PELLICO, Giuseppe Eligio Silvio Felice

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 82 (2015)

PELLICO, Giuseppe Eligio Silvio Felice

Stefano Verdino

PELLICO, Giuseppe Eligio Silvio Felice (Silvio). – Nacque a Saluzzo il 24 giugno 1789, secondogenito di Onorato (1763-1838) e di Maria Margherita Tournier (1763-1837), di Chambéry.

Onorato era commerciante e poeta dilettante, rubricato fra gli Arcadi con il nome Fidamante Filomenio; Silvio ebbe un rapporto privilegiato con il fratello maggiore Luigi (Saluzzo 1788 - Chieri 1841), prediletto interlocutore epistolare, che fu a Genova segretario del governatore Ignazio Isidoro Thaon de Revel (1815-1820), poi a Torino come suo segretario personale, dove pubblicò due commedie in versi: La crisi del matrimonio (1824) e, con lo pseudonimo di Giulio Clelpi, L’arricchito ambizioso (1829). I fratelli minori furono religiosi: Francesco Luigi (Torino 1802 - Chieri 1884), gesuita, cappellano di corte a Torino, confutatore – moderato – di Vincenzo Gioberti (A Vincenzo Gioberti, Genova 1845); suore le sorelle Giuseppina (1798-1870) e Maria Angela (1804-1830).

Dal 1792 al 1806 la famiglia visse a Pinerolo, dove il padre aveva un negozio di drogherie; a seguito di dissesti economici, Onorato espatriò a Milano e i figli maggiori si dispersero: Luigi in Polonia come segretario del commissario di Guerra; Silvio a Lione, presso un ricco cugino materno. Qui ebbe la sua formazione illuminista e anticlericale, come ricordò e riprovò nei versi del componimento Le chiese del 1837.

A Milano, il padre, divenuto funzionario al ministero della Guerra del napoleonico Regno d’Italia, riuscì nel 1808 a sistemare presso lo stesso dicastero il primogenito Luigi. Nel novembre 1809 anche Pellico fu richiamato e assunto dallo Stato come insegnante di francese al collegio degli orfani militari; tramite il fratello, nell’ottobre dello stesso anno, aveva conosciuto Ugo Foscolo, con il quale si legò di intensa amicizia; frequentò inoltre Vincenzo Monti e l’ambiente colto milanese, cominciando a scrivere tragedie (Laodamia e Turno, 1813-14, edite postume da Ilario Rinieri, Della vita e delle opere di Silvio Pellico, III, Torino 1901).

Dopo la caduta del Regno d’Italia, mentre la famiglia rientrava in Piemonte (il padre divenne funzionario di Stato nel 1816), Pellico rimase a Milano, dal dicembre 1814 come precettore in casa Briche; fu poi regolarmente assunto come segretario (e precettore) con contratto notarile e stipendio di 1000 lire annue dal conte Luigi Porro Lambertenghi nel maggio 1816.

Dopo la partenza di Foscolo per l’esilio, nel marzo 1815, Pellico si appoggiò molto a Ludovico di Breme, alfiere del romanticismo italiano e promotore della ‘prima’ della sua tragedia Francesca da Rimini al teatro Re il 18 agosto 1815, portata al trionfo da Carlotta Marchionni, ventenne figlia d’arte. Rimasto custode di libri e mobilia di Foscolo, Pellico ne organizzò la finta vendita (per soccorrerlo e salvarne la biblioteca) insieme a una finanziatrice fiorentina del poeta patriota, Quirina Magiotti Mocenni, che divenne la «donna gentile» di una sua corrispondenza trentennale – si sarebbero incontranti soltanto nel 1846 – nella comune memoria dell’amico esule.

Compose nuove tragedie e fu sempre più in grazia al fin troppo attivo conte Porro; questi stampò la Francesca a suo arbitrio a Novara nel febbraio 1818, mentre Pellico aveva concertato con di Breme l’edizione milanese presso Pirrotta, nel marzo 1818, con in appendice Manfredo, la sua versione del poema Manfred di lord Byron. Insieme a Pietro Borsieri, Giovanni Berchet e di Breme, fondò Il Conciliatore, foglio bisettimanale scientifico-letterario d’orientamento liberale e romantico, finanziato da Porro e dal conte Federico Confalonieri; Pellico fu il responsabile «compilatore» del periodico pubblicato per centodiciasette numeri dal 3 settembre 1818 al 14 ottobre 1819.

Tra i collaboratori figuravano Gian Domenico Romagnosi, Ermes Visconti, Giuseppe Pecchio; nell’ottobre 1818 nel richiedere la collaborazione (mancata) di Foscolo, Pellico gli manifestava la propria passione politica, venata di scetticismo: «Sai tu come viviamo noi? Tiranneggiati egualmente dall’Alpi al Faro da tiranni imbecilli del pari che maligni. Il Piemonte, Modena e gli altri stati sono pieni di frati – derisi, sì, dal popolo, ma protetti dai governanti, ed arricchiti dai vecchi ultra. – Noi soli lombardi-veneti non abbiamo questo vituperoso flagello; ma non illuderti. La filosofia degli austriaci non va oltre; odia i frati perché milizia romana, ma non perciò è meno fautrice dell’ignoranza; sospettosa, illuminata per oscurare – filosofia di re dispotici e vili; – tremano di tutto, ed a torto; perché tu sai la nullità nostra» (Lettere milanesi, a cura di M. Scotti, 1963, pp. 348-49). Sul Conciliatore Pellico recensì varie novità straniere (principalmente Byron) e scrisse soprattutto di critica teatrale, propendendo – nell’esame del teatro di Marie-Joseph Chénier (nei numeri del 7 febbraio, 4 aprile e 29 aprile 1819) – per una tragedia d’argomento storico e nazionale, capace di intenzionalità verso il presente. Vi stampò anche la sua prima prova narrativa Il breve soggiorno a Milano di Battistino Barometro, apparso il 1° luglio, il 15 agosto e il 2 settembre 1819, ma poi sospeso dalla censura; si trattava di un racconto caricaturale, di gusto sterniano: un giovane provinciale narrava in prima persona la nuova realtà della vita cittadina, bramoso infine di tornare al suo perduto (e improbabile) idillio. Dopo varie difficoltà con la censura, il 26 ottobre 1819 il conte Carlo Villata intimò a Pellico di non presentare più articoli di tema politico, pena la sua espulsione dal Regno lombardo-veneto. Il giorno dopo l’editore Vincenzo Ferrario avvisava: «È intenzione degli estensori del ‘Conciliatore’ di non proseguire il loro giornale», garantendo agli associati il rimborso dell’ultimo trimestre.

Nell’inverno 1819-20, Pellico lavorò al romanzo storico Cola di Rienzo (rimasto incompiuto ed edito solo nel 1963 da Mario Scotti con le Lettere milanesi) e nell’agosto 1820 riuscì a pubblicare la tragedia Eufemio da Messina (scritta nel 1815 e allusiva alle ultima vicende di Gioacchino Murat), mentre continuava a frequentare il mondo teatrale di Carlotta Marchionni, presso la quale conobbe, nella primavera del 1820, la cugina Teresa (Gegia) Marchionni (Firenze 1785 - Torino 1879) e il musicista forlivese Piero Maroncelli, carbonaro militante affiliato a una ‘vendita’ milanese. Maroncelli divenne presto il confidente di Pellico, innamoratosi di Gegia, per la quale scrisse il vaudeville La festa di Bussone, rappresentato al teatro Re di Milano il 28 giugno 1820 con la musica di Michele Enrico Carafa; da parte sua Maroncelli attirò nella carboneria Pellico, che nel giugno 1820 intraprese un viaggio a Torino con molteplici scopi: la proposta di matrimonio – osteggiata – ai genitori di Gegia; la visita al morente suo mentore di Breme (morto il 15 agosto seguente); probabili sondaggi patriottici. Scoppiata nel luglio 1820 la rivoluzione napoletana, si verificò un’accelerazione: l’affiliazione alla carboneria di Pellico celebrata il 20 agosto e la sensibilizzazione del conte Porro che organizzò una crociera sul Po con il nuovo battello a vapore «L’Eridano», in viaggio da Pavia a Venezia fra il 3 e il 9 settembre alla quale parteciparono Confalonieri, Pellico e massoni inglesi, come in una «seconda forma di iniziazione» (Mola, 2005, p. 96). Nello stesso tempo, un editto austriaco comminava la pena di morte agli affiliati della carboneria. Seguì, il 6 ottobre 1820, l’arresto di Maroncelli sulla base di una sua lettera indirizzata al fratello Francesco e intercettata il giorno prima, in cui egli citava come ‘cugini’ Pellico, Porro e Confalonieri. Nelle carte sequestrate a Maroncelli c’erano vari biglietti di Pellico – invero sulla questione amorosa riguardante Gegia – il quale fu arrestato il 13 ottobre in casa Porro.

Dopo un primo periodo di detenzione a Milano, dal 13 ottobre 1820 al 18 febbraio 1821, fu trasferito ai Piombi di Venezia e in cella, fra maggio e giugno dello stesso anno, scrisse le tragedie Ester d’Engaddi e Iginia d’Asti; a seguito della confessione di Maroncelli, e in virtù dell’abile inquirente Antonio Salvotti, Pellico cedette ai giudici fin dalla metà di aprile; il 22 maggio aveva ammesso che anche Porro era aggregato e «con lui aveva combinato di accaparrare Romagnosi» (Luzio, 1903, p. 127) e altri amici del Conciliatore. Dopo la condanna a morte comminata anche in appello il 9 settembre e confermata dal Senato lombardo-veneto il 6 dicembre 1821, l’imperatore mutò nel febbraio 1822 la condanna in quindici anni di carcere. Fra il 25 e il 26 marzo 1822, da Venezia fu trasferito con Maroncelli alla fortezza dello Spielberg, a Brno, in Moravia, dove i due giunsero il 10 aprile; il carcere fu dapprima duro con ferri e catena alle caviglie, poi attenuato, con il permesso di leggere libri, tra cui I promessi sposi nell’edizione del 1827 che fu recapitata a Confalonieri, anch’egli nel frattempo imprigionato allo Spilberg. Le suppliche presentate dalla famiglia si accumularono, mentre proliferavano le ristampe della Francesca da Rimini, tradotta nel 1822 anche in francese (nel dicembre 1820 era stata positivamente recensita e antologizzata anche sulla Quarterly review), e cresceva l’attenzione internazionale sulla figura di Pellico, come testimoniato dalle pagine dedicategli da Lady Sydney Morgan nel suo Italy (London 1821) e da Stendhal in un articolo apparso il 30 novembre 1824 sul Globe. Ad accrescere l’eco mediatica intorno a Pellico contribuì anche la romanza Romito del Cenisio pubblicata nel 1823 a Londra da Giovanni Berchet, costretto a lasciare Milano a seguito della repressione austriaca; dietro il protagonista anonimo che apostrofava il forestiero «col dispetto / d’uom crucciato da miserie», si celava, infatti, Onorato, ritiratosi in solitudine dopo l’arresto del figlio Silvio.

Francesco I firmò la grazia il 26 luglio 1830; libero dal 1° agosto, Pellico venne riportato in Italia insieme a Maroncelli sostando qualche giorno a Vienna; i due si separarono a Mantova e Pellico arrivò a Torino il 17 settembre 1830. Era ormai un altro uomo, per certi versi irriconoscibile, quello che rientrava in patria. Abitò con la famiglia in via Guardinfanti 20 (oggi via Barbaroux) e subito pubblicò presso Pomba due volumi di Opere inedite (Torino 1830), uno di tragedie (Iginia d’Asti ed Ester d’Engaddi), l’altro di Cantiche in endecasillabi, grazie a centocinquasei sottoscrittori (fra i quali Cesare Balbo, i Cavour, i Barolo, Amedeo Peyron, Diodata e Cesare Saluzzo, Giovita Scalvini). Mentre il 9 maggio 1831 sconsigliava a Maroncelli, esule a Parigi, di pubblicare «una relazione sui martiri dello Spielberg» (Pedraglio, 1904, p. 187), intraprese Le mie prigioni incoraggiato da Balbo e stimolato dal suo direttore spirituale Giovanni Battista Giordano (1755-1836), curato della chiesa di S. Rocco. Decisivo, per la stampa, fu l’intervento del guardasigilli conte Giuseppe Barbaroux, come riconobbe lo stesso Pellico: «Egli lesse il mio manoscritto, sorrise degli scrupoli politici della Revisione, e dando la sua approvazione, m’onorò di parole di stima, e disse ch’io aveva fatto un libro cristiano e lodevole» (Lettere famigliari inedite, a cura di C. Durando, I, Torino 1876, p. 470).

Il 1° settembre 1832 Pellico rilasciò a Giuseppe Bocca, «libraio di S.M.», ricevuta di «lire nuove di Piemonte Nove Cento» (Parenti, 1952, p. 39) per la proprietà integrale e perpetua del suo manoscritto. Ne derivò una questione filologica, poiché nessuna stampa fu licenziata da Pellico: già la prima nel novembre 1832 uscì con dei tagli; proliferarono, inoltre, edizioni pirata e pasticciate, dato l’enorme successo del libro. Scriveva a Balbo il 19 novembre 1832: «Ma sia quella specie di favore che il pubblico ebbe sinora per me, sia la curiosità che naturalmente mettono le narrate vicende d’un così detto Carbonaro, sieno queste od altre ragioni, il libro in questi primi giorni si vende a furia. Se non m’inganno, piace ai più. Se n’adirano tuttavia parecchi: e sono gli ultra-liberali, ed alcuni della parte opposta. […] Ed io che fo? Ascolto in pace il bene e il male, come se il libro non fosse mio, e persisto a sperare che non sia interamente libro disutile al nostro paese» (Epistolario, Firenze 1856, p. 95). Ne inviò, con dedica («hommage de la respectueuse reconnaissance»), una copia anche al principe di Metternich, che il 10 gennaio 1833 in un dispaccio al conte Charles-René de Bombelles notava acutamente: «C’è senza dubbio molta arte nella semplicità e nella moderazione con le quali questo libro è scritto; e per questo esso è ancor più pericoloso per dei lettori i quali, non trovandovi alcuna menzione del crimine compiuto, saranno indotti a vedere nel prigioniero dello Spielberg un martire politico, vittima di un potere dispotico. Confesso che mi riesce difficile comprendere come mai la Censura a Torino ha così mal valutato l’effetto che doveva immancabilmente produrre questa pubblicazione. Ma ormai è troppo tardi per cercare di rimediare al male che è stato fatto» (Saluzzo e Silvio Pellico nel 150esimo de “Le miei prigioni”, a cura di A.A. Mola, 1984, p. 25).

Tra i primi lettori entusiasti ci fu Pietro Giordani, ma furono critici vari liberali come Atto Vannucci e Angelo Brofferio che in seguito scrisse: «Le Mie Prigioni vennero poco stante a rivelare all’Europa che il prigioniero dello Spielbergo non era più l’antico soldato della libertà Italiana, ma il nuovo apostolo della cattolica Roma» (I miei tempi, VIII, Torino 1859, p. 265), come, d’altra parte, negativi furono anche reazionari del calibro di Monaldo Leopardi. Il successo internazionale fu strepitoso con moltissime traduzioni in tutte le lingue europee (francese e inglese nel 1833; spagnolo, russo, greco, boemo e tedesco nel 1835); François-René de Chateaubriand scovò anche la vera Zanze, figlia del custode dei Piombi (la ragazza «bruttina», ma con «soavità di sguardi e di parole» delle Prigioni), indispettita per la sua immagine su carta alla quale lo scrittore francese offrì – con malizia – una replica a Pellico, nei Mémoires d’outre-tombe.

Al di là del particolare contesto dell’epoca, Le mie prigioni risaltava per «la calma distaccata e analitica del racconto» (Jacomuzzi, 1986, p. 11), ma capace di sferzanti epigrafi, come in un passaggio sulla sosta viennese: «Mentre eravamo ne’ magnifici viali di Schonbrünn passò l’Imperatore, ed il commissario ci fece ritirare, perché la vista delle nostre sparute persone non l’attristasse» (Le mie prigioni, Torino 1832, capo 92, p. 315). In questa strategia di moderazione risentita («non mi lasciai sfuggire una parola di diretto rimprovero a chi ci trattò con sì spaventosa ira», Pedraglio, 1904, p. 210), Pellico non apprezzò le Addizioni che Maroncelli stampò a Parigi nel 1833 in forma di ‘commento’ a Le mie prigioni («il mio troppo esaltato compagno – scrisse al fratello Luigi nell’agosto 1838 – vi pretende che carboneria e religione, bene intesa, siano la stessa cosa. Ciò poteva parere ai carbonari della prima epoca, cioè prima che adoperassero i pugnali o s’infamassero gloriandosene nella giovane Italia», Lettere famigliari inedite, I, cit., p. 63), ma nutrì sempre affetto per il suo compagno di cella.

Molto attivo sul fronte letterario, Pellico compose altresì il romanzo storico Raffaella (probabilmente nell’inverno 1830-31, edito postumo a Roma nel 1871), la tragedia Boezio (1831, edita postuma da Rinieri nel 1901) e nel 1832, presso Bocca di Torino, pubblicò Tre nuove tragedie dedicate ai «Miei genitori» (Gismonda da Mendrisio, Leoniero da Dertona ed Erodiade): «Leoniero da Dertona la composi nello Spielberg a memoria (giacché non mi davano carta e calamajo), la ritenni impressa nel cervello, la corressi e ricorressi per molti anni, e finalmente, quando fui a Torino, la scrissi» (Lettere alla donna gentile, a cura di L. Capineri-Cipriani, Roma 1901, p. 83). Seguì Tommaso Moro (Torino 1833), che resse in scena con la Marchionni, mentre il Corradino (edito a Torino a cura di Achille Corbelli soltanto nel 1922) fu – il 23 aprile 1834 – un solenne fiasco e chiuse la sua attività di trageda. Molto successo ebbe invece Dei doveri degli uomini (Torino 1834), un saggio di patriottismo difensivo, non rivoluzionario e cristianamente ispirato, che suscitò anche l’interesse di Aleksandr Sergeevič Puškin sul Sovremennik (Il contemporaneo) nel 1836.

Pellico avvertiva con molta ironia la sua condizione di ‘superstite’, come scrisse a Quirina Magiotti Mocenni il 1° dicembre 1834: «Solita gentile smania di tutti i forestieri d’ogni nazione e fazione, grado e sesso, dottrina ed ignoranza, di voler vedere, passando a Torino, l’Orso bianco, uscito dalla gabbia Spielberghense; gentilezza che non diverte punto l’orso, ma alla quale pure non rade volte è forza che faccia buon viso e dica: Signori e Signore! La bestia è qui» (Lettere alla donna gentile, cit., p. 127). Non riuscì a vedere stampata un’autobiografia di completamento alle Mie prigioni, come desiderava e confessò alla stessa Quirina il 2 maggio 1836: «Avrei solamente pubblicato volentieri la mia storia di me medesimo, ed aveva creduto di poterla pubblicare. M’ingannai. I tempi non lo consentono, e ci vuol pazienza» (p. 150); solo alcuni capitoli apparvero in francese, tradotti da Antoine de Latour, in una nuova edizione di Mes prisons apparsa a Parigi presso Charpentier nel 1843, mentre alcuni frammenti furono editi da Rinieri (Della vita e delle opere di Silvio Pellico, II, Torino 1899, pp. 372-389). L’originale italiano fu pubblicato da Henri Bédarida, Nel centenario delle Mie prigioni. Il testo autentico dei ‘capitoli aggiunti’ (dall’autografo del Pellico), in Convivium, IV (1932), 5, pp. 717-739.

Assai caro ai marchesi di Barolo, promotori di cristiane iniziative benefiche, ai quali dedicò le Poesie inedite (Torino 1837), Pellico si ritirò nel 1838 nel loro palazzo di Torino con funzioni di bibliotecario (e stipendio annuo di 1200 lire), dopo la morte dei genitori (il fratello Luigi da alcuni anni viveva in un podere a Chieri acquistato nel 1831). In particolare, fu legato all’attivissima marchesa Giulia Falletti di Barolo rimasta vedova nello stesso 1838, che gli aveva indirizzato numerose missive in francese durante un viaggio in Italia nel 1833-34 (Lettere a Silvio Pellico nel viaggio per l’Italia dal 2 novembre 1833 al 16 aprile 1834, tradotte dal francese e pubblicate per la prima volta da G. Lanza, Torino 1886).

Il 1838 fu un anno non meno cruciale di quello dell’arresto a Milano: spinto dalla spiccata personalità di Giulia (come lei fu terziario francescano) e dalle sue iniziative per l’assistenza e la riabilitazione delle donne carcerate, all’avanguardia in Italia, Pellico abbandonò l’attività letteraria per diventare il suo uomo di fiducia e primo collaboratore, con compiti organizzativi, ispettivi e didattici nei suoi diversi istituti. «La smania di far tragedie – scriveva a Confalonieri il 17 maggio 1838 – era perdonabile quand’io era giovine; non l’ho più. Romanzi, non ho il talento di farli. La gloria non l’ambisco per niente affatto. Mi basta pensare, amare, pregare» (Epistolario, cit., p.174). Compose per lo più solo versi d’occasione e nove brevi drammatizzazioni in prosa di vite di santi per recite negli istituti della marchesa (Rappresentazioni drammatiche inedite, Torino 1886); ciononostante mostrò interesse per l’attività letteraria di giovani come Pietro Giuria (che sarebbe stato il suo primo biografo), Giorgio Briano e Andrea Ighina. Il nuovo Pellico lontano dalla letteratura divenne militante di un cattolicesimo benefico e operativo, le cui iniziative furono però viste con sospetto dallo Stato sabaudo, specie con la trasformazione costituzional-parlamentare del 1848. Pertanto, si mostrò sempre più conservatore nelle opinioni politiche ed ebbe una contrastata relazione con Gioberti, che gli dedicò il Primato morale e civile degli italiani nel 1843, ma con il quale ruppe due anni dopo quando gli attacchi di lui ai gesuiti lo portarono sulle posizioni del fratello Francesco, esposte allo stesso Gioberti: «Or vengo a te per soggiungerti con tutto il dolore dell’amicizia, che tu hai molto scandalezzato, non il volgo servile, ma le menti che pensano. Tu riceverai plausi di persone facilmente plaudenti, e son plausi ingannevoli. Il merito dell’eloquenza non può far degna di lode una filippica simile contro un Ordine religioso» (Epistolario, cit., p. 309).

Dall’agosto 1845 al marzo 1846 soggiornò vari mesi a Roma con Giulia di Barolo, manifestando simpatia per Gregorio XVI e lamentandosi, a più riprese, dei «guastamestieri» democratici (pp. 331, 344, 409). Fu scettico all’avvio del 1848: il 15 marzo scriveva alla sorella Giuseppina: «Io ho visto troppe cose e sono troppo vecchio per abbandonarmi eccessivamente alle belle speranze, come fanno i giovani. Ahimè! L’esperienza mi mostra che le migliori intenzioni trovano degli ostacoli e che la felicità dei popoli è difficile da stabilire» (Saluzzo e Silvio Pellico nel 150esimo de “Le miei prigioni”, a cura di A.A. Mola, 1984, p. 45); l’anno dopo caldeggiò «il bombardatore» Alfonso Ferrero di La Marmora come deputato (Epistolario, cit., p. 348).

A Felice Le Monnier, che intraprese nel 1850 la pubblicazione delle sue opere, chiese solo «alcune copie» (p. 361) e l’11 dicembre 1850, per iniziativa di Massimo d’Azeglio, ottenne il vitalizio di 600 lire annue previsto dalla decorazione dell’Ordine al merito civile di Savoia. Dall’ottobre 1851 all’aprile 1852, fece un ultimo viaggio con Giulia di Barolo tra Firenze, Roma e Napoli; qui, nel febbraio 1852, li raggiunse l’eco della falsa notizia, pubblicata dalla stampa, di un loro matrimonio, che scatenò il sarcasmo di Gioberti: «Il maritaggio della Marchesa di Barolo con madamigella Pellico dee far ridere molti» (Epistolario, XI, Firenze 1937, p.110). Pochi mesi dopo, in una lettera a Porro, Pellico stigmatizzò con durezza il moto mazziniano del 6 febbraio 1853: «In mezzo all’esecrabili e sciocche atrocità suscitate da Mazzini, ogni uomo dabbene poteva correre qualche pericolo. […] Mazzini co’ suoi falsi calcoli di possibilità in un’operazione di così grave natura, mostra sempre più che non è uomo politico, benché ne prenda la maschera» (Epistolario, cit., p. 392), ma scrisse con comprensione a Tullio Dandolo per i suoi figli Enrico ed Emilio: «Deploriamo le illusioni, ma onoriamo chi, errando nel cedere a queste, vi si è slanciato da prode e con desiderio di giustizia» (p. 397).

Afflitto da quasi un trentennio da difficoltà respiratorie, Pellico morì a Torino, in palazzo Barolo, il 31 gennaio 1854.

Fu sepolto nel cimitero monumentale della città; sulla stele funeraria fu dettata da Giulia di Barolo la seguente epigrafe: «Sotto il peso della croce imparò la via del cielo e l’insegnò. Cristiani pregate per lui e seguitelo».

Opere. Oltre ai testi citati, si segnalano: Opere, Firenze 1856-1860 (I, Prose; II, Epistolario; III, Tragedie; IV, Cantiche e poesie varie); La marchesa Giulia Falletti di Barolo [1847], Torino 1864; Rappresentazioni drammatiche inedite, a cura di G. Lanza, Torino 1886 (S. Giulia; S. Filomena; La schiava degli Iberi; S. Fortunula; La buona mamma; S. Sebastiano; S. Agnese; S. Bonosa; Il paggio di S. Elisabetta); Ricordanza e Tragedie inedite, in Della vita e delle opere di S. P., a cura di I. Rinieri, III, Torino 1901; Tragedie, a cura di A. Corbelli, Torino 1922. La più recente edizione critica del best seller di Pellico è: Le mie prigioni. Memorie di S. P. da Saluzzo, a cura di A.A. Mola, introduzione di G. Rabbia, manoscritto fotografato da G. Durante, Foggia 2004. Per ricostruire l’ampia produzione di Pellico, strumenti fondamentali sono: M. Parenti, Bibliografia delle opere di S. P., Firenze 1952; Rassegna bibliografica di opere di S. P.: 1818-1910, a cura di G. Bertero, Saluzzo 1989; Bibliografia ragionata delle opere di S. P. (1816-2011), a cura di C. Contilli, III ed. riveduta e ampliata, Raleigh 2013.

Fonti e Bibl.: Gran parte delle carte di Pellico è custodita in quattordici faldoni presso l’Archivio della Civiltà cattolica di Roma; altri principali fondi sono conservati presso il Museo civico Casa Cavassa di Saluzzo nonché presso i Musei del Risorgimento di Torino e Milano. Fra le più importanti aggiunte all’Epistolario, ai due volumi (1876 e 1878) delle Lettere famigliari e alle altre raccolte citate, si segnalano: P. Giuria, S. P. e il suo tempo. Considerazioni corredate da molte lettere inedite, poesie ed opinioni dello stesso P., Voghera 1854; Lettere a G. Briano, Firenze 1861; C.L. Pedraglio, S. P. (con un’appendice di documenti inediti), Como 1904; Lettere milanesi (1815-21), a cura di M. Scotti, Torino 1963.

A. Luzio, Il processo P. - Maroncelli secondo gli atti officiali segreti, Milano 1903; E. Bollorini, Vita e opere di S. P., Messina 1916; G. Sforza, S. P. a Venezia, 1820-1822, Venezia 1917; R. Barbiera, S. P., Milano 1926; Saluzzo e S. P. nel 150esimo de “Le mie prigioni”, a cura di A.A. Mola, Torino 1984; A. Jacomuzzi, Introduzione a S. P., Le mie prigioni, Milano 1986; M. Stival, Un lettore del Risorgimento: S. P., Pisa 1996; G. Pinaffo, Scorci epistolari del Risorgimento: le cugine Marchionni tra S. P. e Angelo Brofferio, in Letteratura & società, III (2001), 3, pp. 23-40; C. Contilli, Composizione, pubblicazione e diffusione de Le mie prigioni. Un percorso attraverso l’epistolario di S. P., Firenze 2004; R. Pertici, Nazione e religione in S. P., in Società e Storia, XXVII (2004), 106, pp. 687-704; A.A. Mola, S. P. carbonaro, cristiano e profeta della nuova Europa, Milano 2005; R. Pertici, S. P.: le armi della bontà, in Fare l’Italia: unità e disunità nel Risorgimento, a cura di M. Isnenghi - E. Cecchinato, Torino 2008, pp. 245-252; B. Alfonzetti, S. P., in Vite per l’Unità. Artisti e scrittori del Risorgimento civile, a cura di B. Alfonzetti - S. Tatti, Roma 2011, pp. 33-50; O. Camerana, “Le mie prigioni”, il libro più famoso scritto in Torino, in I cattolici che hanno fatto l’Italia. Religiosi e cattolici piemontesi di fronte all’Unità d’Italia, a cura di L. Scaraffia, Torino 2011, pp. 93-118; S. Trombetta, Una cooperazione per il bene: la marchesa di Barolo e S. P., ibid., pp. 119-152; B. Alfonzetti, Dramma e storia. Da Trissino a P., Roma 2013.

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