CAPACCIO, Giulio Cesare

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 18 (1975)

CAPACCIO, Giulio Cesare

Salvatore Nigro

Nacque a Campagna d'Eboli (Salerno) negli ultimi mesi dell'anno 1552. Nella città natale egli venne avviato agli studi filosofici dai padri domenicani, probabilmente responsabili di una prima catechesi ammonitoria e aprioristica, polarizzata sulla considerazione della religione come unico bene morale pietisticamente contrapposto a ogni laicità di vedute. Sta di fatto che l'ideologia antilaica del C. ha radici profonde nella sua educazione; e a remoti interessi sono riconducibili la sua meditazione sulla subordinazione dello Stato laico alla potestà ecclesiastica (secondo il presupposto controriformistico di una identificazione della religione col potere politico della Chiesa) e la sistemazione in temi predicandi di dogmi e concetti ecclesiastici.

La discreta agiatezza della famiglia permise al C. di proseguire gli studi a Napoli, adesso però concentrati sul diritto. Tuttavia il giovane studente si mostrò interessato soprattutto all'erudizione antiquaria, per la quale trovò una guida autorevole nel gesuita Girolamo Casella da Nola, esperto studioso di testi siriaci ed ebraici. Completò gli studi giuridici a Bologna, da dove diede inizio a una lunga serie di viaggi attraverso l'Italia che gli fruttarono conoscenze ed amicizie altolocate: conobbe fra gli altri il cardinale di Montalto, futuro papa Sisto V. E a questo pontefice si mostrò particolarmente devoto, tanto da offrirglisi - a sostegno della sua campagna contro l'astrologia giudiziaria - come traduttore delle opere che Marsilio Ficino e Pico della Mirandola avevano scritto a confutazione degli astrologi e della loro pretesa di predire il futuro attraverso l'osservazione degli astri. Tornò a Napoli verso il 1575, e qui s'immerse nello studio "de sacre lettere, sacrosanti concilii e santi dottori della S. Chiesa Romana". Col titolo di "professor della sacra teologia" nel 1582 pubblicò a Napoli (e fece poi ristampare a Venezia nel 1584) il primo tomo di una triade mai portata a termine Delle prediche quadragesimali, cui affiancò, in due tomi, un'antologia del predicabile nel genere medievale, allora tornato in voga, della "silva allegoriarum": Selva di concetti scritturali (Venezia, rispettivamente 1593 e 1600).

Si tratta di due opere di notevole importanza non solo come precedenti delle Dicerie sacre del Marino, ma in primo luogo come documento di quella scrittura manieristica alla formazione della quale un contributo di rilievo diede l'intellettualismo che presiedette alla coeva mondanizzazione dell'impresistica operata da autori come Torquato Tasso (cfr. Il Conte o vero de leImprese, Napoli 1594) e lo stesso Capaccio.

In questo senso non esiste, all'interno della produzione capacciana, soluzione di continuità tra le prediche fittizie, la "selva di concetti" e il trattato Delle Imprese (Napoli 1592).

Il volume Delle prediche quadragesimali è diviso in sette temi "forsi in tipo delle sette sporte che si leggono appo di S. Marco", si legge nella lettera di Giovan Francesco Lombardo a Ludovico Majorano pubblicata in fronte alle "prediche": Delle miserie delmondo; Della virtù del Verbo; Del trionfo di Cristo; Dellatrasfigurazione; Della Beata Vergine; Dell'occulta natura di Dio; Del giudizio universale.

Il trattato Delle Imprese è diviso in tre libri: Nel primo del mododi far l'imprese... si ragiona; Nel secondo tutti ieroglifici,simboli ecose mistiche in lettere sacre o profane si scoprono...; Nel terzo,nelfigurar degli emblemi,di molte cose naturali per l'impresa sitratta. L'opera si inserisce nella tradizione neoplatonica quattro-cinquecentesca che aveva dato dei geroglifici (riproposti alla meditazione dalla circolazione a Firenze nel 1422 di un manoscritto degli Hieroglyphica di Horapollo e dalla loro recente utilizzazione ornamentale, per es. da parte dell'urbanista e architetto Domenico Fontana) un'interpretazione simbolica piuttosto che fonetico-alfabetica: i geroglifici venivano così a configurarsi come primo esempio esoterico di linguaggio delle immagini; come precedente privilegiato della nuova scrittura metaforica, entro la quale un posto di primo piano occupava l'"impresa" in quanto "espression del concetto sotto simbolo di cose naturali", cioè realizzazione metaforica scritta e visiva di un "concetto".

Quasi contemporanea alle Prediche è una lettera del C., datata 10 dic. 1581, pubblicata in appendice all'edizione napoletana del 1582 della Gerusalemme liberata curata da Tommaso Costo. Epistola importante, oltre che come spia degli interessi letterari del C. (rivolti soprattutto verso il petrarchismo: iniziò un commento al Petrarca e scrisse gli "argomenti" per Le lagrime disan Pietro del Tansillo), come documento della natura prevalentemente oratoria dei suoi interventi di critica letteraria.

In essa il C., con scarsità di rilievi critici e in assoluta assenza di formulazioni teoriche, interviene cautamente (e in fondo marginalmente) nelle polemiche sulla Liberata, in un contesto di elogi scontati alla poesia del Tasso, riconosce la superiorità "eroica" dell'Ariosto, ma difende il Tasso dall'accusa di "affettazione" nata dall'incomprensione delle "frasi recondite" e dei "concetti" poetici del poema. Il C. è disposto a riconoscere nella Liberata solo la presenza di qualche "elocuzione molto laconica", attribuita però alla mancanza di una revisione dell'opera per la "infermità" dell'autore.

L'attività del C. non si esaurì soltanto nell'oratoria sacra, nell'euristica delle "imprese" e nella critica letteraria, ma si estese anche al campo della ricerca storico-archeologica. Anzi a Napoli egli fu conosciuto ed apprezzato principalmente come erudito; tanto che Angelo Costanzo lo pregò di rivedere e di "risecare" la sua Istoria napoletana e il vicerè don Juan Alfonso Pimentel lo incaricherà nel 1606 di esaminare e catalogare le statue antiche venute alla luce nella campagna cumana. Tuttavia l'opera più importante di questo primo periodo napoletano è pur sempre paraletteraria: nel 1589 a Roma apparve Il Secretario, ristampato a Venezia nel 1591, nel 1594, nel 1597 e nel 1607.

Il trattato, scritto "al fine di giovare e d'insegnar come possa scriversi una lettera", è diviso in due libri: il primo contiene i precetti, il secondo fornisce una serie di esempi. Significativa è la "fascetta" pubblicitaria del libro: "con modi diversi da quei ch'insegnò il Sansovino, si scuopre il vero modo di scriver lettere familiari correnti nelle Corti". Lo accenno polemico a IlSecretario (1561) di Francesco Sansovino permette di misurare la distanza del C. da una trattatistica che ancora - benché già radicata nell'avviata crisi dell'intellettuale - restava pur sempre ancorata alla concezione umanistica disegnata nel Cortegiano del Castiglione. Dopo avere individuato il non plus ultra della grandezza umana nel "far una viva imagine dell'intelletto in una carta", il C. passa a illustrare chiaramente il ruolo pubblicitario dell'intellettuale-segretario: "par ch'abbia non so che del divino nella partecipazione de i concetti regali, poscia che, quasi ministro degli intelletti, come con la lingua ogni uomo i tesori della mente esprime così egli con la penna fa chiara e distinta quella materia prima informe dell'altrui concetto; ed in un simulacro di una lettera reca splendore a quella tenebrosa idea che, dalle sue voci ricevendo luce e spirito, fa le cose lontane parere presenti, facilita i negozii, accorda i tempi, stabilisce la memoria ed in quel luogo dove giunge la lettera riduce il mondo" lib. I, cap. I).

Nel 1592 il C. abbandonò improvvisamente Napoli e si ritirò a vivere a Campagna, dove si diede all'insegnamento letterario. Probabilmente a forzarlo al ritorno in provincia furono motivi familiari ed economici: dalle lettere scritte in questo periodo siamo vagamente informati sulle difficoltà economiche, acuite anche dalla crescita della famiglia (si era infatti sposato), presto gravemente turbata dalla morte di un figlio. Nel 1593 tornò di nuovo a Napoli, con l'impellente bisogno di un impiego. Gli fu affidato un ufficio pubblico: la provveditoria dei grani e degli oli. In qualità di provvisore fece ultimare i lavori di costruzione del deposito granario presso il molo e fece costruire un'ampia cisterna per la conservazione dell'olio. L'impiego pubblico non gli impedì di continuare a dedicarsi agli studi letterari, e in particolare a quelli di erudizione locale che lo resero tanto benemerito presso le autorità da fargli meritare nel 1602 l'ambito e ben remunerato ufficio di segretario della città. Intanto nel 1598 (a Venezia) aveva pubblicato un volume di egloghe piscatorie, Mergellina, e nel 1602 (a Napoli) gli Apologi colle dicerie morali (ristampati nel 1607 e nel 1619).

Mergellina (che forse ebbe anche un'ed. anteriore e quella nota del 1598) è un prosimetro modellato sull'Arcadia del Sannazzaro ed ampiamente aperto a suggestioni tassesche. La sproporzione quantitativa tra la prosa (in preponderanza) e le "egloghe" è la manifestazione più superficiale ed appariscente di una differenziazione di ruoli e di registri espressivi: mentre i versi (languorosi) sono sostanzialmente conservativi, la prosa "piscatoria" ha scarti innovativi (rispetto alla tradizione del "genere") sulla via di una ricercata artificiosità. Interessante è nella prosa lo spostamento dell'asse semantico dai sostantivi agli aggettivi.

Gli Apologi, illustrati da graziose incisioni, sono scritti in endecasillabi sciolti e chiusi da un distico a rima baciata contenente un detto proverbiale. La raccolta è preceduta da un breve excursus erudito sulla storia dell'apologo, distinto dalla favola: "differisce l'apologo dalla favola come la spezie dal genere: per ciò che dalla favola si cava l'apologo". L'autore dichiara inoltre i debiti contratti con molti "concetti" dell'abate Bernardino Baldi. Le "dicerie morali" non sono che l'esplicitazione ideologica e la traduzione a un livello di maggiori pretese letterarie degli apologhi: "parve a i curiosi che la nudità degli Apologi… dovesse con le sue moralità coprirsi, acciò che più colti comparissero avanti ai giudici critici che dal vestito i costumi sogliono essaminare. Ecco posta questa schiavina addosso di queste Dicerie". Precisazioni che ci fanno intendere il bidirezionale ruolo di propagandista di morale conservatrice (verso le classi più basse con l'apologo tradizionale, verso quelle più alte e pretenziose con la "diceria") assegnato dal C. all'intellettuale.

Tra vari emolumenti pubblici il C andava intanto raccogliendo il materiale documentario ("lapides, scriptos, quotquot extabant Neapoli") che gli avrebbe permesso la stesura della Historia Puteolana (Napoli 1604: ripubblicata in traduzione nel 1607 col titolo esplicativo Vera antichità di Pozzuoli) e della Historia Neapolitana (Napoli 1607) ritenuta a torto dal Toppi un plagio della manoscritta Descriptio Campaniae del Giordano. In queste due opere, per le quali andò famoso come "restauratore dell'antichità napoletana", egli continuò e portò ad esaurimento la locale "scuola" antiquaria di Ferrante Loffredo e di Fabio Giordano fondata su una metodologia empirico-letteraria: i reperti archeologici accuratamente ricercati venivano ricollegati a tradizioni letterarie, entro le quali si presumeva che potessero trovare una loro giusta significazione.

Del latino il C. si servì congenialmente, oltre che per le opere di erudizione, per le tante elogisticamente cortigiane ("in obitu" "in adventu" "in funere" "in nuptiis" "in ingressu"), delle quali costellò strategicamente la sua lunga carriera di letterato. Sull'"elogio", usato come strumento di persuasione ("accenditur ad maximarum rerum gloriam variis elogiis hominum genus"), il C. costruì un'intera opera: Illustrium mulierum etillustrium litteris virorumelogia, I, Napoli 1608, II, ibid. 1609.

Si elencano di seguito, in successione cronologica, le orazioni encomiastiche scritte in latino: Oratio in obitu Philippi IIHispaniarum Regis Catholici, Napoli 1599; In funere d. CatoliEmanuelis Lotharingii oratio, Napoli 1609; In adventu illustriss.et excellentiss. D. Petri Ferdinandie CastroNeapolitani proregispanegyricus, Napoli 1610; In morte Henrici IV Galliar. Regisoratio, Venezia, probabilmente 1610; In funere SerenissimaeMargaritaeAustriacae Hispaniae et IndiarumReginae oratio, Napoli 1611; In nuptiisSerenissimorum Philippi Hispaniae Principis,cum Cristina Borboniaet Annae Austriaecum LudovicoXIII GallorumRege panegyricus, Napoli 1612; In nuptiisFridericiUbaldi Feltriiet ClaudiaeMediceae, Napoli 1619; Roma. AdUrbanum VIII, Roma 1625; In ingressu Card. BoncompagniArchiep. Neap., Napoli 1626; In funereSerenissimi FrancisciMariae Secundie Ruvere UrbiniDucis oratio, Napoli 1631. Unica eccezione linguistica è l'orazione In lode di Maria d'Austriaregina di Boemia, Napoli 1630. In latino scrisse pure il Panegyricus octoSanctorum Neapolis Patronus (Napoli 1604), un volume di epistole (Epistolarum liber primus, Napoli 1615: gli altri due libri previsti dall'autore non furono mai stampati) e alcune biografie di viceré (Vitae proregiumRegni et urbis Neapolis), delle quali quella del duca d'Ossuna, don Pedro Girón, fu pubblicata dal cardinale Mai nello Spicilegiumromanum, vol. VIII (pp. 640-52), Roma 1842. Encomiastico-erudito è il commento scritto sopra le odi di Urbano VIII: In odasEminentissimi Cardinalis olimBarberini,nunc SanctissimiSummi Pontificis Urbani VIII, Napoli 1633.

Il 3 maggio 1611 veniva inaugurata ufficialmente l'Accademia degli Oziosi, e il C. vi figurava tra i fondatori. Benché spesso distratto da vari incarichi pubblici (fu mandato come ambasciatore presso il duca di Urbino e presso la Repubblica di Venezia), egli non mancò di interessarsi anche all'organizzazione della cultura: era infatti convinto che solo l'esistenza di strumenti organizzativi, che assicurassero organicità ai rapporti tra letterati e potere politico, potesse essere garanzia di una situazione ottimale per le lettere. In questa accademia, col nome di Accademico Tranquillo, egli lesse nel 1612 tre Declamazioni in difesa dellapoesia: una retorica esaltazione della poesia, che ancora una volta scopre le deficienze speculative dell'autore e la natura essenzialmente oratoria dei suoi interventi pseudocritici. Del 1613 è la Relazione dell'apparato fatto dal popolo napolitano nellafestività del glorioso S. Giovanni Battista; e sulla descrizione di quest'"apparato" festivo tornerà ancora nel 1625, nel 1626 e nel 1627.

Quello dell'"apparato" è un infragenere paraletterario e documentario al quale il C. si dedicò più volte e in tempi diversi: nel 1611 aveva pubblicato l'Apparatofunerale nell'esequie delconte di Lemos viceré di Napoli e nel 1631 pubblicherà la Descrizione della padronanzadi s. Francesco di Paola nella cittàdi Napoli; quest'ultima tradotta e pubblicata in Francia (Parigi 1634) dal frate Antoine Granjon.

Ma col 1613 si aprì per il C. un periodo di persecuzioni e umiliazioni quasi sicuramente immeritate. In seguito a una grave accusa fu costretto a lasciare segretamente Napoli e a nascondersi in provincia presso degli amici, prima di rassegnarsi all'esilio. Intanto a Napoli veniva ufficialmente rimosso dall'ufficio pubblico e gli venivano confiscati i beni, compresa la ricchissima biblioteca. Dai parchi e pudichi accenni contenuti nelle lettere parrebbe che il C. fosse stato coinvolto nell'accusa (forse di concussione) mossa contro il figlio Luigi. Persino i contemporanei non ebbero le idee molto chiare in proposito; di sicuro sappiamo che l'esilio durò quasi un anno, dal dicembre del 1613 alla fine del 1614, e a nulla valsero gli interventi a favore del C. da parte di Emanuele Filiberto di Savoia e dello stesso viceré don Pedro de Castro. Il rientro a Napoli riservò all'ex segretario ulteriori delusioni: la riabilitazione fu alquanto difficoltosa, non fu riammesso al suo ufficio e gli fu negata la restituzione dei beni confiscati. Si decise così ad accogliere nel 1616 l'invito di Francesco Maria II Della Rovere a trasferirsi alla corte di Urbino, dove il napoletano Vespasiano Caracciolo (aio dell'unico figlio del duca, Federico Ubaldo) si era prodigato a illustrare i suoi meriti culturali e la sua onestà. A Urbino il C. fu accolto come custode della biblioteca ducale, fu nominato consigliere e gli furono affidati incarichi di grande responsabilità (come quello di ambasciatore a Venezia per congratularsi dell'elezione del doge Antonio Priuli e l'altro di trattare il caldeggiato matrimonio di Federico Ubaldo con la figlia di Cosimo II de' Medici). Nella corte ducale egli poté finalmente portare a termine un'opera iniziata nel lontano 1594 allo scopo di confondere "gli inimici di S. Chiesa": Il Principe, Venezia 1620 (poi ripubblicato Napoli nel 1623 col titolo: Precetti eavvertimenti morali e politici dati al serenissimo principe d'Urbino).

Si tratta di un personalissimo rifacimento degli Emblemata (1531) di Andrea Alciato, nel quale viene ampiamente esplicitata la concezione aristocratica della letteratura insieme alla teorizzazione di uno Stato clericale. Solo adesso infatti, il C. riesce a ideologizzare, sulla base di una difesa delle culture separate, quanto era sottinteso nel trattato Delle Imprese. Era stata l'esistenza di culture separate (quella esoterica degli eletti e quella degli "uomini impuri") a permettere nell'antico Egitto, secondo il C., la nascita della scrittura "simbolica" dei geroglifici. Ed era l'impegno per una cultura privilegiata che poteva garantire spazio e vitalità alla nuova "scrittura" artificiosa degli emblemi, delle imprese e della letteratura in genere. La parte più importante dell'opera è però quella dichiaratamente politica, nella quale alla "volubilità vana della Ragion di Stato" e degli "impuri Macchiavelli" viene contrapposta la salda "quadratura" di uno Stato fondato sul potere divino della Chiesa.

Il 28 giugno 1623 (con sospetto di avvelenamento) morì a Urbino Federico Ubaldo, al quale - dopo le nozze con Claudia de' Medici - il vecchio padre aveva rassegnato il ducato. L'ultrasettantenne Francesco Maria II fu così costretto a tornare alle sue responsabilità politiche, in un momento particolarmente difficile a causa delle mire sul ducato di Urbano VIII. Non è da escludere che il C., in coerenza con le sue idee politiche, brigasse in quel periodo perché il duca cedesse il suo posto a un governatore apostolico. Sta di fatto che nel 1623 (o per essere stato licenziato dal duca, o per essersi volontariamente allontanato dalla corte) il C. ritornò a Napoli e vi diede alle stampe la Istoria della famigliaGennara o Ianara. In un primo momento aveva pensato di trasferirsi a Roma (e vi si recò nel 1625), ma alla fine ritenne più opportuno ristabilirsi a Napoli; tanto più che il figlio, pienamente riabilitato, vi era stato nominato regio consigliere. Tuttavia l'ex segretario non riuscì più a rientrare nell'agiatezza di un tempo: per vivere si costrinse al modesto ufficio di maestro di scuola, e ad arrotondargli lo stipendio dovette sistematicamente provvedere il figlio. A Napoli, portando a ultimazione un lungo processo di autochiarificazione all'interno di una ideologia antilaica e antipopolare, il C. fece stampare nel 1630 Il forastiero (che venne però distribuito nel 1634, con in fronte il dialogo Incendio di Vesuvio del 1631).

Il forastiero è un dialogo in sei giornate (I: Dell'origine et anticogoverno di Napoli; II: Dell'antica religione e guerre antiche dinapoletani; III: Del governo dei re normanni e francesi; IV: Dei rearagonesi; V: Dei re austriaci; VI: Dei viceré di Napoli) tra un "forastiero" e un "cittadino", scritto non senza "alcuni di quei sali che più per bellezza che per necessità frapongono nel lor ragionare gli oratori". In quest'ultima opera il C. recupera significativamente l'odio antiplebeo che nell'età giovanile gli aveva dettato i Versi in morte di Starace Elettodel popolo diNapoli. Nel poemetto giovanile, dedicato all'insurrezione popolare dei 1585 e al conseguente linciaggio di Giovan Vincenzo Starace, il C. si era scagliato contro "...l'infuriata empia plebecula" (v. 33) e il "furor plebeio" (v. 306), augurandosi infine di poter vivere "lontan da i gridi e da i plebei strepiti / che gridan pur né san quel che si voglino" (vv. 327-28). Ne Il forastiero l'autore distingue tre classi sociali utili alla vita civile (quella dei gentiluomini, o nobiltà; quella "civile" dei magistrati o tribunalisti; quella del "popolo" o dei mercanti); la "plebe" è solo "feccia" ed "empitura senza sostanza". Anzi, non contento di questa incruenta emarginazione della plebe (forse memore della sanguinosa e allucinante repressione della rivolta del 1585), nella giornata VI osserva: "la vil plebe sediziosa, e sopra tutto ignorante, è bastevole di dar qualche macchia [al lustro della città] la qual però lavano a lungo andare col sangue loro istesso".

L'8 luglio 1634 il C. morì a Napoli e venne sepolto nella cappella di S. Giuseppe nella chiesa di S. Maria La Nuova.

Fonti e Bibl.: Le prime notizie biografiche, non sempre esatte, si devono a G. Ghilini, Teatro di uomini letterati, Venezia 1647, pp. 132 s., e a L. Crasso, Elogii d'uomini letterati, Venezia 1666, pp. 227-30. N. Toppi tentò una prima sistemazione biobibliografica nella Biblioteca napoletanaet apparato a gliuomini illustriin lettere di Napolie del Regno, Napoli 1678, pp. 165 s.; ma cfr. le aggiunte di L. Nicodemo in Addizioni copiosealla Bibl. napoletanadel dottor Niccolò Toppi, Napoli 1683, pp. 142 ss. Accenni si riscontrano in N. De Nigris, Campagna anticae nova,overoCompendiosa istoria della città di Campagna, Napoli 1691, pp. 231 s., e in G. M. Crescimbeni, Commentari, IV, Venezia 1730, pp. 166 s. Con molte approssimazioni e varie incertezze parla del C. J.-P. Nicéron, in Mémoires pour servir àl'histoire des hommes illustresdans la relique des lettres, XXXIV, Paris 1736, pp. 399-407. Soltanto F. Soria, nel I tomo delle sue Mem. storico-critichedegli storici napolitani, Napoli 1781, pp. 128-39, ci dà un'ampia e documentata ricostruzione biografica e bibliografica del Capaccio. Elogistico e commemorativo è il ritratto di A. Mazzarella da Cerreto in Biogr. degli uominiillustri del Regno di Napoli, III, Napoli 1816, s. v. Si vedano ancora: C. Minieri Riccio, Mem. storiche degliscrittori nati nel Regno diNapoli, Napoli 1844, pp. 72 s.; F. Cavalli, La scienza polit. inNapoli, II, Venezia 1873, pp. 178 ss.; F. Cuticciotti, Vita di G.C. C.con l'esposizione delle sue opere, Campagna 1898. Un saggio di bibliografia è contenuto in T. Bozza, Scrittori politici ital.dal 1550 al 1650, Roma 1949, pp. 132 s. Utili per la ricostruzione della figura del C. e, soprattutto, per un'inchiesta sulla considerazione in cui i contemporanei tennero questo segretario sono: la lettera del Marino a L. Scoto, adesso in G. Marino, Lettere, a cura di M. Guglielminetti, Torino 1966, pp. 202 s.; il Defennemiento de laVaiasseida di GiulioCesare Cortese del Tardacino [Bartolomeo Zito], Napoli 1628, pp. 91 s.; il manoscritto pubblicato da L. Marcheix in Un parisien à Rome etàNaples en1632 d'aprèsun manuscrit inédit de J. J. Bouchard, Paris, s. d. Purtroppo il Croce (seguito dal Matato) ha creduto di trarre dalle pagine dello Zito un avallo alla sua insostenibile proposta di attribuzione al C. di un anonimo sonetto dialettale indirizzato a G. C. Cortese; cfr.: B. Croce, Saggi sulla letteraturaital. del Seicento, Bari 1962, pp. 121 s.; G. C. Cortese, Opere poetiche, a cura di E. Malato, Roma 1967, I, pp. 499 s. Ma sull'argomento si veda S. Nigro, Ritratto di G. C. Cortese (problematica bio-bibliografica), in Annali della Fac. di lettere e filosofia dell'univ. d. studi di Bari, XVI (1973), pp. 461-521. Del resto il Croce si è sempre occupato marginalmente del C.; cfr.: Bernardo De Dominici (1892), in Aneddoti di varia letter., II, Bari 1953, pp. 327 s.; I "Lazzari" (1895), ibid., III, Bari 1954, pp. 199 s.; I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del sec.decimottavo, Bari 1926, pp. 51 s. Anche da studiosi più recenti il C. è stato considerato quasi esclusivamente come fonte documentaria; cfr.: M. Petrini, La musa napolet. di GiambattistaBasile, in Belfagor, XVII (1962), 4, pp. 405-31 (soprattutto pp. 427-31); R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli, Bari 1967, passim; V. Viviani, Storia del teatro napoletano, Napoli 1969, ad Ind. I versi inediti sulla morte dello Starace, dei quali si è servito il Villari, sono stati pubblicati da G. Poso nell'opuscoletto G. C.C. ed un suo poemetto inedito, Napoli 1907: questo saggio si segnala anche per l'ampia introduzione. Una particolare attenzione all'oratoria sacra del C. (dopo il fugace accenno di S. Vento, in Le condizioni dell'oratoria sacra del Seicento, Milano 1916, p. 310) ha dedicato G. Pozzi nell'introd. e nelle note di commento al vol. di G. B. Marino, Dicerie sacre e La stragedegl'innocenti, Torino 1960. Del C. impresista ed emblematista si è occupato R. Klein nello studio La théorie de l'expressionfigurée dans les traités italienssur les "imprese", 1555-1612, apparso nella Bibliothèque d'Humanismeet Renaissance, XIX (1957), pp. 320-41, e ora incluso nel vol. La forme et l'intelligible. Ecrits sur laRenaissance et l'art moderne, Paris 1970. Positivisticamente comparativistico è il saggio che G. Amalfi ha dedicato alla Mergellina e agli Apologi: Alcune novellette di G. C. C., in Helios, III (1898), 1-2, pp. 7-30. Per la Historia Puteolana si veda S. Mastellone, L'Umanesimo napoletanoe la zona flegrea, in Archivio storico per le provincie napoletane, n. s., XXX (1944-46), pp. 5-36 (in particolare pp. 31 s.). A Il Principe sono dedicate le pp. 247-52 del vol. di T. Persico, Gli scrittori pol. napol. dal'400 al '700, Napoli 1912 (cfr. la rec. di E. Percopo, in Rass. crit. d.letter. ital., XVII [1913], pp. 107-18, soprattutto p. 113). Si deve a B. Capasso la pubblicazione della manoscritta Descriz. diNapoli ne' principiidel secolo XVII, poco convincentemente attribuita al C.: cfr. Napoli descritta neiprincipii del sec. XVIIda G. C. C., in Archivio storicoper la provincie napoletane, VIII (1882), pp. 68-103, 531-34, 776-804, poi in opuscolo autonomo col citato titolo Descrizione…, Napoli 1882. In effetti manca ancora uno studio dedicato alle opere manoscritte del C., e di esse solo alcune sono attualmente reperibili, oltre i già pubblicati Versi nella morte di StaraceEletto del Popolo di Napoli (Bibl. Apost. Vat., Urb. lat. 754; ma una trascrizione si conserva nella Bibl. della Soc. di storia patria napoletana, misc. XXIX. E. 6): nella napoletana Bibl. di S. Martino e nella Bibl. della Soc. di storia patria napoletana (XXVII. C. 14) si conservano due copie del ms. delle Vitae proregiumNeapolitanorum; in coda alla cit. copia manoscritta delle Vitae, posseduta dalla Soc. di storia patria napoletana, è aggiunta la In Regiorum Gymnasiorum auspicisOratio; una lettera del C. si trova tra quelle dedicate alla canonizzazione di s. Andrea d'Avellino, mss. LXXXIII della Bibl. di S. Martino. L'unico studio crit. sulla personalità del C., condotto con rigore di metodo, lo si deve ad A. Quondam: cfr. il cap. II L'ideologia cortigiana di G. C. C., pp. 503-33, e il paragrafo 4 L'indifferenza teorica del C., pp. 368-72, del cap. I Dalla parte del Tasso nella sezione Dal manierismo al barocco della Storia di Napoli, V, Napoli 1972.

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