GHERARDI, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 53 (2000)

GHERARDI, Giuseppe

Giuseppe Monsagrati

Nato ad Arezzo nel 1794, dopo essersi laureato in veterinaria fu arruolato con il grado di sottotenente veterinario nel reggimento Cacciatori a cavallo dell'esercito granducale. Presto palesò altri interessi oltre quello professionale, che nel 1818 gli aveva consentito di essere associato all'Accademia dei Georgofili e di essere chiamato a far parte della commissione incaricata di premiare la migliore memoria presentata al concorso - indetto l'11 sett. 1818 - per una proposta di riforma della contrattazione del prezzo del bestiame.

A Firenze, infatti, il G. cominciò a occuparsi anche di letteratura e a frequentare gli ambienti in cui fermentava l'opposizione al restaurato regime; e fu probabilmente questa la strada che lo portò ad affiliarsi alla carboneria fiorentina e a conoscere Michelangelo Buonarroti, fratello del più noto Filippo. Il suo primo coinvolgimento nelle trame cospirative venne alla luce nel 1821, allorché fu arrestato e processato; e fu grazie alla sua "intelligente difesa" (Francovich, p. 140) se le indagini non ebbero conseguenze pesanti per l'organizzazione.

È presumibile, tuttavia, che, ammaestrato da quest'esperienza, il G. si facesse più prudente e che, pur continuando a militare nelle società segrete, offrisse di sé all'esterno l'immagine di un giovane appassionato di teatro e in contatto con i circoli culturali fiorentini. Le sue prime prove di pubblicista - un Esame critico della tragedia di G.B. Niccolini (Firenze 1827), e il dramma Cristoforo Colombo (ibid. 1830) - lo segnalavano infatti come un intellettuale che però, sensibile alla lezione estetica di un romanticismo impegnato sui temi della libertà dell'individuo e delle nazioni, si serviva del testo teatrale per coniugare poesia e patriottismo e per richiamare lo spettatore a riflettere sulla condizione del proprio paese. Nel frattempo conosceva un giovane studente di origine corsa, Carlo Guitera, e con lui riprendeva l'attività clandestina mettendo a punto un disegno che, sull'abbrivio del clima di instabilità aperto dalla riuscita della rivoluzione parigina del 1830 e dell'avvento di Luigi Filippo d'Orléans sul trono di Francia, avrebbe dovuto rovesciare anche in Toscana la dinastia lorenese. Sennonché il fallimento precoce del piano costrinse i cospiratori a riparare a Bologna dove - si era nel febbraio del 1831 - era intanto scoppiata la rivolta contro il governo papale, destinata anch'essa all'insuccesso dopo un'affermazione iniziale che aveva spinto il G. e i suoi compagni ad arruolarsi in una legione messa frettolosamente in piedi con il proposito di difendere la rivoluzione dall'intervento austriaco. Incerto sulla sorte che lo attendeva in Toscana, il G. preferì rifugiarsi in Corsica e di qui in Francia, dove si affrettò a dare alle stampe un opuscolo di Note storico-politiche generali e più in particolare intorno alla rivoluzione di alcune province centrali d'Italia… (Parigi 1831), in cui attribuiva le cause della sconfitta più alle insufficienze di chi aveva preparato e condotto l'impresa che al mancato intervento francese.

Stabilitosi a Parigi, il G. si accostò a quella frazione di esuli più politicizzata che, comprendendo personaggi come L. Mussi, P. Mirri e G. Ceccarelli, gravitava attorno a Filippo Buonarroti recependone almeno in parte le idee di soluzione del problema italiano in chiave non solo unitaria ma anche di forte livellamento sociale. All'inizio del 1832 il gruppo fondò la Società dei veri italiani, retta da una giunta centrale che ebbe nel Buonarroti il presidente e nel G., a partire dall'aprile 1833, il segretario. Avendo come obbiettivo programmatico l'instaurazione in Italia di una repubblica democratica, la Società concluse presto un accordo di collaborazione con la Giovine Italia di G. Mazzini, esule allora a Marsiglia, che si proponeva di potenziare la propria organizzazione sul piano dell'azione e lasciava invece ai suoi momentanei alleati la riflessione teorica sul modello di costituzione attorno al quale aggregare i consensi delle nuove leve del repubblicanesimo. All'argomento dedicò un proprio contributo anche il G., del quale la rivista La Giovine Italia ospitò nel III fascicolo (sett. 1832, pp. 25-48) un articolo su Com'è nato, abbia avuto incremento e di che qualità sia presso le moderne nazioni il governo regio misto o costituzionale, tutto interno alla logica democratica di decisa condanna del costituzionalismo monarchico, giudicato incapace di garantire all'Italia l'indipendenza e l'unità da cui solo sarebbe potuta discendere una condizione di piena libertà. Meno caratterizzato vi era il richiamo ai contenuti sociali della rivoluzione, un tema classico di F. Buonarroti e del suo giacobinismo, che il G. non aveva probabilmente assimilato fino in fondo e che nel suo pensiero conviveva tranquillamente con riferimenti al cristianesimo delle origini o animava di sé qualche passaggio della sua produzione teatrale, ripresa a Parigi con la stesura di due drammi dallo scoperto intento didascalico: Bianca Cappello (Parigi 1833) e Alexandre de Médicis (ibid. 1835). Intanto (1833) era diventato collaboratore del National, il foglio parigino di tendenza repubblicana ma non babuvista. Mazzini, comunque, non gli perdonava né il fatto di perdersi, per quanto in buonafede, "intorno a certi concetti di legge agraria da metter paura" (Scritti, V, p. 239) né la fiducia riposta, sulla scia del Buonarroti, nella futura iniziativa rivoluzionaria della Francia.

Con la morte di F. Buonarroti (1837) parve chiudersi anche la prima stagione cospirativa del G. che, quasi per tributare un omaggio al gruppo di cui aveva fatto parte dall'inizio dell'esilio, volle ricordare nell'opuscolo La vita di Pietro Mirri (ibid. 1838) uno dei personaggi che più gli erano stati vicini. Poi si accostò al Mazzini, ma in modo da restare abbastanza defilato, quasi che in lui altri interessi avessero ormai preso il sopravvento sulla politica. Dalla penombra riemergeva nel 1848, firmando (e qualificandosi come tesoriere) il manifesto dell'Associazione nazionale italiana che il Mazzini aveva fondato a Parigi il 5 marzo con spirito di pacificazione ideologica e di ricerca di concordia generale in vista dell'imminente guerra nazionale. Tornato certamente in Italia, il G. si stabilì a Livorno, la città nella quale d'ora in avanti pubblicherà quasi tutti i suoi interventi, in genere osservazioni sullo stato politico del paese (ma tra i suoi scritti risultano anche una raccolta di Opuscoli d'ippologia o Ragionamento sul cavallo, Firenze 1853, che dimostra come egli non avesse abbandonato l'antica professione, e la versione di un opuscolo di F.-R. de Lamennais, Les affaires de Rome, edito a Livorno nel 1864 con il titolo Le cose di Roma) e tentativi di interpretare la situazione in una chiave non più radicale ma liberaldemocratica: il tutto attraverso una prosa e con un italiano che, già ampollosi negli anni Trenta, suonavano con il passare dei decenni del tutto superati e non certo di amena lettura.

La prima in ordine di tempo di queste ipotesi interpretative elaborate dal G. è Della creazione politica d'Italia. Discorso…, edito a Genova nel 1856 e quindi ripreso a Livorno nel 1862 con l'aggiunta di una seconda parte in cui la prospettiva delineata nel 1856 - accettazione serena e quasi entusiasta dell'ipoteca sabauda sul Risorgimento in vista del raggiungimento di unità e indipendenza - era sviluppata con una forte critica al metodo poi seguito dal Cavour per unificare il paese e con una ancor più risoluta deplorazione dell'infeudamento italiano alla Francia napoleonica che ne era conseguito. Il G. dell'esilio francese, il democratico se non il buonarrotiano, del tutto assente nella prima parte dell'opuscolo, si riaffacciava con un profilo meno evanescente nella seconda parte, laddove gli esiti del processo unitario erano deprecati per i riflessi sociali che avevano avuto nel momento in cui, affidando al censo i criteri per la selezione dei rappresentanti del popolo, avevano sancito il permanere di privilegi che si sarebbe dovuto sopprimere e che perpetuavano l'antica contrapposizione tra pochi ricchi e tanti poveri. Un elemento pure abbozzato nelle ultime pagine dell'opuscolo nelle forme di un malcelato compiacimento per la futura collocazione internazionale dell'Italia tra le potenze aveva intanto già innervato di sé l'opera maggiore del G., una Storia d'Italia… libro I. Origini paesane della civiltà italica, sua diffusione ad altre genti, perdita rinnovamento e durata di lei in Italia prima della fondazione di Roma (Livorno 1861). Concepito con una struttura in quattro libri che dalla preistoria e attraverso le epoche romana, medievale e moderna avrebbero dovuto narrare la storia della penisola fino all'età contemporanea che si faceva iniziare nel 1820, ma interrotto al primo volume, il trattato utilizzava motivi massonici, mazziniani e giobertiani per delineare, attraverso uno schema ciclico di ascendenza vichiana, il succedersi delle varie civiltà e delle relative epoche in un alternarsi di semplicità e corruzione, la prima contraddistinta da un assetto sociale vagamente egualitario, la seconda dalla sua scomparsa: in questo quadro il compimento dell'unificazione era visto come l'affermazione del primato degli Italiani e della loro "peculiare natura" (p. 309).

Ritornato alla politica sull'onda delle vicende del 1859-60 e riaccostatosi al Mazzini, il G. si orientò poi più decisamente verso Garibaldi che meglio incarnava il suo ideale di democrazia popolare e alimentava quella vena massonica e anticlericale di cui il G. aveva dato testimonianza con un altro opuscolo, Allocuzione ed enciclica di Pio IX commentata… (Livorno 1859), ove si era intravista l'aspirazione alla riforma della Chiesa in senso antitemporalista (e in regime di piena separazione dallo Stato) che in passato lo aveva avvicinato al Lamennais. Verso G. Garibaldi, che aveva conosciuto nell'aprile 1860 a Torino, il sostegno del G. fu incondizionato e coinvolse tutta la democrazia livornese, prima raccolta attorno al Comitato nazionale da lui istituito in città nel 1860, poi nella Società emancipatrice livornese di cui nel 1862 fu presidente, infine nella Società artigiana livornese, altra sua creatura che però restò presto vittima delle divisioni e gelosie determinatesi nel frattempo tra le varie correnti della Sinistra cittadina in merito al significato da dare alle lotte politiche e fu sostituita dalla Fratellanza artigiana di G. Dolfi.

Il G. morì a Firenze il 28 genn. 1866.

Fonti e Bibl.: Ediz. naz. degli scrittidi G. Mazzini (per la consultazione v. Indici, II, ad nomen); G. Garibaldi, Epistolario, VIII, 1863, a cura di S. La Salvia, Roma 1991, ad indicem; A. Lumbroso, Una lettera di F. de Lamennais ad un patriota italiano, in Il Marzocco, 12 ott. 1930, p. 4; A. Saitta, Filippo Buonarroti…, I, Roma 1950, pp. 77, 181, 197-199, 203, 213, 216-219, 238, 241-245, 248; S. Mastellone, Mazzini e la "Giovine Italia" (1831-1834), I-II, Pisa 1960, ad indicem; C. Francovich, Albori socialisti nel Risorgimento. Contributo allo studio delle società segrete (1776-1835), Firenze 1962, ad indicem; N. Badaloni, Democrazia e socialismo livornese nell'Ottocento, Roma 1966, ad indicem; A. Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell'Ottocento (1828-1837), Torino 1972, ad indicem; G. Luseroni, Giuseppe Montanelli e il Risorgimento…, Milano 1996, ad indicem; Id., Su Filippo Buonarroti, il buonarrotismo e i suoi echi in Toscana, in Le radici del socialismo italiano, Atti del Convegno… Milano… 1994, a cura di L. Romanello, Milano 1997, pp. 69-91 passim.

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