FERRARI, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 46 (1996)

FERRARI, Giuseppe

Franco Della Peruta

Nato a Milano il 7 marzo 1811 da Giovanni, di professione medico, e da Rosalinda, fece i suoi studi nel ginnasio-liceo "S. Alessandro" (ora "Cesare Beccaria") dal 1820 al 1827; si iscrisse poi alla facoltà di giurisprudenza dell'università di Pavia, dove - ospite per quattro anni del collegio "Borromeo" - si laureò in utroque iure nel giugno 1832.

Tornato a Milano, più che dai codici e dalle pandette egli si senti subito attratto dalla filosofia, che coltivò sia con assidue letture, incentrate su D. Hume, su J. Locke e su G. B. Vico (che, come scrisse nel 1835 nella prefazione al primo volume dell'edizione vichiana, gli sembrava offrire con il suo sistema "una base abbastanza larga per potere abbracciare e riordinare ... i progressi del secolo XIX"), sia con le conversazioni che riunivano nella casa di G. D. Romagnosi le migliori intelligenze della gioventù milanese del tempo, da Carlo Cattaneo a Cesare Cantù ai cugini Defendente e Giuseppe Sacchi. E al giurista suo maestro, appena defunto - dalla cui attenzione per i rapporti regolatori dell'"azienda sociale" deriverà il suo precoce interessamento per i problemi relativi all'assetto di una società più giusta - il giovane F. dedicò il suo primo scritto significativo, La mente di G. D. Romagnosi (Milano 1835, dapprima apparso nella Biblioteca italiana, su cui aveva pubblicato nello stesso anno una recensione molto critica al Rinnovamento della filosofia italiana di T. Mamiani): un'analisi del pensiero romagnosiano interpretato alla luce della "corrispondenza de' suoi sforzi coi bisogni d'un'epoca che deve progredire colla scienza istessa del progresso" e della concezione dell'uomo come essere sociale e non individuale.

Accanto all'influenza di Romagnosi, che gli appariva come il sistematore delle idee del '700 illuminista, l'uomo della ragione e della logica analitica, operò profondamente in quegli anni sul F. l'influsso del pensiero di Vico, visto come il genio precorritore, armato delle sue capacità sintetiche e fantastiche. Sul Vico, delle cui opere complete diede tra il 1835 e 1837 un'apprezzata edizione in sei volumi editi dalla Società tipografica dei classici italiani di Milano, il F. si soffermò nel 1837 con l'opera La mente di Vico, che inseriva l'analisi delle idee vichiane in un vasto spaccato della cultura italiana ed europea a partire dal '400.

Nell'interpretazione del F. - non sempre criticamente controllata - il Vico, genio incompreso dai suoi contemporanei, e quindi impossibilitato a incidere positivamente sul corso progressivo dell'umanità, era soprattutto lo scopritore della circolare "storia ideale eterna delle nazioni", dispiegantesi al disopra dei concreti fatti individuali come manifestazione della natura generale dell'uomo e attuantesi più nelle collettività che nei singoli: un pensatore solitario, quindi, che solo nella Francia dei primi decenni dell'800, quella di Saint-Simon e del sansimonismo, di Michelet e Cousin era stato riscoperto ed apprezzato.

L'ammirazione che il F., già approdato su posizioni irreligiose e scettiche in fatto di teoria della conoscenza, nutriva per la Francia e la sua cultura filosofica, storica e politica, insieme con una profonda ansia di libertà, intellettuale non meno che politica, lo indussero all'inizio del 1838 a lasciare Milano e l'Italia e a fissare la sua dimora a Parigi. Qui, grazie anche all'aiuto di Victor Cousin, il potente caposcuola dell'eclettismo, la corrente filosofica dominante nell'accademia francese, il F., esule volontario, iniziò a collaborare alla Revue des deux mondes, una delle più autorevoli riviste europee, sulle cui pagine pubblicò tra l'altro - fra il 1839 e il 1840 - lo scritto De la littérature populaire en Italie (I, Venise, 1º giugno 1839, pp. 690-720; II, Naples, Milan, Bologne, 15 febbr. 1840, pp. 503-531).

Nell'articolo, che si inseriva nel vivace dibattito sulla letteratura popolare in corso in Italia, il F. rivalutava la vitalità e la capacità fantastico-espressiva della produzione in vernacolo rispetto alla tradizione letteraria in lingua italiana, decaduta dal '500 in avanti e troppo spesso esangue, povera di vita e priva di autentici valori poetici. E proprio la constatazione della ricca pluralità dei dialetti italiani, riflesso dei particolarismi e delle peculiarità proprie della multiforme realtà storica e geografica del paese, muoveva il F. ad avanzare per la prima volta delle considerazioni sulla natura "federale" della realtà italiana, là dove scriveva che l'esame della letteratura popolare cosi varia e indisciplinata induceva a "fare del federalismo".Nello stesso tempo il F. continuò i suoi studi filosofici, nell'intento di ottenere un posto di insegnamento in Francia; e sostenne quindi - il 29 ag. i 840 - l'esame di dottorato presso la facoltà di lettere dell'università di Parigi con la presentazione di due tesi accademiche a stampa, intitolate rispettivamente De religiosis Campanellae opinionibus e De l'erreur (ambedue Paris 1840).

Nella prima veniva presentato in una luce positiva il pensiero del filosofo calabrese, per il suo sforzo di arrivare a una religione intima rinnovata che affermasse anche il regno dell'eguaglianza e della giustizia; nella seconda si ripercorreva la lunga vicenda teorica del problema dell'errore a partire dall'antica speculazione per giungere alla conclusione, sostanzialmente scettica, che i "giudizi", sottoposti a continua variazione nel corso del divenire progressivo dell'umanità in seguito all'accrescersi delle conoscenze e al movimento dialettico delle dottrine, non consentivano di attingere la verità assoluta, che quindi verità ed errore erano indissolubilmente intrecciati e che, come la verità era un errore relativo, così pure l'errore era una verità relativa.

Una volta conseguito il dottorato (agosto 1840), dopo aver insegnato per breve tempo filosofia nel liceo di Rochefortsur-Mer, il F. passò nell'ottobre 1841 all'insegnamento universitario in qualità di supplente della cattedra di filosofia presso la facoltà di lettere di Strasburgo, dove cominciò a tenere un corso sulla filosofia dei Rinascimento, vista come superamento della scolastica cattolica e matrice della moderna cultura razionale. Il giovane professore, come era nella sua natura esuberante e polemica, suscitò con le sue affermazioni irreligiose e scettiche la reazione degli ambienti cattolico-conservatori a Strasburgo (e di riflesso a Parigi), i quali lo accusarono tra l'altro di bandire dalla cattedra dottrine socialiste. Al fondo di questa polemica stavano le ultime lezioni del corso del F. incentrate sull'affermazione dell'esistenza nella storia del pensiero filosofico e politico di due tendenze, una realistica, sostenitrice dello Stato e delle istituzioni storicamente date, come la famiglia e la proprietà (la linea espressa, tra gli altri, da Aristotele e da Machiavelli), e l'altra invece utopistica e "socialista", negatrice della proprietà privata e della famiglia (la linea di Platone e Campanella): tendenze che Vico avrebbe cercato di conciliare. La conseguenza di questa polemica, durata vari mesi e nella quale intervennero importanti giornali francesi, fu la decisione ministeriale (31 genn. 1842) di esonerare il F. dall'insegnamento.

Allontanato dall'università, egli si dedicò alla stesura dell'opera nella quale intendeva presentare in forma sistematica le sue riflessioni, avviate da tempo, sulla filosofia della storia, vale a dire l'Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l'histoire, apparsa a Parigi nell'aprile 1843.

Lo scritto, nutrito di vecchie e nuove letture (tra cui quelle di Pierre Leroux e, soprattutto, di Hegel) ma speculativamente poco organico, intendeva rilevare i principi di una vera scienza della storia; ma non della storia positiva, contingente e inconoscibile oggettivamente come le cose della natura esterne all'uomo, bensì di quella ideale, l'unica di cui poteva darsi una "filosofia". Era questa la storia appunto degli "ideali", i sistemi logici e concatenati delle idee succedentisi nel tempo, i quali trascendevano e dominavano i fatti: quindi una vicenda progressiva di concezioni sistematiche in lotta fra loro in un processo di continuo superamento tendente alla realizzazione finale dell'"umanità", con l'armonica conciliazione di tutte le contraddizioni e di tutti gli interessi e l'edificazione di società democratiche, non vincolate dal potere dei monopoli e senza più guerre. Queste pagine documentano che in quegli anni il F., pur dimostrandosi sensibile ai problemi sociali, era ancora lontano da quelle posizioni "socialiste" che avrebbe preso a sostenere dopo il '48. Le sue idee nel 1843 si imperniavano infatti sul concetto di "associazione", considerata non come un fine ma come un mezzo per promuovere il miglioramento economico e il benessere dell'umanità, minacciata invece dal conflitto degli interessi; un'associazione che non sopprimeva la proprietà privata e faceva coincidere l'interesse privato con quello generale.

Negli anni successivi egli alternò gli studi filosofici a interventi pubblicistici di taglio più immediatamente politico e attinenti alla situazione attuale dell'Italia e alle sue prospettive future. A spingere il F. in questa direzione furono certamente gli avvenimenti in corso nella penisola, dove stava crescendo l'"opinione" moderata, ostile al metodo cospiratorio e insurrezionale dei democratici e favorevole a cercare un accordo con i principi, che si sarebbe accontentata per il momento di graduali riforme amministrative senza pretendere la concessione di assemblee costituzionali, e dove si andava rafforzando il neoguelfismo.

E proprio contro il Gioberti si rivolsero gli strali polemici del F., che andava maturando in quel giro di tempo il suo orientamento democratico; nell'articolo su La philosophie catholique en Italie, apparso nel 1844sulla Revue des deux mondes (15 marzo 1844, pp. 956-994; 15 maggio 1844, pp. 643-688), all'abate piemontese, dipinto come un intollerante reazionario difensore del governo pontificio, il peggiore dei governi italiani, veniva infatti contrapposto Antonio Rosmini presentato, al di là delle sue cadute teologiche, come un pensatore liberale meritevole di figurare nel movimento filosofico progressivo europeo.

Se in questo scritto la polemica antimoderatá era limitata al piano culturale e filosofico, una più esplicita e politicamente motivata presa di posizione in senso democratico fu quella che il F. consegnò nelle pagine dell'articolo La révolution et les révolutionnaires en Italie, pubblicato tra la fine del 1844e l'inizio del 1845sempre sulla Revue des deux mondes (16 nov. 1844, pp. 573-614; 1º genn. 1845, pp. 150-194).

In esso si tracciava una penetrante e personale analisi delle correnti politiche delineatesi in Italia a partire dall'età napoleonica: vale a dire da un lato il partito dei difensori dei troni e degli altari, gli assolutisti-reazionari, e dall'altro quello riformista e quello democratico. Il F. sottoponeva a una critica serrata i riformisti, cioè i moderati - con in testa C. Balbo -, i quali non credevano alla possibilità di una sollevazione a breve scadenza, speravano che l'estromissione dell'Austria potesse ottenersi con l'esercito piemontese, rinunciavano alle costituzioni e si dedicavano ad attività economiche, educative, filantropiche e culturali. Ma i principi, affermava il F., non avevano nessuna ragione di opporsi ai riformisti, perché questi con i loro progetti di lente e pacifiche innovazioni amministrative svolgevano oggettivamente un ruolo di conservazione dell'esistente, e consumavano "una violenta energia in minuzie", dimenticando le "sollevazioni".

Ma anche i democratici e il loro leader Mazzini non uscivano indenni dal giudizio del Ferrari. Certamente l'apostolato mazziniano veniva valutato positivamente, e gli si riconoscevano ampi meriti: Mazzini aveva dato un prezioso contributo alla formazione dell'opinione nazionale, si era adoperato utilmente per "moralizzare la classe degli operai", e con "la sua polemica netta, serrata, veemente" aveva esercitato un'influenza più forte e più estesa di quella di ogni altro cospiratore. E tuttavia il bilancio della Giovine Italia appariva largamente negativo perché - e il F. anticipava qui uno spunto critico che avrebbe sviluppato a fondo dopo il 1848 - Mazzini aveva sottovalutato la questione dei mezzi necessari per coinvolgere nella lotta contro l'Austria e i regimi assoluti le masse indifferenti ed apatiche, quelle masse che potevano essere scosse soltanto facendo appello alle loro esigenze elementari e alle loro aspirazioni profonde al miglioramento materiale. Alla domanda "come sollevare le masse?" la risposta di Mazzini era: con il martirio; ma, obiettava il F., in questo modo Mazzini rendeva insolubile il problema, perché le classi popolari non erano in grado di muoversi per la sola spinta di motivi ideali.

Un altro profondo motivo di dissenso dalla democrazia mazziniana nasceva poi dalla diversa concezione della "sollevazione", della genesi del modo di prodursi del fatto insurrezionale. Il F. non credeva nella possibilità di cacciare l'Austria con i mezzi pacifici e riteneva necessario un moto rivoluzionario; ma questo a suo avviso non poteva nascere dall'azione cospirativa, dal metodo settario adottato da Mazzini. "Le società secrete - scriveva in esplicita polemica con Mazzini - sono state troppo funeste al liberalismo italiano; esse lo hanno isolato dal popolo, staccato dalla borghesia, in cui doveva trovare la sua forza; hanno moltiplicato funeste illusioni intorno le disposizioni del paese". Le vere e durature insurrezioni, ben diverse dagli effimeri colpi di mano, erano invece "atti naturali, spontanei, irresistibili", non comandati a ora fissa da comitati e organismi dirigenti precostituiti; un processo rivoluzionario, insomma, che si sviluppava per libero e incontrollabile impulso collettivo dal basso verso l'alto, ad opera delle "masse" che dovevano "insorgere da se stesse", scegliendosi da sole i propri capi. Coerentemente con queste vedute, la direttiva operativa indicata era quindi quella di puntare alla conquista di libere istituzioni costituzionali, e non di riforme omeopatiche, con poderose "pubbliche dimostrazioni", mettendo allo scoperto l'Italia liberale sino ad allora invisibile e respingendo sette e congiure.

In quello stesso periodo il F. cominciò a mteressarsi in maniera più diretta e sistematica delle dottrine socialiste contemporanee, e specie dei loro sviluppi in Francia, ai quali dedicò un saggio (Des idées et de Fécole de Fourier depuis 1830) nella Revue des deux mondes del 1º ag. 1845 (pp. 389-434), nel quale defini il suo atteggiamento verso le due principali scuole francesi, il sansimonismo e il fourierismo.

Dal confronto tra i due sistemi, attraverso il quale risultava chiaro il distacco critico dalle loro proposte, il F. appariva tuttavia più vicino alle vedute di Saint-Simon e dei suoi discepoli che, pur esagerando il momento della "rivoluzione", erano stati eroici di audacia e avevano trasmesso in eredità al fourierismo "il suo principio di vitalità, il socialismo". I discepoli di Fourier - un mistagogo e un taumaturgo di stampo medioevale che aveva completamente ignorato la ragione dell'uomo esagerando la critica della società e l'apologia dello stato di natura - avevano invece appiattito le dottrine del maestro rinunciando all'aspetto magico, e soprattutto avevano, con la teorizzazione dell'irrealizzabile falansterio, postulato un socialismo senza politica, ponendo le riforme sociali prima delle questioni di governo e dei principi, e aprendo così la strada a un dispotismo tirannico.

Alla immediata vigilia delle rivoluzioni del 1848 si colloca infine il più importante intervento ferrariano sulla situazione politica italiana, il saggio La révolution et les réformes en Italie, ospitato nella Revue indépendante del 10 genn. 1848 (che nel novembre del 1847 aveva pubblicato anche l'articolo del F. su La Renaissance italienne), nel quale il F. ribadiva con grande vigore la sua scelta di campo democratico-rivoluzionaria e dava per la prima volta corpo in maniera esplicita e argomentata alle sue vedute federalistiche.

La via delle riforme graduali e non politiche - si diceva - non aveva sbocco., perché le riforme servivano soltanto a rafforzare l'assolutismo, tanto che l'Austria aveva sempre largheggiato nella concessione di miglioramenti amministrativi proprio per combattere la rivoluzione. Per risolvere la questione italiana e fare dell'Italia divisa e demoralizzata una nazione bisognava invece prendere il cammino della rivoluzione, introdurre le libertà politiche connesse con il principio costituzionale, impiantare corpi legislativi, assemblee nazionali deliberanti, e non appagarsi di quelle "consulte" prive di potere reale care ai moderati. L'"opinione" in Italia era ormai divenuta rivoluzionaria, proseguiva il F., ma doveva organizzarsi (ricercando l'appoggio della Francia democratica, "alleata inseparabile della libertà italiana"), fermamente ma senza impazienze intempestive, senza affrettare ne la guerra con l'Austria né la ricerca di una unità che aveva contro di sé tradizioni storiche, assetti naturali, vocazioni particolari delle varie parti del paese e alla quale era preferibile una lega federale, una federazione.

"La rivoluzione italiana deve, prima d'ogni altra cosa - si legge in un passo centrale dello scritto che prefigura i futuri svolgimenti del federalismo ferrariano - rinnovare il patto sociale in ogni Stato. Se vuole prender le mosse dal conquistare l'unità, tengasi per perduta. L'unità italiana non esiste se non nelle regioni della letteratura e della poesia; e in queste regioni non si trovano popoli, non si può far leva di eserciti, non si può ordinare verun governo. Gli italiani devono gettare il germe della libertà là dove la Providenza li ha gittati; essi altro non sono ancora se non Romani, Toscani, Piemontesi; ed è nel proprio loro Stato ch'essi devono combattere la conquista austriaca".

La rivoluzione parigina del febbraio 1848, con la fine della monarchia di luglio e la proclamazione della seconda Repubblica di Francia, ebbe la piena adesione del F., che collaborò al nuovo giornale di F.-R. Lamennais, Le Peuple constituant, e che nel mutato clima politico ottenne (il 20 marzo) la reintegrazione nella supplenza alla cattedra di filosofia all'università di Strasburgo. In quelle settimane egli si recò anche (il 6 aprile) a Milano dove, d'accordo con C. Cattaneo ed E. Cernuschi, cercò di dar vita a un raggruppamento di forze democratiche che si opponesse alla politica filopiemontese del governo provvisorio dopo le Cinque giornate; il tentativo fallì, soprattutto per l'opposizione di Mazzini. e il F. tornò nel maggio a Strasburgo per tenervi il suo corso. Ma la svolta in senso conservatore della situazione francese attuata dopo le giornate rivoluzionarie parigine del giugno influì negativamente sulla carriera accademica del F. che, venuto in sospetto alle autorità per il suo atteggiamento antigovernativo e per il suo filosocialismo, fu nel dicembre allontanato dall'università e destinato alla più modesta funzione di insegnante di filosofia nel liceo di Bourges, posto dal quale - sempre per motivi politici - fu congedato nel giugno 1849.

Libero dalle cure didattiche il F. poté cosi concentrarsi nella riflessione sui caratteri della rivoluzione italiana e sulle vie lungo le quali incanalarla, che si concretò - fra il 1849 e il 1852 - in una serie di scrittì, di taglio più pratico-politico, militante, che scientifico, il cui complesso gli dà un posto di rilievo all'interno di quella corrente estrema, democratico-socialista, che dopo il fallimento del '48 cercò di contrapporre al mazzinianesimo un programma politico più avanzato, orientato verso una prospettiva "socialista" del Risorgimento.

Già nel primo di questi lavori, il Machiavel juge des révolutions de notre temps (Paris 1849) sono contenute in nuce molte delle analisi e delle concezioni che il F. svilupperà negli scritti successivi.

In esso infatti si insisteva sui temi quali la priorità della questione della libertà rispetto a quella della indipendenza, così da schiacciare il Papato e gli altri nemici interni. più pericolosi di quelli esterni; il primato rivoluzionario della Francia democratica; la necessità di uno sbocco federalistico, perché la rivoluzione, per riuscire vitale, avrebbe dovuto avere tanti centri quante le capitali degli Stati esistenti.

Nel successivo Les philosophes salariès (ibid. 1849), una serrata requisitoria contro l'eclettismo di V. Cousin, accusato di essersi fatto strumento della reazione proprietaria, il F. dichiarava apertamente il suo passaggio nel campo del socialismo: un socialismo la cui matrice non era nelle dottrine di Saint-Simon e di Fourier ma essenzialmente in quelle di P. J. Proudhon, con il quale il F. aveva stretto rapporti di amicizia personale e di colleganza politica nel corso dei '48.

"Oggi è fare atto di socialismo - affermava recisamente il F. - trasportare la ragione ed il diritto sul terreno della repubblica: oggi la ragione ed il diritto ci impongono dunque il socialismo. Accettiamolo; è fare atto di filosofia". Di conseguenza non ci si poteva appagare della semplice demolizione dell'edificio politico, ma occorreva intaccare le strutture della società per eliminarne le piaghe, dalla tirannia dei capitale all'anarchia della concorrenza sfrenata, e creare un mondo nuovo di giustizia e di eguaglianza. In questa scelta di campo si inseriva una critica dei diritto di proprietà nella sua attuale configurazione, che avrebbe dovuto essere sottoposto a limiti e a correttivi, ma non abolito integralmente, secondo una visione mutuata da Proudhon.

All'attacco all'eciettismo in chiave socialista seguì la Federazione republicana (Londra [ma Capolago] 1851), lo scritto più interessante del F. per la storia del socialismo risorgimentale, che con la sua originale e vigorosa únpostazione del problema rivoluzionario italiano eserciterà una vasta influenza nel dibattito sulla questione italiana avviatosi in quegli anni.

Il Punto di partenza era il peso che nella storia del paese aveva esercitato e continuava a esercitare la doppia e correlativa presenza del dominio del Papato e dell'Impero, istituzioni che sarebbe stato necessario abbattere, con l'aiuto determinante della Francia rivoluzionaria, per giungere all'emancipazione. Ma per toccare questo obiettivo bisognava abbandonare le vie indicate da Gioberti e da Mazzini, i quali anteponevano l'indipendenza alla libertà e dividevano l'Italia dalla Francia, e soprattutto contrapporre alla visione mazziniana di una rivoluzione "formale", in primo luogo nazionale e unitaria, quella di una rivoluzione sociale, capace di interessare le masse popolari. Di qui discendeva la ribadita affermazione del "socialismo", che veniva compendiato nei due termini della formula "irreligione" e "legge agrariac vale a dire la "propagazione progressiva della scienza" al posto dei culti e della metafisica, e l'attuazione del "diritto di necessità", limitatore della proprietà privata, in vista dell'elevazione economica dei ceti popolari: "Questo diritto, che dicesi di necessità - chiariva lo scritto - non ha altri principi, altri limiti, se non la necessità; e la necessità a' di nostri da tutti li economisti riconosciuta... si è che l'immensa maggioranza del genere umano è rosa dalla fame, mentre pochi ricchi nuotano nelle superfluità" (pp. 171 s.). Sul piano istituzionale la rivoluzione sociale così delineata avrebbe dovuto metter capo a un assetto federale, lungo le direttrici già abbozzate nel Machiavel;non quindi "la repubblica", ma "le repubbliche" dei singoli Stati, ognuna con una sua costituzione, una sua assemblea, un suo governo; e con un'assemblea nazionale, formata dai rappresentanti delle repubbliche federali, come organo della federazione con funzioni limitate agli affari internazionali e militari.

Il coronamento di questa fase della riflessione dei F. fu la Filosofia della rivoluzione (Londra [ma Capolago] 1851), la sua opera speculativamente più matura, in cui dava un fondamento teorico al suo scetticismo gnoseologico, superato però in una sorta di positivismo fideistico, che si appagava della "rivelazione della natura", delle apparenze fenomeniche come veritiere e non ingannevoli.

Nella Filosofia la critica della proprietà e la tesi della "legge agraria" si arricchivano di un più concreto contenuto, con la delineazione di una società futura egualitaria ma non comunista, realizzabile con un attacco all'attuale ingiusta divisione dei beni condotto attraverso l'abolizione dell'eredità, una misura che il F. proponeva in polemica con l'amico Proudhon. Dall'antistatalismo proudhoniano derivava invece un'altra delle tesi di fondo della Filosofia della rivoluzione, la necessità della distruzione dello Stato ("Lo Stato decade di continuo", per subordinarsi alla fratellanza degli uomini) e del governo.

Il F. intervenne ancora nei dibattiti che si intrecciavano nella democrazia italiana ed europea in questa fase della vita politica compresa tra la fine delle rivoluzioni quarantottesche e l'affermazione del secondo Impero di Napoleone III con l'opuscolo L'Italia dopo il colpo di Stato del 2dicembre 1851 (Capolago 1852), pubblicato appunto qualche mese dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone. Nel momento in cui dalle file della democrazia partivano aspre critiche contro il socialismo, accusato di aver favorito la vittoria del Napoleonide sia con le paure suscitate nei ceti borghesi sia con i germi di materialismo inoculati nelle classi popolari, il F. riaffermava, invece la validità delle istanze socialiste e sosteneva che lo stesso mandato di Luigi Napoleone aveva una valenza rivoluzionaria, perché l'aspirante imperatore avrebbe dovuto portare avanti il processo rivoluzionario in direzione sociale, pena il fallimento.

Ma l'assestamento di un equilibrio conservatore in Francia e soprattutto le resistenze del Cattanco a lasciarsi coinvolgere dall'amico in un impegno politico diretto convinsero il F. che i tempi non erano più propizi per il tentativo di costituire quel partito federal-socialista che egli avrebbe voluto contrapporre alla democrazia unitaria e "formale" di Mazzini, e lo indussero a tornare agli studi teorici e storici. Presero così corpo negli anni della maturità le sue opere di storia e teoria della storia, nelle quali una vasta ma farraginosa erudizione è resa tributaria di chiavi interpretative schematiche e astratte, come avvienenella ponderosa Histoire des révolutions d'Italie (Paris 1858, 4 volumi), nella quale le settemila rivoluzioni che nei calcoli ferrariani avrebbero avuto luogo in Italia dal Mille alla Riforma erano incasellate in una fantasiosa dialettica diadica imperniata sulla lotta tra guelfi e ghibellini e all'interno della ferrea legge della "fatalità". Alla ricerca di leggi regolatrici della storia, il F. delineò nella Histoire de la raison d'état (ibid. 1860), in La Chine et l'Europe, leur histoire et leurs traditions comparées (ibid. 1867) e nella più tarda Teoria dei periodi politici (Milano 1874) una sua concezione quasi aritmetica del divenire storico, realizzantesi con una successione fatale di rivoluzioni e di reazioni, ciascuna delle quali articolata in due momenti, "uno positivo e l'altro negativo", per cui in ogni epoca storica si darebbero quattro fasi della durata di una generazione nel corso delle quali "un'idea si prepara, esplode, reagisce e si risolve".

Tornato a Milano dopo la liberazione della Lombardia (1859), il F. rinunciò all'opzione socialista, ma non all'impegno per una modifica delle profonde sperequazioni sociali all'interno dell'Italia unitaria.

Soprattutto tenne ferme le sue idealità democratiche e federalistiche, così riaffermate in una lettera (inedita) del 3 genn. 1860 nella quale declinava con una motivazione che compendiava le ragioni di fondo del suo antiunitarismo l'invito a divenire membro della Società unitaria: "Autore di una teoria federale, storico dell'antica federazione pontificia e imperiale, interprete delle tradizioni libere, legali e cosmopolite che resero il risorgimento italiano eguale e forse superiore all'antica civiltà della Grecia..., dedito al culto della scienza, delle arti, dei monumenti, della storia che fece delle città italiane altrettante capitali dove ogni vita sorgeva maledicendo l'unità gotica longobarda e bizantina, io non saprei accettare la parola d'unità senza cadere in tal dedalo di contraddizioni da rimanere da me stesso annientato. Sulla terra nostra l'unità è anomalia, patrimonio della regia barbarie; creò imprese effimere, odiate, crudeli ...; rimembra apparizioni rapide, poi rinnovate dal soffio di estere invasioni; una progressiva decadenza, capitali rovinate, piazze deserte, palazzi abbandonati come quelli di Urbino e di Ferrara; rimembra dico speranze deluse, odi seminati tra città e città e minaccie contro i più ricchi e popolosi centri a cui sarebbero svelti e governi e parlamenti e leggi e tradizioni e glorie sotto pretesto di un'apparente indipendenza che sarebbe di fatto la somma dipendenza a causa dell'affievolimento generale".

Eletto nel marzo 1860 deputato al primo Parlamento dell'Italia in via di unificazione (VII legislatura), sedette alla Camera sui banchi della Sinistra ininterrottamente fino al 1876 (XII legislatura).

In Parlamento prese più volte la parola, spe-. cle nel primo periodo del suo mandato, per affermare - nel pronunciare il suo voto negativo sulla cessione di Nizza e della Savoia alla Francia - lo stretto collegamento della rivoluzione risorgimentale con quella del vicino paese e per chiedere che il movimento italiano mettesse capo a una profonda trasformazione nelle leggi e non si limitasse a un sovvertimento territoriale (27 maggio 1860); per sostenere l'inopportunità della creazione di uno Stato unitario con le successive annessioni, generatrici di un accentramento burocratico rovinoso e produttore di anarchia (26 marzo 1861), al quale, se non un assetto federale, si sarebbe dovuto sostituire almeno un ordinamento regionale (2 dic. 1861); per proporre una inchiesta parlamentare sulle condizioni del Mezzogiorno, dove l'annessione incondizionata ed immediata aveva alimentato la piaga del brigantaggio e di un disordine ormai endemico senza tenere in conto alcuno le aspirazioni all'autonornia. di quelle popolazioni (4 apr. 1861). Prese di posizione, tutte queste, che si inserivano nella visione di un'Italia rinnovata, libera, laica, progressista, che egli così delineava alla Camera in un discorso del 16 apr. 1861: "Io aveva vagheggiata un'altra Italia, nella quale il diritto di grazia cedesse il posto ad un nuovo diritto, per cui le nostre insurrezioni avessero un altro senso ... Io sperava che il voto universale potesse esprimere il voto della nazione redenta dal giogo dell'autorità; io sperava che le nostre discussioni, sciolte dai vincoli d'una religione dominante, potessero svolgersi chiedendo le conseguenze dei principii proclamati nel 1789, e che le attuali nostre agitazioni, ancora incerte e oscillanti tra il mondo antico e il moderno, fossero i preludi d'un'era novella reclamata dalla scienza e non più soggetta né al rogo di Bruno, né ai tormenti di Galileo".

Il F. condusse dunque nel momento della formazione dello Stato unitario una coerente battaglia per il federalismo, per il decentramento, per le autonomie (ideali riaffermati anche nei due Discorsi sull'annessione delle Due Sicilie al Parlamento italiano nelle tornate dell'8 e 11 ottobre 1860, Torino 1860; traduz. in francese L'annexion des deux Siciles, Paris 1860): una battaglia che si nutriva di validi motivi critici contro l'accentramento burocratico che si andava realizzando nel giovane Stato e contro la ristrettezza delle basi dei nuovi ordinamenti, che escludevano dalla vita politica la grande maggioranza delle popolazioni. E ai suoi ideali il F. restò fedele per tutto il corso della sua attività di parlamentare, come attestano i suoi numerosi interventi, nei quali tra l'altro appoggiò le convenzioni di settembre e il trasferimento della capitale da Torino a Firenze giudicato - in dissenso dai suoi compagni della Sinistra - una tappa necessaria per accelerare la sconfitta del Papato (10 nov. 1864), combatté la vessatoria tassa sul macinato (14-16 marzo 1868 e 13, 21, 22 e 25 genn. 1869) e continuò a rivendicare maggiori spazi di libertà politica e civile, con un'ispirazione coerente che lo portò a difendere, nell'ultimo dei suoi discorsi alla Camera (25 genn. 18751, i diritti degli aderenti alla prima Internazionale anarchica perseguitati dai governi della Destra.

Nominato senatore il 15 maggio 1876, il F. morì poche settimane dopo a Roma il 2luglio 1876.

Il F. appare sostanzialmente come una figura solitaria tra i "vinti" della democrazia risorgimentale: solitario come storico, filosofo della storia e teorico della politica, perché i suoi libri - pur nutriti di solida erudizione, impostati con l'apporto della più vivace cultura europea e italiana del tempo, brillanti e percorsi da acute intuizioni in molte delle loro pagine - non diedero avvio né a scuole né a correnti di pensiero ("sono libri che non continuano nulla e non preparano nulla", li giudicò liquidatoriamente il Croce nella Storia della storiografia italiana nel secolo XIX); solitario come banditore, all'indomani del 1849, di un programma federal-socialista alternativo alla piattaforma di Mazzini; solitario come uomo politico e parlamentare dal 1860 alla morte, quando continuò a criticare lo Stato unitario e accentratore con scarso seguito tra gli uomini della Sinistra, preoccupati assai spesso di distinguere le posizioni dei deputato milanese da quelle della loro corrente (e basterà ricordare quel che disse Francesco Crispi, intervenendo alla Camera il 3 ag. 1862: "L'on. deputato Ferraril tutti lo sanno, è una delle illustrazioni del Parlamento, ma non esprime senonché le sue idee individuali").

Opere: Per un elenco degli scritti del F. si rinvia a S. Rota Ghibaudi, G. F. L'evoluzione del suo pensiero (1838-1860), Firenze 1969. Negli ultimi anni sono state pubblicate due ampie antologie: Scritti politici, a cura di S. Rota Ghibaudi, Torino 1973 e Scritti politici, a cura di E. Sestan, Torino 1977 (ristampa della prec. ediz., Milano-Napoli 1957).

Fonti e Bibl.: Le carte del F. sono conservate nel Museo del Risorgimento di Milano (vedi M. Druart, Le carte di G. F. nel Museo del Risorgimento di Milano, in Movimento operaio, VII[1955], pp. 799-801); altri documenti sono sparsi in molti archivi (l'elenco completo in Lovett, G. F. and the Italian Revolution, p.249). Per una bibliografia sul F. fino al 1970 si rinvia alla voce a lui dedicata da F. Della Peruta, I democratici dalla Restaurazione all'Unità, in Bibliogr. dell'età del Risorg. in onore di A. M. Ghisalberti, I, Firenze 1971, pp. 277-279. Si ricordano, comunque, oltre al succitato studio di S. Rota Ghibaudi, due saggi sul pensiero del F.: A. Ferrari, G. F. Studio critico, Genova 1914 e B. Brunello, Il pensiero di G. F., Milano 1933.

Dal 1970 si aggiungano: C. D'Amato, Ideologia e politica in G. F., in Studi storici, XI (1970), pp. 743-754; Id., La formazione di G. F. e la cultura italiana nella prima metà dell'Ottocento, ibid., XII (1971), pp. 693-717; B. Frabotta, Dialetto e popolo nella concezione critica di G. F., in Rass. della letteratura italiana, LXXV (1971), pp. 460-479; C. M. Lovett, Europa e Cina nell'opera di G. F., in Rass. stor. del Risorg., LIX (1972), pp. 398-401; Id., G. F. e la questione meridionale. Con lettere inedite, ibid., LXI (1974), pp. 74-88; Id., G. F. and the Italian revolution, Chapell Hill 1979; G. Monsagrati, A proposito di una recente biografia di G. F.: vecchie tesi e nuove ricerche, in Rass. stor. del Risorg., LXVII (1980), pp. 259-296; M. Corrias Corona, G. Asproni e G. F., in Annali della Fac. di scienze politiche dell'Univ. di Cagliari, 1979-80, pp. 241-245; G. Borelli, Un interprete ottocentesco del Machiavelli: G. F., in Studi storici Luigi Simeoni, XXXII (1982), pp. 41-49; S. [Spadolini] G., Per G. F., in Nuova Antologia, fasc. n. 2176, 1990, pp. 357-380; G. F. e il nuovo Stato ital., Atti d. Convegno ... Luino 1990, a cura di S. Rota Ghibaudi - R. Ghiringhelli, Milano 1992.

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