LATTANZI, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 64 (2005)

LATTANZI, Giuseppe

Lauro Rossi

Nacque a Nemi, presso Roma, il 6 marzo 1762 da Giovanni Battista e da Anna Maria Pozzi. Suo padre, "ministro di campagna" prima dei Frangipane e poi dei Braschi, lo avviò alla carriera ecclesiastica nel seminario di Albano. Rivelò presto una discreta sensibilità letteraria e nel 1781 fondò una colonia arcadica nella sua città. L'anno seguente si trasferì a Roma presso Luigi Braschi Onesti, duca di Nemi, studiò giurisprudenza e seguì corsi di teologia. Compose un poemetto - Egeria, dedicato alla moglie del duca, donna Costanza Falconieri - che, sottoposto al giudizio di Vincenzo Monti, allora segretario della casata, non fu pubblicato. La cosa diede vita a un aspro e crescente dissidio tra il L. e Monti. Nel dicembre 1782 Pio VI conferì al giovane L. una pensione annua di 40 scudi sopra un beneficio di S. Giovanni in Laterano, ma nel giugno dell'anno successivo, in seguito a un rapporto intrecciato con Caterina Biagioni, prima cameriera di donna Costanza, il L. fu allontanato da palazzo Braschi. Accolto dalla famiglia Bandi, il 1° maggio 1785 fu arrestato con l'accusa di avere falsificato cedole, e rimase per mesi in carcere; alla fine di quell'anno, per ordine di Pio VI, fu inviato, non ancora giudicato, nella casa penitenziale di Corneto, il cui regime era assai meno rigido. Pochi mesi dopo (il 14 apr. 1786) fuggì da Corneto e raggiunse Vienna, dove scrisse su giornali ma soprattutto godette di favori da parte della corte (più di una voce lo includeva nel novero dei confidenti). Richiesto dal governo pontificio per essere giudicato del suo reato, fu costretto a lasciare la città. Si recò allora a Firenze dove, autorizzato da Pietro Leopoldo a soggiornarvi, sposò nel 1788 una giovane popolana, Carolina Airenti, forse una favorita del granduca, da cui ebbe una figlia, morta a dieci anni.

La Airenti fu giornalista e scrittrice, seppure di modesta levatura. Entrata nella vita pubblica negli anni della Cisalpina, grazie agli auspici del L., intervenne al Circolo costituzionale di Milano su temi legati alla condizione femminile, e pubblicò l'opuscolo Della servitù delle donne. Rimangono inoltre tre sue cantate nella miscellanea All'augusto imeneo del magno Napoleone con Maria Luigia d'Austria (Venezia 1810) e un certo numero di versi in un Diario sacro-poetico perpetuo, che pubblicò a Milano nel 1815. Ebbe il momento di maggior notorietà con la direzione del Corriere delle dame, che tenne poi insieme col marito.

A Firenze il L. svolse un'intensa attività giornalistica: collaborò agli Annali ecclesiastici, foglio che propugnava la riforma della Chiesa; diresse la Gazzetta letteraria, che riportava notizie su libri e teatri; pubblicò lo Zibaldone, settimanale di storia, scienze e arti, e il Giornale letterario, o sia Trionfo della verità. Grazie all'ex granduca (ora imperatore Leopoldo II) nel 1791 divenne segretario della Imperiale e Reale Accademia di scienze e lettere di Mantova, con un assegno annuo di 600 fiorini. Pubblicati, senza grande successo, gli Annali politici, civili e letterari, allo scopo di "difendere sovranità e religione", nel 1795 stampò un Piano di pace tra la Francia, l'Impero, la Casa d'Austria ed il re di Sardegna, che conobbe diverse edizioni. Dopo l'entrata in Milano dell'esercito francese comandato da Napoleone Bonaparte, nel novembre 1796 il L. presentò all'Amministrazione generale della Lombardia, che aveva bandito un concorso sul tema Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell'Italia, un Discorso storico-politico con lo pseudonimo Publicola Tiberino. Lo scritto si pronunciava in favore di una repubblica unitaria (il federalismo avrebbe diviso "la nazione in nazioni") e proponeva immediate misure di sicurezza a difesa dei territori appena liberati e una più equa distribuzione delle ricchezze. Nel dicembre successivo il L. iniziò a pubblicare a Mantova L'Amico degli uomini e delle leggi: Publicola Tiberino, giornale piuttosto modesto aperto a istanze democratiche e repubblicane, e quasi contemporaneamente, dando così prova di notevole ambiguità, L'imparziale difensore, di orientamento conservatore.

Nel gennaio 1797 fu al Congresso di Reggio Emilia, che doveva sancire la nascita della Repubblica Cispadana; quindi, entrati i Francesi a Mantova, al principio di febbraio avviò un nuovo periodico, il Giornale degli amici della libertà italiana, che durò circa un anno ed ebbe tra i collaboratori Giovanni Labus. Proclamata la Cisalpina, il L. si trasferì a Milano e il 9 luglio entrò a far parte dei Comitati consulenti, che dovevano tracciare le linee della costituzione del nuovo Stato; fu poi eletto nel Gran Consiglio, che iniziò i lavori il 21 novembre, nonostante la sua nomina, sempre a seguito dei trascorsi romani, destasse non poche contrarietà (sembra che alla fine fosse intervenuto lo stesso Bonaparte a sostenerla).

Nell'aula parlamentare il L. intervenne con una certa competenza su quasi tutti i temi di maggiore rilevanza: tra gli altri, la riforma dell'istruzione, le tariffe daziarie, l'organizzazione dell'esercito e della Guardia nazionale, la riforma dei teatri, il libero commercio dei grani, i provvedimenti in materia di caccia, gli incentivi agrari. Ribadendo le sue posizioni unitarie, il 28 nov. 1797 chiese l'annessione della Marca d'Ancona alla Cisalpina e strettissimi rapporti commerciali con la democratica Repubblica ligure. Una sua proposta del giugno 1798 di abolire lo studio del latino nelle scuole primarie suscitò clamore (U. Foscolo scrisse al riguardo l'ode Per la sentenza capitale proposta nel Gran Consiglio).

Proclamata nel febbraio 1798 la Repubblica a Roma, il L. vi si recò, dando vita a una grande azione di proselitismo e cercando di scuotere "lo spirito dei suoi concittadini con proclami incendiari" (Cantù, p. 355). Al ritorno a Milano, agli inizi di maggio, aprì una violenta polemica contro il pamphlet di Melchiorre Gioia Quadro politico di Milano, accusando l'autore, che invitava la popolazione a sorvegliare i pavidi e poco corretti amministratori, di minare con il disfattismo le basi della neonata Repubblica e di fare, sia pure indirettamente, il gioco della reazione (Analisi e riflessi del cittadino Giuseppe Lattanzi sull'opuscolo Quadro politico di Milano di Mel. Gioia, Milano 1798). Nella querelle intervenne, oltre a Gioia che rispose con l'Apologia del Quadro politico, il Foscolo, che attaccò il L. per i trascorsi romani (Giornale senza titolo, II [1798], 82). Questi si difese allora pubblicando una Lettera sulle di lui avventure in Roma, indirizzata già nel 1787 al granduca di Toscana.

Nell'estate 1798, quando a Milano con il colpo di Stato e la riforma costituzionale dell'ambasciatore francese C.J. Trouvé si operò una dura restrizione delle libertà, il L. tornò a Roma (il "nemico" Monti era nel frattempo diventato segretario del Direttorio), ed entrò tra i collaboratori del Consolato. Nel febbraio 1799 lesse una memoria all'Istituto nazionale sulla necessità di riformare i teatri in sintonia con i principî democratici e repubblicani.

Alla caduta della Repubblica Romana si salvò a stento; i suoi beni furono confiscati ma riuscì a raggiungere Ancona, dove sostenne di avere avuto un salvacondotto dal generale Giuseppe Lahoz il giorno prima che questi cadesse in un'imboscata (10 ott. 1799). Raggiunse quindi Genova, ultima roccaforte repubblicana in Italia, dove già soggiornavano intellettuali e politici quali Foscolo, Giovanni Fantoni, Gerolamo Bocalosi, Cesare Paribelli, con i quali tuttavia il L. non risulta essere stato in rapporto.

Dopo Marengo (giugno 1800) rientrò nella ricostituita Cisalpina, chiedendo con insistenza un impiego ai generali André Masséna e Guillaume Brune e al Bonaparte stesso (cfr. i suoi Passatempi melanconici, Milano a. IX [1800-01]). Alla fine fu reintegrato nel vecchio ruolo di segretario dell'Accademia mantovana. Ai primi di settembre dette vita al giornale Colpo d'occhio giornaliero della città di Milano, ossia Annuario di economia, arti e commercio, sul modello delle Petites affiches di Parigi, che contava sui proventi delle vendite e sulle inserzioni a pagamento. Nel frattempo Monti aveva inferto un gravissimo colpo alla sua reputazione definendolo, nel secondo canto della Mascheroniana, "galeotto di Nemi […] fuggito al remo e al tiberin capestro". Il L. rispose parafrasando il testo montiano (In morte di Lorenzo Mascheroni. Cantica colle identiche rime di V. Monti, Milano a. IX [1801]), ma senza ottenere gli effetti sperati.

Nel dicembre 1801 riuscì a far parte della delegazione mantovana ai Comizi di Lione indetti per dare una nuova costituzione alla Cisalpina. Ammalatosi e poi deceduto il compagno di viaggio Girolamo Coddé, deputato mantovano, il L. raggiunse ugualmente Lione ma, accusato di avere profittato della morte del Coddé per sottrargli beni preziosi, fu presto rimpatriato. Una lunga difesa (Memoria storico-apologetica, Milano 1802) non valse a scagionarlo del tutto. Chiese ripetutamente a Francesco Melzi d'Eril, vicepresidente della Repubblica Italiana, una congrua sistemazione (puntava alla segreteria di qualche rappresentanza diplomatica), che non ottenne. Nel 1804 avviò, con la moglie Carolina, quella che doveva risultare la sua impresa di maggior rilievo, il Corriere delle dame.

Il giornale usciva ogni cinque giorni con otto pagine e, pur rivolgendosi a un pubblico mirato, non mancava di rubriche, curate dal L., con informazioni politiche, commenti, note fortemente polemiche. Il periodico, sulle cui pagine fece le sue prime esperienze di giornalista C. Tenca, contava su un numero di sottoscrittori abbastanza elevato. Profondamente ossequioso verso Napoleone, il L. pubblicò diversi testi in suo onore, tra cui il dramma Carlo Magno in Pavia (Milano 1805), uno dei suoi testi più riusciti. In esso, paragonando le gesta di Carlo contro i Longobardi a quelle di Napoleone, concludeva che le imprese del primo risultavano "un'ombra" al confronto di quelle del nuovo conquistatore. Nel 1807 riprese la sua violenta diatriba contro Monti con una Lettera di Fileto intorno al sedicente principe dei poeti, dapprima uscita nella Revue philosophique, littéraire et politique, alla quale Monti rispose con la Lettera all'abate Saverio Bettinelli. Il L. cercò nuovamente di replicare, ma la sua risposta, diretta anch'essa al Bettinelli, non vide la luce, perché un'ordinanza del direttore di polizia ne impedì l'uscita. Nello stesso anno subì una nuova disavventura: avendo affermato in un articolo sul Corriere delle dame che la Toscana alla fine del 1807 sarebbe divenuta un dipartimento dell'Impero francese (come puntualmente accadde) suscitò le ire dell'imperatore e fu per quasi un mese internato in manicomio. Negli anni 1810-11, il L. fu tra coloro che si schierarono contro Foscolo dopo la sua rottura con i circoli letterari milanesi. Il Corriere delle dame ospitò in particolare una serie di articoli polemici di Urbano Lampredi.

Alla caduta del Regno Italico (1814) il L. cercò di captare la benevolenza dell'imperatore d'Austria Francesco I, scrivendo un'ode sul suo onomastico; nel contempo pubblicò una lettera polemica nei riguardi di Fr.-R. de Chateaubriand, reo di aver sprezzato, nel suo DiBuonaparte e dei Borboni, la figura di Napoleone mettendo in evidenza le sue origini italiane. Nel 1816, ottenuto il perdono da parte di Pio VII, si stabilì tra Nemi e Civita Lavinia (l'odierna Lanuvio), continuando a tessere le fila delle sue diverse attività: aveva ceduto, a Milano, il Corriere delle dame, mantenendo tuttavia un'azienda per la fornitura e spedizione di oggetti e mercanzie di moda, cui poco dopo aggiunse una società di commercio di tappeti ad Ancona. Nel novembre dello stesso anno il suo nome appare in un dispaccio riservato del principe K. Metternich al suo ambasciatore a Londra, che rilevava come un esponente del governo inglese, F. Hamilton, ricevesse articoli dal L., oltre che dal Foscolo, per farli pubblicare sul Morning Chronicle. Hamilton si giustificò affermando che intercettava gli articoli del L. proprio per evitare che fossero pubblicati (in Gambarin, 1978, pp. 63, 65).

Nel 1818, deceduta la moglie Carolina, si risposò con Vittoria Carolina Pozzolini, anche lei di origine toscana, con la quale andò a vivere in una abitazione acquistata a Lanuvio il 2 nov. 1819, come risulta da un atto notarile. Poco dopo si ritrovò al centro di un nuovo caso. Nel luglio 1820, appena scoppiato il moto liberale, raggiunse Napoli, ospite di un suo amico chimico, G.B. Salvadori, del quale intendeva sfruttare una recente scoperta. Si apprestava anche a fondare un periodico, La Chimica degli antichi rediviva, e a pubblicare alcuni suoi scritti, tra i quali uno sul quadro politico dell'Europa dal 1814 ai suoi giorni, allorché il 6 settembre fu arrestato con l'accusa di avere tramato con altri per tenere prigioniero il re sino a che la rivoluzione napoletana non fosse stata riconosciuta dalle maggiori potenze europee. Prosciolto l'11 novembre, gli fu comunque intimato di lasciare il Regno. Riuscito a trattenersi ancora per qualche tempo grazie all'intervento del vecchio amico U. Lampredi, fu raggiunto dalla moglie, che a Napoli dette alla luce una bambina, morta tredici mesi dopo. Il L. riportò la sua vicenda napoletana in una raccolta di lettere alla moglie, intitolata L'infortunio (Napoli 1821). Tornato a Lanuvio nella primavera del 1821, acquistò altre proprietà e il 5 marzo 1822 ebbe un altro figlio, Ercole. Il L. morì a Lanuvio il 13 luglio 1822.

Tra gli altri scritti del L. sono da ricordare: Istoria del blocco e dell'assedio della città e fortezza di Mantova, Cremona 1797; Semplice, facile ed economico metodo per esigere il censo ed ogni altra pubblica imposizione, Milano 1797; Simbolo repubblicano proposto alla Società di pubblica istruzione di Mantova, Milano-Genova 1797.

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