosiddetta guerra di Ferrara. Costei gli diede un figlio, Lucillus, morto dopo soli 50 giorni, prima del 1496, mentre ella stessa premorì al compagno, dopo quella data. A lei Pontano dedicò le liriche dell’Eridanus, in due libri comprendenti settantadue elegie, parte composte quando conobbe la sua ispiratrice e parte verso la seconda metà degli anni Novanta del secolo.

Non avendo più ricevuto incarichi politici, neppure con il ritorno degli aragonesi nel 1495, poté portare a maturazione e licenziare per le stampe, nel 1498, una serie di lavori: i trattati cosiddetti delle virtù sociali, che erano parte, insieme con le altre opere del genere, di un vasto progetto di illustrazione dell’etica aristotelica, ma che in realtà, attraverso robusti innesti ciceroniani e senecani, disegnavano le caratteristiche etiche e comportamentali della civiltà umanistica, basate sulla misura (De liberalitate, De beneficentia, De magnificentia, De splendore e De conviventia).

Nel 1498 compose anche il De prudentia, dedicato alla virtù regolatrice per eccellenza: quella che, correttamente applicata, in quanto maestra e guida avrebbe impedito le degenerazioni potenzialmente insite nelle altre. Interessante come Pontano, nell’opera, affronti il tema della liceità della simulazione e della dissimulazione, risolvendolo in termini non necessariamente di condanna, in specie quando si tratti di atteggiamenti utili alla cosa pubblica.

Subito dopo, tra la fine di quell’anno e i primi tre mesi del 1499, condusse a termine il De magnanimitate, il trattato in certo senso conclusivo del suo percorso nella filosofia morale, giacché disegnava il tipo perfetto di uomo, provvisto di tutte le virtù collegate nel giusto e corretto rapporto reciproco, in specie in equilibrio tra la pusillanimità e l’eccessiva ambizione. Sempre tra il 1495 e il 1499 compose anche l’Actius, che in una prima parte si occupa di poetica, in specie di prosodia e metrica, e in una seconda di teoria storiografica. Riprese quindi, per aggiornarlo e rivederlo alla luce di quelle riflessioni, il De bello Neapolitano. Ancora, condusse a termine Urania, Meteororum liber, De hortis Hesperidum (quest’ultimo poemetto, di chiara ispirazione virgiliana, era quasi pronto nel 1499, allorché egli pensò di dedicarlo a Francesco Gonzaga, e fu condotto a termine tra il 1500 e il 1501), le due ultime delle sei Eclogae (composizioni poetiche create nell’arco di circa un trentennio su modelli teocritei, virgiliani e ovidiani), gli Hendecasyllaborum seu Baiarum libri, versi di ispirazione catulliana, composti per lo più negli anni a ridosso della fine del secolo e raccolti in due libri. Tutti questi lavori furono inviati a Venezia, ad Aldo Manuzio, tra il 1502 e il 1503, affinché li pubblicasse. Tra il 1501 e il 1502 ordinò e completò ancora il De tumulis e il De immanitate e stese l’Aegidius, rivedendolo ancora sino alla vigilia della morte; e nel 1502 circa, il De sermone, un trattato sull’institutio dell’uomo faceto e di spirito e un elogio della vita attiva e della dimensione sociale, conseguite attraverso la buona e piacevole conversazione.

Quasi tutte le sue opere, ritoccate sino alla fine, restarono comunque prive dell’ultima mano. Al trattato in tre libri De fortuna, per esempio, che ebbe una revisione tra il 1500 e il 1501, fu apposta una dedica a Consalvo di Cordova addirittura tra il 14 maggio e il 17 settembre del 1503. Si trattava peraltro di un lavoro particolarmente impegnativo, nel quale si analizzava il rapporto tra l’indole, segnata dagli influssi astrali, e il libero arbitrio dell’individuo, e perciò si toccava anche il delicato tema del ruolo giocato dalla divinità negli accadimenti umani.

Con la caduta della dinastia che aveva fedelmente servito per oltre quarant’anni e l’ingresso dei francesi a Napoli le testimonianze a lui relative quasi scompaiono. Nel corso del 1495 fu talvolta interpellato dai nuovi amministratori del Regno su alcune questioni pratiche. Il 7 maggio dovette recarsi per questa ragione fin nell’abbazia di S. Maria del Canneto, in Molise. I francesi lo allontanarono da tutte le cariche pubbliche e gli diedero anche torto relativamente a una lite con alcuni capuani per il possesso di un pezzo di terra. Anche quando, nel corso della seconda metà del 1495, gli aragonesi si ristabilirono in città, però, Pontano non riacquistò le antiche mansioni, pur siglando di tanto in tanto lettere regie. Sia Ferrandino sia lo zio Federico, i due ultimi re della dinastia, si servirono infatti dei segretari che già lavoravano per loro: rispettivamente Elisio Calenzio e Vito Pisanello. Pontano conservò soltanto il privilegio di restare tra i presidenti del tribunale della Sommaria.

Negli ultimi anni di vita fu colpito da nuovi lutti familiari. Nel 1497 la primogenita, Aurelia, rimase vedova di Paolo da Caivano, sposato sul finire del 1484. Il dolore più acerbo lo colpì però il 24 agosto 1498, giorno in cui gli morì per un banale incidente il figlio Lucio. Lo lasciavano l’uno dopo l’altro anche gli amici più cari. Alla fine del 1501 morì Pietro Golino, detto il Compatre, e poco dopo Elisio Calenzio.

All’11 maggio 1503 risale il suo ultimo autografo: una lunga lettera al re di Francia, Luigi XII, per giustificare la città di Napoli che stava per aprire le porte a Consalvo di Cordoba.

Morì il 17 settembre 1503.

Poco dopo furono pubblicate molte delle sue opere: nel 1505 Aldo Manuzio diede alle stampe, insieme con altri già editi, quei lavori, di cui si è fatto cenno, che lo stesso Pontano gli aveva inviati autografi fin dal dicembre 1502. E sempre a partire dal 1505 si stamparono a Napoli, per cura di Pietro Summonte e non senza pesanti interventi, tutti i suoi scritti.

Per incuria delle eredi sembra poi che alcune sue opere, segnatamente un Libellus de mundi sphaera, un De tempore, gran parte del De luna e un Commentario sopra Catullo, siano andate perdute. Il 4 giugno 1505 la figlia Eugenia donò al convento domenicano di Napoli la parte della biblioteca paterna rimastale. Anch’essa non fu però conservata con la dovuta cura e la maggior parte dei manoscritti andò dispersa nel corso dei secoli successivi.

Le sue relazioni pubbliche, politiche e culturali, erano state amplissime. L’elenco, anche solo dei dedicatari di sue opere o di parti di esse e di interlocutori dei suoi dialoghi, per non parlare dei suoi corrispondenti epistolari, sarebbe lunghissimo: egli era entrato in contatto diretto, nella sua lunga vita, con larghissima parte del mondo letterario non solo regnicolo e praticamente con tutti i potenti d’Italia.

Opere. Edizioni antiche: De aspiratione, pubblicato nel 1481 a Napoli dal tipografo Mattia Moravo; De obedientia, De fortitudine e De principe, comparsi tutti e tre nel 1490 ancora per i tipi di Mattia Moravo; Charon e Antonius, usciti insieme nel 1491 a Napoli, sempre per Mattia Moravo; De divinis laudibus, stampato nel 1498 a Barcellona, presso Johann Luschner; De liberalitate, De beneficentia, De magnificentia, De splendore e De conviventia, stampati nello stesso anno in unico volume, a Napoli, da Johann Tresser di Hoestet e Martino di Amsterdam; nel 1505, a Venezia, Aldo Manuzio ne pubblicò la prima ampia raccolta di opere, sotto il titolo Pontani opera; contemporaneamente iniziò a uscire a Napoli, per i tipi di Sigismondo Mayr, la grande raccolta di tutte le opere pontaniane, in sette volumi (1505-12), curata dall’esecutore testamentario del poeta, Pietro Summonte.

Edizioni critiche: Carmina, a cura di B. Soldati, Firenze 1902; Dialoghi, a cura di C. Previtera, Firenze 1943; Carmina. Ecloghe, Elegie, Liriche, a cura di J. Oeschger, Bari 1948; De sermone libri sex, a cura di S. Lupi - A. Risicato, Padova 1953 (testo ripubblicato con commento e traduzione a cura di A. Mantovani, Roma 2002); Poesie latine. Scelta, a cura di L. Monti Sabia, Milano-Napoli 1964; I libri delle virtù sociali, a cura di F. Tateo, Roma 1965; De immanitate liber, a cura di L. Monti Sabia, Napoli 1970; La ‘Lyra’ di G. P. edita secondo l’autografo codice Reginense Latino 1527, a cura di L. Monti Sabia, in Rendiconti dell’Accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli, XLVII (1972), pp. 1-70; Eclogae, a cura di L. Monti Sabia, Napoli 1973; M. de Nichilo, I poemi astrologici di G. P.: storia del testo. Con un saggio di edizione critica del Meteororum liber, Bari 1975; Hendecasyllaborum libri, a cura di L. Monti Sabia, Napoli 1978; De Principe, a cura di G.M. Cappelli, Roma 2003; M. Rinaldi, Il ‘De luna liber’ di G. P. edito, con traduzione e commento, secondo il testo dell‘editio princeps napoletana del 1512, in Atti della Giornata di studi per il V centenario della morte di G. P., a cura di A. Garzya, Napoli 2004, pp. 73-119; La fortuna, a cura di F. Tateo, Napoli 2012; Aegidius. Dialogo, a cura di F. Tateo, Roma 2013; Asinus. Dialogo dell’ingratitudine, a cura di F. Tateo, Roma 2014; Dialoghi. Caronte, Antonio, Asino, a cura di L. Geri, Milano 2014. Le edizioni delle lettere pontaniane sono elencate in M.L. Doglio, Il ‘dichiarar per lettera’ del Pontano, in Critica letteraria, 1994-95, 88-89, pp. 5-32 (in appendice, Regesto delle lettere a stampa (1500-1994), pp. 23-32).

Fonti e Bibl.: Roma, Archivio storico Capitolino, Archivio Orsini, Serie I, b. 69, parte 1 e 2; Archivio di Stato di Bologna, Comune, Carteggi, bb. 417, 418; Archivio di Stato di Milano, Sforzesco, 209, cc. 207-208; 210, cc. 43-44; 231, cc. 21-23; B. Figliuolo, Un documento e tre lettere inedite di G. P., in Atti della Giornata di studi per il V centenario della morte di G. P., cit., pp. 45-52; B. Figliuolo, (Pen)ultime lettere inedite di G. P., in «Suave mari magno…». Studi offerti dai colleghi udinesi a Ernesto Berti, a cura di C. Griggio - F. Vendruscolo, Udine 2008, pp. 77-83; Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini, VIII, a cura di B. Figliuolo, Salerno 2015, n. XIX, p. 731. Le missive edite per ragioni d’ufficio sono pubblicate in Corrispondenza di G. P. segretario dei dinasti aragonesi di Napoli (2 novembre 1474-20 gennaio 1495), a cura di B. Figliuolo, Battipaglia-Napoli 2012. I. Ammannati Piccolomini, Lettere (1444-1479), a cura di P. Cherubini, Roma 1997, n. 351, p. 1168; Dispacci sforzeschi da Napoli, diretta da F. Senatore - F. Storti, I, II, IV, V, Napoli 1997-2009, ad ind.; Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini a Napoli (13 aprile 1484 - ottobre 1494), diretta da B. Figliuolo, Napoli 2002-15, ad ind.; La corrispondenza italiana di Joan Ram Escrivà ambasciatore di Ferdinando il Cattolico (3 maggio 1484-11 agosto 1499), a cura di I. Parisi, Battipaglia 2014, ad indicem.

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