GRIMALDI, Girolamo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 59 (2002)

GRIMALDI, Girolamo

Gino Benzoni

Secondogenito di Francesco Maria di Raniero di Tommaso, uomo politico, grosso proprietario immobiliare e intraprendente operatore commerciale, le cui nozze, del 14 febbr. 1700, con Maria Giovanna di Giovanfrancesco Pallavicino erano già state allietate, nel 1705, dalla nascita di Raniero (il cui matrimonio con Maria da Passano avrebbe arricchito i Grimaldi del feudo aleramico di Rezzo), il G. nasce a Genova nel 1710, essendovi battezzato il 6 luglio. Affidato alle cure dello zio paterno, il card. Girolamo Grimaldi, il G. consegue il titolo d'abate, senza, peraltro, procedere oltre. Evidentemente riluttante alla carriera ecclesiastica, preferisce quella diplomatica. Destinato, nel marzo del 1739, dalla Repubblica a Madrid - ove, dal gennaio 1713 al dicembre 1715, suo padre era stato inviato straordinario - vi inizia, a fine settembre, la propria attività di diligente e penetrante informatore della Repubblica, con dispacci pressoché settimanali che, dal 21 dic. 1739 al 22 febbr. 1746, non solo si diffondono su quanto direttamente attiene ai rapporti ispano-genovesi, ma anche ragguagliano su quanto dalla specola madrilena è riscontrabile nell'intera Europa e, oltre questa, nelle colonie, nelle "Indie", nelle "varie parti dell'America".

Ricca quindi di notizie più o meno certe, di voci più o meno confermate, la corrispondenza del G., che assiduo scrive di battaglie, mosse, maneggi, mire, intoppi, accordi, disaccordi, fermenti, progetti, piani, attacchi, querele, bisbigli, intenzioni, dichiarazioni, insinuazioni, preparativi, attese, promesse, "pretensioni", minacce, assedi, stipulazioni, "intelligenze". Ma altra cosa quando egli - "gentilhuomo" dei "serenissimi signori" genovesi a Madrid - non tanto deve informare, quanto rassicurare sull'affidabilità della Repubblica e sulla sua "buona fede", quando a Madrid da un lato si preme per un'alleanza, dall'altro si dubita - visto il tergiversare del governo genovese - se sia da considerarsi "alleata". Complicato, per il G., districarsi quando la diffidenza di Genova vien ritenuta "offensiva ed irritante", laddove quella madrilena assume contorni minacciosi. Finalmente firmatario il G., il 1° maggio 1745, del trattato d'Aranjuez - in questo garantita la Repubblica nei confronti di quanto a suo danno contemplato nel trattato anglo-austro-sardo di Worms del 17 sett. 1743 - ma di breve durata la sua soddisfazione ché, come egli stesso scrive l'11 maggio al proprio governo, "la nuova della gran catastrofe di Baviera" appresa il 2 lo pone in tali "angustie" da dubitare dell'opportunità di quella "firma", che non giudica più di sicuro vantaggio. Angosciante, in effetti, il sopraggiungere del "corriere da Augusta" colla notizia della sconfitta francese proprio all'indomani della proclamata "alianza, unión y recíproca conveniencia" tra Spagna, Francia, Napoli e Genova.

Lasciata Madrid il 26 febbr. 1746, resta a corte la memoria della sensibilità e sin dello "zelo" dimostrati da lui anche pei "reali", ossia regi, "vantaggi", se Ferdinando VI, il nuovo re, venendo incontro alle sue "mire" - in qualche modo da G. esternate - d'un "qualche onorevole impiego al servizio della corona" di Spagna, decide d'affidargli "la corrispondenza colla corte di Svezia" e di nominarlo "ministro plenipotenziario" a Stoccolma, mentre la "mancanza di plenipotenza" aveva contrassegnato la sua funzione di "molto illustre gentilhuomo" per conto di Genova (così, il 12 ag. 1749, l'ambasciatore veneto G.A. Mocenigo da Madrid al Senato marciano, non senza aggiungere che, al primo circolare della "voce", poi confermata, della nomina, il "ministro" genovese a Madrid G.O. Bustanzo, all'inizio incredulo, poi sconcertato, alfine indignato, s'è espresso in termini di netta condanna per il Grimaldi). Evidentemente costui, lungo la sua rappresentanza per conto della Repubblica, occultamente s'è preoccupato d'accreditarsi agli occhi della Spagna piuttosto che dedicarsi esclusivamente agli interessi di Genova - non particolarmente sintonizzati con quelli spagnoli se Ferdinando VI, il 12 marzo 1757, promulgherà un decreto sospensivo del commercio genovese in Ispagna e nelle "Indie spagnole" - gettando così le fondamenta della "propria" personale "fortuna" e non già procurando "i vantaggi" della propria "patria".

Una "risoluzione" questa del G. "indegna", insiste il "ministro" della Repubblica, la cui riprovazione non deve essere solo personale ma largamente condivisa nell'ambito del suo governo, se la esprime con tanta chiarezza al rappresentante veneto e ad altri diplomatici. Sin scandaloso, a suo dire, che il G., "auttore" del laborioso "trattato" del 1745, col quale Genova s'era affiancata alla Spagna, alla Francia e al re delle due Sicilie, si sia a tal punto guadagnato il favore della prima da esserne rimeritato così smaccatamente e così - per la Repubblica - provocatoriamente. Anche se, al contrario che a Venezia, non vi sono, a Genova, "leggi" esplicitamente vietanti "a' cittadini d'alienarsi dalla propria patria", tuttavia devono essere pur sempre scolpite nella mente e "cuore" di tutti i Genovesi, anzitutto di quelli operanti nelle "corti estere". Purtroppo Bustanzo non può protestare a viva voce col ministro degli esteri di Spagna José Carvajal y Lancáster, non potendo permettersi d'arrivare a uno scontro, cui il suo governo non l'autorizza e che è sconsigliato dai rapporti di forza. Conviene - così decidono i "serenissimi signori" - "usare dissimulazione", soprassedere, fingere di non vedere, distogliere lo sguardo altrove. Che almeno (così scrive a Mocenigo Bustanzo, che non riesce a darsi pace) ci sia a Genova un minimo di "risentimento", di ritorsione sulla famiglia, che almeno il padre Francesco Maria e il fratello Raniero siano esclusi "dal corpo" del governo della città.

Ma impotente l'indignazione del ministro, costretta al mero mugugno la stessa Genova, se il G. - nel frattempo forte del titolo di marchese, molto più decorante di quello, piuttosto dimesso, di abate - s'insedia come plenipotenziario spagnolo a Stoccolma, dal 28 ott. 1749 al 1° ott. 1753. Ed è durante il soggiorno svedese - interrotto tra l'aprile e l'ottobre 1752, quando figura inviato in Inghilterra - che il G. ha modo di conoscere, oltre a Linneo, il botanico Pehr Löfling, allievo di quello, che grazie ai suoi buoni uffici avrà una cattedra a Madrid. E il "marqués de Grimaldi" - come ormai è chiamato il G., il cui nome per esteso suona Pablo Jerónimo Grimaldi Palavicini y Spinola - è ancora a Stoccolma, quando, come riferisce da Madrid ancora nel gennaio 1753 l'ambasciatore veneto G.A. Ruzzini, si pensa di destinarlo "ambasciatore in Ollanda", a sostituire il marchese del Porto J.I. de Barrenechea y Erquinigo, che, "carico d'anni", non se la sente più di sostenere l'onere d'una carica tanto impegnativa. In effetti il G., dal febbraio 1755 all'ottobre 1757, sarà ambasciatore in Olanda. Ma prima, partito da Stoccolma, s'è portato a Cartagena a ispezionarvi i lavori dell'arsenale e quindi a Genova, "col pretesto", a detta di Ruzzini, "di dar ordine a' suoi domestici affari". In realtà è l'andata a Parma, il 9 dic. 1753, il vero motivo del differimento dell'assunzione della rappresentanza olandese. Suo compito rendersi conto - coll'aiuto dell'ambasciatore spagnolo marchese de Revilla - dell'effettiva situazione finanziaria del duca Filippo di Borbone, fratello del re. "Tutto riguarda la privata economia di quel principe", informa la Serenissima da Madrid Ruzzini, il 5 febbr. 1754, precisando il 7 maggio che, avuto puntuale ragguaglio dal G., Ferdinando VI s'è persuaso dell'opportunità di "convenire" col re di Francia un intervento a sostegno del dissesto del fratello, a tamponamento del suo "privato dispendio".

Conclusa la rappresentanza olandese colla sottoscrizione, all'Aia, il 22 sett. 1757, del trattato commerciale e d'amicizia ispano-olandese, il credito del G. a corte cresce. Già stimato da Ferdinando VI, morto il 10 ag. 1759, è del pari apprezzato dal successore Carlo III, sordo, per tal verso, alla diffidenza nutrita, invece, nei suoi confronti da B. Tanucci, il quale, ancora il 21 febbr. 1758, ha così allertato l'ambasciatore straordinario di Napoli a Madrid S. Reggio e Gravina, principe di Jaci: "state attenti con Grimaldi […] Sarà sempre genovese e vorrà fare il fatto suo". Un avvertimento con tutta probabilità non ignorato dall'allora re di Napoli. Ma non più valido evidentemente una volta re a Madrid, se la carriera del G. non ne risente. A tutta prima è destinato nuovamente all'ambasciata dell'Aia, dove giunge il 14 maggio 1760 per ripartirne, il 4 febbr. 1761, alla volta di Parigi, in veste d'ambasciatore straordinario, in virtù della quale è tra gli artefici e, il 15 agosto, tra i sottoscrittori del trattato d'amicizia e unione tra le due Corone borboniche, ratificato l'8 settembre. Insignito il segretario agli Affari esteri francese duca É.-F. de Choiseul del cavalierato del Toson d'oro e del pari decorato il G., suo interlocutore nelle trattative, il 1° genn. 1762, col cavalierato di S. Spirito. Merito d'entrambi il cosiddetto patto di famiglia, a costituire una sorta di blocco latino-cattolico da contrapporre a quello anglo-prussiano. Convinto interprete, il G., della linea di Carlo III volta alla sempre più stretta saldatura colla Francia, che - sia pure a costo dell'"irritamento" di chi, a corte e nella stessa "nazione", preferiva puntare all'accordo coll'Inghilterra - esita, il 10 febbr. 1763, nella sottoscrizione, a firma pure del G., del trattato definitivo di pace e amicizia, appunto, franco-ispana.

Comprensibile che Carlo III, essendo il segretario di Stato R. Wall dimissionario, pensi al G., filofrancese, come al primo ministro più indicato, anche se - come annota il 6 settembre l'ambasciatore veneziano A. Mocenigo - "di nazione genovese et inclinato agl'interessi della sua patria". Congedatosi, il 24 settembre, dal re di Francia e lasciata Parigi - ove il soggiorno è stato occasione per lui di significative frequentazioni: ha stretto amicizia coll'abate F. Galiani, è stato assiduo nel circolo di madame d'Épinay - il G. è a Madrid quale, all'indomani del ritiro di Wall, "secretario de Estado" (risalente al 23 agosto la relativa nomina), con competenze soprattutto di politica estera, sulle "cose fuori del regno", mentre L. de Gregorio marchese di Squillace e Valsantoro è "segretario d'azienda e di guerra" e J. de Arriaga lo è "della marina e dell'Indie", come scrive il 15 novembre al Senato veneto il Mocenigo. Un "regio decreto", informa questi, dispone che i tre ministri si riuniscano almeno una volta alla settimana, per mutua informazione e per procedere di concerto. Sono essi il nucleo elaborativo e attuativo ristretto del quale s'avvale il sovrano pel proprio impegno riformante e ammodernante.

È spiccato il risalto del G. agli occhi di Domenico Grimaldi - che, risalendo all'indietro nell'albero genealogico, si sente un po' suo parente, sia pure alla lontana - che a lui dedica, il 2 giugno 1770, il proprio Saggio sull'economia calabra, non esitando a definirlo "figura luminosa nell'istoria moderna" non solo perché "primo ministro" regio "sugli affari esteri", ma ancor più perché, lungi dal limitarsi a mere "operazioni politiche", è attento e sollecito a quel che è socialmente utile, e, come tale, lungimirante promotore dell'"agricoltura", da lui considerata "unico mezzo della felicità dello stato". Lusingato dai plausi alle proprie "georgiche applicazioni" fattigli pervenire dal G., il Grimaldi ricambia attribuendo a lui l'impulso ai grandiosi tentativi di colonizzazione agricola, il patrocinio della "coltivazione della Serra Morena". Ed è il G., a ogni modo, che, l'8 apr. 1765, esprime l'assenso di Carlo III al costituirsi della prima tra le accademie agrarie, le cosiddette "sociedades de los amigos de país", fulcro propositivo dell'auspicato rinnovamento agronomico. Ma egli non è popolare, nella misura in cui, straniero invidiato a corte, a lui s'addebita il patto di famiglia preclusivo d'una autentica pace coll'Inghilterra, nella misura in cui il riformismo da lui impersonato suscita reazioni in alto istiganti moti d'avversione dal basso. Se l'ostilità della nobiltà più conservatrice e gli stessi gesuiti, ormai prossimi all'espulsione, non osano affrontare direttamente il sovrano, è ben il G. (favorito di Carlo III e da questo insignito del cavalierato del Toson d'oro nel 1765, in occasione delle nozze del principe delle Asturie, il futuro Carlo IV, con Maria Luisa di Borbone), con Squillace, il bersaglio del motín, il moto del 23-24 marzo 1766. Placato il malcontento col sacrificio di Squillace, mentre il G. - a tutta prima, nell'"asprezza" della protesta, periclitante al punto d'anticipare, colla proposta di "dimissioni", l'onta della rimozione - resta "nel consiglio di stato" e rimane segretario di Stato. Ma ridimensionata la carica dal "ristabilimento", col conferimento a Pedro Pablo Abarca y Bolea conte di Aranda, di quella, già soppressa da Filippo V, di "presidente" del Consiglio di Castiglia. Sostituito Squillace con M. de Múzquiz e ripristinata la presidenza, con competenza su "tutti i maggiori affari di stato", del "consiglio di stato", lo spazio operativo del G. si restringe. "Secondo re" o "viceré", come è chiamato familiarmente Aranda, è questi che procede all'espulsione, il 31 marzo da Madrid e il 2 aprile dalle province, dei gesuiti "de estos reynos"; spettano invece al G. (uno dei quattro segretari formanti il consiglio ristretto che approva, il 29 gennaio, il decreto firmato dal re il 20 febbraio) il preannuncio della decisione (donde l'avviso, del 31 marzo, al Tanucci perché, a sua volta, informi Ferdinando IV), tra il "real decreto" emanato il 27 febbraio e la Pragmática sanción del 2 aprile, e la gestione degli effetti di ricaduta del brutale provvedimento - cacciata d'un tratto, "in un'ora e in un punto solo", la Compagnia di Gesù - e in termini di giustificazione internazionale e in termini di sondaggio (per esempio col duca di Modena) di eventuali disponibilità all'accoglimento degli espulsi rifiutati da Roma. Da ricondurre al G. - in ciò contrastato da Aranda, che preferirebbe una risposta militare all'attacco inglese alle Maldive - l'accordo di Manila del 1768, appianante le "differenze" coll'Inghilterra; e sottoscritta da lui la convenzione franco-ispana del 13 marzo 1769, sui diritti e privilegi consolari mutuamente riconoscibili nei rispettivi porti.

Sempre fautore, il G., di sintonie e sinergie colla Francia, in ciò assecondato dal duca di Choiseul, col quale non v'è solo "scambievole deferenza" ma "uniformità di genio", condivisione di fini. Ma proprio per questo - annota l'8 genn. 1771 l'ambasciatore veneziano a Madrid, G. Querini - privato del proprio interlocutore principale dalla "deposizione" di Choiseul. Meno respiro - rimosso questi - pei disegni di politica internazionale del G., il quale, in compenso, ha modo di risarcirsi volgendo l'attenzione al canale di Castiglia quale via di trasporto fluviale, promuovendo quello di Murcia e coltivando i propri interessi per le tecniche, le scienze, le arti figurative. E sotto il suo patrocinio intendente l'affermazione di A.R. Mengs, nominato nell'ottobre del 1766 "primer pintor de cámara".

Appassionato altresì di teatro il G., le cui propensioni per quello "italiano" improntano l'intrattenimento delle prolungate "reali villeggiature", ove - così, il 14 marzo 1775, il rappresentante veneto M. Zen - "la istituzione, la sussistenza e tutto il pregio degli spettacoli" derivano "dal diletto e liberalità" animanti la sua assidua attività di promozione e il suo impulso realizzatore. E sin autore il G. quando, nel 1775, compone la tragedia Alexandro sobre África, conservata manoscritta alla Biblioteca nacional di Madrid. E inoltre d'architettura intendente allorché sovrintende all'ampliamento - affidato al primo architetto reale, genero di L. Vanvitelli, F. Sabatini - della regia residenza di Aranjuez. Per anni "zeloso protector" sia dell'Accademia, sia del Gabinetto reale di storia naturale madrileni, suo merito è la concezione del secondo quale edificio da adibirsi a museo-scuola, a ostensione permanente con didattica finalità di macchine, strumenti, utensili nonché di reperti naturalistici.

Fattivamente orientante sul versante culturale la figura del G., il quale, altresì, con Aranda e il conte P. Rodríguez di Campomanes, forma una sorta di triumvirato di fatto propulsivamente riformatore. Sono essi - così, il 17 ott. 1772, P.P. Giusti a P. Frisi - i "tre nuovi Bacchi, ovvero Orfei" che stan snebbiando l'"antica" caligine, che stan facendo "spuntare l'aurora del nuovo giorno", che, addirittura, tentano d'avviare la "rivoluzione". E ognuno fa la propria parte: Aranda in fatto di "pubblica economia e polizia", Campomanes distruggendo i coriacei "pregiudizi della giurisprudenza ecclesiastica", il G. colla salutare e "aperta protezione delle scienze e delle arti". E in ciò il suo ruolo è centrale nonché simultaneo a quello dei due colleghi.

Purtroppo il G. non è altrettanto influente da scoraggiare le smanie di Carlo III d'un significativo trionfo marittimo a danno dei "barbareschi", d'una gran vittoria sugli "algerini", quelli contro i quali più sta montando l'"odio". Vagheggiata - così Zen il 4 luglio 1775 - addirittura l'"espugnazione e conquista" di Algeri. Ma fallimentare l'azzardato "sbarco", nella notte del 7-8 luglio, "una lega e mezza" dalla città, militarmente un disastro; naufraga nel ridicolo il velleitario tentativo di rinnovare i fasti della conquista di Tunisi nel 1535. Una "tragedia" - così il 5 settembre Zen riscontrandovi, con un pizzico d'ironia, i "requisiti di unità di tempo, di azione e di luogo" - la perdita, d'un colpo, tra morti, prigionieri e feriti, di 5000 uomini, mentre il resto del corpo di spedizione si salva colla fuga a dirotto. Scriteriato il tentato colpo di mano fidente nella "fortuna" e nella "poca stima" del nemico. Una sconfitta totale per la Spagna e, insieme, una vistosa caduta d'immagine per la Corona. Una "vergogna" con più responsabili: il capo della spedizione, l'irlandese conte A. de O'Reilly, che, lungi dall'essere punito, da "governatore" di Madrid vien "promosso a capitan generale d'Andalusia"; il "segretario d'azienda" Múzquiz che - ammalato il ministro della Guerra conte Ric - ne ha con baldanza assunto le "funzioni", mentre il G., al quale erano state antecedentemente proposte, "con savio consiglio se scaricò", come sottolinea, in un dispaccio del 28 luglio, Zen. E primi responsabili dell'insuccesso lo stesso re e l'erede ufficiale al trono, il principe delle Asturie, che hanno preteso l'allestimento in tutta fretta d'una flotta da slanciare alla volta della vittoria clamorosa. Innocente, di per sé, il Grimaldi. Ciò malgrado - così Zen il 29 agosto - su di lui, dirottato e pilotato dall'alto, finisce col convergere "il biasimo" della "moltitudine". Defilatisi i colpevoli, arretrati in secondo piano, in primo piano viene lasciato il G. a far da capro espiatorio, esposto alla marea montante delle ingiurie, delle accuse di per sé indirizzabili ad altri, di per sé scaraventabili contro il re. Ma - così ancora Zen l'8 giugno 1773 - "siccome è universale la stima e l'amore" pel sovrano, "così è naturale che tutte le imputazioni si rovescino al ministero", ricadano sul governo. E poiché "il popolo […] vede di mal occhio tutti li forestieri", è coi ministri stranieri che se la prende, non senza essere a ciò incoraggiato da quelli indigeni. E, come nel motín del 1766 "declamava […] contro gl'italiani", ossia il G. e Squillace, ora è contro il G. - messo soprattutto alla berlina nell'anonima Parodia tragica, una farsa sulla sciagurata spedizione algerina - che s'innalzano urla scomposte, grida ostili, che s'avventa una valanga di "pasquines", "letrillas", "obrillas teatrales". Pilotate sul solo suo nome le proteste. "Felice espediente", osserva il 29 agosto Zen, per cui la monarchia resta fuori tiro, per cui il governo nel suo insieme non viene coinvolto, nella misura in cui la folla si sfoga rumoreggiando solamente contro il genovese, esulta "come di un atto di umiliazione" del "volontario retiro" di questo "dalle cose della guerra".

Ma non è autentica "prudenza", commenta Zen, "cedere ai populi quando sono commossi". Estremamente "pericoloso", infatti, "avvezzarli ad ottenere per le vie del fermento e della più licenziosa mormorazione" la destituzione di ministri in carica. Screditante per la stessa autorità regia prestar orecchio alle vociferazioni tumultuose. Sicché, pel momento, il G. - uomo indubbiamente competente e probo, riconosce Giusti, ma d'indole troppo amabile e, come tale, non dotato della "force d'esprit, qui seule fait les grands hommes" dominatori degli eventi e al più, colla "circonspection", capace di procedere cauto tra questi - resta al proprio posto. E astutamente ne approfitta per caldeggiare, nelle "conferenze" dedicate agli "affari stranieri", la presenza del principe delle Asturie, un "onore" da questi bramato. Solo che, una volta ottenutolo, s'appalesa la sua pochezza: è troppo faticoso e, allora, tende a disimpegnarsi, a sottrarsi. E al G., cui, come scrive il 10 ottobre Zen, "premeva con sagace e onesto consiglio liberarsi della malignità della nazione", comunque, resta la soddisfazione di evidenziare, anche agli occhi della moltitudine, quanto, nella gestione della politica estera, possa pesare la Corona. Se c'è stato l'"esito sventurato" della maldestra impresa d'Algeri, tra quelli che l'hanno voluta c'è il principe, persino incapace di star attento nelle "conferenze". La macchia della sconfitta - il G. tiene a chiarire - è responsabilità d'altri, non sua. Per quel che lo concerne, s'adopera a detergerla assicurando che "tutto il Mediterraneo verso la costa d'Affrica" è talmente controllato dalla marineria spagnola che è impossibile arrivino ad Algeri, con "altre bandiere", forniture "ad uso di guerra". Così con tono assertivo, che di fatto sottintende la rinuncia a ritentare il colpo di mano, si limita a ventilare l'attuazione d'una sorta di blocco, che, per essere efficace, conta sulla solidarietà - d'un'imposizione colla forza più che tanto la Spagna non è capace - collaborativa degli altri Stati.

Ma ormai il G. sta meditando, come scrive, il 9 nov. 1776, l'ambasciatore veneto a Madrid F. Pesaro, sul modo di abbandonare il "laborioso officio di segretario", da lui sostenuto "per lo spazio di 13 anni". Per lui "ogni dì più grave" l'adempimento dei propri compiti; e "l'avanzata sua età" concorre a che si senta sempre più "stanco". Donde le richieste - l'ultima del 7 novembre - sempre più decise a Carlo III d'essere "sollevato" dalla carica. E finalmente il sovrano accondiscende a che si ritiri con "tutti gli onori", serbando la medesima retribuzione, e, nel contempo, non essendo del tutto confinato nella vita privata. Buona soluzione - di suo gradimento, ché viene incontro al suo desiderio d'una "vita più comoda e tranquilla"; e, insieme, gradita al re ché così lo mantiene al proprio servizio - la permuta di ruolo tra lui e l'ambasciatore spagnolo presso la S. Sede J. de Moñino, conte di Floridablanca: questi diviene ministro ed egli gli subentra nella rappresentanza romana, come precisa un dispaccio di Pesaro del 26. Indubbio che l'abbandono del ministero da parte del G., sommato alla rimozione, dell'ottobre del 1776, di Tanucci a Napoli sembrino già ai contemporanei un complessivo passo indietro del riformismo madrileno e napoletano: "vous saurez - così, il 30 nov. 1776, F. Galiani a madame d'Épinay - le changement de Grimaldi à Madrid en même temps que celui de Tanucci" a Napoli.

Giunto, il 18 febbr. 1777, a Madrid Floridablanca, il G. ne parte il 22. E, a viaggio appena iniziato, un corriere regio sopraggiunge, latore per lui del prestigioso titolo di "duca e grande di Spagna". Ancorché addolcita dal titolo gratificante e indorata dal titolo d'ambasciatore, si dà, comunque, l'uscita di scena d'un personaggio che, pur dotatissimo, s'appalesa carente di "tout qui constitue le vrai génie" del grande statista. Dopo la visita ad alcune province a verifica delle opere di viabilità e canalizzazione da lui promosse, dopo la sosta a Bilbao a constatare di persona lo stato dei lavori per l'arsenale da lui istituito, dopo il soggiorno nella natia Genova, finalmente il 10 dicembre il G. arriva a Roma, ove, partito il 20 dic. 1776 Floridablanca, funge da "ministro interino di Spagna" (così lo qualifica l'ambasciatore veneto a Roma, A. Renier) il cavalier J.N. de Azara. Ricevuto dal papa l'11 dicembre, il 12, avviando "le metodiche udienze per gli affari della sua corte", il G. inizia la propria attività. S'oppone all'eventualità della porpora a C. Livizzani, il prefetto dell'Annona, troppo severo con N. Bischi (un protetto della Spagna), che, per diventare cardinale, dovrà pazientare sino al 14 febbr. 1785. Altra questione di cui il G. - che peraltro, nel luglio del 1778, tratta con sin troppo riguardo l'ex gesuita e fiero antigiansenista G. Durazzo - s'occupa e preoccupa è il rispuntare dei gesuiti in Moscovia: da annullare - come fa presente sin duramente a Pio VI - l'elezione, da parte dei gesuiti sopravvissuti nella Russia Bianca, del 17 ott. 1782, del vicario generale nella persona di S. Czerniewicz; da ignorare ostentando indifferenza l'arrivo a Roma, l'1 marzo 1783, di S. Banislawski, giunto proprio per ottenere l'approvazione di quello. Lo indispettisce che l'oscuro (a suo dire) personaggio sia ospite dell'ambasciatore cesareo, il card. Franz Hrzan von Harras, e gratificato, l'8, dall'udienza papale. Lunghe, altresì, e laboriose le "conferenze" del G. col pontefice specie in merito al "maneggio" della soppressione dei conventi in Spagna; né v'è solo in ballo l'entità dello sfoltimento; v'è pure da valutare l'aspirazione dei "provinciali" degli ordini monastici a non dipendere dai propri "generali". Ma dove soprattutto il G. si distingue per forza d'argomentazione, fermezza e insieme d'accortezza è nel condurre a felice soluzione il caso d'Andrea Serrao, che vede contrapposti Carlo III e il papa: da un lato il "rifiuto" pontificio della "preconizzazione del vescovo di Potenza", dall'altro - come riassume, il 17 marzo 1783, il rappresentante veneto G. Zulian - il re minacciante il ricorso ai "rimedii […] conformi all'antica disciplina della Chiesa", facendo consacrare il vescovo dal metropolita. L'"affare […] riguarda la causa comune di tutti i sovrani e di tutti i governi cattolici", scrive al G. da Napoli, il 14 giugno, G. Beccadelli e Gravina, marchese della Sambuca. È il notorio regalismo di Serrao a irrigidire Pio VI, che vorrebbe imporre un'umiliante ritrattazione, che il G. evita. Sicché Serrao, nel luglio del 1783, è "preconizzato" insieme con altri 24 vescovi, essendo tenuto al "solo e semplice giuramento solito farsi", riassume ancora Zulian, "da tutti gli altri vescovi alla Santa Sede".

Ma al di là di quanto direttamente attiene al suo ruolo d'ambasciatore, quel che conferisce risalto alla presenza romana di G. sono il suo protagonismo cultural-mondano, lo splendore delle sue feste e dei suoi ricevimenti, il fasto delle sue luminarie, i balli e i banchetti della sua dimora, il suo rivaleggiare in tenor di vita e in intensità d'alte frequentazioni coll'ambasciatore di Francia, il card. F.-J. de Bernis, il suo patrocinare artisti, il suo promuovere eventi teatrali. Epicentro di brillante conversazione, effervescenza festevole, intrattenimento, appuntamento l'ambasciata in piazza di Spagna. Sul G. gravitano Mengs, A. Maron, Angelika Kauffmann, L. Ghismondi, C.G. Ratti, da lui sono attratti letterati e viaggiatori illustri, calamitata tutta la buona società romana. Di gran richiamo per un pubblico eletto le recite da lui offerte nel salone con teatrino di cui il suo palazzo è dotato.

Forse sono gli anni romani i più piacevoli dell'esistenza del G.; e che sia soprannominato "el lindo abate" conferma la supposizione. Solo che, appreso che il fratello Raniero è gravemente ammalato, senza attendere la "venuta" dell'infanta duchessa di Parma e granduchessa di Toscana per accogliere degnamente la quale aveva fatto predisporre palazzo Medici, il 13 nov. 1783 parte per Genova. Ma quando, il 22, v'arriva il fratello è già morto nel suo palazzo "che non scarseggia" (così in G.C. Ratti, Instruzione di quanto… di più bello in Genova…, Genova 1780, p. 238) "di belle tavole". Di per sé il G. potrebbe e, anche, dovrebbe tornare a Roma. Invece non si muove, sicché è Azara a fungere da sostituto sino a subentrargli a pieno titolo quale "nuovo ministro plenipotenziario", come lo definisce già in un dispaccio del 3 febbr. 1785 il rappresentante veneto, A. Memmo. Intanto a Genova il G. ha di che occuparsi coi beni di famiglia: un palazzo e vari immobili cittadini; una villa a Sampierdarena; terreni nel Tigullio, a Chiavari, a Lavagna; ferriere nel Finalese. E, alonato dal prestigio delle cariche ricoperte - superato lo sconcerto pel suo repentino passaggio al servizio della Spagna s'è poi avuto modo d'apprezzarne l'occhio di riguardo per Genova che tanto, invece, aveva irritato a Napoli Tanucci - il rimpatrio. Personaggio eminente in loco il G. nei suoi ultimi anni, rispettato dai nobili, consultato dagli intellettuali. Fattivo fonda, nel 1786, la Società patria delle arti e delle manifatture, che - sorretta dall'adesione di numerosi soci, "cittadini d'ambi i sessi di qualunque onorata condizione" - realizza una sorta di scuola per le arti applicate. Incentivo la società per la fabbricazione di nuove macchine, laboratorio sperimentante innovazioni nei procedimenti di produzione, attivatore di specializzazioni artigiane nell'ambito della tessitura, della ceramica, dell'ebanisteria, dell'oreficeria. Lumi non tanto ideologici quelli irradiati dalla Società quanto, a mo' di riecheggiamento della fiducia nell'operosità umana e nella manualità tramante l'Encyclopédie, pratici suggerimenti e orientamenti per lavorazioni esigenti manodopera professionalizzata. In cima ai pensieri del G. la Società da lui istituita, e pure a lui cara l'Accademia ligustica; e destinato a entrambe un legato annuo di 1000 lire nel testamento, dettato il 4 ag. 1789, per poi morire di lì a poco a Genova. Il testamento, aperto il 1° ottobre, è presentato dal notaio I. Rolando il 4 ottobre.

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