VISCONTI, Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VISCONTI, Giovanni

Alberto Cadili

– Nacque nel 1290 a Milano, da Matteo e Bonacossa di Squarcino Borri (gli altri maschi legittimi erano Galeazzo, Luchino, Marco, Stefano – i primi due futuri signori). Il padre, figlio di Tebaldo di Obizzo, era pronipote di Ottone, allora arcivescovo e signore di Milano. La nonna paterna era Anastasia da Pirovano. Il prozio aveva associato Matteo al potere: questi, alla morte del presule nel 1295, lo mantenne fino al 1302, quando fu costretto all’esilio, mentre a Milano prendeva il predominio la consorteria guelfa dei Della Torre (il ritorno al potere si ebbe nel gennaio del 1311 grazie a Enrico VII di Lussemburgo).

Il primo documento su Giovanni è la concessione da parte di Benedetto XI, il 18 dicembre 1303, di un canonicato a Lincoln (Le registre de Benôit XI, 1905, a cura di C. Grandjean, n. 182), in Inghilterra.

Qui era già canonico l’ecclesiastico più in vista della dinastia, Matteo, nipote di Ottone, doctor utriusque iuris addottoratosi allo Studio bolognese, canonico e cimiliarca del duomo, che nel 1291 era stato imposto senza successo all’episcopato novarese in vista di una successione milanese allo stesso Ottone (mancata a causa della riserva apostolica nel 1295: a Ottone seguirono due presuli ‘curiali’ e dal 1303 Cassone Della Torre).

Mentre il padre dimorava, esule, nel Veronese, si ignora ove si trovasse Giovanni. Il vuoto documentario si estende dal 1303 al 19 febbraio 1317, quando è attestato il possesso di un canonicato nella metropolitana milanese: per quanto Giovanni possa averlo ottenuto in precedenza, egli non figura mai nelle liste anteriori di canonici. Inoltre, tra le ridondanti accuse rivolte retrospettivamente contro i suoi congiunti durante i processi antiviscontei promossi da Giovanni XXII (1322-23), contro di lui spicca la sola imputazione di un’immissione abusiva di monaci in un cenobio (in data imprecisata, Parent, 2019, pp. 312, 462), segno di un ruolo defilato nelle bellicose iniziative familiari. Il cronista Galvano Fiamma, intorno al 1340, sostenne che egli avesse frequentato uno Studium generale (Gualvanei de la Flamma, Opusculum de rebus gestis..., a cura di C. Castiglioni, 1938, p. 48): la notizia, indimostrata, non è peregrina, stante il suddetto silenzio e il canonicato inglese nella sede di un congiunto fornito di titoli accademici – che Visconti però non conseguì, non risultando essi nei documenti anteriori all’episcopato. All’inizio affiancò i più anziani congiunti già largamente immessi nelle istituzioni ecclesiastiche milanesi.

Tra i protagonisti della cacciata da Milano di Cassone Della Torre, nel 1311 (inevitabile con il ritorno al potere dei Visconti, data la perdurante potenza politico-militare della Chiesa milanese), e dell’occupazione di beni e giurisdizione episcopali, il solo chierico menzionato è il cimiliarca Matteo, che presidiava il capitolo maggiore con i parenti Lantelmo, Beltrame e Giacomo (detentori anche di prebende in città e nel contado), mentre il ramo dei Visconti di Pogliano esprimeva l’arciprete Roberto (zio del futuro arciprete e poi arcivescovo omonimo) e il canonico Guido, senza contare figure minori in altri capitoli.

Entro il 1317 Visconti divenne tuttavia l’esponente ecclesiastico di riferimento della dinastia, sebbene si debba ancora alle sole cronache posteriori la notizia di un’elezione capitolare in suo favore dopo la traslazione ad Aquileia di Cassone. Giovanni XXII, nell’eleggere a successore il ministro provinciale dei minori, Aicardo da Camodeia, si limitò a ribadire la riserva del 1295 e la conseguente nullità di altre eventuali nomine, senza cassare una specifica elezione capitolare (Bullarium franciscanum, V, a cura di K. Eubel, 1898, n. 285). Inoltre, sino all’arrivo del vicario generale di Aicardo, Obizzone da Momo, nel settembre del 1317, il capitolo maggiore agì sede vacante, senza intromissioni di Visconti (che nel documento sopra citato del febbraio 1317 risulta semplice canonico e non electus). Il dubbio comunque rimane e Visconti da questo momento sarà sempre il ‘candidato’ di famiglia alla cattedra ambrosiana o, in alternativa, l’occupante dei suoi beni a titolo legittimo o meno.

Nel 1317 l’avvicendamento dell’arcivescovo segnò l’inizio dell’offensiva papale contro le signorie ghibelline in Lombardia, condotta mediante processi per eresia gestiti da Aicardo e da quattro inquisitori domenicani milanesi (eresia per i Visconti, compreso Giovanni, condannato l’8 aprile 1322, e fautoria di eretici per oltre mille loro seguaci, laici e chierici), e con una ‘crociata’ guidata dal legato Bertrando del Poggetto (1323-24). Militarmente Milano resse, ma la spaccatura nella Chiesa ambrosiana fu profonda e vide l’espulsione dei chierici ‘guelfi’. A Monza l’arciprete Lombardino Della Torre, esule, dal 1325 fu sostituito da Visconti, già canonico, in qualità di «vicario generale, difensore e protettore della Chiesa monzese» (Cadili, 2007, p. 49; l’anno prima egli aveva conseguito la ricca prepositura di Pontirolo).

La spaccatura si approfondì con la spedizione italiana di Ludovico il Bavaro, appoggiata dai Visconti: il 4 luglio 1327 lo scomunicato re dei Romani ‘depose’ l’arcivescovo e nominò Visconti «giudice ordinario auctoritate regia del clero milanese» (Cadili, 2005-2006, pp. 198 s.) con la giurisdizione di un arcivescovo o di un vicario generale (essendo privo dell’ordinazione vescovile). A causa di una presunta congiura, Visconti fu però imprigionato con i fratelli e la carica passò per breve tempo a Giacomo Visconti e poi, entro agosto (quando il Bavaro partì per Roma), a Marsilio da Padova. Questi rimase a Milano fino alla primavera del 1328, poi raggiunse a Roma il sovrano per l’incoronazione, mantenendo la funzione, che tuttavia dovette esercitare tramite ecclesiastici locali legati alla dinastia (ibid., passim). Nel gennaio del 1329, dopo la nomina dell’antipapa Niccolò V e la pacificazione con i Visconti (morto Galeazzo, il figlio Azzone divenne vicario imperiale e signore di Milano), Giovanni non solo ritornò «administrator in spiritualibus et temporalibus archiepiscopatus Mediolanensis» (ibid., p. 103), ma, creato cardinale diacono di S. Eustachio dall’antipapa il 19 o 20 gennaio 1329, entrò in città come legato di quest’ultimo (non fu però nominato presule, a differenza di altre diocesi; ibid., pp. 204-206). Il dominio della Chiesa milanese in questa forma fu effimero: Azzone abbandonò a maggio le incerte sorti imperiali, iniziando una trattativa con Giovanni XXII, e Giovanni quelle ancor più incerte di Niccolò V, dimenticando la porpora.

Negli anni Trenta Giovanni fu accanto ad Azzone, che alternò con successo una politica di espansione in Lombardia e la pacificazione con la sede apostolica. È il periodo descritto con entusiasmo dal domenicano Fiamma (a suo dire ‘segretario’ di Giovanni) nell’ultima parte del Chronicon maius (1329-42). Per quanto i suoi confratelli avessero condannato per eresia i Visconti, questi ultimi attuarono, per lo più tramite Giovanni, un piano di pacifica ‘conquista’ dei principali enti ecclesiastici locali, domenicani compresi, ponendosi inoltre come massimi promotori della religiosità ambrosiana: in un crescendo che vide lo stabilimento delle feste di Maria Nascente e del Corpus Domini, della processione dell’Epifania dalla domenicana S. Eustorgio al duomo, fino alla promozione del culto dell’inquisitore san Pietro Martire, per il quale i due contribuirono a far scolpire da Giovanni di Balduccio la sontuosa arca (facendovisi rappresentare). Ottenuto a Milano il capitolo generale dei predicatori del 1340, Visconti vi celebrò la traslazione delle reliquie, volgendo a proprio favore l’ultimo atto della quasi secolare offensiva del Papato contro quell’eresia in terra lombarda, in cui egli stesso era rientrato. Sicché la concreta occupazione di beni, giurisdizioni e cariche ecclesiastiche era assai meno visibile dei fasti di una pars construens realizzata in un’ambigua ottica dinastica.

La ricerca di un titolo legittimo per gestire l’episcopato fu invero inizialmente stentata per la diffidenza di Giovanni XXII, che ancora nel 1330 non cessava di rimproverare Visconti perché gli ecclesiastici avversari (arcivescovo compreso) rimanevano ancora in esilio e perché i beni e le giurisdizioni episcopali non erano state restituite. Tuttavia, dopo l’esperienza degli anni Venti, da un lato il papa realizzò che la signoria viscontea non era eliminabile militarmente, mentre dall’altro Azzone e Giovanni constatarono l’assenza, al momento, di alternative ideologicamente robuste alla legittimazione papale. In questo contesto il pontefice elesse nel 1331 Giovanni vescovo di Novara e approvò l’immediato rovesciamento della signoria ghibellina dei Tornielli (nemici della Chiesa e scomunicati in quanto fautori dei Visconti stessi) e l’assunzione del dominio, a titolo personale, da parte di Giovanni. A Novara questi rimase solo alcuni mesi, fino al 1332, per poi trasferirsi stabilmente nell’arcivescovado milanese. Infatti si addivenne anche a una soluzione per la Chiesa ambrosiana: il papa accettò l’esilio di Aicardo (in quanto nemico politico dei signori) e concesse l’amministrazione in temporalibus a Visconti, che in cambio versò un ‘canone’ di 1500 fiorini annui all’arcivescovo, rispettando inoltre il suo governo in spiritualibus tramite vicari. Peraltro il principale collaboratore di Visconti in campo ecclesiastico, Zonfredo da Castano, fu contemporaneamente vicario episcopale a Novara e vicario di Aicardo a Milano. L’accordo si protrasse sino al 1339, quando l’arcivescovo, ormai innocuo e in punto di morte, fu lasciato rientrare in sede (con una cerimonia gestita da Visconti), forse per agevolare la desiderata successione. Giovanni poté così mantenere senza interruzione la gestione della mensa milanese, in particolare del sistema di castelli e giurisdizioni che costellavano l’area settentrionale del distretto, lungo i laghi Maggiore e di Como e le vie di comunicazione transalpine.

Tra il 1337 e il 1339 egli fece addirittura ampliare il palazzo arcivescovile (situato presso l’abside e il fianco meridionale del duomo) mediante due bracci paralleli alla navata della cattedrale che lo congiungevano al palazzo eretto da Azzone sul Broletto Vecchio. Il significato del gesto (l’edificare era tradizionalmente il vanto di un presule) è compreso da Fiamma, che lo celebra assieme al restauro dei castelli arcivescovili e alla ripresa del controllo sui detentori di beni e giurisdizioni della mensa. La sua precisa definizione del nuovo edificio («palatium, per quod poterat iri a domo archiepiscopali ad domum domini civitatis»; Galvanei Flammae, Manipulus florum, 1727, col. 734) si ritrova alla lettera in una data topica del 1345, relativa alla sede del vicario arcivescovile in temporalibus («pallatio novo archiepiscopali per quod itur a curia archiepiscopatus ad curiam habitationis ipsius domini»; Cadili, 2020, pp. XL-XLVII, 142). È dunque comprensibile che, su tale scorta, cronisti e storici dal XV al XVII secolo facciano erroneamente iniziare l’episcopato di Visconti dal 1332: egli, vescovo di Novara (quindi ora dotato del munus episcopale) e amministratore in temporalibus a Milano, occupava il centro della Chiesa milanese in ogni senso.

Il 1339 costituì un altro spartiacque: oltre all’arcivescovo, morì Azzone, e si ‘liberarono’ così insieme cattedra ambrosiana e signoria. Quest’ultima, condivisa da Giovanni e Luchino, ebbe nel 1341 da Benedetto XII (vacante imperio) la sanzione del vicariato imperiale, contemporaneamente alle assoluzioni dalle vecchie condanne. Per l’episcopato è incerta (per la seconda volta) l’elezione capitolare, mentre è documentata la gestione sede vacante da parte del capitolo del duomo (ma con da Castano vicario capitolare). Il 6 agosto 1342 Clemente VI concesse finalmente la cattedra.

Signore e arcivescovo, Visconti teneva formalmente distinti i ruoli in cui agiva: archiepiscopus et dominus nei documenti emessi come signore, Sancte Mediolanensis ecclesie archiepiscopus in quelli come presule; quando invece agiva come privato specificava di non avvalersi di nessuna delle due cariche.

In campo finanziario avvenne lo stesso: dal 1342 in arcivescovado installò un funzionario laico come vicario in temporalibus per l’amministrazione della mensa, con una procura per gestire anche i propri beni ‘privati’ (prima il legum doctor parmense Guglielmo de Arimondis, poi Lanfranco da Bobbio). Gli introiti signorili (più abbondanti: salarium domini delle città soggette ecc.) avevano invece un’altra gestione. Tuttavia, distinti alla fonte, una volta incassati i proventi divenivano tutti beni di Visconti (affidati alla tesoreria del banchiere-mercante Giovannolo Mondella) e di qui potevano essere utilizzati in ciascuno dei tre ambiti. Accanto al vicario, alcuni notai e familiari (tra cui si distinse Lanzarotto Negroni) coordinavano un ampio gruppo di tabellioni, i quali redigevano gli atti necessari e riportavano tutto su due grandi mastri, uno per la mensa e uno per i beni privati. Al vicario rispondevano i fattori, uno per ogni area medio-grande in cui si concentravano beni e diritti: essi li locavano a fittavoli-imprenditori o alle stesse comunità locali (l’affido diretto a piccoli conduttori è attestato solo per la mensa). La locazione di vasti beni in una fictalicia costituiva una forma di retribuzione ulteriore per i funzionari stessi (un fattore poteva prendere in locazione beni in territori diversi da quelli da lui gestiti; una podesteria fu concessa al vicario signorile e giurista Folchino Schizzi; il castello e la giurisdizione di Teglio furono trasferiti in locazione, con lauti sconti, dalla dinastia locale dei Lazzaroni a quella più fedele dei d’Ambria).

La macchina amministrativa e la produzione e conservazione della relativa documentazione rappresentarono il massimo dell’efficienza possibile, tanto che per la parte riguardante la mensa fu mantenuta dall’arcivescovo Roberto Visconti e (dopo alcuni anni di turbolenza) fu ripresa da Antonio da Saluzzo. A differenza dei frammentati beni episcopali, le proprietà personali di Giovanni (e di Luchino) comprendevano appezzamenti di maggiore ampiezza, compattezza e redditività, concentrati in pianura, talora connessi a castelli, come quello di Melegnano, ampliato tra il 1342-45 con un nuovo palatium (Mainoni, 1993; Cadili, 2020).

La duplicità del ruolo di Visconti è un momento topico della tradizionale storiografia milanese riguardo alla politica ecclesiastica viscontea. Letta quest’ultima in termini di ‘occupazione’ dei beni ecclesiastici, l’episcopato di Giovanni vi figura come legittimazione di appropriazioni abusive. Il quadro è veritiero ma più complesso.

Da un lato la forza (anche giurisdizionale e militare) dell’arcivescovo, capace di mutare la storia politica milanese (con Leone da Perego, con Ottone, ma anche con Cassone, che aveva compromesso le sorti della propria dinastia), fu effettivamente imbrigliata con i fatti del 1311, poi con l’amministrazione in temporalibus e l’episcopato di Visconti (i cui successori cedettero a vario titolo castelli e giurisdizione ai domini); ma, dall’altro, si trattò di un più generale e non visivamente traumatico processo di attrazione dell’intera Chiesa ambrosiana (episcopio compreso) da parte della forza di gravità di un’ormai robusta signoria regionale, quale non era prima di Azzone. Senza le difficoltà dei due presuli precedenti, si instaurò la citata efficiente amministrazione temporale.

Inoltre i singoli enti ecclesiastici, conventi, ospedali, capitoli, videro cessare la conflittualità interna tra fautori del Papato e della consorteria ghibellina (negli anni Venti parti delle comunità conventuali si trovavano in esilio): gli stessi canonicati e benefici giungevano da Avignone, ma dietro supplica dei nunzi signorili in un quadro di pacificazione interna ed esterna. Una dinastia presente lungo tutto il Trecento tra i canonici del duomo, come i de Medicis, che aveva fornito vicari arcivescovili ai predecessori ‘guelfi’, continuò a fornirli a Visconti (e oltre). Invero questi beneficiò di una burocratizzazione dell’apparato arcivescovile (vicari, notai, servitori) già funzionante dalla fine del secolo precedente, che aveva permesso persino ai predecessori esuli un regolare governo in spiritualibus (Cadili, 2007, pp. 135-169, 192-213). In tale campo (connotato da lenti processi di lungo periodo e da una certa uniformità tra le diocesi dell’Italia settentrionale) non vi furono grandi novità: la macchina funzionò in modo indipendente, sicché il supposto, scarso interesse di Visconti per i doveri religiosi, postulato dalla più datata storiografia, non avrebbe in ogni caso rilevanza. La disciplina ecclesiastica fu fatta osservare, ad esempio, sia con visite ai monasteri urbani stabilite come arcivescovo, sia con disposizioni sui costumi del clero secolare emanate come signore.

Più difficile è valutare il rapporto di un metropolita-signore con le Chiese locali del dominio, coincidente in parte con la provincia ecclesiastica (per es. Como non le apparteneva). Si ignora se vi furono visite, compiute invece da Aicardo, mentre non si riunirono sinodi provinciali dopo quello del 1311. Il tribunale ecclesiastico milanese (gestito da vicari) funzionò come corte di seconda istanza per le altre diocesi, ma questa non era una novità e i pochi casi noti fanno solo ipotizzare una politica di intromissione (Pagnoni, 2019). Questa fu più evidente quando Visconti agì in qualità di signore, come appare da un intervento a Biella, dominio temporale del presule vercellese a lui ribelle (ibid.). Un effetto della normalizzazione fu sicuramente la possibilità dei presuli di migliorare (o riattivare) un’ordinata gestione, anche nel temporale, prima complicato (in modo speculare alla metropoli) dal coinvolgimento delle Chiese nelle lotte di fazione. Giovanni (come Azzone e Luchino) non contrastò (con l’eccezione di un tentativo a Lodi nel 1343, ma senza esporsi) la nomina papale di vescovi ‘curiali’ (in precedenza nominati appositamente in chiave antiviscontea e posti a fianco di Aicardo e degli inquisitori).

Emblematica è la figura di Guglielmo Amidani, dotto priore generale degli eremitani, avversario delle tesi marsiliane in base alle quali Visconti aveva occupato nel 1327 l’episcopio, ma poi suo confessore e successore alla cattedra novarese: Giovanni, signore di Novara, gli trasmise e tutelò le giurisdizioni vescovili, consentendogli di dispiegare un’ambiziosa politica temporale e spirituale.

Giovanni rimase apparentemente defilato nella rapida espansione del dominio milanese nel quinto decennio, gestita da Luchino, soprattutto nella direttrice occidentale, in un turbinoso gioco di alleanze e loro rovesciamenti con i Savoia, i Monferrato e i Saluzzo, ai danni dei domini angioini, sino a minacciare i passi con la Liguria e con i territori angioini d’Oltralpe. Alle proteste papali per questi accadimenti, Giovanni rispose sempre di non esserne il responsabile, indicato nel fratello.

Morto questi, nel 1349, la consorte Isabella Fieschi e il figlio Luchino Novello furono esautorati, in favore dei tre orfani di Stefano, vale a dire Matteo, Galeazzo (v. la voce in questo Dizionario) e Bernabò, prima protetti dalle persecuzioni di Luchino e poi associati al potere in vista della successione. Da questa data si ebbe il definitivo salto di qualità: l’arcivescovo, unico signore, venne riconosciuto dai cronisti coevi come il più potente attore della politica italiana, a capo di un dominio non solo vastissimo, ma in costante allargamento: la crescita divenne esponenziale con gli acquisti incruenti di Bologna, nel 1350 pagata 200.000 fiorini ai Pepoli, che non erano più in grado di resistere alle pressioni papali, e di Genova, che gli offrì la signoria (come già a Luchino), proiettando la spinta milanese in un’inusitata dimensione mediterranea. È un culmine che i nipoti non seppero conservare, ma cui la politica viscontea mirò ancora per un secolo. Le rinnovate scomuniche papali contro Visconti per l’acquisto di Bologna furono contenute con trattative diplomatiche e con l’esborso di altri fiorini alla Camera apostolica.

La ricchezza mercantile milanese e la possibilità di imporre tributi a centri maggiori e minori ebbero una scala di grandezza tale da sostenere i costi di una guerra costante: quest’ultima – con la conseguente espansione del dominio – è stata letta in chiave geopolitica con la necessità di prevenire aggressioni da parte delle potenze vicine, costrette alla medesima condizione (Somaini, 1998, pp. 728-744), in una perenne instabilità politico-militare ben resa dal cronista più addentro nella politica viscontea, Pietro Azario. Altrettanti elementi ‘interni’ di debolezza dovettero essere superati. La legittimità del dominio di Giovanni e Luchino cumulava la nomina dal basso del consiglio generale con il vicariato imperiale concesso dal papa nel 1341, che venne meno con l’elezione imperiale di Carlo IV nel 1346 (e valeva solo per Milano). Giovanni ne fu quindi privo. Inoltre, come in precedenza, le acquisizioni territoriali avvenivano a titolo personale dei signori, Luchino e poi il solo Giovanni. Tuttavia, con i due si assiste a processi di coesione prestatuale.

Il ricorso, quale titolo di governo delle città soggette (e forse per Milano nei perduti statuti di Visconti del 1351), all’arbitrium super bono et pacifico statu non solo ovviò al deficit di legittimità, ma consentì interventi legislativi arbitrari, con la ripetuta revisione dei singoli statuti in senso uniformatore, e i decreti del signore occuparono il primo posto nella gerarchia delle fonti del diritto. La composizione dei consigli cittadini fu resa più controllabile dal dominus. Le città soggette videro nuove fortificazioni e la presenza di presidi militari. Soprattutto esse furono via via assoggettate alla fiscalità signorile: al salarium domini consueto Visconti dal 1350 circa iniziò ad aggiungere taglie straordinarie (tra il 1350 e il 1353 anche a Milano) e a inviare nei singoli centri un referendario che assunse il controllo delle finanze comunali (Somaini, 1998). Anche a livello centrale l’officialità fu perfezionata ed estesa, a partire dalla cancelleria. Si tratta di processi incoativi, che la morte di Visconti non interruppe.

Morì, dopo breve malattia, il 5 ottobre 1354, prima di poter accogliere il re dei Romani Carlo, incoronarlo e ricevere il vicariato imperiale sulla Lombardia.

Non è conservato il testamento: i beni e il dominio furono spartiti tra i nipoti Matteo, Bernabò e Galeazzo (il prediletto Giovanni da Oleggio, osteggiato dai tre, si ribellò occupando Bologna per poi ‘restituirla’ al papa e anche Genova fu presto perduta). Rimangono invece gli atti testamentari contenenti i legati per gli enti ecclesiastici: dopo un primo del 1346 destinato alla cattedrale di Novara, il 5 novembre 1353 Visconti nominò i tre ospedali Nuovo, del Brolo e di S. Ambrogio esecutori testamentari, donando loro vasti complessi di beni destinati a sostenere elargizioni annuali alla maggior parte degli enti religiosi cittadini. Particolare riguardo fu riservato alla cattedrale, a S. Giovanni di Monza e alla pieve di Pontirolo, ove Visconti aveva goduto di benefici e in cui fondò in tutto cinque cappellanie: tre furono destinate alla cappella di S. Agnese nell’abside meridionale del duomo, fondata da Ottone, nella cui arca sepolcrale in marmo rosso anch’egli fu sepolto. Sul fronte furono incisi i versi dell’umanista Gabrio de Zamorei, che trascurano la carica arcivescovile, se non per l’immagine del pastorale accostato alla spada, commemorando solo gli straordinari successi come signore.

L’immagine come signore è quella tramandata dai cronisti e dagli storici milanesi: al termine della vicenda umana e politica di Visconti il pallio arcivescovile poteva apparire più come un sontuoso attributo della sua (personale) grandezza signorile che come una base di potenza temporale e spirituale. L’importanza del possesso dell’episcopio rimase nei fatti notevole, ma, rispetto alla signoria (il cui ambito cresceva in modo esponenziale dopo il 1350), proporzionalmente assai inferiore che nel 1342-44, quando Fiamma, attribuendo al magnificus archiepiscopus una familia di seicento uomini, intendeva soprattutto sottolineare il paragone con i maggiori prelati della cristianità (Gualvanei de la Flamma, Opusculum de rebus gestis..., p. 49). L’invito di Francesco Petrarca a Milano, accettato, è il segno di nuove ambizioni che non potevano prescindere da un’esibita magnificenza come strumento di governo. È solo apparentemente paradossale che Visconti, proprio quando fu eletto presule, avesse abbandonato la residenza in arcivescovado, lasciato in uso ai vicari. Dapprima si trasferì nel palazzo di Azzone: mentre Luchino lo espandeva verso occidente, sino a S. Giovanni in Conca, Giovanni ne occupò la parte orientale, procedendo a estenderla in quella direzione. Negli anni Quaranta è attestata una camera di ricevimento attigua alla chiesa di S. Gottardo (per la quale Giovanni ancora nel 1343 pagava il sepolcro di Azzone, un vero manifesto politico). Nel 1350 egli abitava invece un più magnifico palazzo verso oriente (versus Verzarium), la cui edificazione va forse riportata alla seconda metà degli anni Quaranta. Esso corrisponde (a dispetto dell’errata tradizione inaugurata da Carlo Torre e Giorgio Giulini) all’attuale arcivescovado, a partire dal ‘grande cortile’, ora dei canonici, mentre l’ulteriore espansione verso il Verziere rimase forse bloccata dalla morte. L’intero braccio settentrionale corrispondeva a una sala decorata con affreschi di scuola giottesca, accostabili alla crocifissione ora in S. Gottardo (nell’area ‘giovannea’). Al di là delle attribuzioni, la pittura giottesca fino al 1354 sembra essere un segno dell’influenza di Giovanni: se Azzone aveva chiamato Giotto, i due citati esempi rimandano all’arcivescovo e altri alla sua cerchia, in particolare un affresco nella cappella dell’episcopio novarese e soprattutto la decorazione, dal 1349, della chiesa degli Umiliati di Morimondo, il cui preposito, il decretorum doctor Guglielmo Villa, era stato vicario di Visconti e nel 1343 suo candidato alla cattedra di Lodi. La fondazione di una certosa a Garegnano (1349-50), frequentata da Petrarca, unita alle citate manifestazioni di religiosità alternamente proposte come ecclesiastico e come signore, è su questa linea. A tale luce anche il discusso problema dell’impatto di Visconti, arcivescovo-signore, sulla Chiesa ambrosiana, tra panegirici e accuse di strumentalizzazione, così posto è insolubile e va ridefinito: i due aspetti convivono. Da un lato, le distinzioni giuridiche furono certo l’abile formalizzazione di un controllo assoluto cui si era giunti con le cattive prima che con le buone. Ma, dall’altro (anche senza l’attribuzione abusivamente ex post di una strategia comunicativa troppo definita), la vicenda non può essere letta basandosi sugli esiti successivi al 1354: è indiscutibile che il signore-arcivescovo (i cronisti non milanesi, anche trattando di guerra o politica, lo designano sempre archiepiscopus Mediolanensis) dovesse trasferire la magnificenza connessa al dominio anche all’episcopio, per il mero fatto di esserne il titolare (con i relativi aspetti religiosi e simbolici, oltre che temporali). Non è chiaro perché gli Annales Mediolanenses annotino proprio sotto l’anno 1346 che gli arcivescovi avevano perso ogni loro potere: in ogni caso, definire in modo non più ambiguo gli spazi rimasti al presule rispetto alla signoria toccò al successore designato, l’arciprete Roberto Visconti iunior, e ai nipoti destinati al dominio.

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