Giurisprudenza

Enciclopedia delle scienze sociali (1994)

Giurisprudenza

Michele Taruffo

Pluralità di significati del termine

'Giurisprudenza' è termine irriducibilmente polisemico, nella sua teoria come nell'uso attuale. La comprensione del suo significato non può dunque realizzarsi attraverso semplici definizioni stipulative, o con l'indicazione di una definizione tratta dall'uso corrente. D'altra parte non è neppure possibile, e sarebbe in buona misura superfluo, redigere un catalogo completo dei significati che il termine è andato assumendo nella sua lunga storia, e che tuttora conserva. La via più praticabile per avviare l'analisi sembra dunque essere quella dell'indicazione delle principali famiglie di significati di 'giurisprudenza', senza pretese di completezza storica o analitica. Come si vedrà, questi significati hanno ampi margini di indeterminatezza e sono soggetti a importanti variazioni; non è però impossibile riportarli a ragionevole chiarezza, sia pure a costo di qualche semplificazione.

Giurisprudenza come scienza del diritto

Una prima famiglia di significati di 'giurisprudenza' si impernia sulla definizione della giurisprudenza come scienza del diritto (v. Lombardi Vallauri, 1989, p. 1). Questo significato non è prevalente nell'uso attuale, benché lo si ritrovi tuttora nella denominazione della relativa facoltà universitaria: 'Facoltà di giurisprudenza' è infatti sinonimo di 'Facoltà di scienze giuridiche', e comunque in questa espressione 'giurisprudenza' significa attività scientifica e didattica che ha per oggetto il diritto. Si tratta però del significato che vanta una storia più lunga, e questa è forse la ragione per cui le facoltà giuridiche traggono dalla giurisprudenza il loro nome, benché esso emerga e si affermi in Italia solo tra il XVIII e il XIX secolo (v. Gorla, 1970, pp. 490, 503).

Di juris prudentia si comincia infatti a parlare a Roma nell'epoca repubblicana (v. Piola Caselli, 1902, p. 831), anche se il fenomeno ha origini anteriori, nel periodo arcaico (v. Cannata, 1976², pp. 17ss.; v. Riccobono, 1963, pp. 350 ss.). Nell'uso largamente prevalente in diritto romano, la giurisprudenza è la scienza del diritto così come praticata dai giuristi professionali: non manca in essa il momento dell'elaborazione concettuale e teorica, ma l'aspetto senz'altro più importante è quello della finalizzazione pratica. I giuristi romani, infatti, non sono teorici puri ma professionisti del diritto, che elaborano e interpretano le regole giuridiche essenzialmente allo scopo di fornire pareri o responsi su casi concreti. È quindi ovvio che la giurisprudenza sia connessa, per oggetto e modalità, alla figura e alle funzioni del giurista professionale nelle diverse epoche dell'ordinamento giuridico e istituzionale romano (v. Cannata, 1976², pp. 25 ss., 43 ss., 52 ss.; v. Riccobono, 1963, pp. 351, 356, 360, 367, 371; v. Piola Caselli, 1902, p. 835). La scienza del diritto che i giuristi elaborano non è a sé stante, ma viene direttamente applicata a questi casi, sicché non esiste una vera distinzione fra teoria e pratica del diritto. Di qui la definizione della giurisprudenza come "conoscenza tecnica della struttura interna delle istituzioni giuridiche, accompagnata da un metodo appropriato alla loro consistenza, il quale permette di operare su di esse e per mezzo di esse" (v. Gorla, 1990, p. 2). Questo significato di 'giurisprudenza' non si limita al diritto romano: l'intera storia della giurisprudenza, dal Medioevo sino all'epoca attuale, è anzi segnata dall'origine e dalla connotazione pratica, ossia dall'essere creata da giuristi professionali in vista dell'applicazione concreta del diritto (v. Cannata e Gambaro, 1989⁴, pp. 13 ss., 21 ss.).

Questo legame così stretto con la conoscenza e l'elaborazione pratica delle regole giuridiche non impedisce tuttavia l'emergere di altri significati di 'giurisprudenza' nei quali la scienza giuridica è intesa in modo più ampio, ma anche più impreciso e variabile. Così, ad esempio, la famosa definizione ulpianea di juris prudentia aggiunge alla justi atque iniusti scientia la divinarum atque humanarum rerum notitia, estendendo il concetto sino a ricomprendervi la religione, l'etica e la conoscenza dei rapporti umani e sociali (v. Piola Caselli, 1902, p. 831; v. Riccobono, 1963, p. 349). Questa concezione è però troppo ampia e destinata a entrare in crisi man mano che le regole religiose e morali, nonché la politica e le scienze umane, diventano oggetto di sfere autonome del sapere. La giurisprudenza rimane così essenzialmente collegata ai fenomeni giuridici, ma il vincolo alla pratica professionale del diritto, che pure permane, non è più esclusivo. 'Giurisprudenza' assume infatti anche il significato di elaborazione dei principî fondamentali del diritto, di analisi dei principî ispiratori della politica legislativa di un ordinamento o di una parte o di un settore del sistema giuridico (v. Gorla, 1968, col. 619). Ne deriva una sorta di oggettivazione, per cui giurisprudenza viene anche a significare il diritto nel suo complesso, ovvero il diritto di un ordinamento (francese, romano, canonico) o di un settore di esso (v. Gorla, 1990, p. 2, e 1970, pp. 499 ss., 503). Sul versante meno legato all'applicazione pratica del diritto, e più vicino all'ambito della sua elaborazione teorica, si collocano due ulteriori significati di 'giurisprudenza' che vale la pena di registrare. Il primo di essi, tipico in realtà del termine inglese jurisprudence (v. Austin, 1863; v. Hart, 1953; v. Llewellyn, 1962; v. Wroblewski, 1989, p. 17), assai più che dell'italiano giurisprudenza, concerne l'elaborazione di concetti generali del diritto, ed equivale a ciò che in Italia e in Francia si chiama teoria generale del diritto, e in Germania si chiama Rechtswissenschaft o Rechtslehre.

Il secondo di questi significati, probabilmente il più ampio tra quanti si riconducono all'idea di giurisprudenza come scienza del diritto, ricomprende l'insieme dei discorsi sul diritto intesi come il risultato dell'attività di chiunque si occupi di questa disciplina in modo continuativo e professionale, ossia dei giuristi in senso proprio. Ne rimangono dunque esclusi i discorsi sul diritto compiuti da altri soggetti, come ad esempio lo storico, il sociologo, lo psicologo o l'esperto di statistica, mentre vi sono compresi i discorsi di giudici, avvocati, e giuristi accademici (v. Jori e Pintore, 1988, p. 103).

Si vede dunque facilmente che la giurisprudenza come scienza del diritto ricomprende significati e fenomeni assai diversi, anche se tra loro connessi soprattutto sotto il profilo storico, che si collocano in un'area segnata da due estremi: da un lato la giurisprudenza come elaborazione del giurista pratico diretta essenzialmente alla soluzione di casi concreti; dall'altro la giurisprudenza come insieme onnicomprensivo dei discorsi dei giuristi sul diritto. Al centro di quest'area si può probabilmente collocare la giurisprudenza come elaborazione scientifica dei concetti e dei metodi che servono per conoscere e interpretare le regole giuridiche.

Giurisprudenza come attività del giurista

Una seconda famiglia di significati di 'giurisprudenza', diversa ma connessa con la prima già esaminata, allude alla giurisprudenza come attività professionale del giurista (v. Fazzalari, 1984, pp. 5 ss.), con una particolare accentuazione della natura professionale e della dimensione pratica di tale attività. Ciò che è rilevante in questa prospettiva non è tanto l'elaborazione teorica dei concetti e delle regole giuridiche, quanto l'uso che di queste regole e dei relativi concetti viene fatto nella pratica giudiziaria e forense. Si è già visto come la dimensione pratica sia molto importante anche nell'ambito della giurisprudenza intesa come scienza del diritto; qui va sottolineato che la pratica professionale del diritto viene non di rado a costituire un significato autonomo di 'giurisprudenza'.Questo significato si consolida a partire dal Medioevo (v. Cannata e Gambaro, 1989⁴, pp. 13 ss., 21 ss.) in correlazione con l'emergere della figura del giurista laico, tecnico e professionista del diritto, che opera in varie vesti ma soprattutto come giudice e come avvocato. Esso si precisa e si estende, specialmente nel Seicento e nel Settecento, con riferimento alla giurisprudenza forense (v. Cannata e Gambaro, 1989⁴, pp. 227 ss.), intesa appunto in modo da ricomprendere il complesso delle attività, giudiziarie, difensive e anche dottrinali, connesse all'amministrazione della giustizia. In questo ambito emerge la giurisprudenza dottorale (v. Gorla, 1970, pp. 492, 498, 502), per molto tempo legata alle esigenze della pratica giudiziaria, sino al momento in cui si accentua la distinzione della giurisprudenza dalla dottrina giuridica, soprattutto quella dei giusnaturalisti (v. Cannata e Gambaro, 1989⁴, pp. 21 ss., 28 s., 198 ss., 201 ss., 226 ss.). La giurisprudenza forense è però soprattutto e specificamente quella che i giudici e gli avvocati fanno nell'ambito delle rispettive attività giudiziarie. L'insieme di queste attività raggiunge nei secoli XVII e XVIII livelli di complicazione e di inefficienza tali da segnare una grave e lunga crisi del diritto e dell'amministrazione della giustizia. 'Giurisprudenza' diventa così termine dotato di forti connotazioni spregiative, incentrate sui 'difetti' denunciati da Ludovico Antonio Muratori in un'opera famosa (v. Pecorella, 1964; v. Tarello, 1976, pp. 217 ss.), ma anche da una diffusa letteratura sull'argomento (v. Leoni, 1940, pp. 14 ss.). Esso diventa infatti sinonimo di incertezza e frammentazione delle fonti normative, ma soprattutto di prassi forensi incomprensibili e interminabili, di abuso di una dottrina incerta e variabile, di formalismi eccessivi e insensati, di scandalosa inefficienza nell'amministrazione della giustizia (v. Piola Caselli, 1902, p. 839; v. Taruffo, 1980, pp. 7 ss.).

Non tutto però, pur nella complessa storia dei secoli del diritto comune, si riduce a questi aspetti negativi, sicché sarebbe deformante appiattire su di essi l'idea della giurisprudenza come attività professionale dei giuristi pratici. Per un verso, infatti, occorre ricordare che dalla giurisprudenza dottrinale legata alla pratica nascono non di rado elaborazioni di notevole rilievo, come quelle della 'scuola culta' in Francia, che non a caso viene chiamata 'giurisprudenza elegante' (v. Cannata e Gambaro, 1989⁴, p. 28). Per altro verso, la pratica giudiziaria raggiunse non di rado livelli qualitativi pregevoli, come nella giurisprudenza dei grandi tribunali italiani del Seicento e del Settecento (v. Gorla, 1981, pp. 543 ss., e 1969, pp. 629 ss.; v. Piola Caselli, 1902, p. 840), e i 'forensi' svolsero talvolta un ruolo importante nell'elaborazione delle codificazioni moderne (v. Cannata e Gambaro, 1989⁴, p. 249).

È chiaro d'altronde che se si intende la giurisprudenza come l'insieme delle attività svolte professionalmente dai giuristi, con particolare riferimento all'amministrazione della giustizia presso corti e tribunali, si allude in realtà a fenomeni complessi e variabili, nella storia e nei diversi sistemi giuridici, e condizionati da una molteplicità di fattori culturali, politici e istituzionali. Nessuna definizione specifica, e nessuna valutazione particolare, può dunque esaurire l'estensione e la variabilità di questo significato di 'giurisprudenza'.

Giurisprudenza come insieme di decisioni giudiziarie

Oltre che all'attività dei giuristi, il termine 'giurisprudenza' si riferisce anche, e - nell'uso attualmente prevalente - soprattutto, al prodotto di questa attività (v. Gorla, 1981, pp. 303 ss.). Al riguardo occorre tuttavia distinguere a seconda della provenienza, e quindi a seconda della natura, di questo prodotto.Per un verso, infatti, si parla di giurisprudenza anche per indicare il risultato delle elaborazioni teoriche dei giuristi, o più genericamente per indicare la letteratura giuridica più vicina alle esigenze della pratica forense, o che a questa maggiormente si ispira (v. Cannata, 1976², pp. 56 ss.; v. Cannata e Gambaro, 1989⁴, pp. 21 ss., 27 ss., 198 ss., 275 ss.). Al riguardo il termine ormai prevalente è 'dottrina', ma rimane l'uso di ricondurre anche l'attività di teorizzazione tipica della dottrina (e la letteratura che ne deriva) entro l'ambito della giurisprudenza intesa in senso lato come elaborazione del diritto (v. Jori e Pintore, 1988, p. 104; v. Cannata, 1976², pp. 56 ss.; v. Riccobono, 1963, pp. 361 ss.). Per altro verso, ed è questo il significato del termine di gran lunga prevalente nel linguaggio forense attuale, 'giurisprudenza' indica il prodotto dell'attività giudiziaria, ossia le decisioni emanate dagli organi giurisdizionali (v. Gorla, 1990, p. 2). Questo significato del termine è forse oggi il più tipico, ma non ha una lunga storia dietro di sé. Nella Francia dei secoli XVI-XVIII si parlava invero di jurisprudence des arrets, o soltanto di jurisprudence, per indicare le decisioni giudiziarie, ma questo era solo uno tra i diversi significati del termine (v. Gorla, 1968, coll. 620 ss., e 1970, pp. 498 ss.). In Italia questo significato di 'giurisprudenza' viene importato dalla Francia, ove nel frattempo era andato prevalendo sugli altri, all'inizio dell'Ottocento, e si diffonde rapidamente nel linguaggio giuridico (v. Gorla, 1990, p. 3, e 1970, pp. 502 ss.). Si parla dunque di 'giurisprudenza della Cassazione' o del 'Consiglio di Stato' per indicare le sentenze pronunciate da questi organi (e lo stesso vale per qualsiasi corte o tribunale) e si parla di raccolte o repertori 'di giurisprudenza' per indicare pubblicazioni dedicate alle decisioni giudiziarie. La 'giurisprudenza dei tribunali' viene dunque a rappresentare, in contrapposizione alla 'dottrina', un significato importantissimo del termine giurisprudenza (v. Gorla, 1981, pp. 305, 511 ss., 759 ss., e 1970, pp. 490 ss.; v. Colesanti, 1961, p. 1102; v. Piola Caselli, 1902, pp. 831, 832, 842 ss.). Tuttavia, il consolidamento di questo significato e la conseguente riduzione dell'ambiguità del termine non giungono a eliminare tutti i problemi. Infatti, posto che con 'giurisprudenza' si indichino decisioni giudiziarie, rimangono tuttavia alcune incertezze semantiche e si aprono ulteriori questioni.

La principale incertezza semantica nasce dal fatto che solitamente 'giurisprudenza' indica un insieme di decisioni (di solito dello stesso organo, ma talvolta anche di organi diversi) collegate dal fatto di contenere soluzioni identiche o analoghe dello stesso problema, o di problemi analoghi o connessi. Così 'giurisprudenza' è spesso inteso come sinonimo di 'giurisprudenza conforme' o 'consolidata' (v. cap. 4). Altre volte, invece, viene meno il riferimento all'uniformità di contenuto delle decisioni giudiziarie, e prevale il riferimento all'oggetto o all'istituto giuridico su cui esse vertono (sicché si parla ad esempio di 'giurisprudenza sul contratto di leasing'). Spesso, inoltre, questi due usi si combinano (come quando si parla ad esempio della 'giurisprudenza consolidata della Cassazione sulle presunzioni semplici'). Alla base di questi usi di 'giurisprudenza' sembra esservi l'idea di un insieme di decisioni in qualche modo omogeneo, definito secondo uno o più criteri di appartenenza all'insieme. Tuttavia, incertezze derivano dal fatto che questi criteri variano da caso a caso e vengono usati in modo diverso a seconda delle circostanze, anche all'interno del medesimo contesto. D'altra parte, non si può neppure dire che 'giurisprudenza' evochi sempre l'idea di un insieme coerente e omogeneo (per quanto difficilmente definibile) di decisioni giudiziarie. Può infatti accadere che vi sia giurisprudenza senza che esista alcuna effettiva decisione, come nel caso di massime formulate in modo scorretto o erroneo (v. § 4d). Inoltre, si parla spesso di giurisprudenza contraddittoria, confusa o incoerente, proprio per sottolineare che soluzioni diverse vengono adottate sullo stesso problema, o che problemi connessi vengono risolti senza tener conto della loro interrelazione.

Ulteriori problemi sorgono quando si dice che una o più decisioni 'fanno giurisprudenza'. Questa espressione ha talvolta un significato debole e generico che si riferisce all'importanza della decisione: così una sentenza può 'fare giurisprudenza' per l'importanza oggettiva della questione che affronta (magari per la prima volta) o per la bontà della soluzione adottata. La stessa espressione ha però anche un significato assai più forte e specifico, che emerge quando si allude alla capacità, riferita a una o più decisioni, di condizionare o vincolare altre decisioni successive, dello stesso o di altri organi giudiziari, sulla medesima questione (v. Mengoni, 1990⁴, pp. 448, 449). In questa accezione il termine 'giurisprudenza' rinvia alla complessa problematica del precedente giudiziario, che abbisogna di un'analisi specifica (v. §§ 4a ss.).

La scienza del diritto

La concezione della giurisprudenza come scienza del diritto dà luogo a un problema di notevole rilevanza, ossia se la giurisprudenza possa essere davvero considerata una scienza. Posto che la scienza del diritto sia la descrizione del diritto condotta con metodo scientifico (v. Jori e Pintore, 1988, p. 110), ci si chiede infatti se la giurisprudenza abbia un proprio metodo, e soprattutto se esso abbia i caratteri che si riconoscono al metodo scientifico.

La questione della 'scientificità della giurisprudenza' è quanto mai complessa per varie ragioni, la principale delle quali è che ogni possibile risposta implica che si presupponga una specifica nozione di scienza, col che il problema si sposta e si estende sino a investire questioni di epistemologia generale (v. Jori e Pintore, 1988, p. 112). Quando i giuristi affrontano la questione, è infatti inevitabile che essi adottino qualche modello generale di scienza, per verificare se i caratteri salienti di questo modello si ritrovino nella giurisprudenza intesa come scienza del diritto; la conseguenza è però che le risposte in ordine alla scientificità della giurisprudenza variano in funzione del modello generale di scienza che di volta in volta viene adottato, oltre che del modo in cui s'intende l'oggetto e il metodo della giurisprudenza. Data la complessità e variabilità dei termini del problema, non è il caso di tentare di proporre in questa sede una risposta che pretenda di essere risolutiva; piuttosto, vale la pena di accennare sinteticamente alle principali formulazioni che il problema stesso ha ricevuto. Va peraltro osservato preliminarmente che esso si pone in modo sensato solo per chi presuppone che la giurisprudenza sia un'attività in qualche modo razionale; solo sulla base di questa condizione, infatti, ci si può chiedere se essa sia o non sia una scienza. Il problema non si pone invece in modo sensato, o sconta a priori una risposta negativa, per chi ritiene che il diritto e la scienza giuridica siano fenomeni irrazionali (v. Leoni, 1940, pp. 179 ss., 1102 ss.).

La scientificità della giurisprudenza

Il modo più diffuso d'impostare il problema della scientificità della giurisprudenza consiste nel raffrontare quest'ultima con il modello di scienza che si assume come ideale della scientificità, ossia con il modello rappresentato dalle scienze naturali. È questa l'impostazione dell'opera classica su questo argomento, che sarà molto conosciuta e influente nell'Ottocento e nel Novecento (v. Leoni, 1940, pp. 32 ss.), ossia il saggio di von Kirchmann (v., 1848, tr. it., pp. 3 ss.; v. Wolf, 1953). Essa muove dall'ipotesi, tipica del positivismo ottocentesco, che la scienza sia conoscenza di un oggetto 'dato' secondo un metodo razionale, ma ne deriva in modo pressoché inevitabile una risposta negativa in ordine al 'valore scientifico' della giurisprudenza. Von Kirchmann constata infatti che la giurisprudenza ha ad oggetto il diritto, ma questo oggetto è variabile, incerto, non razionalizzabile e non definibile secondo metodi e con strumenti scientifici; di conseguenza, non si può dire che la giurisprudenza sia una scienza in senso proprio (v. Kirchmann, 1848, tr. it., pp. 9 ss.; v. Wolf, 1953; v. Leoni, 1940, pp. 17 ss.; v. Bobbio, 1950, pp. 70 ss.). Questa impostazione rimane costante nell'ambito della diffusa tendenza a intendere il concetto di scienza secondo il modello classico del positivismo; altrettanto diffuso è per conseguenza l'atteggiamento consistente nel negare che la giurisprudenza abbia carattere scientifico, e nel definirla piuttosto come una tecnica, una prassi, o addirittura come una filosofia (v. Leoni, 1940, pp. 36 ss., 41 ss., 77 ss.; v. Bobbio, 1950, pp. 72 ss.).

Il panorama cambia, e di conseguenza cambiano anche gli orientamenti in ordine alla scientificità della giurisprudenza, quando dalla prospettiva del positivismo tradizionale si passa a prospettive epistemologiche più evolute e aggiornate. Così per esempio Norberto Bobbio, compiendo una revisione sistematica del problema della scienza giuridica, adotta una concezione neopositivistica per cui la scienza si caratterizza essenzialmente non per la verità dei risultati che consegue in termini di conoscenza di oggetti dati, ma per il rigore del discorso che svolge elaborando sistemi coerenti di proposizioni (v. Bobbio, 1950, pp. 202 ss., 213 ss.; v. Villa, 1984, pp. 103 ss.; v. Jori, 1985, pp. 229 ss.). Bobbio ridefinisce inoltre l'oggetto della giurisprudenza individuandolo nel linguaggio delle norme, e il suo metodo, che consiste nella costruzione di un linguaggio giuridico rigoroso (v. Bobbio, 1950, pp. 218 ss.); di conseguenza, egli può affermare che - in questa accezione di scienza e purché venga adottato un metodo scientifico - la giurisprudenza può essere scienza (v. Guastini, 1985, pp. 51 ss.).

La tesi di Bobbio presta il fianco a molte critiche, fondate essenzialmente sul fatto che egli impiega una nozione discutibile di scienza, nella quale tutto si riconduce al rigore del discorso scientifico, ma si perde di vista la verità e la conferma empirica delle proposizioni scientifiche stesse (v. Guastini, 1985, p. 52; v. Jori, 1985, p. 230; v. Villa, 1984, pp. 104 ss.); essa è però significativa di un modo coerente di concepire il rapporto tra scienza e giurisprudenza. D'altronde, il neopositivismo rigoroso di Bobbio non è l'unico orientamento possibile nell'epistemologia di orientamento positivistico; altre prospettive emergono infatti nell'ambito di un broad positivism (v. Villa, 1984, pp. 111 ss.) che si apre verso una concezione più complessa e articolata del metodo scientifico e del ragionamento giuridico. Così, ad esempio, Uberto Scarpelli recupera i dati empirici presenti nella scienza giuridica, ma mette in evidenza gli aspetti valutativi e pragmatici del discorso del giurista, pur nell'ambito di una configurazione razionale di tale discorso (v. Scarpelli, 1965, pp. 43, 149 ss., e 1959, pp. 75 ss., 81 ss.; v. Jori, 1985, pp. 231 ss., 236 ss.). Ne discende peraltro che il modello neoempiristico di scienza non è applicabile all'attività del giurista (v. Jori, 1985, pp. 231, 237; v. Villa, 1984, p. 155) e che, se la giurisprudenza è una scienza, è una scienza sui generis, che mira alla conoscenza 'interna' di norme per sottoporle a un giudizio pratico (v. Jori, 1985, pp. 249 ss.).

L'evoluzione dell'epistemologia incide comunque anche in altro modo sul problema della scientificità della giurisprudenza. In realtà i vari tentativi di affrontare questo problema sono stati solitamente caratterizzati da una sorta di "monismo metodologico" (v. Villa, 1984, pp. 13 ss., 46 ss., 119), tipico del positivismo anche nelle sue forme più evolute, che appare in crisi nell'attuale dibattito sulla metodologia delle scienze: sembra essere venuta meno, in altri termini, quella concezione unitaria della scienza che, nell'una o nell'altra versione, ha costituito il criterio di riferimento impiegato per risolvere, in senso positivo o negativo a seconda dei casi, la questione della scientificità della giurisprudenza. Se si muove invece dal 'pluralismo metodologico' che appare dominante nell'epistemologia post-positivista (v. Villa, 1984, pp. 24 ss., 119 ss., 161 ss.), sembra incongruo porsi il problema se la scienza giuridica sia una scienza allo stesso modo in cui lo sono le scienze naturali. Pare invece più appropriato riconoscere alla scienza giuridica un'autonomia metodologica almeno parziale, salvo ritrovare somiglianze tra questa e altre scienze in termini di analogue models più sofisticati (v. Villa, 1984, pp. 51 ss., 123 ss.); in questa prospettiva, anzi, si può addirittura configurare l'eventualità che il diritto e il ragionamento giuridico possano essere assunti come modelli di razionalità per una possibile metodologia scientifica tra le varie ipotizzabili (v. Villa, 1984, pp. 217 ss.).

Un punto che sembra comunque acquisito nella fase più recente del dibattito sulla scientificità della giurisprudenza è che - al di là delle singole soluzioni proposte - sembra definitivamente inattendibile l'approccio consistente nell'adottare una concezione semplice ed elementare della scienza, derivata dalle teorie sulle scienze naturali, per poi vedere se la scienza giuridica riproduce i caratteri essenziali di quella concezione. Questo approccio porta a risposte prevalentemente negative, e solo talvolta positive, circa la natura scientifica della giurisprudenza, ma tali risposte sono sempre condizionate dall'inattendibile presupposto costituito da un'idea stabile e unitaria di ciò che costituisce scienza. Inoltre, queste operazioni hanno spesso significato una riduzione e semplificazione della scienza giuridica, del suo oggetto e dei suoi metodi, in conformità all'idea generale di scienza adottata di volta in volta. Quando invece si è tenuta presente la complessità della scienza giuridica, la conclusione è stata nel senso della sua irriducibilità al modello delle scienze empiriche o naturali.

Modelli di scienza giuridica

Come si è già accennato, la variabilità delle risposte date alla questione della scientificità della giurisprudenza non dipende solo dalla presenza di diverse concezioni della scienza. Variazioni e incertezze non minori caratterizzano infatti da lungo tempo l'altro termine della comparazione, ossia la scienza giuridica, il suo oggetto e i suoi metodi (v. Leoni, 1940, pp. 23 ss., 39 ss., 55 ss., 97 ss., 160 ss.). Si tratta di un tema assai complesso, che non può essere qui analizzato in maniera approfondita, sul quale non mancano del resto ampie trattazioni (v. ad esempio Jori e Pintore, 1988, pp. 110 ss.; v. Jori, 1985; v. Lombardi Vallauri, 1989; v. Bobbio, 1950). Vale tuttavia la pena di richiamarne sinteticamente gli aspetti principali, allo scopo di chiarire le nozioni di scienza giuridica rispetto alle quali si è posto il problema della scientificità della giurisprudenza.

Vi è anzitutto il modello positivistico tradizionale, tipico della cultura giuridica ottocentesca, nel quale la scienza giuridica coincide con la dogmatica giuridica, e ha ad oggetto il diritto inteso come sistema giuridico e come 'dato' nell'ordinamento statuale. La funzione della scienza giuridica è di concettualizzare, sistemare, interpretare e applicare il diritto. Interpretare il diritto significa scoprire il 'vero' significato delle norme giuridiche, descrivendolo senza creare o modificare le norme stesse, che si intendono preesistenti all'approccio del giurista (v. Wroblewski, 1989, pp. 89 ss.).

Questo modello entra però in crisi nel periodo a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, nell'epoca della 'rivolta contro il formalismo', quando appare evidente che esso dà un'immagine distorta e ideologicamente condizionata della giurisprudenza e si fonda su una concezione formalistica e riduttiva del diritto. La crisi di questo modello non implica però la crisi dell'orientamento positivistico globalmente inteso, ma piuttosto l'emergere di una sua versione più moderna e consapevole, la cui manifestazione più rigorosa e coerente si ha nel 'normativismo' di Hans Kelsen (v. Jori e Pintore, 1988, pp. 64 ss., 335 ss.; v. Wroblewski, 1989, pp. 95 ss.). Secondo questo orientamento, l'oggetto esclusivo della scienza del diritto è la norma giuridica, o il sistema delle norme positive, ed esso viene studiato con un metodo che conduce a formulare proposizioni normative. La scienza giuridica è dunque scienza del dover essere, e in ciò si distingue da ogni altra forma di conoscenza (v. Wroblewski, 1989, p. 96).

In numerosi ambienti culturali e in diversi momenti storici il formalismo della concezione positivistica, anche nelle sue versioni più evolute, ha provocato reazioni. Ne emerge una tendenza che può definirsi 'antipositivistica', nella quale si assegna particolare rilevanza ai giudizi di valore che influenzano e condizionano l'attività del giurista, ma soprattutto si nega che il diritto si riduca alle norme positive. L'attenzione viene invece rivolta specialmente all'esperienza concreta dell'applicazione della legge nell'amministrazione della giustizia, e ai comportamenti degli operatori del diritto (v. Jori, 1985, pp. 92 ss.; v. Lombardi Vallauri, 1989, pp. 2 ss.). Inoltre, si guarda al diritto come fenomeno sociale, e all'interpretazione giuridica come procedimento di formulazione delle scelte interpretative, mettendone in evidenza gli aspetti psicologici e comportamentali (v. Wroblewski, 1989, pp. 100 ss.). In questa prospettiva la scienza giuridica non è scienza di norme, o non si riduce a scienza di norme; piuttosto, essa è scienza di comportamenti individuali e sociali, e deve dunque utilizzare soprattutto i metodi della psicologia, della sociologia e delle scienze politiche (v. Wroblewski, 1989, pp. 102 ss.).

Il modello antipositivistico nasce dai limiti e dalle insufficienze del positivismo formalistico, ma cade in un estremismo teorico contrario ma uguale a quello del positivismo che vuole combattere (v. Wroblewski, 1989, pp. 104 s.). Esso è troppo ristretto e riduttivo nel momento in cui - come affermano i 'realisti' più coerenti (v. Tarello, 1962; v. Pattaro, 1974; v. Jori e Pintore, 1988, pp. 57 ss.) - solo i fatti empirici, e non le norme o gli ordinamenti giuridici, possono essere oggetto di conoscenza scientifica. Per questa via si recupera un oggetto empirico per la scienza giuridica, ma questo oggetto è di gran lunga più limitato rispetto a ciò che solitamente si intende per diritto (v. Villa, 1984, pp. 57 ss.; v. Wroblewski, 1989, p. 105; v. Jori, 1985, pp. 77 ss.). Inoltre, la scienza giuridica pare doversi trasformare, per diventare scienza di fatti empirici invece che scienza di norme, in una sociologia: donde le tendenze verso una giurisprudenza sociologica (v. Mengoni, 1990⁴, p. 447; v. Jori e Pintore, 1988, p. 55), o comunque a negare che la metodologia giuridica possa avere a che fare con i fatti che propriamente costituiscono la dimensione empirica del diritto. Se non avviene questa trasformazione, e se comunque la scienza giuridica continua a rimanere distinta dalla sociologia, allora appare evidente - sempre secondo questo orientamento - che la scienza giuridica rimane una scienza normativa non empirica, mentre solo la sociologia assicura la conoscenza empirica del diritto (v. Villa, 1984, pp. 155 ss.).

Queste prospettive diverse e limitate vengono superate, e in qualche modo ricomprese, da un modello più ampio di scienza giuridica che può definirsi integrato in quanto mira a ricondurre diversi metodi e diversi livelli di indagine nell'ambito della scienza giuridica (v. Wroblewski, 1989, pp. 106 ss.). La costruzione di questo modello muove dalla premessa che il diritto è un fenomeno complesso e che la scienza giuridica deve essere in grado di affrontarlo nella sua complessità. D'altronde la scienza giuridica non si limita a impiegare i metodi tradizionali nell'interpretazione delle norme, e negli ultimi tempi si è arricchita con metodi di analisi logica e semiotica, sociologica, psicologica e valutativa, sicché lo studio del diritto viene effettuato con vari strumenti e in prospettive diversificate (v. Wroblewski, 1989, pp. 57 ss., 64). Il diritto come oggetto di analisi scientifica non può essere ridotto alle norme e ai comportamenti degli operatori giuridici: esso è un fenomeno sociale complesso, che presenta diverse facce e fattori interdipendenti di natura normativa, etica, logica, politica, e si pone in molteplici interrelazioni con altri fenomeni sociali. Ciò implica che la dogmatica giuridica, resa più raffinata e consapevole delle proprie possibilità e dei propri limiti, continui ad avere senso come strumento di analisi dei fenomeni normativi del diritto (v. Zippelius, 1989², pp. 251 ss.); essa non può però proporsi, come accadeva nel positivismo tradizionale, come sinonimo esclusivo di 'scienza giuridica'. In questo modo la fase più recente della riflessione sull'oggetto e sulla funzione della scienza giuridica finisce col porsi in una singolare, e forse non casuale, convergenza rispetto alle più recenti tendenze dell'epistemologia generale, richiamate nel paragrafo precedente. Il modello integrato della scienza giuridica deve, per essere all'altezza della complessità dell'oggetto di cui si occupa, orientarsi verso una prospettiva di pluralismo metodologico: è quanto accade peraltro anche nell'epistemologia generale (v. Villa, 1984, pp. 24 ss.), dove pure le concezioni unilaterali della scienza hanno mostrato i loro limiti. Naturalmente una convergenza di questo genere è significativa, ma non consente di instaurare una nuova identità fra scienza giuridica e scienze naturali, e neppure di escludere radicalmente che qualche rapporto tra esse vi sia. Emerge piuttosto un'analogia di problemi e di tendenze, e forse una parziale analogia di metodi, mentre sembra permanere una rilevante diversità di oggetti tra scienza giuridica e scienze empiriche.

Scienza del diritto e sociologia del diritto

Entro la varietà di tendenze e di orientamenti che caratterizza lo stato attuale della scienza giuridica e della relativa riflessione metodologica, un aspetto molto importante va qui sottolineato. Si tratta dell'affermarsi della concezione del diritto come fenomeno sociale, che costituisce uno dei fattori più rilevanti della cultura giuridica del Novecento (v. Mengoni, 1990⁴, p. 447; v. Wroblewski, 1989, pp. 30 ss.). La definizione di questo fenomeno non è unitaria e costante, e ricomprende anzi cose molto diverse, che vanno dal comportamento empirico degli operatori giuridici alla funzione del diritto nella società e alla concezione del diritto come fenomeno culturale (Wroblewski). L'idea che il diritto sia (anche) un fenomeno sociale arricchisce comunque in modo sostanziale le prospettive della scienza giuridica. Risultano infatti riduttive e unilaterali, e dunque in buona misura inattendibili, le concezioni formalistiche del diritto e della scienza giuridica (v. Jori e Pintore, 1988, pp. 97 ss.), ossia le concezioni che negano o trascurano la dimensione sociale del diritto. Altrettanto unilaterali e inattendibili appaiono, per le stesse ragioni, quelle concezioni del diritto e della scienza giuridica che negano o trascurano i problemi di legal policy, ossia la dimensione delle scelte politiche e valutative inerenti ai fenomeni giuridici e all'attività degli operatori del diritto (v. Wroblewski, 1989, pp. 34 ss., 55 ss.).

Ne deriva un'importante integrazione sul piano del metodo delle scienze giuridiche. Anche se non è condivisibile l'estremismo metodologico di chi sostiene la riduzione della scienza giuridica alla sociologia giuridica, sulla base della riduzione del diritto ai fatti empirici (v. Wroblewski, 1989, pp. 104 ss.; v. Jori e Pintore, 1988, p. 123; v. Jori, 1985, pp. 215 ss.), comunque la concezione del diritto come fenomeno sociale apre spazi molto rilevanti all'analisi dei fenomeni giuridici con i metodi delle scienze sociali, ossia alla sociologia del diritto (v. Jori e Pintore, 1988, pp. 120 ss.; v. Mengoni, 1990⁴, p. 447). Essa si afferma infatti come ramo importante della sociologia, da cui deriva metodi e problemi, ma soprattutto si configura come una dimensione essenziale della scienza giuridica globalmente intesa (v. Wroblewski, 1989, p. 107).

Funzione descrittiva e prescrittiva della giurisprudenza

Il dibattito epistemologico sulla giurisprudenza come scienza ha fatto emergere problemi molto importanti al fine di intendere la funzione della giurisprudenza e dei discorsi che su di essa si fanno. Da una parte, infatti, si pone la questione se la giurisprudenza, come attività che ha ad oggetto il diritto, abbia natura descrittiva (si limiti cioè ad analizzare e a descrivere 'oggettivamente' il diritto) o prescrittiva (implichi cioè necessariamente l'indicazione di un 'dover essere', ossia la formulazione o la creazione di norme) (v. Jori, 1985, pp. 203 ss.). Chi ritiene che la giurisprudenza abbia natura e funzione descrittiva è più incline ad ammettere che essa possa presentare i caratteri di una scienza in senso proprio (v. § 2a); comunque, accade di rado che si neghi alla giurisprudenza come scienza qualunque funzione descrittiva (v. Jori, 1985, p. 207). Ciò non significa tuttavia che alla giurisprudenza si assegni una funzione soltanto descrittiva, poiché in molti casi i discorsi dei giuristi intorno al diritto non sono affatto descrittivi, mentre sono in vario modo prescrittivi, in quanto formulano norme o valutazioni (v. Lombardi Vallauri, 1989, pp. 2 ss.; v. Jori, 1985, pp. 15 ss., 211 ss.). I discorsi dei giuristi sono anzi tipicamente misti, in quanto contengono e mescolano insieme elementi descrittivi e prescrittivi (v. Tarello, 1974, pp. 372 ss.), ma sono anche ambigui e ingannevoli, poiché tendono a dissimulare la loro dimensione prescrittiva e valutativa (ossia ideologica) sotto una forma fittiziamente descrittiva (v. Tarello, 1974, pp. 367 ss., 475 ss.; v. Jori, 1985, pp. 89 ss.). Sotto questo profilo occorre naturalmente distinguere tra i diversi possibili discorsi dei giuristi, in quanto problemi profondamente diversi, e prassi non riconducibili a unità, si manifestano a seconda che si considerino i discorsi del giurista teorico, la cui funzione è tipicamente quella di conoscere, analizzare e spiegare il diritto, o i discorsi del giurista pratico il quale, come ad esempio il giudice, deve anche applicare il diritto a casi concreti. La funzione specifica di questo o quel giurista non definisce d'altronde in modo univoco e differenziato un tipo di approccio al diritto, poiché ogni giurista svolge in realtà discorsi di diversa natura intorno al diritto.

Dall'altra parte, su questa già complessa area di problemi si innesta un'ulteriore questione che investe la teoria della giurisprudenza, ossia la 'metagiurisprudenza'. Si discute cioè sulla natura dei discorsi che vertono sulla giurisprudenza, ossia dei discorsi che hanno a oggetto la scienza giuridica, e i discorsi e le attività dei giuristi. Si distingue così una metagiurisprudenza descrittiva, che mira appunto a descrivere ciò che i giuristi fanno, e in particolare ciò che fa la scienza giuridica intorno al diritto, e una metagiurisprudenza prescrittiva, che mira a indicare ciò che è bene e ciò che è male nell'attività dei giuristi, e ciò che è opportuno o inopportuno nella giurisprudenza come scienza del diritto (v. Jori, 1985, pp. 83 ss., 225 ss.; v. Jori e Pintore, 1988, pp. 107 ss.). Naturalmente, anche la metagiurisprudenza rientra nella scienza giuridica in senso lato, benché il suo oggetto non sia propriamente il diritto, ma l'attività e i discorsi di coloro che si occupano del diritto. Ne deriva che i fattori descrittivi e prescrittivi nei discorsi dei giuristi e di coloro (di solito, a loro volta, giuristi) che si occupano di questi discorsi, si intrecciano in molti modi e su diversi piani, dando luogo a una irriducibile complessità e multipolarità dei discorsi della giurisprudenza e sulla giurisprudenza (v. Lombardi Vallauri, 1989, pp. 3 ss., 6 ss.). Queste difficoltà non impediscono peraltro di riconoscere che la distinzione tra dimensione descrittiva e dimensione prescrittiva dei discorsi della scienza giuridica e sulla scienza giuridica è una chiave di lettura analitica indispensabile nello studio dei problemi di epistemologia della giurisprudenza.

Giurisprudenza e interpretazione

In misura largamente prevalente l'attività del giurista consiste nell'interpretare norme giuridiche, ossia nel determinare il significato di enunciati normativi, e quindi nell'individuare il contenuto prescrittivo del diritto (v. Jori e Pintore, 1988, p. 169; v. Tarello, 1980, pp. 1 ss., 101 ss.). Se dunque, come si è fatto finora, si intende in senso lato la giurisprudenza come l'attività tipica del giurista, bisogna constatare che essa è sostanzialmente costituita dall'interpretazione della legge. Con questo, tuttavia, si è ben lontani dall'aver esaurito o semplificato il problema di intendere la natura e la funzione della giurisprudenza; al contrario, il riferimento all'interpretazione apre una serie di questioni, da sempre dibattute nella dottrina giuridica di tutti gli ordinamenti, che riguardano appunto i caratteri e i metodi dell'interpretazione giuridica (per panorami riassuntivi v. Tarello, 1980, pp. 39 ss., 341 ss.; v. Zaccaria, 1990, pp. 71 ss., 151 ss., 175 ss.; v. MacCormick e Summers, 1991). Fortunatamente, non tutte queste questioni hanno diretta attinenza con la definizione delle attività di cui consiste la giurisprudenza, sicché il discorso può essere qui sintetico e limitato ad alcuni profili.

Occorre anzitutto sottolineare che con la locuzione 'interpretazione della legge' si designa solitamente non una sola attività - sia pure articolata e complessa - ma più cose alquanto diverse tra loro. Per un verso, va considerato che l'interpretazione della legge non comprende solo la determinazione del significato di una o più norme giuridiche, ma anche attività in un certo senso preliminari come l'individuazione della norma, il controllo della sua validità e vigenza, e la determinazione della sua rilevanza per il discorso del giurista. Queste operazioni sono complesse (v. Tarello, 1980, pp. 24 ss., 313; v. Jori e Pintore, 1988, p. 171) e possono coinvolgere notevoli difficoltà, come ad esempio quando si tratti di stabilire l'esistenza di una consuetudine o di un precedente (v. § 4b). Esse diventano particolarmente importanti, e sono strettamente correlate all'attività interpretativa, quando sono finalizzate a stabilire quale norma sia applicabile per la risoluzione di una specifica controversia (v. § 3a).

Per altro verso, occorre considerare che sotto alcuni profili l'interpretazione del diritto è connessa ad altri tipi di interpretazione, estranei all'esperienza giuridica (v. Tarello, 1980, pp. 1 ss.; v. Zaccaria, 1990, pp. 121 ss.), e che di interpretazione si parla a proposito di più soggetti, sicché si è delineata la distinzione tra operatori 'tipici' e 'atipici' dell'interpretazione (v. Tarello, 1980, pp. 49 ss., 58 ss.). Infine, bisogna tener conto del fatto che con 'interpretazione' si designa talvolta l'attività dell'interpretare, mentre altre volte si indica il prodotto di questa attività, ossia discorsi o documenti che attribuiscono significati a regole giuridiche (v. Tarello, 1980, pp. 39 ss., e 1974, pp. 403 ss.).

Interpretazione e applicazione della legge

Nell'area dei problemi evocati dal riferimento all'interpretazione, alcuni elementi sono particolarmente significativi al fine di comprendere la natura e il significato della giurisprudenza. In particolare, è rilevante la distinzione tra i diversi soggetti che compiono attività di interpretazione del diritto. Può darsi che l'interpretazione di una norma sia compiuta dallo stesso legislatore, nel qual caso si parla di interpretazione autentica (v. Tarello, 1980, p. 51), ma questa ipotesi non riguarda la giurisprudenza. Importante è invece la distinzione tra il caso in cui l'interpretazione è effettuata da giuristi teorici al solo scopo di stabilire sul piano scientifico il significato o i possibili significati di una o più norme, per il quale si parla di interpretazione dottrinale (v. Tarello, 1980, pp. 54 ss.; v. Jori e Pintore, 1988, p. 170), e il caso in cui l'interpretazione di una norma sia compiuta da giudici in sede di decisione di una controversia, per il quale si parla di interpretazione giudiziaria o giurisprudenziale (v. Tarello, 1980, pp. 53 s.; v. Jori e Pintore, 1988, p. 170; v. Bulygin, 1992, pp. 21 ss.; v. Diciotti, 1992, pp. 126 ss.). Entrambi questi significati di 'interpretazione' hanno rilievo in questa sede, poiché il primo si riconnette alla concezione della giurisprudenza come attività scientifica, mentre il secondo si riconnette alla concezione della giurisprudenza come attività svolta dagli organi di amministrazione della giustizia, e anche come prodotto di questa attività.

La distinzione tra interpretazione dottrinale e giudiziaria non ha però un rilievo meramente classificatorio; essa è rilevante anche perché rinvia alla distinzione tra mera interpretazione (tipica del giurista teorico) e interpretazione-applicazione (tipica del giudice). In senso stretto, come si è già accennato, interpretare una norma significa individuare il significato o i significati che questa norma può avere, e in questo senso l'interpretazione costituisce l'attività caratteristica della scienza giuridica. Anche i giudici interpretano norme, nel senso che anch'essi attribuiscono significati a regole giuridiche, ma la loro attività tipica non si limita a questo. Il giudice non interpreta le norme a fini conoscitivi, ma al fine di applicarle, ossia di usarle come criteri per decidere controversie specifiche. L'interpretazione della norma viene dunque a far parte di un ragionamento più complesso, caratterizzato dalla necessità di scegliere uno tra più significati possibili della stessa norma, di individuare la norma più adeguata a fungere da criterio di decisione del caso concreto, di rapportare l'interpretazione della norma ai fatti del singolo caso, e di derivare dalla norma le conseguenze giuridiche che costituiscono la vera e propria decisione finale della controversia (v. Tarello, 1980, pp. 42 ss., e 1974, pp. 406 ss.; v. Bulygin, 1992, pp. 21 ss.; v. Diciotti, 1992, pp. 134 ss.).

Il momento dell'applicazione della legge da parte dei tribunali, di cui l'interpretazione della norma applicabile rappresenta la premessa, ha evidentemente grande importanza, non solo perché determina una radicale distinzione tra l'attività del giudice e quella del giurista teorico, ma perché rappresenta il carattere distintivo della giurisprudenza intesa come decisione di controversie, e anche come prodotto dell'attività degli organi che amministrano la giustizia. Un aspetto molto rilevante della giurisprudenza così intesa deriva infatti dal suo essere strettamente ed essenzialmente legata alla risoluzione di controversie specifiche, e quindi all'applicazione della legge a casi concreti, oltre che alla pura e semplice interpretazione di norme.

Creatività dell'interpretazione

Il collegamento tra giurisprudenza e interpretazione della legge consente di individuare un problema di importanza centrale per la teoria dell'interpretazione, e quindi anche per la funzione della giurisprudenza. Esso concerne il rapporto in cui l'attività interpretativa si pone con il proprio oggetto (le norme, il diritto), e verte sostanzialmente sull'alternativa se l'interpretazione consista semplicemente ed esclusivamente nella ricognizione e nell'enunciazione del significato proprio della norma, ovvero implichi scelte di varia natura - ma principalmente valutative - in funzione delle quali l'interpretazione della norma implica in realtà la creazione del suo significato da parte dell'interprete (v. Jori e Pintore, 1988, pp. 171 s.). In modo conseguente e corrispondente, si può distinguere tra una concezione della giurisprudenza per cui essa è soltanto attività conoscitiva e dichiarativa del diritto già esistente (e comunque preesistente all'interpretazione e alla decisione), e la concezione per cui la giurisprudenza è essenzialmente attività creatrice di diritto, in quanto determina il significato della norma nel momento in cui questa viene interpretata e applicata, senza essere vincolata a predeterminazioni di alcun genere.

La prima concezione, legata alla teoria dell'interpretazione caratteristica del cosiddetto formalismo interpretativo (v. Jori e Pintore, 1988, pp. 100, 172; v. Tarello, 1974, pp. 37 ss.), è tipica della teoria più tradizionale, fondata su un'idea rigida e statica del principio di divisione dei poteri e sull'ideologia del liberalismo classico (v. Zippelius, 1989², p. 251), e si fonda sul presupposto che interpretare norme significhi soltanto scoprire, per mezzo di strumenti logici e dogmatici, il significato proprio della norma giuridica. Di conseguenza, l'attività del giurista viene a configurarsi come esclusivamente conoscitiva di significati normativi oggettivamente dati e preesistenti (v. § 2d), e l'attività del giudice si configura esclusivamente come scoperta e dichiarazione del significato proprio della norma che viene applicata per decidere la controversia (v. Fazzalari, 1984, pp. 11 ss., 45 ss.). In nessun modo, dunque, interpretazione giuridica e giurisprudenza (dottrinale e - a maggior ragione - giudiziaria) potrebbero essere intese come attività creative di diritto in quanto attributive di nuovi significati alle norme giuridiche, o costitutive di significato della norma attraverso scelte valutative. Questa concezione è assai diffusa nella cultura giuridica di vari ordinamenti, e si fonda su una lunga tradizione storica che risale alle dottrine giuridiche dell'illuminismo, ma è insostenibile per una serie di ragioni che qui possono essere soltanto accennate. Per un verso, la cultura giuridica europea ha da tempo individuato, con varietà di ragioni e in vari momenti della sua evoluzione, il diritto giurisprudenziale come creazione della dottrina, e specialmente della giurisprudenza dei tribunali (v. Lombardi Vallauri, 1967 e 1989, pp. 2, 4; v. Mengoni, 1990⁴, p. 448; v. Cappelletti, 1984, pp. 3 ss.). La negazione della creatività della giurisprudenza sembra dunque non tener conto di uno degli aspetti fondamentali dell'esperienza giuridica moderna (v. Zippelius, 1989², pp. 250 s.).

Per altro verso, la teoria dell'interpretazione si fonda generalmente e con poche eccezioni, benché con varia intensità e diverse manifestazioni, su uno scetticismo interpretativo (v. Jori e Pintore, 1988, p. 171) che è l'esatto opposto del tradizionale formalismo positivistico, e che mostra come l'interpretazione della norma sia essenzialmente il frutto di scelte di varia natura (semantiche, linguistiche, metodologiche, ideologiche), e quindi come il risultato dell'interpretazione non sia mai dato a priori, e sia invece sempre dipendente dall'attività interpretativa. In sostanza, è l'interprete che con le proprie scelte determina, e quindi crea, il significato che attribuisce alla norma (v. Bigiavi, 1989, p. 51; v. Bulygin, 1992, pp. 12 ss., 26 ss.; v. Lombardi Vallauri, 1989, pp. 2 ss.; v. Tarello, 1980, pp. 61 ss., e 1974, pp. 329 ss., 389 ss., 411 ss., 475 ss.; v. Zippelius, 1989², pp. 247 ss.). Questo orientamento di teoria dell'interpretazione può essere assunto in modo più o meno radicale, sicché la dimensione creativa dell'interpretazione della legge può essere intesa come esclusiva e onnicomprensiva (v. ad esempio Lombardi Vallauri, 1989, pp. 3 ss.), o come un aspetto importante e sempre presente, ma non tale da escludere che la norma possa avere un 'nucleo certo' di significato (v. Jori e Pintore, 1988, p. 172). Rimane tuttavia indubbio che l'attività interpretativa consiste sempre (anche o soltanto) di scelte attraverso le quali l'interprete determina (in tutto o in parte) il significato della norma sottoposta a interpretazione.

Se si tiene adeguato conto di tutto questo, conseguenze rilevanti debbono essere tratte in ordine alla natura e alla funzione della giurisprudenza. Quanto alla giurisprudenza dottrinale, appare incontestabile che l'attività del giurista-interprete è inevitabilmente intessuta di scelte culturali, metodologiche e ideologiche, tali per cui l'aspetto conoscitivo e assertivo della scienza giuridica non è separabile dall'aspetto creativo e precettivo di essa (v. Tarello, 1974, pp. 367 ss., 425 ss., 488 ss.). Quanto alla giurisprudenza dei tribunali, appare non meno evidente che l'attività del giudice - di interpretazione-applicazione della legge - è a sua volta irriducibilmente fondata su scelte di varia natura, non diverse nella sostanza da quelle del giurista teorico ma più ricche e articolate, e più legate ai fatti, ai valori e agli interessi coinvolti nella controversia che deve essere decisa. Non a caso si parla di diritto vivente per indicare appunto la giurisprudenza delle corti (v. Mengoni, 1990⁴, pp. 447, 449). Molteplici ragioni legate all'evoluzione della cultura giuridica, ma soprattutto ai grandi mutamenti sociali e politici intervenuti nel nostro secolo, hanno provocato la crisi irreversibile dei tradizionali modelli di giudice e di amministrazione della giustizia (v. Tarello, 1974, pp. 475 ss.). All'immagine del giudice bouche de la loi, cara a Montesquieu e al formalismo positivista, si è ormai da tempo sostituito un modello di giudice come problem-solver, come operatore sociale e politico e garante dei diritti dei cittadini, che svolge la sua opera creando diritto e compiendo le scelte necessarie a una reale ed effettiva amministrazione della giustizia (v. Cappelletti, 1984; v. Mengoni, 1990⁴, pp. 445 ss.). Si tratta di una grande trasformazione che tocca tutti i sistemi ed è coessenziale alla formazione e allo sviluppo della società moderna (v. Cappelletti, 1984, pp. 19 ss., 99 ss.). Essa produce numerosi problemi, essenzialmente in termini di legittimazione democratica dei giudici che creano diritto (v. Cappelletti, 1984, pp. 82 ss.) e di controllo sul loro operato, ma ciò non toglie che la funzione creativa svolta dalla giurisprudenza delle corti sia un dato ineliminabile dell'esperienza giuridica e un fattore decisivo di evoluzione del diritto.

La giurisprudenza dei tribunali

Come si è visto in precedenza, un importantissimo significato di 'giurisprudenza', e probabilmente il più diffuso nell'uso linguistico attuale, si riferisce al prodotto dell'attività degli organi giurisdizionali, ossia alle decisioni che essi pronunciano decidendo le controversie che vengono loro sottoposte (v. Colesanti, 1961, p. 1102; v. Gorla, 1981, pp. 303, 511, 1970, pp. 490 ss., e 1968, col. 619). In realtà, però, questo significato di 'giurisprudenza' non è così unitario e generico, e richiama invece una serie di problemi di cui occorre dare sinteticamente conto. In una accezione debole, infatti, 'giurisprudenza' si riferisce in generale alle decisioni prodotte dagli organi giudiziari. In una accezione forte, come quella che si ritrova nell'espressione 'fare giurisprudenza', non si fa riferimento in modo meramente descrittivo al prodotto dell'attività dei tribunali, e si allude invece a un diverso fenomeno che si riconnette alle decisioni degli organi giurisdizionali. Esso consiste nella particolare efficacia che queste decisioni possono avere, e che va oltre la loro funzione tipica consistente nel decidere la singola controversia: si tratta della capacità di influenzare la risoluzione di controversie successive, identiche o analoghe a quella già decisa, da parte del medesimo e di altri organi giudiziari, o anche da parte di altri operatori giuridici che a vario titolo affrontano lo stesso problema (v. Gorla, 1990, p. 3). Che una decisione, o un insieme di decisioni, faccia giurisprudenza significa infatti - nel linguaggio comune oltre che in quello giuridico - che essa si proietta in qualche modo anche su decisioni successive, rappresentando per esse un esempio, un modello o un criterio vincolante a seconda dei casi. Quando si formano criteri giurisprudenziali di interpretazione della legge che appaiono dotati di una certa stabilità e influenza, si parla di diritto vivente (v. Mengoni, 1990⁴, p. 448). Da questo punto di vista, il problema più interessante non è di stabilire che cosa sia la giurisprudenza dei tribunali, ma che efficacia abbia la giurisprudenza dei tribunali.

Al riguardo, e come premessa rispetto a quanto si dirà più avanti su questo problema, occorre peraltro fare una precisazione. Con il termine giurisprudenza ci si riferisce di solito a un insieme di decisioni giudiziarie; quando il termine si carica del significato relativo all'efficacia della giurisprudenza, il riferimento è solitamente al fatto che più decisioni uniformi rispetto allo stesso problema esercitano un'influenza rilevante su decisioni successive. Si parla così di giurisprudenza 'consolidata', o 'conforme', per indicare l'esistenza di un orientamento per cui una questione è stata risolta nello stesso modo in un consistente numero di casi (v. Bin, Funzione..., 1988, p. 552, Precedente..., 1988, pp. 1004 ss., e 1989, p. 15; v. De Nova, 1986, p. 783; v. Gorla, 1981, pp. 54 s.; v. Picardi, 1985, p. 206). Si ritiene solitamente che questa giurisprudenza sia particolarmente significativa e tenda ad autoperpetuarsi influenzando nel senso dell'uniformità le decisioni successive (v. §§ 4b e 4f). Peraltro, al di là del fatto che non esiste alcun criterio fisso per stabilire quando una serie di decisioni costituisce una giurisprudenza (v. Gorla, 1981, p. 514), occorre considerare che anche una sola decisione può 'fare giurisprudenza'. Ciò accade specialmente quando viene decisa una questione giuridica nuova, o una questione viene decisa per la prima volta da un organo giudiziario particolarmente autorevole e influente (come ad esempio le Sezioni unite della Corte di cassazione: v. Mengoni, 1990⁴, p. 449; v. Bin, 1989, p. 16), o viene decisa, magari da un organo influente, in modo originale e con argomentazioni particolarmente pregevoli. Si ha allora un leading case, o una 'sentenza pilota', sul cui esempio può formarsi una giurisprudenza consolidata e uniforme (v. Monateri, 1988, p. 202), anche se non è detto che ciò accada davvero. Non è dunque priva di interesse, e manifesta anzi vicende complesse e variabili, la dinamica dei rapporti tra singola decisione e insieme uniforme di decisioni. Per un verso, emerge il problema dell'eventuale contrasto tra la singola decisione e la giurisprudenza uniforme, anche dal punto di vista della coerenza e della variazione di quest'ultima (v. § 4f). Per altro verso, una giurisprudenza consolidata è solitamente più efficace, nell'influenzare decisioni successive, di una singola decisione, salvo che questa rappresenti un leading case particolarmente importante. È però evidente che l'efficacia specifica della singola decisione diminuisce quando essa fa parte di un numeroso insieme di decisioni uniformi (v. Bin, Precedente..., 1988, p. 1004; v. Taruffo, 1988, pp. 83, 94). Problema diverso, anche se connesso, è quello che riguarda l'efficacia del precedente (su cui v. §§ 4a ss.). Esso si pone tipicamente, infatti, a proposito della singola decisione, poiché ciò che interessa sotto questo profilo è stabilire quando, a quali condizioni, entro quali limiti e con quale efficacia la singola decisione possa influenzare o condizionare la decisione di un caso successivo identico o analogo.

Giurisprudenza e precedente giudiziario

In senso molto generale, il fenomeno del precedente giudiziario è comune a tutti gli ordinamenti. La auctoritas rerum similiter judicatarum si forma spontaneamente nella continuità della prassi giudiziaria, e rinviene una legittimazione politico-giuridica nel bisogno di certezza del diritto e nell'esigenza che situazioni uguali vengano decise in modo uguale (v. Bigiavi, 1989, pp. 74, 114 ss.; v. Colesanti, 1961, p. 1102; v. Criscuoli, 1981, pp. 375 ss.; v. Galgano, Giurisdizione..., 1985, pp. 37 ss., 41 ss.; v. Gorla, 1981, pp. 512, 516 ss.; v. Kriele, 1988, pp. 62 ss.; v. Mattei, 1988, pp. 3, 73 ss.; v. Thompson, 1971, p. 148). Tuttavia, essa conosce manifestazioni assai diverse nei diversi ordinamenti, sicché si distingue comunemente tra i sistemi di common law, ove il cosiddetto principio dello stare decisis attribuisce al precedente giudiziario un'efficacia giuridicamente vincolante, e i sistemi di civil law, ove il precedente giudiziario esiste ma ha un'efficacia semplicemente "persuasiva", "morale", o "di mero fatto" (v. Bin, Funzione..., 1988, pp. 550 ss.; v. Basedow, 1988; v. De Franchis, 1986, pp. 95 ss.; v. Galgano, Giurisdizione..., 1985, pp. 40 ss.; v. Inzitari, 1988, pp. 527 ss.; v. Kauper, 1971, pp. 216 ss.; v. Sbisà, 1988, pp. 519 ss.; v. Wroblewski, 1988, pp. 25 ss.). Peraltro, questa distinzione può avere un valore soltanto orientativo, ed è fuorviante se viene intesa in modo troppo rigoroso, perché - come si vedrà - rischia di non corrispondere alla realtà della prassi giudiziaria nei sistemi dei due tipi.

Efficacia del precedente

L'ordinamento cui di solito si fa riferimento come modello di sistema a precedente vincolante è quello inglese. È in Inghilterra infatti che la regola dello stare decisis si cristallizza lentamente e diventa vincolante nel corso dei secoli XVII, XVIII e XIX (v. Criscuoli, 1981, pp. 339 ss.; v. Mandelli, 1979, coll. 661 ss.; v. Mattei, 1988, pp. 12 ss., 17 ss.; v. Ziccardi, 1985, pp. 293 ss.), e si configura, in relazione alla gerarchia delle corti, un sistema di criteri per cui il vincolo del precedente scende dall'alto verso il basso (nel senso che le decisioni del giudice superiore vincolano il giudice inferiore), e opera solo in parte orizzontalmente (nel senso che ogni giudice è vincolato ai propri precedenti, ma non a quelli degli altri giudici di pari grado) (v. Criscuoli, 1981, pp. 345 ss.; v. Cross, 1979³, pp. 103 ss., 123 ss.; v. De Franchis, 1984, p. 1166; v. Kauper, 1971, p. 218; v. Mandelli, 1979, coll. 676 ss., 688 ss.; v. Thompson, 1971, pp. 150 ss.; v. Twining e Miers, 1976, tr. it, pp. 349 ss.; v. Ziccardi, 1985, pp. 301 ss.). Il riferimento superficiale al modello inglese può però indurre a una visione deformata del fenomeno, e a un'indebita sopravalutazione della forza vincolante del precedente nei sistemi di common law.

Da un lato bisogna infatti constatare che questa forza è ormai limitata nello stesso ordinamento inglese. La dichiarazione del 1966 con cui la Camera dei lord annunciava che da quel momento non si sarebbe più ritenuta vincolata ai propri precedenti non produsse infatti sconvolgenti effetti pratici (v. Mandelli, 1979, coll. 683 s.), ma rappresentò ugualmente una consistente riduzione dei principî tradizionali dello stare decisis (v. Criscuoli, 1981, p. 347; v. Cross, 1979³, pp. 109 ss.; v. De Franchis, 1984, p. 1168; v. Kauper, 1971, p. 219; v. Mattei, 1988, pp. 312 ss.; v. Thompson, 1971, pp. 155 ss.; v. Twining, 1988, p. 50; v. Twining e Miers, 1976, tr. it., pp. 350 ss.). D'altronde, una disincantata analisi della realtà del sistema inglese del precedente porta facilmente a constatare che i giudici inglesi sono vincolati dai precedenti solo nei casi in cui essi stessi decidono che è opportuno affermare la sussistenza di questo vincolo, mentre utilizzano a loro discrezione diversi strumenti e raffinate tecniche argomentative per esimersi dall'osservanza dei precedenti quando lo ritengono opportuno (v. Twining, 1988, pp. 39 ss.; v. Twining e Miers, 1976, tr. it., pp. 356 ss.; v. inoltre § 4e). È chiaro allora che appare improprio parlare di una vera e propria forza vincolante del precedente inglese, e d'altronde anche in Inghilterra si parla di precedente persuasive (v. Criscuoli, 1981, pp. 373 ss.; v. Ziccardi, 1985, pp. 308 ss.). Piuttosto, pare che ad essa i giudici inglesi si richiamino per avere un buon argomento di giustificazione delle loro decisioni, quando decidono di non discostarsi dai criteri già impiegati nei casi decisi in precedenza.

Dall'altro lato, occorre constatare che negli Stati Uniti la regola dello stare decisis viene applicata in modo molto elastico. La struttura dell'ordinamento giudiziario è infatti assai più complessa (v. Cross, 1979³, pp. 17 s.; v. Dell'Aquila, 1985, pp. 328 ss.; v. Mandelli, 1979, coll. 667 ss.), ma soprattutto la ragione di questo fenomeno va ravvisata nella discrezionalità e nella libertà creativa che viene usualmente riconosciuta al giudice nordamericano. Ciò non significa che non esista il principio dello stare decisis: in realtà il giudice statunitense tiene conto dei precedenti, specialmente se si tratta di decisioni della Corte Suprema federale, ma le corti, di regola, non si ritengono vincolate dai propri precedenti (v. Cross, 1979³, p. 17; v. Dell'Aquila, 1985, pp. 330 ss.; v. Kauper, 1971, p. 220; v. Mandelli, 1979, coll. 667 s.), e comunque ogni giudice si riserva il potere di disapplicare il precedente tutte le volte che il seguirlo condurrebbe a decisioni ingiuste, irrazionali o non più coerenti con regole morali o criteri di politica del diritto (v. De Franchis, 1984, p. 1170; v. Dell'Aquila, 1985, pp. 335 ss., 344 ss.; v. Mandelli, 1979, coll. 668 ss.; v. Mattei, 1988, pp. 209 ss., 220 ss., 248 ss., 282 ss.). Il precedente è dunque sicuramente influente sulle decisioni dei giudici nordamericani, e costituisce anzi di regola la base della decisione e il fondamento della sua giustificazione (v. MacCormick e Summers, 1991, pp. 428 ss.). Il giudice americano non è però formalmente vincolato a decidere sulla base del precedente, e conserva comunque un'ampia libertà di individuazione creativa del criterio giuridico di decisione del singolo caso (v. Kauper, 1971, pp. 258 ss.). Quanto ai sistemi di civil law, l'elemento più importante è costituito dall'assenza di qualsivoglia vincolo giuridico dei giudici a seguire i precedenti, benché il fenomeno del precedente vincolante fosse presente nei tribunali supremi dei secoli XVI-XIX (v. Bin, 1989, pp. 6 ss.; v. Bigiavi, 1989, p. 75; v. Gorla, 1990, p. 4). È però constatazione comune nei vari sistemi (v. Basedow, 1988, pp. 540 ss.; v. MacCormick e Summers, 1991, pp. 465 ss.; v. Jayme, 1988, pp. 125 ss.; v. Larroumet, 1988, pp. 147 ss.; v. Wroblewski, 1988, pp. 25 ss.) che il ricorso al precedente costituisce uno strumento importantissimo di elaborazione dei criteri di decisione, e un argomento molto rilevante di giustificazione delle decisioni. Vero è dunque che l'efficacia del precedente in questi sistemi è soltanto persuasiva, ma si tratta di una 'persuasione' che opera spesso ed è assai intensa e penetrante. Queste considerazioni valgono certamente anche per l'ordinamento italiano, nel quale il ricorso ai precedenti era pressoché assente nella giurisprudenza del secolo scorso (v. Gorla, 1974, p. 245), ma diventa un fenomeno imponente nel nostro secolo. Esso riguarda in particolare l'uso euristico e giustificativo che viene fatto quotidianamente della giurisprudenza della Corte di cassazione, che infatti ha costituito oggetto di indagini anche recenti (v. Bin, Funzione..., 1988, pp. 545 ss.; v. De Nova, 1986, pp. 779 ss., e 1988, pp. 516 ss.; v. Galgano, L'interpretazione..., 1985, pp. 701 ss.; v. Inzitari, 1988, pp. 526 ss.), ma investe anche l'efficacia delle decisioni di altri organi, tra cui soprattutto la Corte costituzionale (v. Pizzorusso, 1971, pp. 31 ss.; v.Treves, 1971, pp. 3 ss.; cfr. i saggi di Zanetti, Vitali, Consolandi, Moretti e Carnevali raccolti in AA.VV., 1985).

Da un lato vi è dunque l'esperienza dei sistemi di common law, nei quali si afferma la natura vincolante del precedente, anche se in realtà esso condiziona in modo assai elastico le scelte del giudice successivo che dovrebbe applicare lo stare decisis; dall'altro lato vi è l'esperienza dei sistemi di civil law, nei quali si nega la forza giuridica del precedente, che però ha molto spesso un'efficacia rilevante nel condizionare le decisioni dei giudici successivi. Sarebbe probabilmente affrettato dire che sono quindi venute meno le differenze tra i due tipi di sistema, poiché il vincolo giuridico che si ricollega al precedente angloamericano non è del tutto venuto meno, mentre nessun effetto vincolante è propriamente attribuibile al precedente di civil law. Rimangono inoltre non trascurabili variazioni nei modi in cui i giudici dei due sistemi elaborano le loro decisioni e si servono del riferimento ai precedenti (v. Galgano, Giurisdizione..., 1985, pp. 44 ss.; v. Kriele, 1988, pp. 62 ss.; v. Pizzorusso, 1977, p. 527; v. Sbisà, 1988, pp. 522 ss.). Vero è peraltro che se si guarda alla prassi giudiziaria queste differenze appaiono fortemente sfumate (v. Bin, Funzione..., 1988, p. 551, Precedente..., 1988, p. 1003, e 1989, p. 14; v. Kriele, 1988, p. 65; v. Picardi, 1985, p. 203; v. Pizzorusso, 1977, p. 534), e comunque non tali da fondare con chiarezza una radicale distinzione tra ordinamenti di civil law e di common law.

La giurisprudenza come fonte del diritto

La diffusione del ricorso al precedente nella nostra giurisprudenza, e la constatazione dell'efficacia che ad esso viene di fatto riconosciuta, ha indotto a porre in discussione il tradizionale principio per cui la giurisprudenza - intesa appunto come precedente o insieme di precedenti - non rientra nel novero delle fonti di diritto. Il principio ha origini storiche lontane che spiegano l'assenza di ogni riferimento alla giurisprudenza nell'elencazione delle fonti del diritto compiuta dagli artt. 1 ss. delle Disposizioni preliminari al Codice civile (v. Bigiavi, 1989, pp. 68 ss.; v. Monateri, 1988, p. 194; v. Piola Caselli, 1902, p. 845; v. Pizzorusso, 1977, pp. 528 ss.). Alla luce del fenomeno cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente, per cui è quotidiano il ricorso alla giurisprudenza come base per la formulazione di decisioni, tale principio appare però quanto mai lontano dalla realtà. È venuto così affermandosi un orientamento che, utilizzando il concetto di 'fonte-fatto' (su cui v. Pizzorusso, 1977, pp. 22 ss., 535 ss.), tende a considerare la giurisprudenza come fonte di diritto, anche in mancanza di un'esplicita previsione di legge.

Questo orientamento non si fonda soltanto sulla mera constatazione dell'esistenza di una prassi che fa larghissimo uso della giurisprudenza come se essa fosse una vera fonte di diritto. Alcuni argomenti vengono infatti solitamente usati per dimostrare, sia pure in via indiretta, che la giurisprudenza va propriamente configurata come fonte di diritto. Per un verso, dal fatto che la regola dello stare decisis serva ad attuare il principio di uguaglianza si deduce che essa deve avere cittadinanza in tutti gli ordinamenti che - come il nostro - si fondano su questo principio (v. Pizzorusso, 1977, p. 534). Per altro verso, e con specifico riferimento alla giurisprudenza della Corte di cassazione, si fa riferimento all'art. 65 della legge sull'ordinamento giudiziario, ove si assegna alla Cassazione, tra le varie sue funzioni, anche quella di assicurare l'uniforme interpretazione della legge. Si ritiene infatti che questa funzione non potrebbe essere svolta se non vi fosse nel sistema una regola implicita che riconosce efficacia ai precedenti costituiti dalla giurisprudenza della Corte. Questa norma sarebbe dunque una conferma dell'esistenza di un riconoscimento del valore giuridico, e non di mero fatto, della giurisprudenza (v. Bin, Funzione..., 1988, pp. 545 ss.; v. Bonsignori, 1987, pp. 409 ss., e 1988, pp. 510 ss.; v. Galgano, Giurisdizione..., 1985, p. 42; v. Inzitari, 1988, p. 528; v. Sbisà, 1988, p. 521). Va tuttavia osservato che in tal modo non si giunge a individuare un'attribuzione di efficacia giuridicamente vincolante ai precedenti della Cassazione, che continuano ad avere un'efficacia soltanto persuasiva; al più, si può derivare una sorta di riconoscimento giuridico implicito di questa efficacia, in quanto si ritenga che il legislatore dell'art. 65 abbia alluso a essa come strumento della funzione unificatrice che dovrebbe essere svolta dalla Corte di cassazione (su cui v. § 4f).

Vi sono dunque sufficienti ragioni per ritenere che la giurisprudenza vada oggi annoverata tra le fonti del diritto, in quanto il ricorso al precedente è ormai da tempo un metodo ordinario di individuazione dei criteri di decisione (v. Bigiavi, 1989, p. 60; v. Basedow, 1988, pp. 540 ss.; v. De Nova, 1986, p. 790; v. Galgano, 1988, p. 505; v. Gorla, 1974, coll. 241 ss.; v. Grassetti, 1985, pp. 1 ss., 5; in senso contrario v. però Colesanti, 1961, p. 1107; v. Mengoni, 1990⁴, p. 447). Da tali ragioni non può tuttavia derivarsi una trasformazione del nostro sistema nel senso del riconoscimento di un'efficacia vincolante del precedente giurisprudenziale. Esso rimane infatti non più che persuasivo, anche se può essere talvolta intensamente persuasivo. Non a caso si rileva che esso è una fonte suppletiva di diritto (v. Grassetti, 1985, p. 5), che non ha efficacia normativa autonoma in quanto può avere solo l'efficacia della norma che interpreta, e alla quale attribuisce un determinato significato (v. Pizzorusso, 1977, p. 536).

Ratio decidendi e obiter dictum

A proposito di efficacia del precedente, un problema molto importante riguarda la determinazione dell'oggetto di tale efficacia, ossia di che cosa, nella decisione che si assume come precedente, abbia forza vincolante o persuasiva nei confronti della decisione successiva. Non tutto ciò che viene detto in una sentenza ha infatti efficacia, o ha la stessa efficacia, come precedente: la capacità di vincolare o di influenzare le decisioni successive viene infatti riconosciuta soltanto alla regola di diritto che il giudice ha impiegato come criterio per decidere il caso, mentre non ha rilievo il rimanente contenuto della sentenza (v. Cross, 1979³, pp. 38 ss.; v. Mattei, 1988, pp. 201 ss.). Per risolvere questo problema è stata formulata la distinzione tra ratio decidendi e obiter dictum, essenzialmente ad opera della dottrina inglese e americana. La stessa distinzione viene tuttavia impiegata, in termini sostanzialmente analoghi, anche dalla dottrina degli ordinamenti di civil law, quando si tratta appunto di individuare ciò che costituisce precedente. La ratio decidendi è la regola giuridica impiegata come criterio di decisione del caso, e ha efficacia di precedente; l'obiter dictum è ogni altra affermazione contenuta nella sentenza, che non enunci il criterio giuridico di decisione del caso, e che per questa ragione non è idonea a vincolare le decisioni successive (v. Bin, Funzione..., 1988, pp. 552 ss., e Precedente..., 1988, pp. 1006 s.; v. Criscuoli, 1981, pp. 350 ss.; v. Cross, 1979³, pp. 40 ss.; v. De Franchis, 1986, pp. 102 ss.; v. De Nova, 1986, pp. 781 ss.; v. Galgano, L'interpretazione..., 1985, pp. 703 ss.; v. Gorla, 1981, pp. 320 ss., 331 ss.; v. Kauper, 1971, pp. 221 ss.; v. Mattei, 1988, pp. 204 ss.; v. Nanni, 1987, pp. 865 ss.; v. Twining e Miers, 1976, tr. it., pp. 368 ss.). Tuttavia questa distinzione, pur tradizionale e accettabile in termini generali, è ben lontana dal risolvere la questione dell'esatta individuazione di ciò che costituisce precedente.Bisogna anzitutto osservare che la nozione di ratio decidendi è quanto mai elastica e indeterminata, e che pare destinato al fallimento ogni tentativo di darne una definizione rigorosa. Al riguardo un'indicazione importante è che non costituisce ratio decidendi ogni enunciazione giuridica contenuta nella sentenza, e neppure affermazioni astratte di regole o principî giuridici. Ratio decidendi è invece il criterio giuridico usato effettivamente per la decisione del caso concreto, e per conseguenza esso può essere individuato solo tenendo conto dei fatti di quel caso e delle relative questioni, e stabilendo in base a questi fatti quale sia il reale fondamento giuridico della decisione (v. Criscuoli, 1981, pp. 352 ss.; v. Cross, 1979³, pp. 40 ss., 53 ss., 66 ss., 76 ss.; v. De Franchis, 1986, pp. 102 s., e 1984, pp. 1245 s.; v. Gorla, 1990, p. 11, e 1981, pp. 320 ss., 333). Questa regola di concretezza non esclude però che la determinazione della ratio decidendi sia spesso incerta e variabile. La dottrina angloamericana ha tentato invano di elaborare criteri precisi a tal fine (v. Cross, 1979³, pp. 53 ss.; v. Kauper, 1971, pp. 222 ss.; v. Mattei, 1988, pp. 200 ss.; v. Thompson, 1971, pp. 175 ss., 185 ss.; v. Twining e Miers, 1976, tr. it., pp. 368 ss.), ma non è stata raggiunta alcuna soluzione univoca. Una recente analisi ha anzi individuato non meno di quattro diverse versioni del concetto di ratio decidendi, e dall'irriducibile ambiguità e variabilità delle relative definizioni ha dedotto che tale concetto è ormai privo di valore nell'analisi del precedente (v. Twining, 1988, pp. 40 ss.). Ciò non toglie che, nell'ambito della sentenza che si assume come precedente, il giudice del caso successivo continui a cercare di individuare ciò che ha costituito l'effettivo criterio di decisione, a chiamarlo ratio decidendi, e ad attribuire a tale criterio l'efficacia del precedente. Non esistono peraltro concetti semplici e univoci che possano guidare questa operazione: tocca al giudice svolgere una delicata opera di interpretazione del precedente al fine di scoprire la ratio decidendi di quel caso (v. Gorla, 1990, p. 11). È allora evidente che la determinazione della ratio decidendi dipende largamente dall'atteggiamento del giudice che dovrebbe usare il precedente: essa può essere individuata in modo restrittivo o estensivo a seconda che tale giudice intenda o meno riferire il precedente al caso che deve decidere (v. De Franchis, 1986, pp. 98 ss., 102 ss.; v. Twining e Miers, 1976, tr. it., pp. 369 ss.).

Non è d'altronde univoca neppure la nozione di obiter dictum, sia perché su di essa si riflette l'ambiguità del concetto di ratio decidendi, sia perché l'espressione viene spesso riferita a cose assai diverse, accomunate solo dal fatto di non avere l'efficacia che si ricollega alla ratio decidendi. Sono obiter, infatti, tutte le enunciazioni che non servono a giustificare la decisione, perché non riguardano i fatti di quel caso o per qualsivoglia altra ragione (v. Criscuoli, 1981, pp. 354 ss.; v. Cross, 1979³, pp. 79 ss.; v. De Franchis, 1984, pp. 1067, 1169; v. Gorla, 1990, p. 12; v. Mattei, 1988, pp. 200 ss., 307 s.; v. Twining, 1988, pp. 44 ss.). L'obiter dictum non ha l'efficacia della ratio decidendi ma può tuttavia avere qualche efficacia, variabile da caso a caso. Si dice infatti che, mentre la ratio decidendi ha forza vincolante sulla decisione dei casi successivi, l'obiter dictum può avere un'efficacia persuasiva, poiché può influenzare la decisione successiva (v. Cross, 1979³, pp. 80 ss.; v. Mattei, 1988, p. 205). Questa efficacia persuasiva può avere diversa intensità a seconda dei casi, ma può anche essere assai intensa, sicché può diventare impossibile distinguere tra ratio decidendi e obiter dictum sotto il profilo della concreta influenza esercitata su decisioni successive (v. Cross, 1979³, pp. 81 ss.). Se ciò accade negli ordinamenti di common law, ove alla ratio decidendi si attribuisce almeno in linea di principio una forza vincolante, a maggior ragione la situazione appare complicata nei sistemi di civil law, ove l'efficacia del precedente è comunque non più che persuasiva. In questi ordinamenti la distinzione dovrebbe essere nel senso che la ratio decidendi ha forza persuasiva mentre l'obiter dictum non ha alcuna efficacia (v. Galgano, L'interpretazione..., 1985, p. 704; v. Gorla, 1981, pp. 320 ss.), poiché la ratio individua la ragione autonoma e sufficiente a sorreggere da sola la decisione, mentre l'obiter è un'argomentazione inserita nella sentenza ad abundantiam, e comunque non è idonea a giustificare la decisione (v. Nanni, 1987, pp. 868 ss., 872 ss., 876 ss.). La prassi giurisprudenziale diffusa sembra però andare in tutt'altra direzione, poiché riconosce spesso all'obiter dictum efficacia persuasiva non inferiore a quella della ratio decidendi (v. Galgano, L'interpretazione..., 1985, p. 704), o comunque ammette che esso abbia un'efficacia persuasiva apprezzabile, anche se non equiparabile a quella della ratio decidendi (v. Bin, Funzione..., 1988, p. 556; v. De Nova, 1986, p. 782; v. Galgano, L'interpretazione..., 1985, p. 705; v. Gorla, 1990, p. 129). D'altronde, si rileva che nella prassi giurisprudenziale gli obiter dicta hanno non di rado un'influenza considerevole sulle decisioni successive e sulla formazione della giurisprudenza consolidata (v. Caselli, 1987, pp. 675 ss.; v. Grippo, 1987, pp. 659 ss.; v. Nanni, 1987, pp. 877 ss.). Ne deriva che al di là delle distinzioni concettuali, per cui la ratio decidendi ha comunque un'efficacia superiore a quella dell'obiter dictum, nella pratica si possono verificare frequenti confusioni, perché può non esser chiaro che cosa abbia in realtà influenzato la giurisprudenza successiva.In Italia questo problema assume connotazioni del tutto peculiari a causa della presenza di un particolare modo d'uso della giurisprudenza: esso riguarda le cosiddette massime delle sentenze, specie di quelle della Corte di cassazione, che vengono formulate da un apposito ufficio (detto appunto 'del Massimario'), istituito presso la Corte (v. Gorla, 1981, pp. 433 ss.; v. De Nova, 1988, pp. 516 ss.). La massima, di cui i giuristi fanno uso quotidiano, è l'enunciazione in poche righe della regola di diritto affermata nella sentenza, individuata da colui che redige la massima (il giudice addetto al Massimario nel caso delle cosiddette massime ufficiali, o il redattore della rivista giuridica che pubblica la sentenza, se non viene utilizzata la massima ufficiale). Di regola si tratta di un'enunciazione generale e astratta, non correlata ai fatti del singolo caso deciso, né alla decisione concreta del singolo caso. Di conseguenza, non è dato sapere se la massima esprima la reale ratio decidendi del caso, o se in realtà essa non faccia altro che riprodurre un obiter dictum: questa valutazione richiederebbe infatti di rapportare l'astratta enunciazione di diritto ai fatti del caso concreto, ma ciò non è possibile nel caso delle massime. La loro eventuale corrispondenza alla effettiva ratio decidendi è affidata solo alla capacità di colui che le formula, ed è quindi assolutamente aleatoria; sono anzi frequenti i casi in cui le massime riproducono obiter dicta, perché il massimatore si è limitato a estrapolare dalla sentenza l'enunciazione di una regola giuridica, senza verificare se essa fosse davvero la base giuridica della decisione. Può così accadere che un obiter dictum diventi il punto di partenza per la formazione di una giurisprudenza consolidata.

Si tratta evidentemente di fenomeni degenerativi, contro i quali sono sorte da tempo vivaci polemiche (v. Sacco, 1988, pp. 53 ss.), rimaste però prive di effetto. In realtà le massime, e l'uso prevalente di impiegarle per quello che sono (ossia senza concreto riferimento al caso deciso, e al ruolo che in quella decisione ha avuto ciò che è contenuto nella massima), rappresentano fenomeni che si pongono in netto contrasto con l'uso corretto del precedente. Donde l'esigenza, che si va da più parti affermando, di razionalizzare l'impiego dei precedenti verificando l'attendibilità delle massime e soprattutto individuando, nella decisione che si assume come precedente, la regola di diritto che davvero ha costituito la base per la decisione sui fatti del caso concreto (v. Galgano, L'interpretazione..., 1985, pp. 705 ss., e 1988, pp. 504 ss.; v. Gorla, 1981, pp. 303 ss., 307 ss., 311, 320 ss., 327 ss., 331 ss.; v. Sbisà, 1988, pp. 519 ss., 523).

L'inefficacia del precedente

L'efficacia del precedente è subordinata a varie condizioni, dipendenti essenzialmente dall'uso che del precedente stesso fanno i giudici chiamati a decidere i casi successivi. Si parla invero di durata del precedente, nel senso che la sua efficacia è legata all'uso che ne fa la giurisprudenza successiva: ciò che viene dimenticato, nel senso che non se ne tiene più conto per formulare decisioni, cessa di costituire un precedente in senso proprio (v. Criscuoli, 1981, pp. 368 ss.; v. Galgano, Giurisdizione..., 1985, p. 41; v. Gorla, 1981, pp. 475 ss., 478).

Sotto diverso profilo, l'efficacia del precedente dipende dall'impiego delle numerose tecniche di cui il giudice successivo può servirsi al fine di non essere vincolato a seguire il precedente (v. Llewellyn, 1960, pp. 73 ss.; v. Twining e Miers, 1976, tr. it., pp. 356 ss.; v. Ziccardi, 1985, pp. 307 ss.). Una di queste tecniche, molto importante e frequentemente usata, consiste nel cosiddetto distinguishing. Esso si fonda sull'analisi dei fatti del caso già deciso, e di quelli del caso che si tratta di decidere, condotta dal secondo giudice allo scopo di mostrare che le due fattispecie sono diverse e che, per conseguenza, il criterio di decisione applicato nella prima non deve e non può essere applicato alla seconda (v. Criscuoli, 1981, pp. 362 ss.; v. Cross, 1979³, pp. 187 ss.; v. De Franchis, 1984, pp. 1168 s., e 1986, pp. 98, 102; v. Galgano, 1988, p. 507; v. Gorla, 1981, p. 323; v. Twining e Miers, 1976, tr. it., pp. 360 ss.). Evidentemente questa tecnica attribuisce al giudice un ampio potere discrezionale: due fattispecie non sono mai uguali in assoluto, e sempre la loro identità o analogia è il frutto di una valutazione comparativa che ritiene prevalenti i fattori di somiglianza su quelli di differenziazione. Il distinguishing opera in senso inverso, attribuendo la prevalenza agli elementi di differenziazione su quelli di somiglianza: è chiaro tuttavia che in queste valutazioni sono decisive le scelte del giudice del caso successivo, e il suo atteggiamento favorevole o contrario a 'farsi vincolare' dal precedente. Una tecnica per qualche aspetto simile, ma diversa in quanto si riferisce al criterio giuridico della decisione precedente invece che ai fatti, consiste nella manipolazione della ratio decidendi, che può consistere in una sua estensione, quando il caso successivo è diverso ma lo si vuole ricondurre sotto il precedente, o in una sua riduzione, quando l'obbiettivo è di escludere l'applicazione del precedente (v. Criscuoli, 1981, pp. 357 ss.; v. Cross, 1979³, pp. 76 ss.; v. Kauper, 1971, pp. 264 ss.; v. Twining e Miers, 1976, tr. it., pp. 370 ss.).

Quando non è possibile eludere o disconoscere l'autorità del precedente, ma appare evidente che la sua applicazione comporterebbe una decisione ingiusta, il giudice può ricorrere al cosiddetto overruling, ossia all'annullamento del precedente e alla formulazione di una nuova regola di diritto destinata a prendere il posto della regola anteriore (v. Bigiavi, 1989, pp. 121 ss.; v. De Franchis, 1984, p. 1087). L'overruling può essere effettuato da una corte rispetto a un proprio precedente o rispetto al precedente di una corte inferiore, e può essere espresso (quando la corte dichiara di non voler seguire il precedente), o tacito (quando esso non viene seguito e semplicemente si formula un nuovo criterio di decisione) (v. Criscuoli, 1981, pp. 370 ss.; v. Cross, 1979³, pp. 126 ss.; v. Kauper, 1971, pp. 267 ss.; v. Mattei, 1988, pp. 209 ss., 287 ss.). L'esclusione dell'autovincolo, che sta alla base del potere di overruling, riguarda la Camera dei lord inglese in virtù del Practice statement del 1966, ma anche la Court of appeal si orienta analogamente in alcuni casi (v. Mandelli, 1979, coll. 678 ss.); le corti americane, e specialmente la Corte Suprema e le Courts of appeal, non si sono mai ritenute vincolate ai propri precedenti, e hanno quindi sempre avuto un ampio potere di overruling (v. Mandelli, 1979, col. 667).

Un adattamento dell'istituto dell'overruling è derivato dalla constatazione che l'adozione di un nuovo criterio di decisione può danneggiare le parti che si siano regolate ragionevolmente sulla base del precedente che viene rovesciato ex post (v. Bigiavi, 1989, pp. 98 ss., 110 ss.). Per ovviare a questo inconveniente la giurisprudenza nordamericana ha creato il cosiddetto prospective overruling, ossia una sorta di dichiarazione con cui la corte annuncia l'intenzione di discostarsi dal precedente nei casi che successivamente verranno sottoposti al suo giudizio, in modo che tutti gli interessati possano uniformarsi ex ante a quello che sarà il nuovo criterio di decisione (v. Bigiavi, 1989, pp. 147 ss.; v. Bin, 1989, pp. 17 ss., e Precedente..., 1988, p. 1004; v. Cross, 1979³, pp. 229 ss.; v. De Franchis, 1984, pp. 1087 s.; v. Kauper, 1971, pp. 280 ss.; v. Lupoi, 1969, coll. 723 ss.; v. Mandelli, 1979, coll. 669 ss., 671 ss.; v. Mattei, 1988, pp. 217, 311 ss.).

Se si tien conto del fatto che questi sono solo i principali strumenti con i quali si può evitare il vincolo del precedente, e che numerosi altri sistemi possono essere adoperati a questo fine (v. Llewellyn, 1960, pp. 73 ss.; v. Twining e Miers, 1976, tr. it., pp. 356 ss.), pare confermata la tesi di chi afferma che l'efficacia del precedente non è affatto qualcosa di intrinsecamente inerente ad esso, ma viene di volta in volta creata e modellata dal giudice del caso successivo, quando questi decide se e come ricollegare la propria decisione a quella anteriore (v. Gorla, 1990, p. 11; v. Kauper, 1971, pp. 223 ss.; v. Thompson, 1971, pp. 177 ss.; v. Twining, 1988, pp. 33 ss.; v. Twining e Miers, 1976, tr. it., pp. 349 ss.). D'altronde, nell'impiego di questi strumenti non emergono solo le scelte soggettive del singolo giudice: l'inefficacia del precedente è infatti la valvola di sicurezza del sistema fondato sullo stare decisis, ossia la via per la quale passa l'evoluzione del diritto e il suo adattamento ai bisogni reali di giustizia, ad opera della giurisprudenza delle corti.

La funzione della giurisprudenza

La fondamentale bivalenza del fenomeno del precedente, che mira a soddisfare contemporaneamente le contrapposte esigenze della certezza e stabilità del diritto, e della sua evoluzione e del suo adattamento alla realtà, evoca quello che in ogni ordinamento può considerarsi come il problema fondamentale della giurisprudenza e della funzione che a essa compete nell'ambito dell'ordinamento giuridico. Anche a proposito della giurisprudenza delle corti nel suo complesso, infatti, ci si chiede se debba prevalere l'esigenza di un diritto certo e uniforme, fondato sulla prevedibilità delle decisioni giudiziarie, o se debba prevalere l'opposta esigenza di un continuo adattamento del diritto ai mutamenti della realtà, in vista della produzione di decisioni giudiziarie sostanzialmente giuste (v. Chiarloni, 1988, pp. 59 ss.; v. Galgano, Giurisdizione..., 1985, p. 37).

Se formulato in termini generali e assoluti, questo problema è con ogni probabilità insolubile. Le alternative estreme in cui esso si articola rappresentano invero i poli opposti di un continuum all'interno del quale la realtà della giurisprudenza e della funzione che essa svolge in concreto si colloca in luoghi diversi, e a distanze variabili dall'uno e dall'altro polo, a seconda degli ordinamenti e dei loro assetti istituzionali nei diversi momenti storici, e anche a seconda degli schemi concettuali di volta in volta prevalenti nella cultura giuridica. Così ad esempio, come si è accennato più sopra, l'ideologia del liberalismo classico e la concezione dichiarativa della giurisprudenza tipica del formalismo positivistico tendono ad assolutizzare il fattore della stabilità e della certezza delle regole giuridiche; al contrario, le diverse concezioni che fanno perno sul bisogno di giustizia sostanziale, e sulla irriducibile creatività dell'interpretazione della legge e della giurisprudenza, tendono a mettere in evidenza la necessità che le decisioni giudiziarie si pongano in sintonia con i mutamenti della realtà sociale. Il problema non è però di scegliere l'una o l'altra alternativa estrema, ma di rendersi conto che esse rappresentano esigenze contrapposte ma inevitabilmente compresenti in ogni sistema giuridico, sicché ogni ordinamento oscilla in vario modo tra l'una e l'altra in funzione di numerose variabili storiche, politiche e culturali.

La questione del ruolo e della funzione della giurisprudenza delle corti si pone comunque con notevole concretezza, e con tratti peculiari, nell'ordinamento italiano, e in questa prospettiva merita qualche ulteriore considerazione.Come già si è detto, il ricorso ai precedenti - specialmente della Corte di cassazione - è da tempo diventato prassi quotidiana, sicché non è dubbio che la giurisprudenza rappresenti de facto una fonte di diritto di grande importanza (v. § 4c). Inoltre, è ormai pressoché dominante la concezione che riconosce anche alla giurisprudenza delle corti una funzione essenzialmente creativa (v. Cappelletti, 1984; v. Galgano, Giurisdizione..., 1985, pp. 33 ss.; v. Lombardi Vallauri, 1989; v. inoltre i §§ 2d e 3b).

Questi fattori diventano tuttavia assai problematici, invece che risolutivi, se vengono posti in correlazione con alcuni caratteri salienti della giurisprudenza (in particolare di quella della Corte di cassazione) nell'attuale fase storica. Si tratta soprattutto di una giurisprudenza eccessiva sotto il profilo quantitativo, essendo essa costituita da diverse decine di migliaia di sentenze ogni anno (la sola Cassazione civile ne pronuncia ogni anno più di 13.000). In questo mare magnum è certamente impossibile dire se la giurisprudenza nel suo complesso soddisfi davvero le esigenze di giustizia sostanziale, di adeguamento alla realtà e di evoluzione del diritto in sintonia con i mutamenti sociali. Sono sempre più numerosi i settori dell'ordinamento in cui il diritto è prevalentemente o esclusivamente diritto giurisprudenziale, e appare confermata oltre ogni dubbio la tesi della creatività della giurisprudenza. L'esito di tutto ciò sembra però sfuggire a ogni tentativo di comprensione; diventa così azzardata ogni valutazione circa la capacità reale di questa giurisprudenza di soddisfare in concreto i bisogni sociali che si ricollegano all'amministrazione della giustizia.Sono comunque evidenti alcuni fenomeni degenerativi. Si tratta anzitutto di una giurisprudenza fatta prevalentemente di massime: molto spesso infatti è la sola massima che viene usata come precedente (v. Chiarloni, 1988, pp. 69 ss.; v. De Nova, 1986, p. 780), con la conseguenza che non di rado si ha una giurisprudenza fondata su obiter dicta. Inoltre, l'eccessiva quantità di decisioni fa sì che si tratti di una giurisprudenza incoerente, disorganica, percorsa da numerosi contrasti, nel tempo e anche rispetto alla soluzione della stessa questione nello stesso momento (v. Chiarloni, 1988, pp. 67 ss., 75 ss.; v. Moneta, 1990, pp. 1009 ss., 1991, pp. 181 ss., e 1992, pp. 1245 ss.). In molti casi questi contrasti non sono spiegabili con l'esigenza di adattamento all'evolversi della realtà, e sono soltanto la conseguenza dell'eccessivo numero di giudici e di decisioni, e della mancanza di razionalità del funzionamento dei meccanismi istituzionali della giurisprudenza, a cominciare dalla stessa Corte di cassazione (v. Chiarloni, 1988, pp. 75 ss., 80; v. Taruffo, 1988, pp. 80 ss., 93). In una situazione di questo genere si verifica il ricorso al precedente, ma si tratta spesso di precedenti scarsamente autorevoli (v. Bin, Precedente..., 1988, p. 1004; v. Taruffo, 1988, pp. 80 ss.), sia perché sono troppo numerosi, sia perché nell'insieme caotico e variegato di siffatta giurisprudenza è quasi sempre possibile trovare un precedente a sostegno di qualsiasi tesi giuridica (v. Taruffo, 1988, pp. 82, 84). Alla creatività della giurisprudenza, e al bisogno di adeguare le regole giuridiche all'evoluzione della realtà economica e sociale, si è così sostituita l'estrema frammentazione e l'incoerenza delle decisioni, la mancanza di criteri di riferimento attendibili e il prevalere della giustizia del 'caso per caso'.

Di fronte a questa sostanziale e diffusa crisi della giurisprudenza, e dell'uso che ne viene fatto nella prassi, si sono manifestate reazioni dirette a recuperare un impiego corretto e una funzione razionale della giurisprudenza stessa. Per un verso, si è da più parti sottolineata la necessità di abbandonare l'uso casuale e incontrollato di massime poco attendibili, per adottare invece adeguate regole di analisi e di utilizzazione del precedente: di qui l'esigenza di individuare la reale ratio decidendi in relazione ai fatti e alle questioni del caso concreto, di distinguere gli obiter dicta assegnando loro il valore che meritano, e di svolgere comunque un'analisi critica della giurisprudenza (v. in particolare Bin, Precedente..., 1988, p. 1007; v. De Nova, 1986, pp. 779 ss.; v. Galgano, L'interpretazione..., 1985, pp. 701 ss.; v. Gorla, 1981, pp. 306 ss., 320 ss., 327 ss.; v. Sbisà, 1988, pp. 519 ss.).

Per altro verso si è rilevato come, di fronte al disordine, alla casualità e all'incoerenza della giurisprudenza, occorra invece recuperare nella giusta misura i valori di certezza del diritto e di prevedibilità delle decisioni giudiziarie, in quanto strumenti per attuare il principio d'uguaglianza e un ragionevole affidamento dei cittadini sulla costanza e uniformità delle regole giuridiche, oltre che per rafforzare la credibilità dell'istituzione giudiziaria (v. Bin, 1989, pp. 12 ss., Funzione..., 1988, pp. 548 ss., e Precedente..., 1988, p. 1003; v. Chiarloni, 1988, pp. 60 ss.; v. Gorla, 1990, pp. 5 ss., e 1981, pp. 516 ss.). In questa direzione emerge un orientamento inteso a rivalutare sostanzialmente il carattere di uniformità della giurisprudenza, e la funzione che la Corte di cassazione dovrebbe svolgere nel senso di garantire questa uniformità (v. Taruffo, 1991, pp. 94 ss.). D'altronde, si è anche delineata un'importante tendenza, che ravvisa nella formulazione di criteri capaci di assicurare uniformità nell'interpretazione della legge la funzione essenziale del diritto vivente, ossia dell'opera di interpretazione e applicazione del diritto vigente che viene svolta dalla giurisprudenza delle corti (v. Mengoni, 1990⁴, pp. 448 s.). Si è così configurato un dovere funzionale della Corte di cassazione di seguire i propri precedenti allo scopo di garantire l'uniformità della propria giurisprudenza; le variazioni dovrebbero essere ammesse in quanto necessario fattore di evoluzione del diritto, ma dovrebbero essere consentite solo quando esistano, e vengano dimostrate, gravi ragioni idonee a giustificare la rottura dell'uniformità, l'abbandono del precedente e la formulazione di nuovi criteri di decisione. Tali ragioni dovrebbero far capo essenzialmente a rilevanti mutamenti della realtà sociale, che richiedano appunto mutamenti delle regole giuridiche. Analogo dovere viene poi da taluno configurato per ogni giudice, in particolare per quanto attiene all'osservanza dei precedenti della Cassazione (v. Bin, 1989, pp. 12 s., Funzione..., 1988, pp. 545 ss., 551, e Precedente..., 1988, p. 1003; v. Gorla, 1990, pp. 4, 6, 8 ss., 1981, pp. 524 ss., 532, e 1974, col. 243; v. Taruffo, 1991, pp. 95 ss.; v. Pizzorusso, 1977, pp. 537 s.).

Queste tendenze mirano, com'è evidente, a introdurre criteri di razionalità in una giurisprudenza che è diventata casuale e scarsamente affidabile. Esse mirano inoltre a ridefinire la funzione della giurisprudenza configurando un punto ideale di equilibrio tra l'operatività del precedente, che va riferita alla sola ratio decidendi, l'uniformità della giurisprudenza, e la necessità di ammettere variazioni giustificate (e dunque l'abbandono del precedente) qualora occorra evitare che il principio di uniformità diventi causa di ingiustizia (v. Bin, Precedente..., 1988, pp. 1004 ss.; v. Chiarloni, 1988, pp. 62 ss.). La creatività della giurisprudenza non viene dunque negata, ma viene ricondotta a criteri di correttezza e ragionevolezza, e così distinta dal mero arbitrio soggettivo della decisione. Viene così espresso con chiarezza il bisogno di ordine e di affidabilità della giurisprudenza, e di evoluzione ragionevole e giustificata del diritto, che è fondamentale in ogni ordinamento giuridico. (V. anche Diritto; Diritto, filosofia e teoria generale del; Interpretazione giuridica; Sistemi giuridici).

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