VILLIFRANCHI, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VILLIFRANCHI, Giovanni

Nicole Botti

VILLIFRANCHI, Giovanni. – Nacque a Volterra nel 1570, da Jacopo e da Violante Tieri, entrambi di origini volterrane.

Non risultano notizie relative ai suoi studi, ma sappiamo che proveniva da una famiglia di umili condizioni e che abbracciò in giovane età il sacerdozio: dal luglio del 1595 al giugno del 1601 fu rettore della chiesa priora di S. Alessandro fuori le mura (Maffei, 1892, pp. 18 s.).

La sua carriera letteraria fu scandita da una fitta rete di relazioni con famiglie nobili locali, corti italiane e figure di spicco del panorama culturale della sua epoca. Esordì come scrittore nel 1594, quando pubblicò presso Giovan Battista Ciotti la favola pastorale L’Astrea, ispirata all’Aminta di Torquato Tasso e dedicata a una nobildonna di Volterra, Giovanna Giunta nei Maffei; allo stesso anno risale anche la pubblicazione del poemetto Berecintia, stampato a Siena presso Luca Bonetti e scritto in occasione delle nozze di un’altra Maffei, Lucilla. Sempre d’ispirazione tassiana (in questo caso guardando al Re Torrismondo) fu la tragedia Altimoro, composta nel 1595 e dedicata al duca di Bracciano Virginio Orsini, attorno al quale orbitò a lungo. Nel 1596 compose un altro poemetto, l’Elena fuggitiva, che rimase tuttavia inedito fino agli anni Ottanta del Novecento. L’opera avrebbe subìto la censura degli inquisitori veneziani per ragioni non chiare, forse per un impiego eccessivo della terminologia mitologica pagana, in riferimento a figure e concetti del mondo cattolico (Galli, 1980). Nel paratesto, prevalentemente di forma epistolare, troviamo nomi di spicco del panorama culturale del tardo Cinquecento, quali Giovanni Lorenzo Malpigli (uno dei revisori della Liberata) e Ottavio Rinuccini.

Nel 1598, insieme ad altri giovani volterrani, fondò l’Accademia dei Sepolti. Il sodalizio vide coinvolti il nobile Francesco Incontri, il chierico commediografo e poeta Giovan Battista Seghieri e due medici, Martino Falconcini e Ottaviano Tani. A patrocinare il progetto fu padre Guglielmo Del Bava (del convento di S. Agostino), il quale fu posto a capo della stessa Accademia, la cui impresa fu una scopa ricoperta di bachi di seta che «ingegnosamente operando, si sepeliscono, nell’opere loro» (Pirruccio, 2011, p. 19). Centrale fu il ruolo svolto da Villifranchi durante i primi anni: fu egli stesso a tenere il discorso inaugurale quando l’Accademia cambiò sede, e fu ancora lui a ricevere l’onere di stilare le leggi accademiche.

Nel 1601 abbandonò il suo posto presso la parrocchia di S. Alessandro e partì dalla città natale. Non sono note le ragioni specifiche del trasferimento, né sappiamo se furono in parte legate ad alcune difficoltà all’interno della stessa Accademia, dove intanto era stato destituito dall’incarico prima concessogli. Di certo tra le motivazioni vi fu l’intenzione di dare una svolta alla propria carriera letteraria e uscire dall’ambiente circoscritto di Volterra. Nel 1600, erano intanto uscite presso l’editore Ciotti tre favole sceniche: La fuga di Erminia, Gl’amori d’Armida (tratte dalla Liberata) e Cortesia di Leone a Ruggiero (tratta dal Furioso). I paratesti di queste opere mostrano il costante oscillare di Villifranchi tra orizzonte volterrano e panorama nazionale: La fuga di Erminia e la Cortesia di Leone a Ruggiero furono dedicate rispettivamente ai volterrani Paolo e Marc’Antonio Maffei, Gl’amori d’Armida presenta come dedicatari i fratelli senesi Marcello e Ascanio Agostini. Quello delle favole sceniche fu un progetto che prevedeva altri due titoli: Sofronia, tratta anch’essa dalla Liberata e stampata nel 1603 con dedica all’abate Angelo Capponi, e una Clorinda, di cui tuttavia non ci è pervenuta traccia, a eccezione dell’annuncio fattone nella dedica a Gl’amori d’Armida (si veda l’appendice in Pirruccio, 2011, p. 270). Con le favole sceniche Villifranchi s’inserì nella tendenza dell’epoca di rielaborare il materiale narrativo tassiano e ariostesco, mescolando citazioni di versi e riscrittura degli episodi, secondo un modus operandi che poi diventò prassi nel melodramma. Abile nel cogliere stimoli nuovi e nell’interpretare i gusti della sua epoca, in quegli anni iniziò anche la stesura del Colombo, un poema epico incentrato sul tema delle scoperte geografiche; l’opera rimase incompiuta, ma i primi due canti, usciti nel 1602 a Firenze, suscitarono un certo entusiasmo. L’apparato paratestuale di queste opere non viene in nostro aiuto per sapere con esattezza dove si trovasse Villifranchi in questo periodo, né se il trasferimento del 1601 dalla città natale fosse definitivo (la dedica della Sofronia per esempio, datata 12 gennaio 1603, risulta scritta ancora a Volterra). Certo è che la rete di relazioni con personaggi illustri del suo tempo in direzione di un’apertura nazionale si fece sempre più evidente: nel 1603 fu ascritto come membro dell’Accademia degli Intronati di Siena e nel 1604 entrò nell’Accademia della Crusca.

In questi anni iniziarono le relazioni con il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga e con la famiglia de’ Medici. Fu lui l’autore dell’endecasillabo (contenente un emistichio tassiano) inciso sul sottopancia del cavallo del granduca nella statua equestre di Ferdinando I realizzata dal Giambologna (Rossi, 2001, p. 34). Nel 1605 compose cinque ottave per il Torneo del serenissimo gran principe di Toscana, che entrò poi nella raccolta di poesie La Corona d’Apollo. Anche in quest’opera encomiastica, Villifranchi poté esibire la sua abilità nel riprodurre ‘travestiti’ e modificati versi della Liberata. Era ancora a Firenze quando nel 1609 inviò al cardinale Ferdinando Gonzaga alcune scene dell’Amaranta, favola piscatoria pubblicata poi nel 1610 da Ciotti, senza l’autorizzazione dell’autore. L’opera è ispirata al Pastor fido di Battista Guarini, ma contiene anche tratti riconducibili alla Filli di Sciro di Guidobaldo Bonarelli (Pirruccio, 2011, p. 29).

Nel 1612 ripresero i rapporti con Volterra: il 15 settembre, mentre si trovava a Montepulciano, Villifranchi fu invitato presso la città natale con la richiesta di comporre dei testi da mettere in scena in occasione della visita di Cosimo II. Nell’ottobre dello stesso anno, ricevette la cittadinanza dal Generale Consiglio di Volterra, titolo che rappresentava un segno di notevole ascesa sociale di fronte alla propria città. Il 14 e 16 novembre, in occasione della visita del granduca a Volterra, andarono in scena Tragedia del martirio dei Santi Carissimo, Dolcissimo e Crescenzio, Francesi e la commedia La fida turca; i due testi furono rappresentati nel salone delle commedie di palazzo Maltragi e la messinscena fu curata dallo stesso autore. L’evento fu un successo e Villifranchi, oltre a godere di un rinnovato prestigio di fronte ai propri concittadini, poté in tal modo rilanciare la sua produzione e mostrare ai Medici le sue abilità di drammaturgo.

Le relazioni con alcuni suoi illustri concittadini, che in quegli anni furono al servizio dei Medici e degli Orsini, furono preziose a Villifranchi che «visse i suoi ultimi anni alla corte di Firenze, facendo da segretario al figlio di Virginio, il poco più che ventenne Paolo Giordano. Quest’ultimo, secondo il Diario del Tinghi, fu assiduo compagno del granduca Cosimo II» (Ircani Menichini, 2014, p. 52). Durante il Carnevale del 1613 si cimentò con successo proprio in una di quelle forme di spettacolo miste a tema epico-cavalleresco, tanto care alla corte medicea: il 17 febbraio 1613, nel teatro della Sala degli Uffizi, in occasione della visita del principe Federico Ubaldo della Rovere di Urbino, venne realizzata una Barriera (torneo equestre a tema), ideata e allestita da Villifranchi. Allo spettacolo collaborarono Jacopo Cicognini, Alessandro Adimari, Ottavio Rinuccini e Andrea Salvadori (che qui fece il suo esordio); questi composero un’azione scenica ciascuno, in aggiunta alle cinque già scritte da Villifranchi. Lo spettacolo, con gli apparati di Giulio Parigi, riscosse un tale successo che Cosimo dovette concedere al popolo una sfilata dei personaggi e delle macchine sceniche, mentre nello stesso anno uscì una descrizione dell’evento presso l’editore Bartolomeo Sermartelli di Firenze, scritta dallo stesso Villifranchi.

Nell’estate del 1614 morì a bordo di una nave diretta a Napoli, dopo tre giorni di malattia.

Stando alla lettera inviata dal fratello Cosimo al computista del duca di Bracciano Michele Riccobaldi del Bava, il poeta sarebbe morto in povertà. Due sue opere furono pubblicate postume dall’editore Giunti: nel 1615 un sonetto contenuto nella Raccolta di poesie in morte del principe D. Francesco de’ Medici, e nel 1618 una commedia, La greca schiava, andata in scena nel 1617 a Firenze per il battesimo di Anna de’ Medici.

Fonti e Bibl.: R.S. Maffei, G. V. Contributo alla storia letteraria del secolo XVII, Catania 1892; Feste e apparati medicei da Cosimo I a Cosimo II. Mostra di disegni e incisioni, a cura di G. Bertelà - A. Petrioli Tofani, Firenze 1969; R. Galli, Elena fuggitiva. Rime inedite di G. V., in Rassegna volterrana, LVI (1980), pp. 38-70; E. Simoncini, Feste toscane in funzione medicea: il viaggio di Cosimo II, in Medioevo e Rinascimento, XI (1997), pp. 346-359; M. Rossi, Emuli di Goffredo: epica granducale e propaganda figurativa, in L’arme e gli amori. La poesia di Ariosto, Tasso e Guarini nell’arte fiorentina del Seicento (catal. Firenze), a cura di E. Fumagalli - M. Rossi - R. Spinelli, Livorno 2001, pp. 32-34; M. Pieri, Cavalieri armi e amori: una scorciatoia per il tragico, in Eroi della poesia epica nel Cinque-Seicento. Atti del Convegno... 2003, a cura di M. Chiabò - F. Doglio, Roma 2004, pp. 201-231; A.M. Testaverde, Trattino i cavalier d’arme e d’amori: epica spettacolare ed etica dinastica alla corte medicea nel secolo XVII, in L’arme e gli amori. Ariosto, Tasso and Guarini in late Renaissance Florence. Atti del Convegno... 2001, a cura di M. Rossi - F. Superbi, II, Firenze 2004, pp. 231-253; L. Pirruccio, G. V. La fabbrica delle favole sceniche di Tasso e Ariosto, Roma 2011; L. Riccò, Su le carte e fra le scene. Teatro in forma di libro nel Cinquecento italiano, Roma 2008, pp. 188 s., 223; Id., Ruggiero e Leone. L’erofilomachia dal poema al teatro fra ragioni drammaturgiche e ragioni politiche, in L’uno e l’altro Ariosto in corte e nelle delizie, a cura di G. Venturi, Firenze 2011, pp. 132-140; T. Stein, Nel nome del gran Torquato. Gerusalemme liberata e drammaturgia secentesca, Bern 2012, pp. 61-75, 161-166, 590-592; P. Ircani Menichini, Gli ultimi anni di G. V. e i volterrani al servizio dei granduchi di Toscana e degli Orsini di Bracciano, in Rassegna volterrana, XCI (2014), pp. 47-64.

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