ROTA, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 88 (2017)

ROTA, Giuseppe

Rita Zambon

ROTA, Giuseppe. – Nacque a Venezia il 13 marzo 1823 da Francesco Rota e Margherita Savin, ultimo di tre figli (Giobatta e Rosa), e fu battezzato coi nomi di Giuseppe Gioachino Ernesto. Nel 1836, seguendo l’esempio del fratello Giobatta, entrò nella Scuola di ballo del Gran Teatro la Fenice in cui sotto la guida dei maestri Giulio Viganò, fratello di Salvatore, e Carlo Scavia compì tutto l’iter: allievo, primo ballerino di mezzo carattere nel corpo di ballo, secondo ballerino e mimo. Danzò a Parma, Modena, Trieste e in Veneto e spesso interpretò i ruoli principali dei suoi balli.

L’esordio nella coreografia fu assai precoce: nella primavera del 1844 compose il suo primo ballo, José, nel teatro di S. Samuele, riscuotendo un buon successo sia per l’azione sia per le danze. Dal carnevale 1851 la sua attività diventò continuativa e addirittura frenetica; in pochissimi anni conquistò le piazze maggiori: i teatri Nazionale e Regio a Torino, la Canobbiana e la Scala a Milano, l’Argentina a Roma, il Carlo Felice a Genova, il San Carlo a Napoli. I suoi balli inaugurarono il teatro dell’Unione a Viterbo (1855), il Comunitativo di Reggio nell’Emilia e il Nuovo di Rimini (1857). La sua fama raggiunse presto le capitali europee: Rota fu invitato a mettere in scena i suoi lavori a Vienna (1861 e 1862), Londra (1863) e Parigi (1864).

Per le trame dei balli Rota, com’era abitudine, si ispirava a opere letterarie coeve, quali Il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas père (Milano, Canobbiana, autunno 1856) o Il fornaretto di Francesco Dall’Ongaro (Torino, Nazionale, carnevale 1852, messo in scena anche col titolo Un fallo o Il trionfo dell’innocenza). Una scelta decisamente originale fu Bianchi e Negri (Milano, Scala, autunno 1853), azione mimica allegorica ispirata a Uncle Tom’s Cabin di Harriet Beecher Stowe, con cui Rota seguiva la strada aperta dal positivismo e diveniva portatore di nuove idee e convinzioni sociali e politiche.

Altri balli si rivolgevano a tematiche care al nuovo pubblico, la borghesia: Il giuocatore (Milano, Canobbiana, primavera 1853) dal dramma di August Wilhelm Iffland verteva sul gioco, sprone alla perdizione da cui ci si può salvare solo con l’aiuto della Provvidenza, e sul denaro, che attira gli squallidi avventurieri e i falsi amici. L’unico riparo a queste tentazioni è la famiglia, che dalla Traviata in poi divenne, insieme alla figura paterna, il cardine della drammaturgia coeva (indicativo il fatto che Rota fosse soprannominato «il Verdi dei balli»).

Un vero successo fu Cleopatra (Milano, Scala, carnevale-quaresima 1859), con cui Rota affermava di voler dare nuova vita ai balli pantomimi degli antichi maestri, ma coll’intento di ottenere inediti effetti, tra cui il funerale della protagonista che concludeva l’atto quinto con danze solenni, innovazione che agli impresari aveva fatto temere un fiasco.

Per la musica dei suoi balli Rota si avvalse di musicisti esperti nella collaborazione con i coreografi, o che stessero allora affermandosi: Luigi Madoglio, Antonio Mussi, e soprattutto Paolo Giorza.

Negli anni milanesi Rota divenne amico di tanti intellettuali, pur avendo egli fatto solo le scuole elementari: Giuseppe Rovani, Emilio Treves, Francesco Zappert, Filippo Filippi, Raffaele Colucci, Antonio Ghislanzoni, autore quest’ultimo di una sua biografia scritta in occasione della morte e riproposta poi nel 1879 nel Libro serio. In essa si esalta l’artista che si è fatto da sé, passando sotto silenzio gli studi fatti alla Fenice, e si tratteggia una personalità forte, a volte dispotica, entusiasta del proprio lavoro: da amare o da odiare. Non era solo un geniale coreografo, era «un poeta, un sublime maestro di tutte le arti belle» (Ghislanzoni, 1879, p. 145). Anche Leone Fortis, giornalista e scrittore, conobbe Rota a Milano e ne tracciò un ritratto al vivo, di persona conquistata dall’arte e pronta a fare partecipe chiunque delle sue idee.

L’aspetto di Giuseppe Rota è noto grazie alle fotografie e alle litografie stampate in occasione delle rappresentazioni: occhi chiari, capelli neri, folti baffi e pizzetto; vi è un ritratto di Camilla De Araciel (1854), nel Museo Teatrale alla Scala, in cui Rota, lo sguardo rivolto al cielo, stringe a sé un busto di Salvatore Viganò.

Rota fu rivoluzionario nel nuovo utilizzo delle masse, un’importanza degna di essere riconosciuta ufficialmente con una citazione nella Piccola Enciclopedia Hoepli, che ancora nella seconda edizione del 1927 lo definisce «riformatore della coreografia» (Garollo - Fumagalli, 1927, p. 3859). Il corpo di ballo divenne l’autentico protagonista delle danze, ottenendo sempre l’applauso del pubblico e della critica.

Varrà per tutti il giudizio di Tommaso Locatelli, che curava la critica artistico-letteraria della Gazzetta di Venezia (sabato 3 marzo 1855, n. 51, p. 200): «Si parlerà di lui, come ora si parla del Viganò: questi aveva il talento del dramma, della passione; il Rota quello della più vivace immaginazione ne’ ballabili. Egli è l’Ariosto di questa poesia delle danze, e ben con più ragione che all’altro si può domandargli dov’egli peschi le graziose sue fantasie. L’arte, con cui ei maneggia i movimenti delle sue masse; la facilità, con cui ei li dirige, e intreccia e scioglie le figure ed i gruppi; l’armonia sì pittoresca de’ suoi colori, la feconda varietà de’ suoi quadri, sono cose veramente mirabili, e che in altri coreografici componimenti, prima di lui, non si son vedute».

Anche la recensione che Richard Wagner scrisse nella Österreichische Zeitung per la rappresentazione della Contessa d’Egmont a Vienna nell’ottobre del 1861 testimonia il continuo fantasmagorico susseguirsi degli effetti coreografici, paragonati a un’esplosione di fuochi d’artificio, cui contribuì la scelta dei colori dei costumi (Wagner, 1914). Interprete principale era Claudina Cucchi, famosa prima ballerina che nelle sue memorie ricorda Rota come uomo onesto, leale, generoso (Cucchi, 1904, p. 50).

Ma non tutti gli osservatori erano concordi. Francesco Regli, che rimpiangeva i balli pantomimi e i coreodrammi, guardava con malcelata antipatia a questo nuovo corso della coreografia e così giudicava i balli di Rota: «ne' suoi lavori si manovrava come in un campo di Marte, né si danzava più» (Regli, 1860, p. 468).

Rota era ben conscio del proprio valore e aveva ben chiari i propri diritti. Non appena si rese conto che stavano proliferando imitazioni e riproduzioni non autorizzate dei suoi balli o di parti di essi, fece pubblicare sui giornali (5 agosto 1856) un articolo-comunicato in cui si diffidavano coreografi, impresari e proprietari di teatro dal mettere in scena composizioni sue senza un espresso assenso scritto, e ciò valeva anche per la musica. Rota si riservava di invocare le sanzioni stabilite dalla legge che proteggeva la proprietà artistica e di chiedere il risarcimento di ogni danno e interesse. La piena consapevolezza della propria opera e di quanto essa valesse, anche in termini economici, era già chiara e forte nove anni prima dell’entrata in vigore della legge sul diritto d’autore (1865). Perciò era solito affidarsi a un gruppo di collaboratori, in primis Giuseppe Bini (1824-1897), suo compagno alla scuola della Fenice, che per tutta la vita riprodusse i lavori dell’amico, impegnandoli con un contratto. La capillare riproduzione dei suoi balli durò almeno fino al 1909.

La stagione di quaresima 1865 fu l’ultima di una straordinaria carriera: diede alla Scala di Milano e al Regio di Torino La maschera o Le notti di Venezia, dopo la prima dell’Opéra di Parigi nel febbraio 1864. Rota, che era sempre stato di salute cagionevole, fu colpito da una grave malattia, ma desideroso di battere nuove strade si era dedicato alla foto-scultura, un sistema di riproduzione di un oggetto utilizzando le fotografie del maggior numero possibile di parti, riportandone poi i contorni sulla creta per mezzo di un pantografo. Aprì un suo studio a Torino in via Gaudenzio Ferrari, inaugurato il 14 maggio 1865 alla presenza del principe Amedeo e della duchessa di Genova.

Morì solo otto giorni dopo, il 22 maggio 1865.

In occasione della riapertura del Gran Teatro la Fenice nel 1866, dopo la chiusura voluta dalla Presidenza nel 1859, a Rota venne dedicato un busto in marmo di Augusto Benvenuti, e per l’occasione il drammaturgo Antonio Giuseppe Spinelli riprese la biografia di Ghislanzoni aggiungendole una lettera autografa di Rota a lui indirizzata, datata Viterbo, 14 settembre 1855, in cui il coreografo esprimeva il suo rimpianto per non essersi potuto dedicare alle arti che danno fama imperitura, cioè poesia, musica, scultura e pittura, invece che alla danza: «onori sono i miei che muoiono dove nascono!» ([Spinelli], 1866, p.18).

Le idee innovative di Rota vennero riprese da Luigi Manzotti (che si era esibito nei balli di Rota all’Apollo di Roma nella stagione 1862-63), ponendo così le basi del «ballo grande» di fine Ottocento.

Balli (elenco parziale): Clelia, Milano, Canobbiana, primavera 1854 (ripresa col titolo Delia); Un ballo nuovo, Milano, Canobbiana, autunno 1856 (altri titoli Tutti coreografi, Uno spirito maligno, Il genio Anarak); 1812 ossia Carlo il guastatore, Reggio, Comunitativo, primavera 1857; Una Silfide a Pekino, Roma, Apollo, carnevale 1860; Il Vampiro, Torino, Regio, carnevale-quaresima 1864; Velleda, Milano, Scala, quaresima 1864.

Fonti e bibl.: Venezia, Archivio Storico del Patriarcato, Parrocchia di S. Stefano, Registri dei Battesimi, Libro I (1810-1843); Archivio Storico Gran Teatro La Fenice, buste Scuola di Ballo e Spettacoli; F. Regli, Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, Torino 1860, pp. 468 s.; [A.G. Spinelli], Memorie del celebre coreografo veneziano G. R. a maggiore illustrazione con una sua originale lettera, Venezia 1866; A. Ghislanzoni, Libro serio, Milano 1879, pp. 145 s.; L. Fortis, Drammi di Leone Fortis con prefazioni e ritratto dell’autore, II, Milano 1888, pp. 527-541; C. Cucchi, Venti anni di palcoscenico. Ricordi artistici, Roma 1904, pp. 49 s.; R. Wagner, Gesammelte Schriften und Briefe, voll. VII-IX, a cura di J. Kapp, Leipzig 1914, pp. 119 s.; G. Garollo - G. Fumagalli, Piccola Enciclopedia Hoepli, Seconda edizione completamente rinnovata, III, Milano 1917-1927, p. 3859; C. Celi, Percorsi romantici nell’Ottocento italiano, in Musica in scena, V (L’arte della danza e del balletto), a cura di A. Basso, Torino 1995, pp. 126-128; R. Zambon, Il Gran Teatro La Fenice, in R. Albano - N. Scafidi - R. Zambon, La danza in Italia dal XVIII secolo ai giorni nostri, Roma 1998, pp. 121-124; Ead., R., G., in Dictionnaire de la Danse, a cura di Ph. Le Moal, Paris 1999, p. 236; R.M. Fabris, L’Ottocento, in Storia della danza italiana dalle origini ai giorni nostri, a cura di J. Sasportes, Torino 2011, pp. 223-226; M.A. Butkas Ertz, Nineteenth-century Italian ballet music before national unification, University of Oregon 2010, passim; Ead., Scoring the ballo fantastico: supernatural characters and their music in Italy’s ballets during the Risorgimento, in Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni, VIII (2016), pp. 30-40.

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