VENTURA, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 98 (2021)

VENTURA, Giovanni

Lorenzo Trovato

Nacque a Milano il 6 luglio 1800, da Raffaele, di professione orologiaio, e da Maddalena Bassi.

Alcune fonti riportano il 1801 come anno di nascita (Poesia milanese…, p. 133).

Tanto la famiglia del padre di Ventura quanto quella della madre erano di umili origini: il nonno paterno, Pietro, era un ortolano (Bollettino ufficiale della Società per azioni, XXVII (1909), 31, p. 158; sua moglie si chiamava Isabella Borgonuovo); il nonno materno, Giovanni Bassi, sposato con Maria Serazzi, era invece un commerciante di generi alimentari.

Invece di apprendere il mestiere del padre, il cui laboratorio era situato nell’odierna via della palla, nei pressi di piazza Missori, il giovane Ventura decise di seguire l’ambizione di diventare attore teatrale, e con questo scopo si iscrisse, appena tredicenne, a un corso di arte drammatica presso l’Accademia dei filodrammatici di Milano (già teatro Patriottico), ove sarebbe tornato anni dopo in qualità di direttore.

Questa prima esperienza durò cinque anni: uscito dall’accademia, nel 1818, poté già avviare la sua carriera, nonostante avesse da poco compiuto i diciotto anni. Altrettanto precoce anche nella scrittura, un anno più tardi pubblicò a Milano le sue prime opere poetiche: Amor di figlio e avidità dell’oro, un poemetto di 35 ottave in dialetto milanese edito in forma anonima, e Descolpa de Meneghin Tandoeuggia all’illustrissem N.N, in sestine. Già questi primi componimenti sembrano risentire molto del modello di Carlo Porta, che peraltro fu assiduo frequentatore dell’Accademia dei filodrammatici negli stessi anni in cui Ventura vi svolgeva il suo tirocinio. L’esempio del più noto poeta dialettale milanese, metro di paragone per qualsiasi produzione coeva in vernacolo meneghino, sarebbe stato costante nel successivo sviluppo della poetica di Ventura.

Al 1827 rimonta la sua cooptazione, in qualità di ‘amoroso’, nella Compagnia Reale Sarda, ove si affermò rapidamente facendo valere, più che l’innato talento, la costanza e l’impegno nello studio del personaggio e nella resa dei caratteri.

Nel 1841 il suo successo accrebbe ulteriormente, poiché divenne primo attore assoluto della compagnia Giardini-Voller-Belatti, conquistando rapidamente una grande notorietà nei circuiti teatrali meneghini. Passò di seguito nella compagnia di Corrado Vergnano prima e Angelo Rosa poi, mantenendo sempre il medesimo ruolo. Pare che abbia avuto, per breve tempo, anche una propria compagnia. Il 1844 fu l’anno della pubblicazione della sua raccolta più completa (sarebbe anche l’unica, se non si considerasse il breve opuscolo Carl’Ambroeus, Milano 1840), Poesie milanesi ed italiane (Firenze) in cui confluirono la maggior parte delle poesie composte sino ad allora (perlopiù in vernacolo). L’opera ebbe un buon successo (meritò anche una ristampa accresciuta pubblicata sempre a Milano nel 1858) e corroborò la sua fama di poeta dialettale, al punto che fu generalmente considerato secondo solo al suo modello Porta e a Tommaso Grossi. Non a caso, infatti, Ferdinando Fontana avrebbe incluso ben trenta suoi componimenti nell’Antologia meneghina (Milano 1915), sottolineando come «quasi nessun poeta meneghino seppe esprimere con tanta dolcezza i sentimenti più affettuosi al pari del Ventura, come l’amicizia e la compassione pei deboli» (pp. 264 s.). Un anno dopo la stampa della raccolta pubblicò anche una tragedia storica in cinque atti, in versi: Rosmunda (Torino), ispirata alle vicende della regina dei longobardi durante la conquista di Verona del 571.

Nel 1848 Ventura fu costretto ad abbandonare temporaneamente le scene, quando nel tumulto e nell’incertezza generali causati dai moti decise di trasferirsi a Torino. È probabile che sia stato coinvolto, in qualche misura, nei «maneggi del Governo Provvisorio» in occasione delle Cinque giornate (Guicciardini,1970, p.91): fu forse questa sua implicazione, nello specifico, a spingerlo lontano da Milano in concomitanza con il ritorno delle truppe austriache dopo la capitolazione del 5 agosto.Ventura, tuttavia, nutriva grande insofferenza nei confronti della dominazione austriaca, sicché, in effetti, la sua fuga può essere spiegata anche in assenza di un diretto coinvolgimento politico.

Dopo quattro anni di pausa, nel 1952, tornò alla recitazione in qualità di capocomico. Fu in realtà un ritorno piuttosto effimero, poiché nel giro di pochi mesi si ritirò nuovamente, e questa volta in via definitiva. A quel punto si dedicò all’insegnamento e alla scrittura, sebbene anche in questo campo la fiorente vena poetica degli anni Trenta e Quaranta sembrò essersi ormai asciugata.

Nel 1854, con la morte di Angelo Canova, Ventura fu chiamato a subentrargli come insegnante di recitazione all’Accademia Filodrammatica di Torino (Accademia filodrammatica di Torino, in La Stampa, 1 luglio 1854), ruolo che avrebbe mantenuto sino alla chiusura dell’istituzione (oggi lo stabile è sede del teatro Gobetti) nel 1859.

Ventura fu sempre animato da interessi politici e da un fervente spirito patriottico, perciò non deve stupire se anch’egli subì l’influenza del mito di Dante, particolarmente vivo nel periodo pre-risorgimentale tra gli oppositori della dominazione straniera. Negli anni aveva recitato in più occasioni brani tratti dalla Commedia, ma nel 1855 questo culto ispirò anche un breve saggio sul canto V dell’Inferno (Nuova maniera d’intendere una scena delle più celebrate nella Divina Commedia di Dante, Torino). In particolare, l’articolo ha per oggetto un verso che Ventura aveva trovato di difficile lettura drammatica poiché del tutto incompatibile con il «dolcissimo carattere» di Francesca (p.4): «Caina attende chi ’n vita ci spense». Il letterato milanese giunge a inferire che queste parole siano proferite, piuttosto, da Paolo, che giungerebbe improvvisamente a spezzare il dolce andamento delle tre celebri terzine anaforiche. Sebbene tale proposta ermeneutica risulti difficilmente ricevibile (fu peraltro discussa da Niccolò Tommaseo), il saggio lascia intravedere in filigrana la buona cultura dell’autore, che ebbe premura, prima di scrivere sull’argomento, di consultare altri commentatori coevi e antichi (ma Foscolo sembra essere la fonte privilegiata). Questo articolo sarebbe stato poi ripubblicato nel 1868 insieme a un altro saggio dantesco in cui Ventura affronta uno dei più complessi nodi ermeneutici di tutta la Commedia, ossia l’interpretazione della celebre invettiva di Pluto del canto VII dell’Inferno (L’incompreso verso di Dante “Pape satan pape satan aleppe” spiegato dopo cinque secoli…, Milano 1868). Anche per questo studio vale quanto detto per il primo: la soluzione interpretativa proposta da Ventura, che vorrebbe il verso in lingua francese col significato di «pas paix satan, pas paix satan, à l’épée», risulta difficilmente accettabile, ma l’autore vi arriva dopo una ben informata (seppur breve) rassegna delle posizioni critiche maggiormente rilevanti, scomodando tanto i commentatori più antichi, come i figli di Dante, quanto quelli contemporanei. La proposta ermeneutica, peraltro, era stata ispirata dalla lezione del Codice Trivulziano 1080, che reca appunto la forma «alepe» in luogo della più comune con geminazione.

I saggi danteschi di Ventura, dunque, valgono a dimostrare ulteriormente la buona erudizione dell’autore, che ebbe interessi trasversali e una viva passione per la letteratura.

Nel 1859, dopo una breve parentesi come maestro di declamazione nella Filarmonica Subalpina. Ventura poté fare ritorno a Milano. A partire dall’anno successivo ricoprì l’incarico di direttore della Accademia dei filodrammatici di Milano, succedendo a Vincenzo De Rossi che l’aveva diretta per un solo anno. Mantenne il ruolo sino al 1868, quando fu congedato in ragione di una generale istanza di rinnovamento avvertita in Accademia. A conclusione del cerchio, terminò la sua carriera di insegnante dove aveva cominciato quella di attore. Morì pochi mesi dopo, a Milano, il 10 gennaio 1869.

Opere

Oltre alle opere citate nel corpo del testo, andrebbero ricordate anche: Alinda. Leggenda di Giovanni Ventura, Torino 1832; Ara bell’ara discesa cornara ossia il ravvedimento del Conte Tommaso Marino, Milano 1833; L’invidia, Milano 1837; Risposta alle obbiezioni fatte dal signor Nicolò Tommaseo ala nuova maniera d’intendere una scena delle più celebrate nella Divina Commedia di Dante, Torino 1856; Poesie scelte, a cura di A. Ottolini, Milano 1922.

Fonti e bibliografia

Pubblicazione del giornale La Gazzetta del popolo di Torino per l’anno 1870. Anno 21, Torino 1870, pp. 221-224; I comici italiani. Biografia, bibliografia, iconografia, a cura di L. Rasi, II, Firenze 1897, pp. 628-630; E. Guicciardini, Il nuovo teatro di un’accademia milanese1798-1970, Milano 1970, passim (ma in partic. p. 90 s.); Poesia milanese dell’Ottocento, a cura di G. Bezzola, Brescia 1994, p. 133 s.

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