PARINI, Giuseppe

Enciclopedia Italiana (1935)

PARINI, Giuseppe

Giulio Natali

Nacque a Bosisio, villaggio della Brianza, tra i colli che cingono il "vago Èupili", o lago di Pusiano, il 23 maggio 1729, "di casa popolare". Suo padre, Francesco Maria Parino, era un umile negoziante di seta. Andato a Milano, decenne, presso una prozia, la vedova Lattuada, fu iscritto nelle classi inferiori delle Scuole Arcimbolde o di Sant'Alessandro, tenute dai barnabiti. Il registro delle dette secole (conservato nell'odierno Liceo Beccaria), dove più volte figura, dal 1740 al 1752, il nome del P., rivela uno scolaro alquanto negligente: ma bisogna pensare che, per sbarcare alla meglio il lunario, egli era costretto a copiare carte forensi e a dare lezioni private. In autunno tornava a Bosisio a villeggiare; e così ebbe occasione d'entrare in domestichezza con Ambrogio Fioroni, curato di Canzo, che fu il suo primo introduttore nel mondo letterario milanese.

Nel 1752, a ventitré anni, pubblicò a Milano, con la falsa data di Londra, un volumetto di versi, Alcune poesie di Ripano Eupilino (cioè Parino dell'Eupili), nel quale si trovano tutte, tranne la pindarica (ma è proprio del 1752 un'ode nuziale pindarica, Eternatrice dea), le maniere prevalenti in Arcadia nella prima metà del Settecento; ma non si trova neppure un componimento adulatorio e d'occasione, e si nota un fare risentito, un tocco ardito e vigoroso, che preannunzia il futuro energico poeta.

Il volumetto, che fu accolto con favore e lodato, gli aprì, nel 1753, le porte dell'Accademia dei Trasformati, a cui lo presentò, secondo alcuni, Gian Carlo Passeroni, che fu da allora in poi il suo più degno amico; secondo altri, il canonico Giuseppe Candido Agudio di Malgrate, che fu poi sempre suo benefattore e gli affidò più tardi (1755-58) l'educazione d'un suo nipote. L'Accademia dei Trasformati, restaurata nel 1743 dal conte Giuseppe Maria Imbonati e fiorente sino alla morte di lui (1768), era un'accolta di gentiluomini e di letterati, che cercavano di unire al diletto l'utile morale e civile ed erano devoti senza pedanteria al culto della lingua e della letteratura nazionale, conciliando il desiderio del progresso con l'amore della tradizione.

Erano della compagnia anche Pietro Verri e Cesare Boccaria, i quali poi, convertitisi alle idee cosmopolitiche di Francia, si staccarono da quella paesana accademia, per formare la società dei Pugni, in tutto opposta a quella, e pubblicare il Caffiè, che ne fu l'emanazione. Il P. lesse molte volte suoi componimenti ai Trasformati: la prima volta, pare, la satira Lo studio, facendo risonare nell'aula accademica l'augusto nome d'Italia.

Era morta nel 1741 la vedova Lattuada, lasciando al nipote una misera somma annua per una messa quotidiana. Così, per necessità più che per vocazione, il giovane poeta s'era avviato alla vita ecclesiastica; e, giunto all'età prescritta, fu ordinato sacerdote il 14 giugno 1754. Come nuovo sacerdote e poeta di belle speranze, fu accolto in casa del duca Gabrio Serbelloni e di Maria Vittoria Serbelloni nata Ottoboni Boncompagni, in qualità di ripetitore del loro primogenito Galeazzo; e anche quando il duca, sei anni dopo, mandò i figli in collegio a Roma, il P., quantunque inviso al marito, che lo chiamava "il villano di Bosisio", rimase intimo della colta e bella duchessa, fino al 1762. Ciò dava ombra al Verri spasimante per la duchessa e per di più invidioso del primato ottenuto dal P. fra i Trasformati: di qui l'acuto dissidio tra i due uomini che si placò soltanto negli ultimi anni. Il poeta plebeo, vivendo in casa Serbelloni, e frequentando altre case di nobili, si affinò, s'ingentilì: studiò con severità di moralista, ma contemplò con occhio d'artista quel mondo frivolo e pomposo, e, di spettatore che era, si preparò a diventarne giudice.

Contribuirono a dare al P. una certa rinomanza due famose polemiche: con la prima, rintuzzò l'orgoglio del frate servita Alessandro Bandiera, che in un libro su I pregiudizj delle umane lettere (1755) aveva ingiustamente censurato il Segneri e proposto a modello di bello stile, col Boccaccio, sé stesso; con l'altra, mise a posto il barnabita Paolo Onofrio Branda, già suo maestro nelle Scuole di S. Alessandro, che in due Dialoghi della lingua toscana (1759 e 1760) aveva fatto una sguaiata apologia della toscanità e vituperato i Milanesi e la loro lingua. Il P. fu, con G. C. Becelli e con F. Galiani, dei pochi che osassero mettere la letteratura dialettale (alla quale più tardi diede anch'egli contributo con i suoi versi vernacoli) quasi alla pari della letteratura nazionale; e, quanto al purismo toscaneggiante, egli con i Trasformati, come Gaspare Gozzi con i meno fanatici dei Granelleschi, pur riconoscendo alla Toscana" "la lingua nobile e comune", combatté efficacemente il culto esagerato della toscanità, opponendo, come piu̇ tardi fece il Monti rispetto al Cesari, un purismo temperato e ragionevole al purismo pedantesco.

Agli anni che il P. visse in casa Serbelloni si possono ascrivere alcuni scritti in prosa e in versi, che preannunziano il Giorno, concepito probabilmente proprio in quella casa: poemetti con cui si preparava a usare da maestro il verso sciolto, tra i quali notevole l'epistola a F. Fogliazzi, Sopra la guerra, dove indulge all'umanitarismo del Settecento, ma riconosce la legittimità delle guerre che si combattono per la difesa della patria; le tre prime odi, La vita rustica (1757-58), La salubrità dell'aria (1759) e L'impostura (1761); le Lettere del conte N. N. ad una falsa devota, che sono un'arguta satira, sotto il velo d'un continuato insegnamento ironico, della falsa devozione e del probabilismo gesuitico; il Discorso che ha servito d'introduzione all'accadenna sopra le caricature, racconto s wiftiano d'un finto viaggio in paese fantastico, fatto con l'intento di deridere le ridicolaggini del suo tempo; un gruppo di satire in terza rima (Il trionfo della spilorceria, La maschera, Lo studio e Il teatro), che hanno qualche somiglianza con quelle di B. Menzini e anticipano, qua e là, la rude energia della satira alfieriana; il Dialogo sopra la nobiltà, tra due morti di recente, un nobile e un poeta nato plebeo (erano di moda i dialoghi dei morti, dopo quelli del Fénelon), che discutono vivacemente sull'origine e sui diritti, sui privilegi e sui meriti della nobiltà.

Sebbene anche durante la protezione dei Serbelloni il P. non avesse da stare allegro, come dimostra il pietoso capitolo Al canonico Agudio, al quale chiedeva aiuti per la sua povera madre (che gli mancò il 14 giugno 1762), in maggiori strettezze si trovò, dopo che, nell'ottobre del '62, si allontanò per sempre dalla casa ducale, per via di due famosi schiaffi dati dalla duchessa alla figliola del maestro G. B. Sammartini. Ma lo salvò la stampa del Mattino (marzo 1763), incoraggiata dai suoi amici Trasformati e dallo stesso conte Carlo di Firmian, ministro plenipotenziario dell'Austria in Lombardia, che favorì nel giovane poeta l'interprete delle aspirazioni della borghesia operosa e progressiva, a cui s'appoggiava il dispotismo illuminato, alleandosi alla "filosofia", per combattere i superstiti privilegi medievali. Cominciò il foglio ufficioso del governo a fare grandi lodi del Mattino, seguito da altri giornali (unica voce stonata quella del Verri, nel Caffè). Il P. divenne celebre a un tratto, e trasse qualche guadagno dalle prime due edizioni, e più ne avrebbe tratto dalle successive, se stampatori ingordi e senza scrupoli non avessero riprodotto il poemetto fuori di Milano a sua insaputa. Oltre l'Agudio, lo aiutò lo stesso capo dei Trasformati, il conte Imbonati, affidandogli, nel 1763 o '64, il figlio Carlo, al quale il P. dedicò l'ode L'educazione che si può considerare l'intermezzo tra il Mattino e il Mezzogiorno. Questo fu pubblicato nell'estate del 1765, e non ebbe accoglienze meno liete del Mattino.

Non disdegnò il P. (mediatrice una bella e intelligente attrice e ballerina da lui amata, Teresa Angiolini Fogliazzi, moglie del ballerino Gaspare Angiolini) di accettare dal conte Antonio Greppi, che con gli altri fermieri aveva l'impresa del regio ducale teatro, l'incarico di poeta teatrale; e dovette nel 1768 raffazzonare l'Alceste di R. Calzabigi, che l'autore non aveva voluto ridurre egli stesso per il teatro milanese. Male musicato da Pietro Guglielmo, il nuovo "dramma tragico" non ottenne il favore del pubblico; di che il Calzabigi attribuì la colpa al Parini.

Intanto il Firmian, non soddisfatto del modo com'era compilato il giornale ufficioso (Ragguagli di varii paesi), pensò di trasformarlo in Gazzetta di Milano, affidandone la compilazione al P., che vi attese per tutto l'anno 1769. Sebbene la Gazzetta sia una raccolta di notizie di seconda mano, non vi mancano pagine che ci rivelano opinioni e sentimenti del giornalista, e nelle quali si toccano argomenti che egli svolse in altri scritti. Nei numeri del 13 e del 23 dicembre sono annunziati la prolusione e l'inizio del corso di Giuseppe Parini "nuovo r. professore di belle lettere in queste Scuole Palatine". Il giornalista e precettore privato era dunque divenuto regio professore.

Benché scritta in fretta, la prolusione contiene nobili idee, nelle quali il P. s'incontrò col Lessing, il cui Laocoonte era comparso tre anni prima. Comune ai due scrittori è l'esaltamento dell'arte antica, la venerazione dei "supremi del bello esempj e guide - Che lunga età non doma" (La gratitudine); l'assegnare all'arte l'ufficio d'infondere negli animi l'amore della virtù, il segnare confini precisi e inviolabili alle singole arti, il rilevare l'influenza delle lettere su tutte le altre arti belle. Dopo un triennio d'esemplare insegnamento, quando stava per passare in posizione stabile, i suoi nemici cominciarono a diffondere voci calunniose sul nuovo professore. Ma egli contmuò imperterrito a compiere il suo dovere; alle calunnie indirettamente rispose con la relazione ufficiale Delle ragioni del presente decadimento delle belle lettere e delle belle arti in Italia (accolta dal Carducci nelle Letture del Risorgimento); e il conte di Firmian, il 5 luglio 1773, firmava il decreto che dava stabilità alla sua cattedra nelle Scuole Palatine, che pochi giorni dopo si stanziarono, col nome di R. Ginnasio, nel Palazzo di Brera.

Anche fuori della scuola il Parini ebbe non poche incombenze dal governo. Nel 1771 fu incaricato di scrivere un melodramma e di descrivere le feste che si fecero nella metropoli lombarda in occasione delle nozze dell'arciduca Ferdinando d'Austria con l'arciduchessa Maria Beatrice d'Este. Scrisse l'Ascanio in Alba, che fu musicato da A. W. Mozart quindicenne: melodramma allegorico, nel quale il poeta tenta di emulare la fluidità metastasiana, ma si attiene, in quanto toglie la favola dai tempi eroici, introducendovi dei e semidei, alla riforma del Calzabigi. Poco dopo gli fu dato l'incarico di preparare gli statuti dell'Accademia di belle arti e quelli di un'Accademia di agricoltura (ci restano le Costituzioni fondamentali dell'Accademia di agricoltura dî Milano, notevole documento del senno pratico del poeta lombardo), che po; si trasformò in Società patriottica (1776), nella quale egli entrò, riconciliandosi con l'ex-gruppo del Caffè.

Quantunque chiamato anche a fare parte di più commissioni letterarie e pedagogiche, il P. si occupò sempre con vigile amore della sua scuola, in servizio della quale raccolse, prima del 1777, le sue lezioni, che intitolò Dei principj generali e particolari delle belle lettere applicati alle belle arti, opera che lasciò inedita, ma di cui molti esemplari corsero a penna. Certo, alla restaurazione del gusto il P. contribuì più col suo esempio e con la sua eloquente parola di maestro che con questo trattato: il quale non è, peraltro, uno dei soliti trattati di retorica; ma è, nella parte generale, che ricerca i principî comuni a tutte le arti, un vero trattato di estetica, sensistica e neoclassicistica, e, nella parte speciale, contiene una notevole rassegna storica degli scrittori italiani, che ci fa conoscere gli autori prediletti dal poeta.

Aperta in Brera l'Accademia di belle arti (1776), il P., pur restando professore di eloquenza nel R. Ginnasio, fu obbligato ad accogliere nella sua scuola i giovinetti iscritti ai corsi di belle arti, e dovette dare nuovo orientamento al suo magistero. Non più lezioni dettate ex cathedra; ma letture commentate di classici greci, latini, italiani, colorite dal gesto e dalla voce. La scuola divenne così più viva, e sempre più intime e cordiali le relazioni tra maestro e scolari. Intendente di tutte le arti, amico, consigliere e incitatore di Andrea Appiani e dei suoi colleghi di Brera e di altri più giovani artisti e di maestri d'altre arti, il P. diede soggetti di balli e di rappresentazioni sceniche, dettò programmi per opere di pittura e di scultura, legò il suo nome ad alcune delle più grandi opere d'arte di quella Milano che, non senza merito di lui, divenne la cittadella dell'arte neoclassica.

Anche in questi anni la vita del P. fu tutt'altro che tranquilla. Non aver voluto o potuto scrivere l'elogio funebre di Maria Teresa, commessogli dalla Società patriottica (1780), gli fu apposto a colpa. Rigido, austero e franco nel giudicare e nel dire in pubblico ciò che gli sembrava la verità, ebbe molti nemici, che, massime dopo la morte del Firmian (1784), tentarono di fargli molto male. Era povero e cagionevole di salute: per una malattia di nervi sofferta in gioventù, aveva poco forti le gambe ("Sono Parin d'ambe le gambe strambe"). Lo stipendio di 2000 lire milanesi restò tale per ben diciott'anni: soltanto nel 1777, aveva ottenuto un umile alloggio (una o due stanze) a Brera; e nessun compenso gli fu dato per gl'incarichi straordinarî conferitigli dal governo.

Intanto Giuseppe II suscitava con le sue riforme, specialmente economiche (tutte le pensioni furono abolite), il malcontento generale. Di questo si fece interprete, nell'ode La tempesta (1786), il P., che, amico delle riforme organiche graduali, riprovava le riforme tempestose di Giuseppe II, come più tardi riprovò gli eccessi della rivoluzione francese, che pure era stata da lui in certo modo auspicata. Ma dalla tempesta il P. uscì, l'anno dopo, con un piccolo aumento di stipendio; e nell'ottobre del 1791 gli fu assegnata, oltre la cattedra, la "carica di sopraintendente superiore delle scuole pubbliche in Brera, coll'aumento di soldo, portandolo a lire annue 4000" (proprio in quell'anno un suo discepolo avea pubblicato la prima edizione delle Odi); e nel 1792 gli fu data "una più larga e comoda abitazione" nel Palazzo di Brera.

La non lieta vita del P. ebbe il conforto, da parte d'illustri gentildonne, se non dell'amore, di quella "amitié amoureuse" alla quale egli inneggia nella graziosa canzonetta Il brindisi. Quello del P. è un carattere di rara nobiltà, reso più amabile da un'unica debolezza, da lui stesso confessata in una lettera a G. Paganini: "La natura mi ha disposto a dei sentimenti che mi dovevan rendere perpetuamente infelice: ed io son così debole, che non ho mai saputo far uso della ragione per domarli, o almeno per moderarli". I biografi narrano le scappatelle del giovane abate dai grandi vivaci nerissimi occhi, e le sue fiamme passeggere per donne di teatro; abbiamo accennato alle sue relazioni con Teresa Angiolini Fogliazzi, che probabilmente sarà "l'amabil Teresa" del frammento A gentil donna, nella quale i biografi vedono una Teresa Mussi, di cui nessuno sa poi dire nulla. Ma questi, forse, non sono amori; sì galanteria e sensualità. Grande disperata passione fu quella per la gentildonna Francesca Castelbarco Simonetta: amore testimoniato da sei lettere senza l'anno (ma certamente del 1774) all'amico Giuseppe Paganini, le più lunghe fervide ansiose che del P., il quale confessava "la sua invincibile pigrizia a scrivere lettere", ci siano rimaste. Negli ultimi anni, sempre sensibile alla bellezza femminile, seppe fuggire il "dolce pericolo", legandosi di tenera amicizia a gentildonne che al gran nome e alla bellezza univano "geniali studî" e "costumi soavi". La stessa Maria Beatrice d'Este è alla testa della bella schiera, alla quale appartengono Cecilia Tron Zen, Silvia Verza Curtoni, Paola Castiglioni Litta, Maria di Castelbarco Litta.

Quantunque il P., dopo avere invano sperato, allo scoppiare della rivoluzione, nella felicità sociale, fieramente riprovasse "l'infamia del secolo spietato", gli orrori della Francia del Terrore, tuttavia la sua interezza, la sua veramente italiana armonia di pensiero e d'azione, il suo desiderio di rendersi utile alla patria lo fecero entrare nella nuova municipalità, che fu istituita a Milano nei primi giorni dopo la venuta dei Francesi (maggio 1796), e a cui lo aveva chiamato la sua avversione ai nobili, che lo faceva considerare anche dai demagoghi come campione della democrazia. I municipalisti si divisero in più comitati: egli si trovò con Pietro Verri nel terzo, dove si trattavano gli affari del censo, degli archivî, della pubblica istruzione, dei teatri. Ma ben presto vide tradite e deluse le sue speranze. Nella seduta del 21 luglio lesse una dichiarazione, con la quale rivendicava alla municipalità di Milano il diritto di dare una costituzione alla Repubblica Cisalpina, senza attendere gli ordini di Parigi. La sua proposta non fu accolta: egli si congedò. Come compenso per i tre mesi d'ufficio gli furon pagate 1026 lire, che la "sdegnosa anima" fece segretamente distribuire dal suo parroco ai poveri. Non rifiutò, sino all'estremo, altri incarichi ufficiali; e ritrovò la pace dell'anima soltanto nella serenità degli studî, nel quotidiano colloquio con gli "spiriti magni". Le ultime meditazioni della sua vita furono intorno al Cenacolo di Leonardo. Intanto i suoi mali s'aggravavano: l'immobilità richiesta dalla cura d'una cateratta determinò l'idropisia alle gambe.

Tutti i nauseati dello sgoverno di Francia plaudirono agli Austro-Russi, invasori della Repubblica Cisalpina (aprile 1799); e lo stesso P., desideroso di ordine e di pace, dovette accogliere l'invito della Società de' Filarmonici a dettare versi celebranti la vittoria dei nuovi padroni. La mattina del 15 agosto 1799, ultimo giorno di sua vita, dettò all'amico Brambilla il sonetto Predaro i Filistei, e poi volle ricopiarlo di suo pugno, e disse, finito di scriverlo: "Vi ho posto un buon ricordo anche per costoro". Nel pomeriggio spirò placidamente.

Privatissimi e umilissimi furono, per sua volontà suprema, i funerali. Fu sepolto nel cimitero di Porta Comasina, dove non ebbe sepoltura distinta, perché lo vietava la legge allora imperante. Ma esagerò il Foscolo, lamentando che Milano non avesse posto a lui né pietra né parola. L'amico Calimero Cattaneo gli fece porre nel cimitero una decorosa iscrizione. Un busto scolpito dal Franchi, per cura di Barnaba Oriani, fu eretto nel 1801 sotto il portico di Brera. Poco dopo l'avvocato Rocco Marliani, nella sua Villa Amalia presso Erba, collocò in un tempietto altro busto, opera anch'esso del Franchi. Specialmente notevoli la statua scolpita da Gaetano Monti, posta nel 1838 sullo scalone di Brera, e il monumento nazionale inaugurato al Cordusio in Milano nel 1899, opera di Luigi Secchi.

Il Giorno. - È il capolavoro del P., poema unico nel suo genere; satiricamente didattico, in quanto il poeta, forse parodiando il poema didascalico abusato nel suo tempo, finge di scrivere una specie di galateo per il "Giovin Signore"; epicamente satirico, in quanto dà alla satira proporzioni di poema. Ne risulta un gran quadro parlante della ridicola nobiltà italiana del Settecento, pomposa e frivola, superba e vana, molle e oziosa, devota soltanto a Filauzio, cioè all'amore di sé, anzi della propria persona, e di null'altro osservante che dei riti della Moda, alla quale il poema è argutamente dedicato.

Delle quattro parti di esso, il Mattino e il Mezzogiorno furono pubblicati rispettivamente nel 1763 e nel 1765; le ultime due parti, non finite, il Vespro e la Notte, furono pubblicate postume nel 1801 dal primo editore delle Opere pariniane, Francesco Reina.

Perché il Parini non finì il Giorno? Sdegno per "la cabala e l'avidità degli stampatori", condizioni non buone di salute, mancanza di stimoli dall'alto, scoraggiamenti, incontentabilità artistica lo fecero giungere, tentennando e procrastinando, al 1791. Gli venne allora lo stimolo dall'alto, nientemeno che da Maria Beatrice d'Este: ma era troppo tardi ormai. I tempi erano mutati: al p. Pompilio Pozzetti, che lo sollecitava a pubblicare il seguito, rispondeva aver cominciato dal 14 maggio 1796 "a riguardare qual pretta viltà, niente men turpe che l'insaevire in mortuum, l'acconsentir, dopo tanto procrastinare, all'edizione d'uno scritto, ove si pungono di sarcasmo quelli singolarmente che nel gran corpo sociale formavano una classe distinta, di cui i politici cangiamenti sopraggiunti allora nel proprio paese facean veder manifesta la total decadenza". Parce sepulto disse il P., e non terminò il poema.

Del resto, il Giorno, di cui la prima parte descrive la toilette, la seconda il pranzo, la terza le visite e il corso, la quarta le conversazioni e il giuoco, può considerarsi sostanzialmente finito. L'unica grande lacuna del poema è quella che s'apre nell'episodio della partoriente, nel Vespro, assai smilzo in confronto delle altre tre parti. Ma non pare ci sia lacuna nella Notte, dove, secondo i più, mancherebbe, tra la descrizione dei gelati e l'epilogo, la descrizione dell'"ampia scena". Restano, è vero, appunti del P. sul teatro: ma non è detto che nella composizione definitiva di un'opera debba entrare tutto ciò che è passato per la testa dell'autore; né era suo intento enumerare per filo e per segno tutte le occupazioni del Giovin Signore, ma dimostrare di quelle l'insulsa futilità.

Quantunque sia evidente che la vera fonte del Giorno è la vita settecentesca, i "fontanieri" (come il Carducci li chiamava) non rinunziarono a ricercare anche le fonti "letterarie", e tirarono in ballo il Riccio rapito del Pope e il Leggio del Boileau e la satira del gesuita G. L. Lucchesini, In antimeridianas improbi iuvenis curas (1672), e quanti nello stesso secolo del P. fecero filosofia o satira del costume. Bene fu osservato che bisogna, se mai, ricercare soltanto esemplari di continuato insegnamento ironico, come quelli di Orazio, di Erasmo da Rotterdam, di P. I. Martello, di L. Sergardi, di G. C. Cordara, a cui possiamo aggiungere B. Marcello (Il teatro alla moda). I precedenti del Giorno si trovano, del resto, come abbiamo veduto, nello stesso P.: l'intendimento nel Dialogo sopra la nobiltà, la materia nel discorso Sopra le caricature e nella satira Il teatro, l'insegnamento ironico nelle Lettere ad una falsa devota.

Si trovarono nel poema allusioni personali: anzi lo si credette addirittura scritto ad personam (i contemporanei ravvisavano nel Giovin Signore il principe Alberico di Belgioioso). Il vero è che il P. scrisse una gran satira sociale, non una satira personale, pur ritraendo nei particolari, studioso osservatore della realtà, alcune determinate persone. Nel Giovin Signore egli colpiva tutta una casta: i primi versi del poema ci dicono che mirava a tutta la nobiltà, a quella antica e a quella comprata, al "sangue purissimo celeste" e ai "compri onori" e alle "ricchezze adunate in pochi lustri".

Con la grande favola del Piacere, centrale del Mezzogiorno, il P. ci manifesta il precipuo intento del poema, assalto contro la nobiltà, battaglia contro il diritto del sangue, vera diana della rivoluzione.

In quella favola il poeta raggiunge il culmine dell'ironia, facendo derivare il differenziarsi dei nobili, molli ed effeminati, dalla plebe per una maggiore attitudine a percepire le sensazioni del piacere. Poiché per il Giovin Signore soltanto il piacere è fine e norma di vita, il P. pone l'origine della nobiltà non già nell'astuzia, nella forza, nella fortuna ("arte, forza, fortuna", com'egli stesso dice con vero senso storico), ma nel piacere.

Contrappone sempre ai nobili oziosi il popolo dei lavoratori: non soltanto "l'energica plebe", cara al poeta plebeo, ma anche l'operosa borghesia. E spesso confronta i nobili d'allora, i "suoi Achilli" e gli "Augusti del suo secolo", con i loro antenati, unica per essi cagione di vanto e di superbia. Degl'"incliti avi" dice il bene e il male: mostra a ogni modo come essi fossero operosi (guerrieri, agricoltori, mercanti, magistrati, cultori dei più varî studî), mentre i nobili contemporanei sono peggio che i vili di Dante, ai quali il P., con Dante, preferisce anche gli operosi nel male.

Il fine essenzialmente sociale del Giorno non esclude altri fini subalterni. Deridendo quella nobiltà imbastardita e infranciosata, distruggitrice della famiglia e rinnegatrice delle tradizioni patrie, il poeta intende anche alla rigenerazione della famiglia e alla difesa del carattere e del costume nazionale; epperò prende di mira specialmente due vizî del patriziato d'allora: il cicisbeismo, che offendeva la famiglia (ce lo dice la grande favola di Amore e Imene, centrale del Mattino), e l'esoticismo (l'amore della lingua e delle letture francesi, i cuochi e le mode di Francia, la cultura enciclopedica dei "belli spirti" e delle "preziose", il volterianismo, il colbertismo, ecc.), che offendeva la patria. Così a un P. più comunemente noto come poeta sociale dobbiamo aggiungere un poeta nazionale, che vuol rivendicare l'italianità della lingua, del pensiero, della cultura, del costume, inquinati dalle importazioni straniere accolte dai nobili del suo tempo.

È da vedere ora se i fini che egli si proponeva eccitarono la sua fantasia, e se egli li raggiunse con mezzi artistici adeguati. È stato osservato che il P., teorico dell'estetica sensistica e poeta del sensismo, "spesse volte sostituiva alle impressioni della fantasia lo studio della evidenza sensibile"). L'osservazione può valere a scagionare il P. dei due difetti notati dalla recente critica nel Giorno: uniformità, minuziosità, che generano monotonia; e grande ricchezza di motivi non unificati, cioè mancanza d'unità.

Quanto alla monotonia, è certo che il Mattino, con quella continua descrizione delle minute occupazioni mattutine del Giovin Signore, può riuscire monotono. Il P. se ne accorse, e mutò rotta. Ed ecco il poema apparentemente didascalico, o meramente descrittivo, trasformarsi in un poema satirico, anzi eroicomico, in una specie di commedia, la cui scena si slarga sempre più. Nel Mezzogiorno infatti alla figura del Giovin Signore si uniscono quelle della dama, del dabben marito, dei parassiti; nel Vespro, il marito scompare, e il cavaliere e la sua dama fanno quasi da guida al poeta fra altre figure e scene del bel mondo. Nella Notte, il Giovin Signore si confonde nella conversazione generale: e, presentandoci un'inquietante schiera di mentecatti e d'imbecilli, l'arte del P. forse raggiunge la maggior potenza. Con mirabili avvedimenti, del resto, egli sa vivificare la sua materia, dare varietà alla rappresentazione d'un mondo, che avrebbe voluto essere il mondo del Piacere ed era invece il mondo della Noia. I critici concordi lodano gli episodî: i tre principali, la gara di Amore e Imene nel Mattino, la favola del Piacere e la "vergine cuccia" nel Mezzogiorno, strettamente connessi all'azione del poema; ornamentali gli altri, l'origine della cipria nel Mattino, del tric-trac nel Mezzogiorno, del canapè nella Notte. Ma c'è ben altro: l'antitesi sociale, la continua contrapposizione della vita del popolo dei lavoratori alla vita dei nobili oziosi; il confronto dei nobili d'allora con i loro "incliti avi"; la poesia della natura, che si manifesta non soltanto nelle famose descrizioni del mattino, del tramonto, del crepuscolo, della notte, ma in tanti altri luoghi, nei quali pare che il P. voglia "lustrare" e "purgare" il chiuso aere dei palazzi patrizî con l'aria fresca e con i profumi della campagna; le ispirazioni classiche, mitologiche, cavalleresche, con le quali dà maggior colore e vigore alla sua ironia; i quadri e quadretti esotici e preromantici; le similitudini, belle di pittorica evidenza; le effusioni liriche.

Anche sulla mancanza d'unità non si può consentire, quando si osservi che il mondo pariniano è unificato dall'austera e insieme amabile personalità del poeta, sempre vigile e presente. La poesia più viva del Giorno è la poesia personale del P., il quale, attraverso l'ironia, ci rivela i suoi ideali, il suo sentimento dell'uguaglianza, della famiglia, della patria, della religione, il suo amore per l'arte classica, per la tradizione italiana. Talvolta poi, fortunatamente per l'arte che sarebbe stata danneggiata dal costante tono ironico, l'ironia è interrotta dall'affetto, l'ingegno satirico è vinto dal genio lirico: la sua natura originaria di poeta popolano ha il sopravvento, e il P. dimentica l'ironia, e scatta, effondendo senza ambagi il suo vero sentire, svelando ai lettori la. parte migliore di sé; o anche accade che il popolano ingentilito dal salotto non si sottragga al fascino di quel mondo aristocratico, che pure condanna, e indulga talvolta alle grazie della società in cui vive, si oblii, come artista, nella contemplazione di quelle fastose eleganze, indulga specialmente alle donne, le quali, in fondo, son quali le fanno gli uomini, e al mondo aristocratico satireggiato contrapponga non soltanto il mondo plebeo, ma la tradizione eroica della stessa aristocrazia. Il vero protagonista del Giorno non è il Giovin Signore, burattino senza nome; ma il burattinaio, lo stesso poeta, che si fa attore, in qualità di precettore, della commedia sociale del suo tempo, e, poeta vate, si fa giudice di quella società.

L'eccellenza dello stile pariniano, esaltata dallo stesso P. negli ultimi versi della Notte, è tale, che, dal Foscolo in poi, è stata paragonata a quella di Virgilio. "Virgilio della moderna Italia" lo chiamò il Leopardi. Del suo endecasillabo sciolto, mirabilmente vario (in opposizione alla scuola rumorosa vuota e monotona dei "tre eccellenti autori"), dice il Carducci che egli "seppe fargli prendere tutte quasi le pose dell'esametro, seppe farlo nella tenuità sua limitata allungare, allargare, snodare, fargli simulare il passo del gran verso antico". La parola del P. è degna di nota per la sua parsimonia ed energia dantesca: parola densa e concentrata, castigata e ardita insieme, piena di sensi e sottintesi. Egli è rinnovatore della lingua poetica italiana, come il suo amico Baretti della lingua prosastica.

Le Odi e altre liriche. - Con la stessa mano con cui ha fatto crollare l'antico, il P. erige un nuovo edifizio morale e civile nelle diciannove Odî (1ª ediz. compiuta, Milano 1795), formanti un tutto a sé, che, dopo il Giorno, è il maggiore titolo di gloria del poeta lombardo. L'ironico precettore d'amabil rito è qui maestro di civiltà e di vita. Egli è un poeta affiatato col suo tempo, tutt'altro che "ritirato in sé stesso", quale parve al De Sanctis; in un certo senso è vate: l'interprete delle aspirazioni della borghesia operosa e progressiva, la voce poetica dell'età delle riforme. Ma le idee del suo tempo egli le investe, le fa sue, le feconda, e, traducendole in immagini, dà ad esse la vita. Così il poeta dell'utile ("Va per negletta via - Ognor l'util cercando - La calda fantasia") poté ridare alla poesia italiana quella "possa dell'io" che Antonio Conti aveva indarno invocata.

Il mondo lirico delle Odi è, esattamente, l'antitesi del mondo satirico del Giorno. Il P. amava la natura, opera di Dio, la natura "madre amante"; e, in mezzo all'urbano clamore, in mezzo al tumulto della corrotta vita cittadina, sospirava la pace dei campi, aspirava alla libertà agreste: aspirazione espressa nella sua prima ode, La vita rustica (1757 o '58), come nella Tempesta (1786) e nell'ode Alla Musa, ultima sua; ma assai diversa dall'ozioso sospirare arcadico, in quanto s'accorda col concetto della necessità del rifiorimento dell'agricoltura in Italia e col sentimento di pietà per le miserie degli agricoltori. Perché è immaginario il contrasto, che qualcuno ha notato in lui, tra la società e la natura. La campagna può essere un momentaneo rifugio per uomini della sua tempra: egli è nato poeta di città e di società, sente la nostalgia della città della "sua" città, benché nato in campagna; e torna ai "cittadini suoi", sia pur per correggerli, per incorarli a vivere una vita sana, a curare l'igiene dei corpi e delle anime, a volere i connubî fecondi, a non spregiare il lavoro dei campi, a coltivare gli studî, a guardarsi dal forestierume.

Ed ecco il poeta sociale, che inneggia ai progressi civili (La salubrità dell'aria, 1759; L'innesto del vajuolo, 1765; La laurea, 1777, inno alle donne che, senza rinunziare agli uffici di sposa e di madre, si dànno agli studî e ai negozî civili), o combatte i mali della società (La impostura, 1761, protesta contro il secolo dei "ciarlatani"; Il bisogno, 1765, ode ispirata dallo stesso animo che avea dettato l'anno prima al Beccaria il trattato Dei delitti e delle pene; La musica, 1769, fiera requisitoria contro l'uso dell'evirazione). Nessuno espose così degnamente il nuovo ideale pedagogico come il P. nell'Educazione (1764). Chirone-Parini crea un Achille cristiano, forte di membra, nobile d'anima, intimamente religioso, amico della giustizia e della verità, lontano da ogni ipocrisia, pronto a combattere per la patria, capace di alternare ardimento di magnanime ire e pietà per il debole che cade. La poesia della scuola, con l'entusiasmo per l'arte classica, anima alcune strofe della troppo lunga ode encomiastica La gratitudine (1791). In tre odi, La recita de' versi (1783), In morte di A. Sacchini (1786) e Alla Musa (1793), è espresso il sentimento altissimo del P. per la nobiltà dell'arte. Come Chirone dell'Educazione il programma etico, così la Musa dell'ultima ode sta a significare il programma estetico del P., che è l'unità dell'ideale poetico e dell'ideale umano.

Altre odi sono tutte intime e subiettive, come La caduta e le odi erotiche o galanti. Ma anche La caduta (1783) si risolve in una magnanima rivendicazione del lavoro onesto e del dovere e nel ritratto del "buon cittadino". L'ode A Silvia (1793) punge amabilmente la leggerezza di certe belle "stupide e di mente e di cuore", che non sanno vedere nelle vesti impudiche il simbolo di corrotti costumi. Nelle tre odi erotiche (Il pericolo, 1787; Il dono, 1790; Il messaggio, 1793), il P. è il poeta dell'amore intempestivo; ma anche rivela il suo nobilissimo sentimento della donna e dell'amore, vagheggia un nuovo tipo femminile in tutto opposto a quello arcadico e al "preziosismo" il tipo della donna cara, oltre che per venustà, per "geniali studii" e "costumi soavi"; la bellezza avvivata e rilevata dalle doti del cuore e dalla cultura della mente.

Il mondo ideale e sentimentale delle Odi è meno vasto di quello del Giorno: ma si può integrare con i pensieri e con i sentimenti espressi in altre liriche pariniane, di minor valore artistico, ma storicamente importanti, in quanto ci fanno appunto conoscere il suo modo di concepire e sentire la famiglia, la patria, la religione; e si viene alla conclusione che il rinnovamento italiano, conciliatore delle nuove idee con la tradizione, non privo di senso storico, rispettoso del sentimento religioso, ebbe in lui, tra i poeti, il suo maggiore rappresentante.

Anche nella forma esteriore della lirica pariniana si nota quel connubio d'una filiale reverenza alla tradizione con un impaziente desiderio del progresso, che è il più notabile carattere dell'uomo e del pensatore. Il P. minore indulse a tutte le maniere messe in voga dall'Arcadia: pastorale, anacreontica, pindareggiante, petrarchesca, bernesca; perfezionò e avvivò, infondendovi uno spirito nuovo, le quattro forme liriche emerse da tutto il lavorio arcadico e bravamente coltivate verso la metà del Settecento da C. I. Frugoni: il sonetto, la canzonetta, la canzone-ode, l'endecasillabo sciolto. Non giunse a far tanti sonetti fervidi e ispirati quanti ne fece l'Alfieri: pur ne lasciò di eccellenti (Per Girolamo Miani, Per Caterina da.Pallanza, Di sé stesso, Per Maria Beatrice d'Este, A Vittorio Alfieri il tragico e altri). Seppe anche in facili e gaie canzonette (Le nozze, Il brindisi, Il parafoco, La sincerità e altre) e in lepidi "scherzi" per parafuochi e ventagli gareggiare di snellezza e facile soavità con alcuni suoi contemporanei. Lasciò poemetti, epistole, frammenti d'idillî in verso sciolto. Ma predilesse la canzone-ode, e non volle che delle sue liriche altro si raccogliesse, lui vivo, che le Odi.

Il Carducci, dopo avere detto che queste iniziano la terza stagione della lirica in Italia, successa alla prima delle origini e alla seconda della rinascita, distingue due periodi nello svolgimento lirico del P.: dei quali il primo, che va dal 1757 o '58 (La vita rustica) al 1777 (La laurea), non manca di vigore, ma neppure d'ineguaglianze e d'esitanze; il secondo, che va dal 1783 (La recita dei versi) al 1795 (Alla Musa), è quello della maniera oraziana, cioè più propriamente pariniana.

Un po' dell'imperizia e della rusticità di Ripano Eupilino si risente ancora nelle odi del primo gruppo (tra le quali eccellono La salubrità dell'aria, L'educazione e Il bisogno), efficaci e nervose nella loro asprezza e apparente negligenza, ma non prive di mosse retoriche, di residui arcadici, di artificiose allegorie, di contaminazioni satiriche, e soprattutto macchiate talvolta da certo eccesso di realismo, da certo prosaico andamento proprio di chi mira troppo all'"utile". Il P., peraltro, non cade mai nel filosofismo caro a certi suoi contemporanei, anche suoi seguaci: egli canta ideali che prima gli hanno cantato nell'anima, gli hanno eccitata la fantasia.

Lirica pura, melica, rappresentazione di vicende puramente spirituali, sono in gran parte le odi del secondo periodo, nelle quali il poeta mira alla squisitezza oraziana. Liberatosi dal petrarchismo, dall'anacreontismo, dalle maniere arcadiche, pur indulgendo qualche volta al falso pindarismo encomiastico chiabreresco, rinnova l'ode oraziana, crea l'ode neoclassica, che lascerà in retaggio al Monti e al Foscolo. Il gran maestro è, qui, Orazio (da lui considerato "lucido esempio e guida - D'ogni poetic'arte"), come, nel Giorno, Virgilio. Ma, più che discepolo d'Orazio, egli è un fratello congeniale del poeta antico per quella temperanza di sentimento e ragione, per quell'equilibrio spirituale, che diventa, nell'uno e nell'altro, equilibrio d'arte: ma è un Orazio di anima più nobile e di più intemerata coscienza.

Esclusa l'allegorica Tempesta, escluse La magistratura e La gratitudine, pseudopindariche o chiabreresche, tutte le odi del secondo gruppo sono variamente belle: La recita dei versi, In morte di A. Sacchini, Alla Musa, tu̇tte animate dal sentimento del decoro e quasi della santità dell'arte; La caduta, la più pariniana delle odi; Il pericolo, Il dono, Il messaggio, le odi del vano desiderio e dell'amore intempestivo; A Silvia, graziosa mescolanza di galanteria e d'indignazione. Ma anche le tre meno belle hanno gruppi stupendi di versi.

Esagerava il Manzoni quando giudicava le odi pariniane "le migliori che abbiamo noi italiani, e delle più belle che si sieno scritte mai"; ma esagerava per un altro verso il Leopardi, quando chiamava il P. "piuttosto letterato di finissimo gusto che poeta", o notava: "Gli sforzi del Parini (veri sforzi e stenti, secondo me), mostrano e quanto ci mancasse e quanto poco si sia guadagnato". Il vero è che il P., il quale pur sapeva assai bene anche metastasieggiare, volle ridare nerbo e vigore alla lirica italiana, che diventò con lui meno sonora di ritmo, meno accesa di colore, più riflessa, più sobria, atta a cantare l'utile e il vero. Certamente, mirando alla forza per reazione alla mollezza arcadica, non può non riuscire, qualche rara volta, per soverchio studio, e stentato e sforzato e, per l'abuso delle inversioni, contorto.

Alla soave melodia del Metastasio e al tedioso rimbombo del Frugoni questo "fabbro di numeri divini" contrappone una certa recondita armonia, generata soprattutto dalla sapiente collocazione delle parole, preludente alla musica del verso foscoliano e carducciano.

Fortuna del P. - Il P. non godette tra i suoi contemporanei quella celebrità che non fu negata a uomini, per ingegno e carattere, tanto meno nobili di lui. Chi scorra i due più importanti giornali letterarî che si pubblicavano in Italia lui vivente, le Novelle letterarie di Firenze e il Giornale dei letterati di Pisa, lo trova lodato una volta sola nel primo per la polemica col Bandiera (1756), invano ne cerca il nome nel secondo.

Pure il Giorno ebbe molti stracchi imitatori, verseggiatori in verità più frugoniani che pariniani, i quali s'illusero che bastasse trattare materia affine a quella del P. per gareggiare con lui. Ne citeremo alcuni, senza tener conto delle imitazioni parziali. Una Sera fu stampata anonima a Venezia nel 1766: opera del veronese G. B. Mutinelli. Gaetano Guttierez pubblicò anonimi Il cavalier del dente (1767) e Il cavalier del naso (1768). Il bresciano Giuseppe Colpani, collaboratore del Caffè, lanciò, dopo il Mezzogiorno, due poemetti in versi sciolti contro le idee del P., Il commercio e Il gusto (1766 e '67); più tardi, negli Sciolti (1780), specialmente nella Toeletta e nella Emilia, rifece il Giorno alla rovescia, insegnando sul serio a Nice quello che il P. ironicamente al Giovin Signore. Iacopo Vittorelli scrisse Il tupè, stanze (Bassano 1772); il conte Vincenzo Marenco da Castellamonte imitò il P. in parecchi poemetti, tra cui Le vacanze (1774). Per la materia s'accosta al Giorno il poema in ottave di Antonio Brugnoli bresciano, Il pregiudizio (Venezia 1776). Clemente Bondi scrisse La moda (1777) e Le conversazioni (1778), imitato dal Delille in La conversation. Il bresciano conte Durante Duranti diede fuori L'uso in tre parti (1778-80), ritraendo un cavaliere da giovine, da sposato e da vedovo, e caricando le tinte, tanto da descrivere cavalieri malfattori, degni della lanterna. Francesco Zacchiroli scrisse un polimetro, La scuola delle dame (Firenze 1779); pretendeva essere il P. delle signore. Imitarono il Giorno Luca Nicola De Luca, vescovo molisano, in due poemetti, Lo studente e letterato alla moda (Napoli 1785) e Il pensatore alla moda (ivi 1787); Leopoldo Cicognara, in un poemetto poi ripudiato, Il mattino, Il mezzogiorno, La sera, La notte (Palermo 1790); Giulio Trento, nella Coquette (Treviso 1792), satira della borghese corrotta, che, per voler gareggiare con le nobili, cade nel ridicolo e nell'abiezione; Giuseppe Franchi di Pont nel Maritaggio (Torino 1795); Vincenzo Bertoni da Finale, nello Scalco (in Poemetti italiani, Torino 1797, XII); Andrea Rubbi, nei Conviti (in Raccolta di poemi didascalici, Venezia 1797, VIII); e, meno spregevole di tutti, Lorenzo Pignotti in alcune novelle e nel poemetto eroicomico La treccia donata (1808). Siamo giunti agl'inizî dell'Ottocento: ma l'imitazione continua con L'educazione alla moda, che è uno dei Poemetti galanti (Napoli 1804) di Michele Zezza, e con Le sponsalizie (Ravenna 1821) di Iacopo Landoni. Lo sciolto del Giorno fu studiato e imitato, oltre che dai maggiori, da L. Mascheroni, da I. Pindemonte, da T. Gargallo, da G. Gherardini, da M. Missirini, da F. Bellotti.

Il Giorno fu tradotto almeno tre volte in latino: il Mattino e il Mezzogiorno da C. Antonio Morondi (Milano 1791 e '92); tutto il poema dal fermano Ignazio Guerrieri (Fermo 1825) e dal filologo milanese Francesco Pavesi (morto nel 1882), la cui traduzione resta inedita nella Biblioteca Ambrosiana.

Anche le Odi furono imitate da alcuni contemporanei, seguaci di quella maniera che allora si chiamava "lombarda", e che era contrapposta al "facilismo" metastasiano; e forse più del Giorno influirono sull'Ottocento: certo se ne trovano riflessi nelle liriche di moltî poeti, fino al Carducci.

Benemeriti della gloria del P. furono specialmente i suoi scolari: editori delle sue opere, come Agostino Gambarelli, Francesco Reina e Giuseppe Bernardoni; primi biografi, come il Reina stesso e Cosimo Galeazzo Scotti, di cui il Parini corresse le novelle, autore d'un ampio Elogio (Milano 1801) del maestro; e, come G. Bossi, G. Zanoja, F. Torti, G. Bernardoni, F. M. Mariani, banditori in versi della sua grandezza. Sul principio del sec. XIX fiorì a Pavia un'Accademia Pariniana.

Il P. fu, dopo Dante, uno dei pochi scrittori idealeggiati e diventati leggendarî subito dopo la morte: si pensi alla trasfigurazione che ne fa il Monti nella Mascheroniana, e si vedano i due curiosi opuscoli: Lo spirito dell'abate P. accolto all'altro mondo dall'ombra dell'abate P. Metastasio e presentato a quelle dell'Ariosto, del Tasso, Tassom, Petrarca, Dante (Milano 1799), dialogo anonimo scritto da Giuseppe De Marini, e Dialogo di P. e dell'Appiani agli Elisi (Milano 1818), scritto da Antonio Lissoni.

Ma la vera, la grande fortuna del P. è che furono suoi eredi spirituali i maggiori poeti italiani del sec. XIX: il Foscolo dei Sepolcri, il Monti della Feroniade, il Leopardi della Sera del dì di festa guardarono alla grande arte del Giorno; e le odi del Monti e specialmente del Foscolo non poco derivarono dalle odi pariniane. La poesia del P., ispirata in parte dall'amore degli umili, si rinnovellerà di novella fronda nel Manzoni, il quale sarà il poeta di quel gran moto idealistico, che, mentre reagirà contro il sensismo e il naturalismo del Settecento, accoglierà di quel secolo le idee di libertà e di fratellanza. Il preromanticismo, il realismo, la poesia della scienza fanno, d'altra parte, del P., che pur fu maestro e duce della scuola neoclassica, un precursore di alcuni aspetti della letteratura romantica dell'Ottocento. I poeti patriottici del sec. XIX, alcuni, come il Torti e il Berchet, pur divenuti seguaei della scuola romantica, venerarono sempre la memoria del poeta, che il Carrer chiamava il "Socrate lombardo", e si vantarono suoi discepoli. Giustamente Francesco Benedetti lo proclamò "antesignano della nuova scuola lombarda".

Il vero è che a questo maestro e duce della scuola neoclassica fanno capo, rendono omaggio, offrono incomparabili testimonianze d'amore tutti i migliori ingegni italiani del sec. XIX. Il Monti lo indiò nella Mascheroniana, il suo forse più sincero e libero poema, e ne difese argutamente l'arte dalle censure della Stäel e del De Coureil; il Foscolo lo immortalò nelle Ultime lettere, nei Sepolcri, nelle Lezioni d'eloquenza, nel Gazzettino del bel mondo; il Leopardi intitolò da lui il trattato Il P. ovvero della gloria; il Manzoni giovanetto a lui inneggiò in un sermone e nel carme In morte di C. Imbonati; il Giordani lo giudicò "grandissimo e utilissimo, dopo Dante, fra tutti i poeti"; gli storici e i filosofi, il Botta il Balbo il Gioberti il Mazzini il Cattaneo, lo esaltavano; ne idealeggiarono la figura, nei loro romanzi, Carlo Ravizza, Ippolito Nievo e Giuseppe Rovani; il Giusti ne scrisse la vita e curò una scelta dei suoi scritti; Paolo Ferrari, letto il libro del Cantù L'ab. P. e la Lombardia nel sec. XVIII, intitolò da lui una delle sue commedie più vive, La satira e il P.; Francesco De Sanctis s'inchinò reverente innanzi a quest'uomo "così semplice e sincero nella sua grandezza morale"; Giosue Carducci scrisse degnamente la Storia del "Giorno" e studiò da par suo il P. minore.

Non molto fortunato fu il P. nelle letterature straniere. La Francia, che sin dal 1776 ebbe dal Desprades una prima traduzione del Mattino e del Mezzogiorno, ebbe soltanto nel 1878 da R. Dumas un libro su la vita e le opere del P.: ma non pare che l'arte del P., che pure fu caro allo Stendhal, sia molto apprezzata in Francia, se un italianisant come Charles Deiob quasi mette il poeta alla pari del Delille, che è quanto dire d'un imitatore del Giorno.

L'Inghilterra ha avuto soltanto nel 1927 una traduzione del Giorno da H. Morris Bower: ma il poeta, che pure fu rivelato all'Inghilterra dal Foscolo nel saggio scritto per il Hobhouse, e che fu caro al Byron, dai critici inglesi (per esempio, dal Garnett) è considerato come uno scolaro del Pope.

Dopo un'ode del Platen, in Germania il P. fu chiamato il "Dante lombardo", P. Hevse e F. Adler diedero saggi di traduzioni pariniane; e della sua poesia si occuparono O. Bulle (1893) e K. Vossler (1899).

Sono state rilevate scarse influenze del P. in Romania e in Spagna. Un lavoro in boemo sul Giorno pubblicò J. Vrchlický nel 1900.

Quanto alla storia della critica pariniana, la iniziano, si può dire, Ugo Foscolo, nel saggio sulla letteratura italiana nel primo ventennio del sec. XIX, e, tra gli storici della letteratura, Camillo Ugoni, biografo accurato e critico giudizioso. Abbiamo riferito i giudizî del Leopardi. Il Conciliatore ammirava il P. poeta e ne rammentava le dottrine come preparazione delle idee rinnovatrici dell'arte: ma in genere i romantici ebbero maggior reverenza per l'uomo che ammirazione per l'artista. Contraddittorî e non benevoli i giudizî del Tommaseo. L'eredità romantica fu raccolta dal De Sanctis, che concluse un saggio sul P., pubblicato la prima volta nella Nuova Antologia del 1871: "In lui l'uomo valeva più che l'artista". Preferiva l'uomo al poeta: ma con alcune genialissime osservazioni particolari, come quella sul carattere sentimentale dell'ironia del P., illuminò alcuni aspetti, sin allora inosservati, dell'arte pariniana. Dopo il De Sanctis procedettero, specialmente per merito del Carducci, gli studî storici sui tempi, sulla vita, sulle opere del poeta; e soltanto di recente sono state tentate nuove valutazioni estetiche del Giorno e delle Odi.

Ediz.: Prose di G. P., a cura di E. Bellorini, voll. 2, Bari 1913-15; e Poesie, a cura dello stesso, voll. 2, ivi 1929. Tutte le opere edite e inedite di G. P., raccolte da G. Mazzoni, Firenze 1925. Queste edizioni rendono inutile la prima edizione delle Opere curata da F. Reina, Milano 1801-04. Non citiamo le numerosissime edizioni scolastiche.

Bibl.: G. Rustico, Bibliografia pariniana, Firenze 1929. - Biografie e opere complessive: F. Reina, Vita del P., premessa alla citata ediz. delle Opere; G. Giusti, Discorso premesso a Versi e prose di G. P., Firenze 1846; C. Cantù, L'ab. P. e la Lombardia nel secolo passato, Milano 1854; R. Dumas, P., sa vie, ses øuvres, son temps, Parigi 1878; F. Salveraglio, Prefazione alle Odi di G. P., Bologna 1881; C. Fumagalli, Albo pariniano, ossia iconografia di G. P., Bergamo 1899; V. Bortolotti, G. P., vita, opere e tempi, Milano 1900; G. Natali, La mente e l'anima di G. P., Modena 1900; A. De Gubernatis, G. P., Firenze 1913; E. Bellorini, La vita e le opere di G. P., Livorno 1918; G. Mazzoni, G. P., Firenze 1929; P. Arcari, P., Milano 1929; G. Natali, La vita e le opere di G. P., Firenze 1931. - Contributi biografici speciali: E. Filippini, G. P. professore, in Annuario del R. Liceo-ginnasio G. P. di Milano, 1925-26, 1926-27, 1927-28, 1928-30; C. A. Vianello, La giovinezza di Parini, Verri e Beccaria, con scritti, documenti e ritratti inediti, Milano 1933. - Critica: U. Foscolo, Saggio sullo stato della letter. ital. nel primo ventennio del sec. XIX (trad. da M. Pegna), in Opere, XI; F. De Sanctis, G. P., in Saggi critici; G. Carducci, Il P. maggiore, in Opere, XIV, e Il P. minore, in Opere, XIII; A. Borgognoni, La vita e l'arte nel "Giorno", introduzione alla sua ediz. del Giorno, Verona 1891; A. C. Caldi, La satira civile e politica nel Parini e nel Giusti, Torino 1908; A. Fradeletto, Satira e lirica pariniana, in Figure di poeti e visioni di poesia, Milano 1921; A. Bertana, Saggi pariniani, Aquila 1926; A. Momigliano, P. discusso, in Leonardo, Firenze, 20 giugno 1926; G. Natali, L'art dans le "Giorno" de G. P., Parigi 1930, estr. dalle Études Italiennes; D. Petrini, La poesia e l'arte di G. P., Bari 1930; G. Ziccardi, Studii su le Odi pariniane, in Forme di vita e d'arte nel Settecento, Firenze 1931; R. Spongano, La poetica del sensismo e la poesia del P., Messina 1933.