PRATI, Giovanni

Enciclopedia Italiana (1935)

PRATI (de' Prati), Giovanni

Umberto Bosco

Poeta, nato a Campomaggiore nelle Giudicarie (Trento), il 27 gennaio 1814; morto a Roma il 9 maggio 1884. Dasindo, che il P. soleva indicare come suo paese nativo, è un villaggio, poco distante da Campomaggiore, dov'era la casa paterna e la residenza abituale della sua famiglia.

Studiò prima a Trento, poi assai malvolentieri legge a Padova, ma non arrivò alla laurea: tuffatosi nella vita goliardica, bello e poeta, debole di volontà, impreparato ad affrontare seriamente la vita, marito infedele e leggiero (aveva sposato troppo presto, nel 1834), il P. offrì in quegli anni il fianco a calunnie, che arriveranno sino a farlo responsabile dell'immatura morte della moglie; calunnie che i suoi nemici non dimenticheranno mai. Cominciò presto a declamare e a pubblicare, con grande plauso, versi amorosi e politici; tentò anche, ma con scarso successo, il teatro; nel 1840 un suo idillio, I fiori, pubblicato nella strenna Dono di primavera, nel quale si cantava una donna, Atilia, trasparente anagramma di Italia, gli procurò una breve prigionia. Trasferitosi nel 1841 a Milano, vi pubblicò quello stesso anno il poemetto Edmenegarda, che consacrò definitivamente la sua fama di poeta. Passò nel 1843 a Torino, dove si rinnovarono le polemiche e rinacquero le calunnie che già lo avevano perseguitato a Milano: dovette presto lasciare la città, e andare peregrinando per il Trentino, il Lombardo-Veneto, la Svizzera. Il '48 lo trova a Padova; propagandista di libertà, acceso e convinto fautore di Carlo Alberto, nel gennaio di quell'anno il P. è arrestato e confinato nel Trentino; ma nel marzo è a Venezia, donde il Manin non tarda a sfrattarlo come monarchico perturbatore, e sfrattato è poi anche da Firenze, dove era passato nel settembre, come ostile al governo democratico; e anzi fu accusato dal Guerrazzi, in una famosa trista lettera al granduca, di turpitudini politiche e morali. All'appassionato difensore di Carlo Alberto non restava ormai altro rifugio che Torino: e colà nel dicembre il P. trasferì la sua definitiva residenza, chiudendo il primo movimentato periodo della sua vita. Alla corte sabauda lo legavano le sue convinzioni politiche; la carica che gli fu presto conferita, di storiografo della Corona, con annesso piccolo stipendio, offrì altro argomento di accusa ai suoi nemici, che amarono vedere in lui, ingiustamente, il poeta "cesareo", che canta per commissione e non per convinzione. Comunque, se le polemiche intorno alla sua persona non tacciono, alimentate dalla stessa indole del P., generosa ma facile all'ira e all'attacco polemico, e non si placheranno se non verso la fine della vita del poeta, col declinare della fama di lui presso le nuove generazioni, s'inizia ora un periodo tranquillo. Con gli anni si vennero anche rarefacendo le burrasche sentimentali, finché seconde nozze gli ridiedero anche uno stabile centro familiare; nel '65, al seguito della corte, si trasferì a Firenze e nel '71 a Roma, dove ebbe la direzione - ma fu per lui una sinecura - dell'Istituto superiore di magistero. Malgrado questo e altri riconoscimenti ufficiali (fu nominato senatore nel 1876), visse gli ultimi anni immalinconito e spaesato, soffrendo per l'indifferenza sempre più generale, ma lavorando assiduamente a nuove opere. Fu sepolto a Torino, non potendolo essere a Dasindo, come egli avrebbe desiderato; ma a Dasindo le sue ceneri furono trasportate dopo la redenzione del Trentino, nel 1923.

Se le giovanili composizioni del P., pubblicate sparsamente o raccolte nel volume di Poesie (Padova 1835), non hanno importanza che per la ricostruzione della figura del poeta, che già vi si abbandona a quell'indeterminato sentimentaleggiare che sarà sempre il principale difetto di gran parte della sua opera, e già vi svela, con le imitazioni di Lamartine e di Hugo, le sue predilezioni letterarie, Edmenegarda invece (1841) segna, con tutti i suoi difetti, una data importantissima nella storia della poesia italiana dell'Ottocento. L'entusiastico habemus pontificem con cui C. Correnti salutò l'apparire del poemetto, esprime la gioia degli uomini d'allora, che finalmente trovavano in un poeta di casa propria quel mondo di evanescenze spirituali, quella celebrazione delle forze irresistibili dell'amore, che fino allora avevano avidamente cercato in poeti stranieri, nel Byron, nel Lamartine, nella Sand, nel Musset. Il primo movimento romantico, lombardo-piemontese, erede del Parini e seguace del Manzoni, aveva ormai compiuto il suo ciclo, né d'altra parte poteva appagare quel bisogno di fluido sentimentalismo che si era ormai largamente diffuso. Edmenegarda è la prima testimonianza del nuovo aspetto che il Romanticismo assume in Italia presso la nuova generazione. Ma il poemetto è storicamente importante anche per un'altra considerazione: esso - che narra gl'illeciti amori di una sorella di Daniele Manin, e che dunque eleva agli onori della poesia un argomento borghese, tratto dalla vita di tutti i giorni - dà l'avvio a quella serie di tentativi di poesia realistica, estremo rifugio del Romanticismo, che sono caratteristici della poesia italiana della seconda metà dell'Ottocento, e che trovano nell'opera posteriore dello stesso P. alcune delle loro più notabili espressioni. Sin da Edmenegarda dunque si manifestano con nettezza i due poli tra i quali oscilla l'opera pratiana: la poesiamusica, troppo spesso vaga sino all'inconsistenza, e la poesia-racconto e descrizione, che non rifugge dai particolari più concreti, umili e magari triviali. Naturalmente anche la lingua poetica del P. reca in sé i segni del contrasto tra le due ispirazioni.

L'abbondante produzione posteriore del P., pubblicata sparsamente e raccolta via via sotto varî titoli (Canti lirici, Canti per il popolo, Ballate, 1843; Memorie e lacrime, Nuovi canti, 1844; Passeggiate solitarie, 1847; Storia e fantasia, 1851; Canti politici, 1852), non merita né gli entusiasmi né il dispregio ai quali fu di volta in volta fatta segno da superficiali lettori o da accaniti avversarî. Se le immagini per lo più si affollano sovrapponendosi e quasi sempre offuscandosi a vicenda; se il tenerume o languidume troppo insistente e diluito dispiacque a ragione anche allora, e tanto più dispiace al lettore odierno; se le "meste estasi" a lungo andare svelano la loro inconsistenza poetica; se i canti politici e patriottici non si elevano dal convenzionale; è tuttavia innegabile nel P. un'ebbrezza di canto, che si comunica al lettore: comunicativa che è propria soltanto del vero poeta. E non è raro imbattersi in immagini fresche e anche nitide, espresse con persuasiva sobrietà.

Ma il P. stesso non tardò ad accorgersi che non poteva aspettarsi gloria duratura da un'opera di questo genere, e attribuendo, come spesso avviene agli scrittori, alla frammentarietà e dispersione dei suoi scritti quello che era invece effetto della debolezza della sua fantasia poetica, s'illuse di poter fare opera degna concentrando le sue forze in un poderoso e ben costruito poema, sulle orme di Goethe, di Byron, di Chateaubriand. Pensò dapprima addirittura a un'opera in 54 canti, nella quale avrebbe tracciato la poetica storia dell'umanità, e di cui pubblicò anche un declamatorio saggio (Ielone di Siracusa, 1852); poi ripiegò su più modeste posizioni. Di un Ermanno e Ricciarda pubblicò solo l'introduzione; compiuto invece apparve Rodolfo (1853). Il protagoriista incarna ancora una volta il contraddittorio eroe romantico, privo di freno, dall'"ebbra fantasia", capace di ogni altezza, ma preda d'incertezze e di oscillazioni; di errore in errore egli muove verso la definitiva redenzione sul campo di battaglia. Arbitrario e superficiale nella psicologia, gonfio e straripante nelle immaginazioni, Rodolfo è nel suo insieme opera mancata. Né più felici sono i poemi ai quali il P. attese subito dopo: Satana e le Grazie, d'ispirazione goethiana (1855), e Il conte di Riga, d'influsso più specificamente byroniano (pubbl. come 2° vol. delle Nuove poesie, 1856, il cui primo vol. contiene 12 ballate su temi di leggende popolari). Sopraggiunti gli eventi del 1859-60,. il P. li celebra e commenta con canti, inni, satire di mediocre valore, nei quali si sente soprattutto l'influsso di Hugo e dei classici latini, che in questi anni il poeta va studiando con fervore (cfr. Vademecum, 1860), e con un altro poema, o piuttosto romanzo in versi, Ariberto (1860). La serie dei poemi, per tacere di una fiacchissima versificazione di eventi storici, fatta questa davvero per regale commissione, Amedeo VII il Conte Verde (1862), è chiusa da Armando, apparso nel 1868, ma la cui prima parte era già stata pubblicata nel 1864. Il P. si proponeva di studiarvi una "malattia morale": Armando, diretta discendenza della stirpe dei Werther, degli Ortis, dei Rolla, di tutti gli eroi romantici delle varie letterature, è un inerte, un' "anima estinta", preda del tedio e della totale disillusione, il quale invano anela, nel suo lungo errare, a liberarsi dal "tarlo del pensiero", che lo persuade della suprema inutilità di tutto: salvezza per lui non vi può essere che nella morte. Con Armando i conati realistici dànno tutto quello che potevano dare, in Italia e in un Prati: siamo ormai all'età degli scapigliati, di Betteloni, di Stecchetti.

L'indifferenza con cui fu accolto questo suo massimo sforzo verso il grande poema, persuase forse il P. a rinunziare ad ulteriori tentativi. Da anni egli veniva studiando, traducendo, imitando i classici, soprattutto Orazio, e persino provandosi in versi originali in latino; sempre più lo attirava l'ideale di una forma nitida e precisa. È ormai un sorpassato, un disilluso; a volte a volte acre o accorato, l'antica combattività gli si va attenuando in un atteggiamento di amaro e sdegnoso distacco da tutto e da tutti, mentre sopravvivono interi l'antico orgoglio, l'alta coscienza di sé che lo persuadono a rifugiarsi nella poesia, unica consolatrice. Da questi nuovi ideali di forma letteraria, da questa nuova rassegnazione non paga di sé, nascono i due ultimi volumi del P.: Psiche (1876) e Iside (1878). Il primo è costituito da parecchie centinaia di sonetti, la maggior parte invero discorsivi e prosaici, ma alcuni freschissimi o miniati con estrema delicatezza; il poeta non si abbandona più al tripudio del volo, ma, chiuso in sé, disegna piccoli episodî, figurette, racconta pianamente le fantasticherie della vita d'ogni giorno: "picciolo è il viver mio fra piccioletti spettri dispersi in misera faccenda". Questo distacco dal mondo vivo è ancora più profondo in Iside: ridicoli sono gli uomini che penano dietro a cose che una volta, sì, appassionavano anche il poeta, ma che ora egli vede bene come siano ombre. La stessa ballata di un tempo è ripresa, ma per ironizzare quel mondo cavalleresco nel quale aveva tanto poeticamente creduto. Tutto che è umano è labile, è indegno d'essere vissuto: solo la natura è eterna, e solo con la natura il poeta può comunicare, immedesimandosi con essa (Azzarellina). Conclusione romantica; giacché non nell'incontrollato fantasticare e sentimentaleggiare, non nei macchinosi poemi, ma proprio in questi ultimi volumi "classicheggianti" il P. riesce talvolta ad esprimere il suo sincero romanticismo.

Edizioni: Opere varie, Milano 1875; Poesie, a cura di G. Stiavelli, Roma 1885; Poesie scelte, a cura di F. Martini, Firenze 1913; Poesie varie, a cura di O. Malagodi, Bari 1916, Edmenegarda, a cura di P.P. Trompeo, Roma [1924]; Le più belle pagine, a cura di O. Malagodi, Milano 1928; Poesie scelte, a cura di V. Vittori, ivi 1931.

Bibl.: V. la bibl. di B. Emmert, G. P., Rovereto 1912. Oltre alle introduzioni alle scelte già ricordate, cfr. soprattutto: F. De Sanctis, Saggi critici; G. Carducci, Opere, III; D. Zanichelli, La rivoluz. del '48 e le poesie politiche di G. P., Bologna 1885, poi in Studi di storia, ivi 1900; E. Canderani, L'attività politica di G. P., Firenze 1903; id., Contributo allo studio della vita e delle poesie di G. P., ivi 1907; C. Giordano, G. P., Torino 1907; G. Gabetti, G. P., Milano 1912; B. Croce, La lett. della nuova Italia, 3ª ed., Bari 1929, I, pp. 7-25; C. de Lollis, Saggi sulla forma poetica italiana dell'Ottocento, Bari 1929, pp. 55-78, 172-185. Cfr. inoltre: G. P. nel cinquantenario della morte (Trento 1934].