RIZZO, Giulio Emanuele

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 87 (2016)

RIZZO, Giulio Emanuele

Fabrizio Vistoli

RIZZO, Giulio Emanuele (Emanuele Giulio). – Nacque a Melilli (Siracusa) il 28 maggio 1865 dall’avvocato Gaetano e da Maria Concetta Abramo, lontani cugini tra loro, in una famiglia alto-borghese di sentimenti patriottici e liberali. Visse la fanciullezza in patria, portando a termine gli studi elementari sotto la guida di uno zio precettore, il quale gli trasmise l’amore per i libri e le belle lettere, e conseguendo, in seguito, la licenza liceale a Catania (1883). Obbligato a seguire le orme paterne, sacrificò inizialmente la sua spiccata vocazione umanistica per laurearsi in legge (1887) nella medesima città etnea, non senza poi però addottorarsi anche in lettere antiche a Palermo (1890). Qui frequentò corsi regolari, entrando in intima relazione spirituale con il grecista Giuseppe Fraccaroli (suo relatore, cui lo legò un’intensa amicizia, durata più di un quarto di secolo) e intellettiva con Antonino Salinas, del quale recepì le progredite teorie museologiche, l’interesse per la numismatica e in generale quella rigorosa impronta filologica ed erudita nell’approccio euristico che avrebbe caratterizzato molta della sua produzione scientifica.

Dopo la laurea insegnò materie classiche nei licei di Messina (1892-94), Girgenti (1895-87), Trapani (1897-98) e Catania (1898-1900), finché all’inizio del 1901, grazie alla segnalazione di Paolo Orsi, conosciuto sugli scavi che il roveretano conduceva a Megara Iblea, venne nominato ispettore nel ruolo organico del Museo nazionale di Napoli con l’incarico del riordino scientifico dei diversi nuclei collezionistici di quell’istituto: incarico cui attese nell’ottica, più tardi espressa in veste dottrinale, che i musei non dovessero essere «morti depositi di anticaglie, ma vivi ed organici e parlanti archivi, nei quali è lecito leggere e vedere tanta parte del nostro passato» (La cultura classica e l’insegnamento dell’archeologia, Firenze 1911, p. 21).

Ogni sede operativa fu per lui occasione di incontro con eminenti studiosi, di esperienze formative e soprattutto di pubblicazioni d’argomento letterario e storico-artistico. Frutto della sue giovanili peregrinazioni nell’isola natia furono, tra gli altri, l’ampio lavoro di ricostruzione critica dell’opera poetica stesicorea (1895), il Saggio su Imerio il sofista (argomento della sua tesi di laurea, opportunamente rielaborata e data alle stampe nel 1898), nonché alcune diligenti recensioni bibliografiche di argomento antiquario, cui presto si affiancarono le prime, interessanti divagazioni su alcuni aspetti della coroplastica e della ceramica figurata siceliota. Nell’ambito del pur breve soggiorno partenopeo germinò, viceversa, l’interesse per la statuaria greca, in seguito ampiamente coltivato.

A Napoli, anche a causa delle «incredibili stravaganze» del direttore del Museo, Ettore Pais, non rimase che pochi mesi, trasferito a prestare servizio nella Capitale (ottobre 1901), dapprima presso l’ufficio scavi del Foro Romano e del Palatino (allora guidato da Giacomo Boni) e successivamente nel Museo delle Terme, del quale fu per un biennio direttore incaricato (1906-07) dopo l’allontanamento di Dante Vaglieri. Fu questo un periodo di intenso lavoro scientifico, portato avanti senza trascurare le pratiche amministrative e intervallato soltanto da un viaggio in Grecia e in Asia Minore organizzato dall’Università di Heidelberg (primavera del 1906) e dall’assidua frequentazione dei salotti della buona società capitolina. Tale fervore intellettuale, che aveva alla base, con ogni probabilità, l’esigenza di «lasciarsi alle spalle il suo provincialismo, insieme all’ambizione di trovare nella Capitale l’ambiente in grado di valorizzare le proprie doti» (Barbanera, 2006, p. 21), si tramutò nella contestuale pubblicazione di ben quindici titoli tra i quali spiccano quelli prodotti per «responsabilità d’ufficio», dedicati alla collezione statuaria Giustiniani (1904, 1905) e al tentativo di ricostruzione del discobolo mironiano sulla base della replica marmorea ritrovata proprio in quegli anni negli scavi della tenuta reale di Castelporziano (1906, 1907).

A toglierlo da quelle che lui stesso definiva «indecorose angustie della carriera» che limitavano, giocoforza, il desiderio di dedicarsi – a tempo pieno – alle sue ricerche predilette, provvide la nomina, per concorso, a professore straordinario di archeologia nella Regia Università di Torino (1° novembre 1907), cattedra che, divenuta frattanto stabile, mantenne sino al 1914, non mancando di polemizzare sovente con alcuni colleghi ritenuti troppo pedanti e di manifestare subito, con i propri corrispondenti, una certa qual intolleranza nei confronti del brumoso clima prealpino. Malgrado queste difficoltà di natura ambientale, nella «residenza allobroga» poté dare libero sfogo alle sue innate qualità di docente e di organizzatore, dotando l’Istituto di archeologia, di cui era direttore, dei mezzi considerati all’epoca più evoluti per la didattica laboratoriale (biblioteca, gipsoteca, raccolte di fotografie) e attendendo, ancora una volta, alla pubblicazione di una gran quantità di ricerche esegetiche su singoli monumenti dell’antichità classica (sarcofagi, rilievi, sculture, ceramiche), pur con qualche fugace incursione nei terreni a lui non troppo congeniali dell’archeologia preistorica, etrusco-italica e longobarda.

Oltre a ciò, avviò la stesura di un manuale a fascicoli di Storia dell’arte greca scritto «in Italia, con spirito italiano», che si configurasse dunque come valida alternativa, per le giovani generazioni di studiosi, ai trattati simili redatti fino ad allora soprattutto in lingua tedesca. Elogiata da Benedetto Croce per le sue aperture all’idealismo, l’opera che costituisce la prima e ultima concessione di Rizzo allo spirito di sintesi, non fu portata a compimento dopo la pubblicazione del primo tomo (1913-1920) per insanabili dissidi con l’editore.

Dopo sette anni di dimora lontano dai principali centri di ricerca accademica, il pensionamento di Giulio De Petra ne favorì il trasferimento a Napoli quale ordinario di archeologia presso quella Regia Università (28 novembre 1915), ove esercitò il suo magistero per una decina di anni, circondandosi di un’eletta schiera di discepoli (Domenico Mustilli, Domenico Zancani, Olga Elia, Paola Montuoro) destinati in seguito a brillanti carriere di archeologi militanti. Risale a questo periodo il suo interesse per la megalographia orfico-dionisiaca della villa pompeiana dei Misteri, da poco rimessa in luce, e la pubblicazione (1917) della corposa memoria intitolata Tyro, incentrata su di un rilievo fittile da Medma (Rosarno, Reggio Calabria) con la raffigurazione della scena culminante di un perduto componimento sofocleo ispirato al mito greco. A questo lavoro fecero seguito alcune riflessioni di prospettiva su singole architetture (Ara Pacis Augustae) e spazi del mito (lago d’Averno) e, non ultima, la dotta illustrazione del Teatro greco di Siracusa (Milano-Roma 1923), pubblicata grazie all’illuminata generosità di un nobile conterraneo.

All’apice della carriera, ormai universalmente stimato il primo dei classicisti italiani, venne chiamato nella Capitale (14 gennaio 1925) a tenere l’insegnamento di archeologia e storia dell’arte antica resosi vacante dopo la morte di Lucio Mariani. Fautore del suo reclutamento nell’organico dello Studium Urbis, nel ruolo che era stato dell’austriaco Emanuel Löwy, fu Karl Julius Beloch che lo riteneva «particolarmente adatto», per meriti scientifici, «a rafforzare il settore archeologico della facoltà umanistica romana, che non ha mai avuto una sorte molto brillante» (Barbanera, 2006, p. 39, n. 43). Anche nella nuova sede continuò a operare secondo i metodi e i principi sperimentati in precedenza a Torino e a Napoli, sfruttando al massimo il potenziale cognitivo e pedagogico della collezione universitaria di calchi in gesso e consacrandosi allo studio intensivo della plastica ellenica, da cui scaturì, inter alia, l’esemplare monografia su Prassitele (Roma 1932), dedicata alla memoria della moglie, Elisabetta Pompili, scomparsa un anno prima a 51 anni da cui non ebbe figli.

Nel periodo romano si dedicò anche a un ampio screening dell’arte figurativa pompeiana (1929), che fu occasione e stimolo per un approfondimento di tecniche e stili delle pitture di età ellenistica e romana, per lo più sottoposte a ineluttabile deperimento e per le quali mancava uno studio d’insieme. Maturò così il piano (1927-1935) di un’illustrazione organica – scritta e figurata – dei Monumenti della pittura antica scoperti in Italia: opera pubblicata a fascicoli di grande formato dal Poligrafico dello Stato, con la collaborazione di archeologi di indiscussa competenza, alla quale pure contribuì analizzando le pitture di tre case palatine (di Livia, dei Grifi e della cosiddetta Aula Isiaca) e quelle di sette clipei centuripini, rivelatisi poi un falso moderno.

Al compimento dei settant’anni, essendo stato abbassato di un quinquennio il limite d’età per il collocamento a riposo dei professori ordinari, lasciò l’insegnamento (d.m. 16 agosto 1935) per dedicarsi a un’esistenza appartata, scandita dal lavoro di ingegno e dalla frequentazione di poche, selezionatissime amicizie. A questa decisione non furono di certo estranee ragioni politiche, ossia una forma di antifascismo intellettuale, affatto unica nel suo genere, che ponendolo nel novero dei più strenui difensori delle libertà civili del Ventennio, ne inibiva di fatto la disponibilità a mettere la propria «scienza» al servizio di concezioni ideologiche preconcette. In tempi di imperante onagrocrazia, questo anticonformismo e «compiacente bisogno di sceltezza e di distinzione» (definizione di Concetto Marchesi) se da un lato lo condussero a firmare il manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Croce e a rifuggire da certa «archeologia intenzionalmente e vacuamente patriottica» in prospettiva romanocentrica (rappresentata dai vari Pericle Ducati, Roberto Paribeni, Giulio Quirino Giglioli ecc.), dall’altro gli consentirono di instaurare un pratico compromesso con il regime che di fatto lo ignorò, malgrado egli coltivasse rapporti di familiarità con personaggi scomodi quali Umberto Zanotti Bianco e Giuseppe Agnello.

Dopo la liberazione di Roma, soppressa l’Accademia d’Italia, venne invitato (ottobre 1944) a far parte del comitato di «savi anziani» per la ricostituzione dell’Accademia dei Lincei assieme a Croce, Guido Castelnuovo e Gaetano De Sanctis (v. U. Zanotti Bianco, Benedetto Croce e la ricostituzione dell’Accademia dei Lincei, in Archivio storico per la Calabria e la Lucania, XXII (1953), 1-2, pp. 1-13). Dapprima con l’incarico di vicepresidente, poi nelle funzioni di presidente, Rizzo affrontò con rigore e decisione il delicato problema dell’epurazione del corpo accademico e della ricostituzione su basi democratiche del vetusto sodalizio; tuttavia, l’aspro scontro presto generatosi in seno alla commissione tra diverse concezioni dei rapporti tra cultura e potere e le divergenze sorte sui criteri di valutazione del comportamento politico degli ex soci più o meno compromessi con il fascismo, lo indussero a presentare le sue dimissioni dall’ingrata funzione con lettera ufficiale inviata al ministero della Pubblica Istruzione il 24 gennaio 1946.

Nello stesso anno, preceduta da diversi saggi preliminari che ne illustravano carattere, fini e approccio metodologico (v. G. Libertini, in Bollettino storico catanese, VI (1941), 1-3, pp. 137-140), uscì a stampa la prima parte della sua opera di maggior mole e di più ampio respiro, Monete greche della Sicilia, in cui l’arte dell’incisione monetale siceliota tra VI e IV secolo a.C. è posta criticamente in relazione con la scultura in bassorilievo e con la pittura vascolare coeve. Dei tre volumi in programma, elaborati negli anni turbinosi della guerra, videro la luce soltanto i primi due (con la descrizione dei tipi monetali e nitidissime riproduzioni fotografiche), mancando all’appello la parte teorica.

Trascorsi in raccolto isolamento gli ultimi anni della sua esistenza, tra sofferenze fisiche e ristrettezze economiche, morì a Roma il 1° febbraio 1950.

‘Autodidatta’, quasi del tutto estraneo alle discussioni teoriche sugli orientamenti vecchi e nuovi della disciplina archeologica, Rizzo non delimitò il suo campo d’indagine a un determinato momento storico né a un esclusivo settore scientifico. Egli fu un umanista nel senso più ampio del termine, ovvero un profondo indagatore dei diversi aspetti dell’antichità classica (storia, religione, mitologia, cultura materiale) giovandosi del contributo sinergico dei risultati di scavo, delle opere letterarie e della critica estetica (Archeologia ed arte nella scuola, Napoli 1923, pp. 7 ss.). In questo, se non può dirsi un innovatore, almeno contribuì, certo inconsapevolmente, a porre la Kunstarchäologie germanica fra gli ingredienti della scienza italiana dei monumenti.

Fonti e Bibl.: L’archivio privato dello studioso (schede, appunti manoscritti, fotografie, bozze di stampa, corrispondenza, sommari di lezioni universitarie), scorporato delle carte più strettamente familiari (custodite dagli eredi a Melilli e Siracusa), costituisce dal 1999 un fondo autonomo presso l’archivio storico dell’Accademia nazionale dei Lincei (cfr. Nuovi Annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari, Università degli studi di Roma La Sapienza, XV (2001), p. 421); quanto rimane della sua pregevole biblioteca è stato rilevato dall’Istituto di archeologia dell’Università degli studi di Catania.

Il maestro Sikelio. G.E. R., un archeologo del nostro tempo, Palermo 1999 (con bibliografia cronologica degli scritti ed elenco delle commemorazioni alle pp. 33-38); Storia della facoltà di lettere e filosofia de La Sapienza, a cura di L. Capo - M.R. Di Simone, Roma 2000, ad ind.; G. Immè, G.E. R.: vicende dell’esistenza e fasi dell’attività scientifica, Siracusa 2005; M. Barbanera, G.E. R. (1865-1950) e l’archeologia italiana tra Ottocento e Novecento: dalla tradizione letteraria alla scienza storica dell’arte, in L’immagine degli originali greci. Ricostruzioni di Walther Amelung e G.E. R., a cura di M.G. Picozzi, Roma 2006, pp. 19-40; P. Preto, Una lunga storia di falsi e falsari, in Mediterranea, III (2006), 6, pp. 33-38; R. Dubbini, G.E. R. Lo studio della Grecità contro la romanescheria fascista, in Fragmenta, 2008, n. 2, pp. 215-232; G. Immè, Colloqui antichi e recenti con le sirene, in Le forme e la storia, n.s., II (2009), 2, pp. 170, 181-187 (proposta di identificazione di Rizzo con l’ellenista Rosario La Ciura, personaggio principale della novella Lighea (1957) di G. Tomasi di Lampedusa); S. Cecchini, Trasmettere al futuro. Tutela, manutenzione, conservazione programmata, Roma 2012, pp. 143-147; R. Dubbini, G.E. R. (1865-1950), in Lebensbilder. Klassische Archäologen und der Nationalsozialismus, I, a cura di G. Brands - M. Maischberger, Rahden 2012, pp. 35-49; Ead., ad vocem, in Geschichte der Altertumswissenschaften. Biographisches Lexicon, a cura di P. Kuhlmann - H. Schneider, Stuttgart-Weimar 2012, coll. 1065 s.; M. Barbanera, Storia dell’archeologia classica in Italia, Roma-Bari 2015, ad indicem.

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