Gli ebrei a Venezia nella prima metà del Novecento

Storia di Venezia (2002)

Gli ebrei a Venezia nella prima metà del Novecento

Simon Levis Sullam

Al principio del Novecento, giunto a compimento il lungo processo di integrazione avviato oltre un secolo prima, il gruppo ebraico veneziano potrebbe dirsi rappresentativo della società veneziana nel suo complesso: per la sua presenza storica nella città; per la sua ampia e varia articolazione sociale; per la sua consistente partecipazione all’élite culturale, politica ed economica. Le vicende degli ebrei veneziani andrebbero seguite ora nei molteplici percorsi dei singoli nella vita della città e nel legame più o meno mantenuto da ciascuno con la propria identità ebraica, divenuta in molti casi soltanto tradizione familiare, retaggio culturale, origine dimenticata. Una comunità ebraica esiste però ancora, nella diversa immaginazione di ebrei e non ebrei, e soprattutto in organizzazioni e luoghi riconosciuti e in una vita informale di relazioni familiari, conoscenze, frequentazioni, incontri, che continuano a costituire luoghi e momenti di identificazione comune. Il gruppo ebraico vive fenomeni di avanzata secolarizzazione e acculturazione, e di moderno ritorno alle tradizioni, come il sionismo; nel giro di pochi decenni dovrà confrontarsi con l’antisemitismo politico e le persecuzioni. La storia degli ebrei veneziani nella prima metà del Novecento è quindi la storia stessa della città, ma è anche una vicenda specifica (culturale, religiosa, politica) che riflette esperienze peculiari e aggiustamenti particolari alle trasformazioni generali della società veneziana e italiana, dalla fine dell’età liberale, attraverso il fascismo, fino alla rinascita nel secondo dopoguerra (1).

Alla ricerca di un’identità: sionisti, clericali, socialisti

Il 22 febbraio 1908 si apriva a Venezia il VI convegno sionistico italiano, con queste parole di Felice Ravenna, guida dei sionisti italiani:

È con sentimento di riconoscenza che noi conveniamo a Venezia ove il nostro movimento trovò spontanei, fedeli amici in tutte le classi israelitiche, e raccolse, insieme ai giovani, entusiasti di un’èra novella, uomini maturi di anni, di esperienza, di studî(2).

Si riunivano per l’occasione in città i rappresentanti dei circoli sionisti sorti dal principio del secolo in tutta Italia. Un Gruppo sionistico veneto si era costituito anche a Venezia nel giugno 1903, e due anni più tardi contava il considerevole numero di 157 soci. Era nato per iniziativa di alcuni giovani veneziani: Angelo Sullam, Alessandro Levi, Alberto Musatti, e vi prendeva parte una generazione più anziana: Giuseppe e Adele Musatti, Pellegrino Padoa, Giacomo Luzzatti, i rabbini Luzzatto e Bassi; partecipavano numerosi simpatizzanti. Spinti dall’azione di Theodor Herzl (fondatore nel 1897 del movimento sionista) e di altri pensatori e attivisti in tutta Europa, dagli echi dei pogrom in Russia e Romania, dall’affare Dreyfus non ancora concluso, anche gli ebrei veneziani erano stati coinvolti e attratti dai nuovi ideali di un’«autoemancipazione ebraica» e del ritorno in Palestina. E questo nuovo impegno si era tradotto, principalmente, in attività filantropiche a favore delle masse popolari ebraiche dell’Europa orientale, nella lotta contro l’antisemitismo, in iniziative culturali nella comunità.

Non tutti gli ebrei veneziani aderivano però al nuovo movimento, che incontrava anzi molte resistenze, sembrando mettere in discussione l’uguaglianza e l’integrazione faticosamente raggiunte dalle comunità ebraiche nella società italiana. Lo scrittore e docente universitario a Ca’ Foscari, Enrico Castelnuovo, scriveva ad esempio ad Angelo Sullam, presidente del neonato Gruppo sionistico veneziano:

Non condanno e non giudico il Sionismo che ha illustri fautori ed è sostenuto da giovani valorosi e convinti com’Ella è; ma mi sento estraneo a questo movimento come nella vita ci si sente estranei a tante cose pur nobili e buone. Sarà un movimento scientifico e sociologico, ma è anche un movimento nazionale e confessionale, d’una nazionalità (l’ebraica) ch’io non intendo, d’una confessione da cui son fuori, ciò che non vuol dire ch’io sia entrato in un’altra. Ella dirà che si può non voler essere ebrei, ma che si è ebrei ugualmente, non foss’altro pei pregiudizi di cui si è vittime e per la ripugnanza che si può destare negli antisemiti. Pazienza. Io non son uomo da nascondere le mie origini, o da battezzarmi per non aver la noia che altri mi dicano ebreo; ma son troppo vecchio ormai per mutar le mie idee(3).

E a Cesare Sarfatti, avvocato socialista, che al convegno apertosi a Venezia si era dichiarato «invaso da questa fiamma sionnistica» sebbene fosse «non religioso, anzi anti-religioso», il presidente della Camera di commercio di Venezia, Giulio Coen, aveva chiesto indispettito, incontrandolo per strada: «Ma che cosa volete voi sionnisti, se abbiamo fatto tanto noi ebrei per liberarci dal ghetto?»(4). D’altra parte, nelle parole di Sullam e Alessandro Levi, il sionismo aveva «gettato nuove correnti di vita in mezzo agli ebrei di tutto il mondo», né doveva «essere solo un movimento volto alla colonizzazione ebraica in Palestina», ma «diretto ad elevare la dignità di tutti gli Ebrei», la «dignità ebraica di fronte ai non ebrei», la «coscienza stessa di quegli Ebrei che, per le loro convinzioni, si sono allontanati dalla fede»(5).

Pochi anni prima, Angelo Sullam, futuro presidente della Fraterna israelitica veneziana, aveva scritto, con qualche pretesa letteraria, in alcune sue «Note volanti»: «O se al fine ripresa dopo tanti secoli di dolori la zappa e l’aratro liberamente il popolo nostro risolcherà la terra […] dei padri». E protestava sulle pagine del suo blocco note per le difficoltà incontrate da un giovane ebreo «per aprirsi una via nel mondo verso una posizione rispettabile e sicura […] in mezzo a nemici dal ginnasio all’università»(6). Nel frattempo portava avanti i suoi studi presso la facoltà di Giurisprudenza a Padova, concludendoli con una tesi di laurea su Il Sionismo specialmente considerato nei suoi rapporti col diritto internazionale (relatore il giurista Enrico Cattelani), e partecipava ai congressi sionistici internazionali di Basilea e Amburgo, assieme a centinaia di ebrei provenienti da tutta Europa.

Gli echi dell’attività sionista dovevano essere giunti fino al consiglio comunale di Venezia, se l’assessore Ettore Sorger, nel febbraio 1907, invocava quale prova di imparzialità della giunta clerico-moderata gli elogi di una «Rivista Sionista». Respingendo poco dopo la polemica reazione del socialista Elia Musatti, Sorger commentava, ironico e sconsolato: «[…] quanto alle riviste sioniste, mi dispiace che lei non accetti neppure quelle. In fondo rigetta tutti i Vangeli. Non le resta niente». Lapidaria, allora, la risposta di Musatti: «Abbiamo il socialismo»; le «patenti» di «non so quale vessillo sionista» non lo meravigliavano, del resto: «per conto nostro non occorre esser cattolici […] per essere dei clericali anche se si è circoncisi»(7).

«Il Secolo Nuovo», settimanale socialista fondato nel dicembre 1900 da Elia Musatti assieme, tra gli altri, ai coniugi Cesare e Margherita Sarfatti, aveva iniziato infatti, già nel 1902, una polemica contro alcuni ebrei veneziani che prendevano parte allo schieramento guidato da Filippo Grimani:

Ecco un fenomeno caratteristico della nostra città! [diceva una nota non firmata] Ebrei conservatori, vale a dire degenerati poiché l’indole della razza giudaica fu sempre rivoluzionaria — ebrei conservatori ve ne sono sempre.

Ma clericali? È cosa che fa ridere! Eppure a Venezia non sono pochi e mettono al servizio di tale alleanza la loro attività e le loro ben note borse(8).

La polemica era ripresa nel 1907 da Alessandro Levi, promettente filosofo del diritto, socialista e simpatizzante sionista, con la pubblicazione, sia sull’«Idea Sionista» che sul «Secolo Nuovo», di un pungente articolo dal titolo I cristianelli del Ghetto, a cui ne era seguito un altro, anonimo, in due puntate, sull’«industriale circonciso» Michelangelo Jesurum(9).

Al «Secolo Nuovo» Elia Musatti aveva affidato, due anni prima, una sorta di confessione sulle proprie origini ebraiche, origini che i nemici politici gli rinfacciavano spesso, in frecciate ed attacchi dai toni antisemiti più o meno espliciti:

Io credo […] di essermi sbarazzato da ogni pregiudizio religioso ed in pari tempo di non poter menar vanto né aver vergogna, se, a sorte, io provengo da razza semitica o ariana o da qualunque altra. Mai perciò mi adonto se persona, imbevuta di pregiudizi, fa allusione — credendo offendermi — alle origini della mia nascita. Anzi pensai sempre che non può affatto disonorarmi il trarre le origini da quel glorioso ghetto nel quale è storicamente esatto che la obbrobriosa oppressione determinò il formarsi di taluni individuali difetti — i quali ridondano a maggior vergogna degli oppressori — ma donde uscirono le energie più ribelli, più rivoluzionarie, le menti più illuminate, da Gesù di Nazareth (per cominciare soltanto dal Nuovo Testamento) a Carlo Marx, al proletariato rivoluzionario ebraico della Santa Russia(10).

Nel frattempo, il figlio di Elia, Cesare, che sarebbe stato tra i fondatori della psicoanalisi in Italia, nato da padre ebreo e madre non ebrea, cresceva nella convinzione — trasmessagli dai genitori — che l’ebraismo era cosa che riguardava i nonni, mentre il cattolicesimo era «affare» delle «donne di servizio». Sua nonna Adele Franchetti, sposata a Giuseppe Musatti, allora presidente della Fraterna israelitica veneziana, componeva versi sul sionismo e sui compiti quotidiani della «donna d’Israello»(11), mentre cercava di insegnare a Cesare, così come aveva fatto con Elia, a leggere e scrivere in ebraico. Era lei a presiedere i rituali familiari ebraici, come la cena pasquale: il seder, che riuniva ancora, ogni anno, i vari rami e le diverse generazioni dei Musatti(12). Più tardi, il nipote Cesare avrebbe riflettuto a lungo sulla propria identità di ebreo «misto», sulle origini ebraiche della psicoanalisi, sull’intreccio psicoanalisi, ebraismo, umorismo, sugli «ambienti» di ebrei e «misti» e la loro persistente «diversità»(13).

Gli ebrei nella città

Nel corso dell’Ottocento la popolazione ebraica veneziana era andata crescendo, soprattutto grazie all’apporto dell’immigrazione proveniente dalle piccole comunità ebraiche italiane in via di estinzione (in particolare di Mantova, dell’Emilia-Romagna e delle Marche), e aveva raggiunto, attorno al 1871, un massimo di 2.667 persone. Nei decenni successivi era invece iniziato un lento declino, divenuto irreversibile dal principio del Novecento. Dal censimento nazionale del 1901, che registrava per Venezia ancora 2.474 ebrei, si era scesi gradualmente al disotto dei 2.000, giungendo alle 1.814 persone del 1931 e fino alle 1.471 che si dichiaravano «di religione ebraica» di fronte al censimento razzista del 1938(14). Se limitato dovette essere per il primo Novecento, e prima delle persecuzione antisemite, il fenomeno delle conversioni, consistente e in crescita fu invece quello dei matrimoni «misti», cioè tra ebrei e non ebrei. Il censimento promosso nel 1921 dalla Fraterna israelitica veneziana registrava 101 coppie «miste», oltre il 20% dei nuclei familiari ebraici(15), mentre negli anni 1932-1935 la percentuale delle nascite da coppie «miste» era di oltre il 40% sul totale dei nuovi nati(16): cifre che dimostrano una notevole e crescente integrazione del gruppo ebraico nella società veneziana.

Dalla fine del Settecento, venuto meno l’obbligo di risiedere nel Ghetto, gli ebrei avevano iniziato una graduale ridistribuzione nel territorio, diffondendosi nella città e dando luogo nello stesso tempo a nuove concentrazioni residenziali. I più abbienti lasciavano il Ghetto, riconcentrandosi in zone più centrali, mentre la parte disagiata della comunità rimaneva nel quartiere ebraico, divenuto periferico e urbanisticamente degradato. Il Ghetto, come zona della città e come simbolo di una condizione storica di segregazione e miseria, diveniva per l’ebreo «emancipato» e «rispettabile» un passato da cui allontanarsi: nasceva all’interno della comunità una separazione ideale, culturale e psicologica, tra l’ebreo «di Ghetto» e l’ebreo di fuori del Ghetto, tra il «su» e il «zò» — cioè tra l’«alto» e il «basso» della scala sociale — secondo la distinzione dialettale entrata nell’uso comune degli ebrei veneziani. Già negli anni Cinquanta dell’Ottocento questo processo di ridistribuzione era compiuto e si delineavano nettamente delle nuove zone di concentrazione: si erano costituite delle «aree naturali», delle nuove «isole» ebraiche(17), che rispecchiavano più liberamente, e più specificamente, gli orientamenti socioeconomici e le tendenze culturali della comunità. Gli ebrei veneziani iniziavano, d’altra parte, a condividere «memorie, sentimenti, modi di pensare, esperienze» della società circostante, con cui costituivano ormai una «vita culturale comune». Questi processi rappresentavano una trasformazione dell’identità e della memoria collettiva del gruppo ebraico, ridefinendo non solo la sua presenza nello spazio, ma la sua concezione di sé e degli altri, e la sua stessa esistenza come comunità(18).

Secondo il censimento del Comune di Venezia(19), nel 1869 il 72% della popolazione ebraica abitava ancora a Cannaregio, il 23% a S. Marco, solo il 4% a Castello, mentre gli ebrei erano praticamente assenti dalle altre zone della città.

A Castello, le aree di maggiore concentrazione erano quelle più centrali di S. Zaccaria e S. Maria Formosa.

Quarant’anni più tardi, il censimento pubblico del 1911(20) registrava circa il 50% degli ebrei veneziani ancora insediati a Cannaregio — 484 persone (il 23% del totale) nella parrocchia di S. Geremia; oltre il 27% a S. Marco; circa il 10% a Castello; percentuali minori a S. Polo, Dorsoduro, S. Croce, Lido.

Un’analisi più ravvicinata di questo censimento consente di individuare ulteriori aggregazioni all’interno della concentrazione per parrocchie. Il censimento della Fraterna israelitica(21) registra spesso gruppi di numeri anagrafici in successione ravvicinata: due, tre, quattro o più nuclei familiari ebraici che vivono a dieci, cinque, talora due porte di distanza o, molto spesso, due o tre famiglie ebraiche — a volte imparentate, spesso no — che vivono nello stesso edificio. Ad esempio, a Cannaregio (Ghetto a parte): tra S. Felice e SS. Apostoli, e nella zona di S. Canciano, S. Giovanni Grisostomo, Malibran, Miracoli; o, a S. Marco, nella zona di S. Maria del Giglio, Fenice, S. Fantin. Queste «isole» ebraiche suggeriscono l’idea di una comunicazione frequente e persistente, e il permanere di circoli informali ebraici che mantengono identificazioni comuni. La sociabilità ebraica veneziana è da un lato quella delle classi popolari, ancora incentrata nel Ghetto e nelle zone vicine, dall’altro quella delle classi medie e agiate, che vivono nelle zone più centrali della città. Allo stesso tempo incontri e relazioni tra ebrei e non ebrei sono altrettanto costanti e condizionanti: gli ebrei divengono gradualmente rappresentanti tipici della società non ebraica in cui vivono.

Nella zona del Ghetto il censimento pubblico del 1911 registra commercianti, agenti, artigiani, manovali, impiegati, «industrianti», «girovaghi», sarte, perlaie, maestre(22): si tratta di un consistente strato povero della popolazione ebraica, che vive (salvo alcune eccezioni), o perlomeno conta molto, sulla beneficenza erogata dalla Fraterna israelitica, retta e condotta dagli ebrei possidenti. Se la parte più visibile e conosciuta della comunità appartiene all’alta borghesia, spesso con posizioni di rilievo nella società veneziana, la maggioranza della popolazione ebraica deve essere collocata tra la media e piccola borghesia e il proletariato. Dal censimento del 1921 della Fraterna israelitica risulta che quasi l’80% della popolazione attiva svolgeva le seguenti professioni: 194 commercianti e negozianti; 152 impiegati pubblici e privati; 10 ragionieri; 52 operai; 36 girovaghi e braccianti. Meno del 20% della popolazione era invece così impiegata: 33 laureati in legge; 21 professori e insegnanti; 26 ingegneri e architetti; 22 medici e farmacisti (una percentuale comunque consistente rispetto alla media della popolazione veneziana)(23). Questa proporzione non è molto diversa da quella registrata nel censimento del 1938: allora oltre il 68% del gruppo ebraico è rappresentato da operai, salariati, lavoratori dipendenti, artigiani ambulanti, negozianti, commercianti, esercenti; il 18% circa da liberi professionisti, docenti universitari, insegnanti, dirigenti; compare inoltre un 13% circa di possidenti, benestanti, redditieri (che il censimento del 1921 probabilmente non registrava tra la popolazione attiva)(24).

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento gli ebrei veneziani hanno comunque una presenza molto significativa in settori di innovazione e modernizzazione dell’economia cittadina: nelle nuove società di navigazione; nel settore bancario; nel ramo assicurativo; nella Camera di commercio; nell’amministrazione e nell’insegnamento presso la Scuola Superiore di Commercio; nei progetti per Porto Marghera. Sono presenti nell’amministrazione comunale e provinciale in tutti gli schieramenti politici.

Molto consistente è la presenza ebraica nel mondo della cultura. Le cronache degli incontri di una «compagnia degli intellettuali», costituitasi dal 1890 nelle sale del Caffè Martini, registrano diversi nomi ebraici, tra giornalisti, professionisti, scrittori, uomini d’affari (Adriano Diena, Cesare Sarfatti, Cesare Augusto Levi, Attilio Sarfatti, Guido Coen Rocca, Pellegrino Oreffice e altri)(25). Una percentuale compresa tra il 10 e il 15% dei soci dell’Ateneo Veneto negli anni Venti e Trenta è ebrea. Sono 45 su 300 i soci ebrei espulsi nel 1938, e immediatamente sostituiti da soci «ariani», in seguito ai provvedimenti «razziali». Eppure, tra il 1921 e il 1925 la presidenza dell’Ateneo era stata tenuta da Giuseppe Jona, clinico illustre e presidente della comunità israelitica negli anni delle persecuzioni; tra il ’35 e il ’38 la vicepresidenza era stata di Alberto Musatti, avvocato, preceduto nello stesso incarico, al principio del secolo, da suo padre Cesare, pediatra ed esperto di Carlo Goldoni(26). Nel 1936, il contratto di donazione del Teatro la Fenice al Comune di Venezia, da parte della Società dei palchettisti, registra 17 nomi di famiglie ebraiche su 51(27) — alcuni anni prima un industriale veneziano lamentava il decadimento della città, notando tra l’altro: «a teatro si vedono i commessi di negozio e qualche ebreo»(28). Gli ebrei veneziani sono quindi pienamente inseriti nei circuiti formali e informali dell’economia, della politica, della cultura in città, sebbene questa presenza possa ancora risultare insolita e, talora, poco gradita.

Le istituzioni e i luoghi della comunità

Nei primi tre decenni del Novecento l’organo di rappresentanza e governo della comunità ebraica veneziana manteneva ancora la denominazione e l’ordinamento ottocentesco della Fraterna Generale di culto e beneficenza degli israeliti(29). Ne facevano parte «tutti i capi famiglia e singoli israeliti dimoranti in Venezia in istato di corrispondere una mensile contribuzione». La Fraterna aveva l’«iscopo di far fronte alle spese di culto e di beneficenza e ad ogni altro oggetto inerente e necessario all’interesse dei correligionari», secondo il compito di conservazione del culto tradizionale e di «risollevamento» dei ceti ebraici disagiati che la dirigenza borghese delle comunità ebraiche italiane si era assunta al principio dell’Ottocento(30). Con un sistema di rotazione tutti i «contribuenti» sedevano a turno nel «Capitolo» della Fraterna, che eleggeva a sua volta un Consiglio di amministrazione, il quale rappresentava la comunità, e organizzava la beneficenza e l’istruzione ebraica. Alla Fraterna apparteneva quindi, formalmente, solo una parte degli ebrei veneziani, selezionata sulla base del censo (nel 1923 i «contribuenti» erano 300, circa il 65% dei nuclei familiari ebraici). La partecipazione alle riunioni del Capitolo era del resto estremamente ridotta e la Fraterna era in sostanza amministrata dal Consiglio, raramente e solo parzialmente rinnovato, e a cui prendevano parte al massimo una decina di persone (generalmente molte meno). La presidenza fu tenuta dal 1903 al 1919 da Giuseppe Musatti; dal 1919 al 1929 da Angelo Sullam; dal 1930 al 1932 da Alberto Musatti (commissario governativo); dal 1932 al 1934 da Max Ravà; dal 1935 al 1937 da Aldo Coen Porto (commissario governativo); dal 1937 al 1940 da Aldo Finzi (commissario governativo). Dalla Fraterna dipendeva il rabbino maggiore, che guidava la vita spirituale della comunità, sovrintendendo al culto e all’educazione religiosa. Al principio del secolo sedeva sulla cattedra rabbinica veneziana, ormai da venticinque anni, Moisè Coen Porto (1834-1918), ultimo allievo del grande Samuele Davide Luzzatto(31). Dal 1919, e fino alla morte in un campo di sterminio nel 1944, rabbino maggiore di Venezia fu Adolfo Ottolenghi. Dal 1930 le comunità ebraiche italiane furono disciplinate dalle nuove «Norme sulle Comunità israelitiche», in base alle quali tutti gli ebrei appartenevano alla comunità (salvo dichiarazione di abbandono dell’ebraismo), la democraticità dell’istituzione era ulteriormente ridotta, la comunità sottoposta a un più rigido controllo delle autorità(32).

Come si è detto, uno degli scopi principali della Fraterna israelitica era la beneficenza. Così è ricordato, in una testimonianza, un aspetto di quest’attività come si svolgeva nel Ghetto al principio del secolo:

La ‘spartission’ […] consisteva nella distribuzione ad un certo numero di famiglie di piccole somme, provenienti da lasciti, o da offerte saltuarie alla Comunità, da parte dei ‘Signori’. Esisteva una lista di poveri, che beneficiava di tale sussidio. […] Quando all’improvviso, si spargeva nel Ghetto la voce che c’era tale distribuzione, i primi informati suonavano i vari campanelli delle case e, alla solita richiesta del ‘Chi xè?’ rispondevano semplicemente ‘Spartission’. Allora le madri di famiglia si mettevano lo scialle ed accorrevano in Ghetto Nuovo per ritirare il sussidio, sufficiente per un pasto alla famiglia(33).

Nel 1917 la Fraterna israelitica sussidiava 800 ebrei poveri (circa 190 famiglie)(34) attraverso beneficenze in denaro settimanali e per le feste ebraiche solenni, e con l’offerta di legna, vesti, paglia e altri generi. Al conforto materiale e spirituale della comunità, e particolarmente della sua parte più indigente, erano preposti inoltre altri enti (ad esempio la Fraterna di misericordia e pietà, e i Riuniti sovvegni spagnuolo e tedeschi), alcune opere pie minori e la scuola ebraica, che provvedeva, oltre all’istruzione religiosa, a nutrire e vestire i bambini più poveri(35). A metà degli anni Trenta le famiglie assistite erano ancora «oltre cento»(36), mentre dopo la seconda guerra mondiale questo tipo di assistenza sopravvisse solo in forma molto ridotta.

A metà degli anni Venti la Fraterna israelitica disponeva di un asilo infantile, che  accoglieva 38 bambini e bambine, e di una «scuola religioso-morale» (Talmud Torà) maschile e femminile, cioè un corso pomeridiano di religione e lingua ebraica, per 90 bambini delle prime tre classi elementari. La condizione sociale degli alunni era quella di «famiglie povere e famiglie della media borghesia»(37). Le classi più agiate mandavano invece i propri figli alle lezioni del martedì presso la sezione locale dell’A.D.E.I. (Associazione Donne Ebree d’Italia) e al corso di «lingua e storia ebraica» per studenti delle scuole medie, tenuto la domenica dal rabbino maggiore o dal vice rabbino nella sede della Fraterna, a S. Felice(38). Anche l’organizzazione scolastica perpetuava dunque la separazione sociale della comunità.

Nell’anno scolastico 5680 (secondo la data ebraica), cioè 1919-1920, il programma d’insegnamento era, ad esempio, il seguente:

Lettura: Esercizio sul Sillabario fino alla lettura della Tefilà [libro di preghiere]

Storia: Dalla Creazione del mondo alla schiavitù del popolo Ebreo

Catechismo: ‑Mesi-Sabato-Feste importanti-Digiuni-Comandamenti-Berahod [benedizioni] della lavanda delle mani-Taled [scialle rituale indossato dagli uomini durante la preghiera]-frutti d’albero-di terra-pane-acqua-paste dolci-vino

Memoria: Scemagn-Scir Lamagnalod-Rafenu [preghiere fondamentali]-Vocaboli [ebraici](39).

Mentre per l’istruzione generale la maggior parte delle famiglie sceglieva per i figli le scuole pubbliche, le famiglie benestanti preferivano per i maschi l’Istituto collegio «Ravà», una rinomata scuola privata, elementare e secondaria, che offriva anche un corso di istruzione ebraica e funzionava come convitto(40). L’educazione superiore si compiva, invece, nei licei cittadini, luogo privilegiato di acculturazione ai valori della società italiana fin dall’Ottocento(41).

Nel 1923 un problema nuovo sorse per gli ebrei italiani nel campo dell’educazione: la riforma della scuola ideata e attuata dal ministro Gentile, che poneva la religione cattolica a «fondamento e coronamento degli studi elementari». Questa riforma suscitò una preoccupata reazione delle comunità ebraiche e di alcuni loro autorevoli esponenti, come l’insigne giurista padovano Vittorio Polacco che in Senato definì la riforma un «pogrom morale». Anche la comunità veneziana valutò la possibilità di costituire una scuola elementare ebraica, come era avvenuto a Roma e Milano, decidendo però, infine, per motivi organizzativi e cautela politica, di istituire un insegnamento ebraico in una scuola privata (il collegio «Ravà», che già aveva offerto in passato questo tipo di corso). La comunità invitò inoltre le famiglie a richiedere per i propri figli l’esclusione dall’insegnamento religioso cattolico. In seguito alla legge sulle comunità israelitiche del 1930, che riconosceva la funzione culturale delle istituzioni ebraiche, nel 1932 fu creata una scuola elementare ebraica anche a Venezia, con programmi di cultura e lingua ebraica specifici, e l’organizzazione di una scuola pubblica fascista. Questa scuola continuò a essere frequentata dai figli delle famiglie meno abbienti, fino a che dovette esserne creata una nuova, con l’intero corso di studi elementari, medi e superiori, in seguito alle «leggi razziali» del 1938, che disponevano l’espulsione di insegnanti e allievi ebrei dalle scuole pubbliche e imponevano l’istituzione di scuole separate(42).

Tra i luoghi istituzionali della comunità ebraica, oltre alla Fraterna, le organizzazioni benefiche e la scuola, vi erano i templi. Il culto nelle sinagoghe veneziane conobbe tuttavia, nei primi decenni del Novecento, un consistente declino(43). Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento le cinque scole, sorte nel Ghetto dal Cinquecento per iniziativa delle diverse «nazioni» ebraiche, erano ancora tutte in funzione, sebbene frequentate soprattutto nelle feste solenni. Nel 1917 i templi in cui si tenevano ufficiature quotidiane erano tre (scola Spagnola, Levantina, Canton); ma alla metà degli anni Trenta funzioni quotidiane si tenevano in un unico tempio. Fino al 1927, i templi erano amministrati ciascuno da un Capitolo di confratelli che sostenevano annualmente le spese dell’organizzazione e avevano diritto a un posto fisso e ad azioni rituali nel corso delle cerimonie. Nei Capitoli sedevano i «signori» della comunità, molti dei quali si recavano però alle funzioni — anche per una certa resistenza a tornare nel Ghetto — unicamente per le feste solenni; soltanto alcuni partecipavano alla preghiera settimanale del sabato. Il tempio restava comunque l’unico luogo di riunione di tutta la comunità, indipendentemente da ogni divisione, benché status e ruoli diversi venissero mantenuti, ad esempio attraverso la collocazione dei posti a sedere o nel modo di vestire(44).

Nel corso dell’Ottocento, in tutte le comunità ebraiche italiane, la liturgia e il rituale delle cerimonie religiose pubbliche erano andati trasformandosi, anche per influenza e imitazione del modello ecclesiastico cattolico. Ciò era avvenuto, ad esempio, per i paramenti e il vestiario dei rabbini e degli ufficianti, o con l’introduzione nelle sinagoghe — a Venezia, alla fine del secolo — di un organo e di un coro femminile. Nuovi elementi secolari trasformavano la preghiera in un rituale laico nazionale, unendo religiosità tradizionale e culto patriottico, come avveniva, ad esempio, nella preghiera per il re (l’omaggio ai governanti aveva, del resto, una tradizione secolare), e in seguito per il re e il duce. Alcune cerimonie erano nate ex novo, o venivano promosse di volta in volta, per celebrare ricorrenze come il 4 novembre, giorno della vittoria italiana nella prima guerra mondiale, il 25° di regno di Vittorio Emanuele III (1925), lo scampato pericolo del principe ereditario (1929), la fondazione dell’Impero (1936). Alla tradizionale liturgia venivano aggiunte la Marcia Reale e Giovinezza o, secondo l’occasione, la Marcia del Piave; e si recitavano salmi appropriati, il cui testo millenario sembrava riattualizzato dalle nuove contingenze e dai nuovi ideali. Si celebravano e si rappresentavano in queste occasioni, con la partecipazione del più largo numero di ebrei veneziani, non solo il culto ebraico, ma la fusione degli ideali ebraici e di quelli italiani, sancita dalla devozione alla monarchia e al duce, e dal sacrificio dei figli della comunità nelle guerre della nazione(45).

I luoghi organizzati della sociabilità e dell’acculturazione ebraica a Venezia, dopo che nei primi anni del secolo il Gruppo sionistico veneto si era fatto promotore di conferenze e incontri, furono il Circolo di coltura ebraica (dal 1927 Convegno di studi ebraici), l’A.D.E.I., l’associazione Cuore e Concordia.

Quest’ultima era nata nel 1891 come società di mutuo soccorso, con lo scopo di «tener vivo il ricordo della nazionalità israelitica e di rialzarne vieppiù il prestigio, e quello materiale di sussidiare i soci in caso di malattia e di cronicismo, e di elargire un sussidio agli eredi legittimi dei soci defunti»(46). A lungo si occupò principalmente di organizzare la cena pasquale (seder) per i bambini poveri della comunità, tenuta ogni anno nella sala intitolata al filantropo inglese sir Moses Montefiore annessa alla scuola ebraica. Cuore e Concordia costituì però nel tempo l’associazione della parte meno agiata della comunità — del Ghetto, del «zò» — quasi in contrapposizione alla Fraterna israelitica dei «signori», del «su». Nel 1934 nacque un Circolo giovanile del Cuore e Concordia presso cui si tenevano attività di svago e lezioni del rabbino. Presidente per trent’anni dell’associazione fu il cavaliere Abramo Bino Cesana, rinomato antiquario veneziano. Dopo il 1938 fu costituita con un certo successo anche una «Filodrammatica»(47), e l’attività dell’associazione continuò a fiorire anche nel dopoguerra.

Nel 1928 nacque la sezione veneziana dell’A.D.E.I., si è visto, sodalizio femminile di beneficenza ed educazione ebraica, affiliato alla W.I.Z.O. (Women International Zionist Organization). L’attività di quest’associazione si concretizzava in lezioni ai bambini tra i cinque e gli undici anni; «lezioni conversazioni» per signore su argomenti ebraici (tenute dal rabbino e, spesso, dalle stesse socie); preparazione e raccolta di corredini e indumenti. L’associazione aveva inoltre costituito un gruppo di «Signore visitatrici» degli istituti educativi e assistenziali ebraici, e una refezione per la scuola ebraica. Instancabile presidente e guida dell’A.D.E.I., dalla sua fondazione fino a metà degli anni Sessanta, fu la professoressa Amelia Fano, signora della borghesia colta veneziana, affiancata dalle mogli e figlie delle famiglie delle classi medie e alte della comunità ebraica. Alla metà degli anni Trenta l’associazione contava a Venezia oltre 100 socie(48), rappresentando una delle sezioni più numerose d’Italia.

Il Convegno di studi ebraici fu per la borghesia ebraica veneziana, negli anni Venti e Trenta, luogo di incontri, conversazioni, intrattenimenti formali e informali, e soprattutto di riappropriazione culturale e religiosa, anche in collegamento con analoghe iniziative di altre comunità ebraiche italiane. Si tenevano al Convegno, che aveva sede in calle del Rimedio (non lontano da piazza S. Marco), non solo lezioni di religione e storia del rabbino Ottolenghi, ma conferenze di attivisti sionisti, intellettuali ebrei, professionisti, rappresentanti del rinnovamento culturale ebraico italiano come Dante Lattes e Alfonso Pacifici. Giungevano a Venezia figure quali il critico d’arte e militante socialista Guido Ludovico Luzzatto, il poeta Angiolo Orvieto, la germanista Lavinia Mazzucchetti, garantendo il notevole livello delle iniziative. Si tenevano concerti e rappresentazioni teatrali. Era in funzione una piccola biblioteca dedicata particolarmente alla narrativa ebraica europea (Heine, Fleg, Zangwill, Scialom Asch, Scialom Aleichem). Non mancavano libere discussioni, specialmente tra i giovani, sul sionismo, sui nuovi preoccupanti concetti di «razza» e «arianesimo», sulla grave situazione degli ebrei in Europa. La presenza di illustri ospiti, il confronto e l’analisi della tradizione storica e culturale ebraica, il collegamento con il movimento sionista costituivano notevoli elementi di differenziazione e di messa in discussione dell’identità e della cultura fascista e italiana, e offrivano strumenti e prospettive di critica, anche politica, del regime. Nel 1928 il Convegno contava oltre 300 soci; in quello stesso anno promuoveva a Venezia il II congresso culturale ebraico, incontro a carattere nazionale che testimoniava della vitalità dell’associazione veneziana(49).

Gli ebrei nella nazione: nazionalisti, sionisti, fascisti, antifascisti

All’epoca della guerra di Libia due giovani nazionalisti veneziani, Alberto Musatti e Raffaello Levi, che fino a pochi anni prima avevano frequentato il Gruppo sionistico veneto, dovevano prendere le distanze dall’Associazione nazionalista italiana, in seguito a una polemica antisemita iniziata sulle pagine de «L’Idea Nazionale» da Francesco Coppola, al seguito del nazionalismo francese di Charles Maurras(50). Potevano gli ebrei non dichiararsi innanzitutto, o soltanto, italiani? Che posizione avevano nella nazione italiana? Questi interrogativi erano frequenti quando un ebreo varcava la scena pubblica, sebbene fosse recente la nomina alla presidenza del Consiglio dei ministri dell’ebreo veneziano Luigi Luzzatti. La partecipazione ebraica alla Grande guerra avrebbe messo in secondo piano, ma non risolto, il problema degli ebrei nella nazione.

Nell’immediato dopoguerra si incontravano molti ebrei tra gli interventisti ed ex combattenti: una consistente presenza ebraica si aveva in particolare nella Democrazia Sociale di Silvio Trentin e Mario Marinoni, il cui terzo ispiratore fu del resto il repubblicano, e figlio di un garibaldino del ’66, Angelo Fano(51). Alle elezioni amministrative dell’ottobre 1921, nella lista della Democrazia Sociale figuravano, oltre a Fano, già candidato alle politiche: Giuseppe Jona, Umberto Luzzatto, Abramo Padoa, Raffaello Levi, Ruggero Sonnino, Guido Vivante, Renzo Ascoli, Gastone Ascoli. Questa presenza non mancò di essere sottolineata polemicamente dal quotidiano cattolico della parte avversa, nel cui schieramento comparivano del resto altri ebrei, anche se in numero minore (Alberto Musatti, Max Ravà, Paolo Errera, Cesare Corinaldi, Ettore Corinaldi). Protestava «Il Popolo» di Trentin:

La ‘Venezia’ non sapendo quali sassi scagliare contro gli uomini purissimi della lista democratica sociale, fanno [sic] del volgare incivile antisemitismo a buon mercato, non accorgendosi che offendono gli israeliti che sono nella loro lista. Noi siamo orgogliosi dei nostri Jona, Fano, Luzzatto e Padoa: ebrei illuminati, generosi, altruisti, italiani. Voi, cattolici, non avete compreso Cristo: le vostre anime settarie e cattive sono chiuse alla luce del pensiero umano(52).

Negli anni Venti, e ancor più negli anni Trenta, alla guida della comunità ebraica veneziana si alternarono figure di conservatori fascisti: Angelo Sullam, proprietario terriero; Alberto Musatti, avvocato; Max Ravà, bancario. La comunità come istituzione si fascistizzò, anche per il nuovo assetto legislativo introdotto dal regime nel 1930. Ai margini della vita comunitaria rimanevano invece alcuni provati antifascisti: il già citato Angelo Fano, figura di democratico molto nota in città, costantemente controllato dalla polizia, in seguito arrestato, processato e inviato al confino tra il 1931 e il 1932 per i suoi contatti con la concentrazione antifascista in Francia e con Giustizia e Libertà(53); Gino Luzzatto, illustre storico dell’economia, allontanato nel 1925 dalla direzione della Scuola Superiore di Commercio, incarcerato e processato nel 1928 e poi relegato ai suoi studi, dopo quasi tre decenni di militanza intellettuale e politica nell’area socialista(54). Tra gli antifascisti vanno ricordati, ancora, il deputato socialista Elia Musatti; il filosofo del diritto Alessandro Levi, già consigliere comunale socialista tra il ’14 e il ’20, che aveva però lasciato Venezia per proseguire la propria carriera accademica; i fratelli Pellegrino e Girolamo Polacco, socialisti e poi comunisti, controllati dalla questura di Venezia dal principio del secolo(55). Fano e Luzzatto, durante gli anni Trenta, anche per effetto del loro isolamento politico, si avvicinarono alle attività del Convegno di studi ebraici e iniziarono a coltivare timide simpatie sioniste, mentre seguivano con interesse il movimento culturale di rinascita ebraica che animava varie comunità italiane.

Proprio sul sionismo, dalla fine del 1928, si aprirono all’interno della comunità veneziana, come altrove in Italia, notevoli contrasti tra quanti vedevano con favore una rinascita religiosa, culturale e nazionale ebraica e quanti riducevano l’ebraismo a confessione religiosa e vi anteponevano la fedeltà e l’obbedienza alla patria italiana. Dopo la comparsa sul quotidiano «Il Popolo di Roma» di un articolo anonimo dal titolo Religione o Nazione? (che in seguito risultò opera dallo stesso Mussolini), in cui si chiedeva agli ebrei italiani «sionisti» di chiarire la propria posizione, aveva luogo una concitata riunione del Consiglio della Fraterna israelitica, in cui emergeva una divisione tra i consiglieri. Dichiarava, ad esempio, il consigliere Giorgio Coen:

ho avuto il dispiacere di leggere sui giornali un articolo che ha impressionato il mio spirito: sono venuti a maturazione i frutti che costituiscono pericolo gravissimo, sono state dette enormità da persone lontane dal mio sentire [al Congresso sionistico italiano riunito a Milano], queste persone ci mettono in un pericolo grave morale, sociale, materiale. Bisogna dire a costoro: alzate la mano, e diteci come pensate, non si può pensare in due modi. Vantandomi di essere feroce ebraista, sono anzitutto italiano. È giunto il momento di scindere la responsabilità degli Ebrei Italiani, con quelli che non sono Italiani. È arrivato il momento di scindere gli uni dagli altri […].

Il consigliere Coen Porto, e altri come lui, si dichiaravano su questa stessa linea:

Io non sono mai stato ‘sionista’. Ho sentito solo il dovere di aiutare i fratelli contro la furia antisemita. Bisogna pensare a noi; mai fare riserva di ‘nazionalità’ ché è una ubbia. Il ‘sionismo’ non fa altro che creare l’‘antisemitismo’ ufficiale. […] Noi deploriamo i sistemi ‘sionistici’, mancano di coscienza coloro che seguono quei movimenti. [Coen Porto] si dichiara ‘italiano di religione israelitica’. Non andiamo in cerca del nostro luogo nazionale. Non è possibile tenere il piede in due staffe […].

Rispondevano da una diversa posizione, sebbene con cautela, alcuni colleghi, tra cui Gino Bassi:

L’argomento è difficile; nessuna discussione si può fare sulla questione di italianità. Ho fatto chiedere sulle conferenze e sull’opera di propaganda ‘sionista’ del dott. Wardi [attivista sionista giunto anche a Venezia], il parere del Segretario politico di Venezia. Il Segretario ha risposto che la propaganda ‘sionista’ non può essere contraria al movimento attuale politico; ho creduto mio dovere fare questa dichiarazione.

Lazzaro Fano si dichiarava «italiano e sionista». Mentre Vittorio Fano, che aveva assistito al Congresso sionistico di Milano da cui era nata tutta la polemica, «non si era accorto» che vi fosse stata «questione di ‘nazionalità’»:

Fu inviato un saluto al Governo, per il ‘decennale della Vittoria’ [riferiva]. Hanno parlato al Congresso Volontari di Guerra, e Volontari Fiumani. L’articolo del giornale Il Popolo di Roma si riannoda e prende la occasione di polemica, da dichiarazioni postume al Congresso. Credo [aggiungeva Fano] di essere italiano quanto Voi, e quanto gli altri, pur essendo legato alla Terra dei padri. Parte di quello che è stato riferito, allo scrittore del giornale, può anche essere stato male riferito(56).

Una vera spaccatura si sarebbe presto determinata tra sionisti e antisionisti non solo all’interno del Consiglio, ma tra il Consiglio e il Convegno di studi ebraici, presieduto dallo stesso Vittorio Fano e centro dell’attività sionista a Venezia. Questa situazione rifletteva l’evoluzione culturale e politica dell’ebraismo italiano, e le trasformazioni dell’Italia fascista in senso antidemocratico e totalitario, cui i membri della comunità ebraica veneziana reagivano secondo atteggiamenti diversi.

Nell’agosto del 1932, il commissario governativo della comunità israelitica, Alberto Musatti, congedandosi dal suo incarico, celebrava la nuova legge fascista che dava «un assetto organico a tutta la ‘res hebraica’ in Italia realizzando non solo un progresso legislativo ma un aperto riconoscimento civile». Scrivendo un anno prima al commissario della comunità di Roma, aveva espresso l’«augurio sincero» che sorgesse «sotto gli auspici della nuova Italia, un’era di risveglio e di progresso per le nostre Istituzioni [ebraiche]»(57). Due anni più tardi, di fronte alle accese polemiche sui giornali italiani seguite all’arresto a Torino di un folto gruppo di antifascisti, molti dei quali ebrei, e alle accuse generalizzate di antifascismo rivolte agli ebrei italiani, il presidente della comunità, Max Ravà, dichiarava al Consiglio di ritenere «necessario che ovunque si [desse] la sensazione che il nucleo ebraico italiano [era] compatto nel deplorare l’atto inconsulto di quei pochi correligionari di Torino, mentre si stringeva fedele devoto al Regime e al Capo insigne che guida le fortune della Patria»(58). In seguito Ravà si rivolgeva al presidente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane, Felice Ravenna, esprimendogli i propri «sentimenti di dignità di italiano fascista e di dignità ebraica, che ritengo non essere, fra loro per nulla contrastanti; inscindibile unione di dignità, indispensabili in questi momenti di incertezza […]»(59). E poco dopo, riaffermando la propria fedeltà e obbedienza, chiedeva allo stesso Mussolini «una parola che sia di guida sincera nella via da seguire, in coordinamento alle direttive cui si ispira la politica del nostro Paese»(60).

La svolta razzista e le persecuzioni antiebraiche

Il 6 gennaio 1935, «Il Gazzettino Illustrato» pubblicava «un articolo che, sotto l’apparenza di rievocare un fatto storico, tentava di dar nuova diffusione in Italia alla calunnia dell’omicidio rituale»(61). L’Unione delle comunità israelitiche otteneva, poco dopo, dal sottosegretario alla Stampa, Ciano, la pubblicazione di una rettifica e, in seguito, di una lettera del professor Vincenzo Manzini, ordinario di Diritto penale all’Università di Padova, che sconfessava scientificamente il contenuto della «nota storica» sul «martire» Lorenzo Lorenzini, presunta vittima di sanguinari ebrei nella Pasqua del 1485(62). Forse però qualcosa stava cambiando anche a Venezia nell’atteggiamento generale verso gli ebrei. Nel febbraio e nel marzo di quell’anno, il gesuita Celestino Testore traeva spunto dalla recente polemica per illustrare ai giovani veneziani dell’Azione Cattolica la fondatezza delle accuse rivolte alla comunità ebraica, in una serie di lezioni al Corso superiore di cultura religiosa per la gioventù maschile(63). Accuse antiche contribuivano a determinare un clima nuovo. Da Venezia, in quei mesi, l’avvocato Raffaello Levi inviava due lettere di protesta al «Regime Fascista», per una serie di articoli sul «controllo ebraico» della finanza italiana («la tendenza degli ebrei [spiegava il giornale di Farinacci] ad esercitare come gruppo etnico e senza controllo l’egemonia finanziaria, una specie di dispotismo sull’economia di un paese»)(64). E nel bollettino della federazione fascista veneziana iniziavano a comparire, sebbene sporadicamente, notizie riprese da giornali stranieri sul ruolo occulto dell’«alta banca ebraica» e sui legami degli ebrei col movimento comunista internazionale(65).

Fu però nel novembre 1937 che la comunità israelitica veneziana iniziò a registrare i segni inequivocabili di una situazione politica decisamente mutata, dopo che in quell’anno l’antisemitismo si era, del resto, già espresso in modo aperto e ufficiale, in una vera e propria campagna su tutta la stampa italiana. A fine mese il commissario governativo della comunità Aldo Finzi si era dovuto recare dal prefetto di Venezia per segnalargli la comparsa di scritte contro gli ebrei sui muri della città. Più tardi, e di nuovo due settimane appresso, gliene segnalava di nuove:

Mi furono successivamente segnalate, ed ho personalmente constatate, ben 6 iscrizioni:

1 sullo stipite del portale del Museo Archeologico (Palazzo Reale)

4 ‑sui pilastri destri e sinistri delle Procuratie Nuove (in prosecuzione di detto Museo)

1 sulle imposte chiuse del Palazzo Reale prospicienti il Bacino S. Marco(66).

Il 23 gennaio 1938, sette mesi prima dell’annuncio ufficiale della svolta razzista del regime, Gino Luzzatto scriveva da Venezia al collega ed amico Corrado Barbagallo:

[…] Io ho sempre dato torto ai miei correligionari, che son sempre vissuti sotto l’ossessione di un ritorno all’ostilità e alle persecuzioni; ed anzi son vissuto sempre nell’illusione che l’uguaglianza fosse ormai una conquista definitiva. Anche recentemente l’intensificarsi della campagna [contro gli ebrei], oltre che nella ‘Vita Italiana’ e nel ‘Quadrivio’, in tre o quattro quotidiani, non mi aveva affatto impressionato. Ma ora bisognerebbe esser ciechi per non accorgersi che siamo di fronte a un piano prestabilito e largamente organizzato, che non si propone un semplice scopo di intimidazione, ma mira a risultati concreti. Non credo nemmeno ora che si arriverà a delle leggi di eccezione; ma, in una forma o nell’altra, a qualche limitazione si arriverà di certo(67).

Circa tre settimane più tardi, il 14 febbraio 1938, il prefetto di Venezia informava il Ministero dell’Interno della riprovazione suscitata da una conferenza dell’ingegner Angelo Fano all’Ateneo Veneto:

Per quanto sia stato trattato un argomento di carattere tecnico e culturale e per quanto il Fano dall’epoca del suo ritorno dal confino non abbia dato luogo a rimarchi è stata pur rilevata la inopportunità che gli sia stato concesso di richiamare sul suo conto l’attenzione cittadina, tanto più che l’ing. Fano è israelita.

La protesta induceva Alberto Musatti alle dimissioni dalla carica di vicepresidente dell’Ateneo(68). La situazione degli ebrei veneziani, e italiani, stava precipitando.

Dopo la pubblicazione su tutti i giornali, alla fine del luglio 1938, del cosiddetto «Manifesto degli scienziati razzisti», che annunciava i principi del razzismo e dell’antisemitismo fascisti, nell’agosto fu compiuto anche a Venezia il censimento della popolazione di «razza ebraica»(69). Il censimento individuò e schedò 2.136 persone: di queste 1.471 si professavano di religione ebraica, 616 cattolici e 49 agnostici. Dal settembre 1938 e nel corso del 1939 furono emanati — e trovarono immediata applicazione — i principali provvedimenti per la «difesa della razza»: espulsione degli ebrei stranieri; esclusione di insegnanti e studenti dalle scuole di ogni ordine e grado; interdizione dei matrimoni tra ebrei e «ariani»; licenziamento dei dipendenti ebrei pubblici e privati; limitazioni alle professioni e alle proprietà; espulsione dagli enti culturali, artistici, scientifici, dalle associazioni ricreative e sportive; esclusione dall’esercito e dal partito fascista. La propaganda antiebraica si fece martellante sulle pagine dei giornali locali e nazionali, entrò nelle scuole e nelle istituzioni pubbliche. Seguirono in breve tempo nuove misure che miravano alla degradazione culturale e all’isolamento sociale del gruppo ebraico: il sequestro della radio; l’interdizione dell’accesso alle biblioteche; l’esclusione dalle spiagge del Lido.

La reazione iniziale della popolazione veneziana alla compagna razzista fu apparentemente favorevole. Così la questura di Venezia descriveva al Ministero dell’Interno la situazione al 31 dicembre 1938:

Il problema della difesa della razza ed i conseguenti provvedimenti legislativi adottati nei confronti dei giudei, hanno suscitato in genere favorevoli commenti, ed il consenso, nei vari strati sociali è stato pressoché unanime, essendo in tutti radicata la convinzione che la compagine nazionale verrà sempre più rafforzata dall’esito finale della giusta lotta contro l’ebraismo che, in più occasioni, si era rivelato nemico giurato del fascismo.

In Venezia, ove l’elemento giudaico è piuttosto numeroso, si sono seguite, con non celato interesse, le varie fasi della lotta: sostituzione dei dirigenti israeliti dall’importante organismo economico ‘Le Assicurazioni Generali’, allontanamento dalle scuole di insegnanti ed alunni; esonero di impiegati pubblici; radiazione dalle file del PNF; provvedimenti economici, ecc.

Pure consenso hanno riscosso i provvedimenti che, in via eccezionale, sono stati decisi in favore di coloro che hanno bene meritato dalla patria e dal regime, ma in molti prevale il dubbio che i discriminati sappiano rendersene meritevoli(70).

Sembra che alcuni parroci fossero intervenuti dai pulpiti delle chiese per condannare i provvedimenti contro gli ebrei, considerati un allineamento alla Germania nazista, «pagana» e «materialista»(71). Tuttavia già nel febbraio del 1938 — mesi prima, quindi, dell’annuncio della «campagna razziale» —, il patriarca di Venezia, Piazza, aveva rinnovato verso gli ebrei, in una lettera pastorale, le accuse di deicidio e di «persistente malvagità». E anche dopo, pur prendendo le distanze dal razzismo nazista, il presule si mostrò disponibile verso un «razzismo moderato», pronunciandosi ad esempio, nel gennaio 1939, contro la «tracotanza» e «invadenza» ebraica(72).

Nel dicembre 1940, l’opinione pubblica non «segu[iva] molto simpaticamente le ulteriori restrizioni» nei confronti degli ebrei(73). Mentre la burocrazia proseguiva inesorabile e assurda il suo corso: il Ministero dell’Interno, ribadendo il «principio […] della separazione cui [era] ispirata tutta la legislazione per la difesa della razza», impediva la concessione a ebrei di licenze «per scuola da ballo», o vietava agli ebrei di «far parte di sodalizi aventi per iscopo la protezione degli animali»(74). I gruppi fascisti rionali inasprivano la situazione con ripetute scritte offensive sui muri: «Ebrei spie», «Ebrei traditori di tutte le epoche», «Morte agli Ebrei»(75), e — in particolare nell’aprile e nel luglio 1942 — con azioni violente contro la comunità. Un fonogramma della questura al prefetto di Venezia, datato 3 aprile 1942, recava:

Per opportuna notizia informasi che ieri sera verso le ore 18.30 gruppo fascisti squadristi numero 60 circa habet percorso Ghetto Vecchio et Ghetto nuovo lanciando grida minacciose contro ebrei ivi residenti e schiaffeggiato rabbino Ottolenghi incontrato casualmente per istrada. Da parte capeggiatori medesimo gruppo discioltosi verso ore 19 est stato formulato progetto prossime rappresaglie contro ebrei tutti ritenuti istigatori note recenti proteste contro insufficienze generi alimentari. Disposto vigilanza(76).

La comunità segregata e umiliata si stringeva attorno alla scuola, alle attività assistenziali e culturali. I rapporti tra i singoli ebrei — parenti, amici — si rinsaldavano per le comuni difficoltà, o talora si interrompevano bruscamente, per la conversione di qualcuno che sperava così di sottrarsi alle persecuzioni. Iniziavano a emergere elementi antifascisti di nuova generazione, tra cui Renato Maestro, Renzo Sullam, Cesare Banon(77), in seguito Cesare Lombroso(78). Nel frattempo, nel maggio 1942, erano avviate le procedure per la precettazione civile a scopo di lavoro degli ebrei adulti, uomini e donne: una nuova fase della politica antiebraica.

Nel dicembre 1943, in seguito all’occupazione tedesca e alla nascita della Repubblica Sociale Italiana, anche a Venezia si iniziò ad attuare la «soluzione finale del problema ebraico». Il 1° dicembre 1943 un titoletto sulla prima pagina del «Gazzettino» annunciava: Gli ebrei in campi di concentramento; un’ordinanza ministeriale ne aveva disposto l’arresto e il sequestro dei beni. Il breve corsivo sottostante concludeva: «La congiura giudaica, anche nel nostro Paese, aveva tirato troppo la corda; oggi la corda si è definitivamente rotta e ha portato ai colpevoli il giusto castigo»(79). Il 5 dicembre un «fonogramma urgentissimo» del questore di Venezia ai commissariati di pubblica sicurezza, al comando dei carabinieri, alla 49a legione della milizia volontaria di sicurezza nazionale, ingiungeva: «[…] Prego procedere immediato fermo elementi appartenenti razza ebraica ebrei et sequestro dei beni mobili et immobili di loro proprietà. Predetti saranno tradotti alle locali Carceri di S. Maria Maggiore se di sesso maschile, alla Casa Penale Giudecca se di sesso femminile, et centro minorenni se trattasi di minori […]»(80). Alle 22,50 del giorno successivo il prefetto di Venezia comunicava al Ministero dell’Interno l’avvenuto arresto di «163 ebrei puri di cui 114 donne et 49 uomini». Il 31 dicembre 93 di questi furono inviati al campo di concentramento di Fossoli di Carpi (Modena). Il 18 gennaio 1944 li seguivano 4 «minori di razza ebraica» tra i tre e i sei anni di età. Circa un mese più tardi, presi in consegna da forze tedesche, partivano tutti da Fossoli diretti al campo di sterminio di Auschwitz in Polonia, dove avrebbero tutti trovato la morte.

Gli arresti a Venezia non cessarono per tutto il 1944 e fino ai primi mesi del 1945. Dall’estate del ’44 operò in città un distaccamento delle SS guidato dal capitano Franz Stangl, già comandante di Treblinka, che scovò e arrestò — anche con l’ausilio di un ebreo triestino collaborazionista — circa 90 ebrei (tra cui i degenti della Casa di ricovero israelitica, degli ospedali e dei manicomi), avviandoli alla morte in Germania e Polonia, e talora alla Risiera di S. Sabba di Trieste, unico campo di sterminio in Italia. Tra i deportati anche il rabbino capo di Venezia, Adolfo Ottolenghi.

Complessivamente perirono 246 ebrei veneziani, uomini e donne, in età compresa tra i due mesi e gli ottantanove anni. Molti altri avevano trovato rifugio, spesso anche grazie all’aiuto della popolazione, nelle campagne venete, in Svizzera, fuggendo al Sud verso gli alleati, talora in nascondigli in città. Nella clandestinità, alcuni giovani avevano preso parte alla Resistenza, sia nel Veneto che nell’Italia centrale.

La rinascita della comunità

Con la Liberazione iniziarono a porsi i gravi problemi della ricostruzione materiale e morale della comunità ebraica. Gli ebrei veneziani uscivano non solo dalla guerra, ma da quasi sette anni di persecuzione e segregazione razziale e, nell’ultimo anno e mezzo, da una spietata «caccia all’uomo», cui molti non erano sopravvissuti. A livello istituzionale la comunità aveva perso le sue più alte autorità: il suo presidente Giuseppe Jona, morto suicida nel settembre 1943 (pochi giorni dopo l’occupazione nazista), e il suo rabbino capo, ucciso ad Auschwitz. Ai circa 1.100 veneziani sopravvissuti si univano temporaneamente 600 profughi stranieri, soprattutto polacchi e jugoslavi in attesa di emigrare in Palestina(81). Iniziava l’ansiosa ricerca dei dispersi. Si ricostituivano intanto le associazioni ebraiche, la scuola, il culto, la beneficenza(82). Gradualmente gli ebrei sarebbero stati reintegrati nella società veneziana e avrebbero ripreso una piena partecipazione alle sue vicende.

Alla guida della comunità fu eletto Vittorio Fano, già suo consigliere e a lungo presidente del Convegno di studi ebraici, mentre vicepresidente divenne Gino Luzzatto, che sedeva contemporaneamente nella giunta municipale del sindaco Gianquinto (come assessore al patrimonio), ed era anche rettore a Ca’ Foscari. Dal maggio 1946 e fino all’agosto del 1951, rabbino capo della comunità fu Elio Toaff(83).

Proseguiva, intanto, in nuove forme, il fenomeno dell’assimilazione culturale, anche se potevano esservi ancora sporadiche manifestazioni di antisemitismo(84).

Iniziò in questo periodo l’elaborazione e istituzionalizzazione della memoria delle recenti persecuzioni: il 7 dicembre 1947, alla presenza delle autorità cittadine e del presidente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane, Raffaele Cantoni, la comunità scopriva due epigrafi per il rabbino Ottolenghi e il presidente Jona e una lapide in memoria degli ebrei veneziani deportati ed uccisi, all’esterno del tempio Spagnolo, in faccia a quella che commemorava gli ebrei caduti nella prima guerra mondiale(85). Il sionismo, sebbene diversamente interpretato dai singoli ebrei, diveniva comune riferimento culturale: il 15 maggio 1948, dopo che il giorno precedente David Ben Gurion aveva annunciato al mondo la nascita del nuovo Stato ebraico in Palestina, la comunità ascoltava riunita nel tempio il discorso celebrativo del rabbino Toaff e una folla festosa si riversava subito dopo in campo di Ghetto Nuovo(86). Nuove vicende iniziavano nella storia degli ebrei veneziani, nuovi destini e percorsi nella storia della città.

1. I più recenti e importanti studi sugli ebrei italiani nel Novecento sono raccolti nei seguenti volumi (a cui si rinvia una volta per tutte, privilegiando in seguito i riferimenti alla bibliografia e alle fonti specifiche): Stato nazionale ed emancipazione ebraica. Atti del convegno, a cura di Francesca Sofia-Mario Toscano, Roma 1992; Italia Judaica. Gli ebrei nell’Italia unita 1870-1945. Atti del convegno, Roma 1993; Storia d’Italia, Annali, 11, Gli ebrei in Italia, II, Dall’emancipazione a oggi, a cura di Corrado Vivanti, Torino 1997. Inoltre: Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino 2000; Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 19934; David Bidussa-Amos Luzzatto-Gadi Luzzatto Voghera, Oltre il ghetto. Momenti e figure della cultura ebraica in Italia tra l’Unità e il fascismo, Brescia 1992.

2. V. gli Atti del VI Convegno Sionistico Italiano, «L’Idea Sionista», marzo-maggio 1908.

3. Cf. Milano, Archivio della Fondazione Centro Documentazione Ebraica Contemporanea, Fondo Sullam (ordinamento provvisorio), b. 15, fasc. 1 «Attività del Gruppo Sionistico Veneto», 1903-1911, lettera del 6 giugno 1903.

4. L’episodio, riferito dallo stesso Sarfatti, si legge negli Atti del VI Convegno Sionistico Italiano, p. 489.

5. Le dichiarazioni di Sullam e Levi pronunciate all’assemblea del Gruppo sionistico veneto sono riportate in «L’Idea Sionista», giugno-luglio 1905.

6. Cf. Milano, Archivio della Fondazione Centro Documentazione Ebraica Contemporanea, Fondo Sullam, b. 24 «Appunti, articoli manoscritti, bibliografie e traduzioni», 1901-1908, blocco note (la prima pagina reca: «Note volanti. Cominciato il 18 Gennaio 1901»).

7. Cf. Atti del Consiglio Comunale di Venezia, Venezia 1907, pp. 46-48 (seduta del 4 febbraio 1907).

8. Cf. Ebrei clericali, «Il Secolo Nuovo», 24 luglio 1902.

9. Cf. Alfa Lamda [Alessandro Levi], I cristianelli del Ghetto, «L’Idea Sionista», aprile 1907, e, in forma ridotta, «Il Secolo Nuovo», 20 aprile 1907. V. inoltre: Le benemerenze clerico-semite del sig. Jesurum, ibid., 18 maggio e 1° giugno 1907.

10. Cf. Elia Musatti, Al riformatorio antisemita veneziano, «Il Secolo Nuovo», 28 ottobre 1905. Ha richiamato l’attenzione su questo articolo Anna Fratter, Elia Musatti (1869-1936). Borghesi e proletari nell’universo socialista veneziano, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, a.a. 1993-1994, p. 130.

11. Cf. [Adele Franchetti Musatti], Pagine di una ignota, Venezia 1919.

12. Sulla famiglia Musatti, cf. Giannantonio Paladini, Politica e cultura a Venezia tra Ottocento e Novecento: i Musatti, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 431-448.

13. Cf. Cesare Musatti, Mia sorella gemella la psicoanalisi, Roma 1982; Id., Questa notte ho fatto un sogno, Roma 1983; Id., Chi ha paura del lupo cattivo?, Roma 19972; e l’intervista a Musatti contenuta in Stefano Jesurum, Essere ebrei in Italia, Milano 1987, pp. 73-79.

14. Questi dati risultano da Sergio Della Pergola, Aspetti e problemi della demografia degli ebrei nell’epoca preindustriale, in Gli ebrei a Venezia, secoli XIV-XVIII. Atti del convegno, a cura di Gaetano Cozzi, Milano 1987, pp. 201-210; Roberto Bachi, La distribuzione geografica e professionale degli ebrei secondo il censimento italiano del 1931, «Israel», 13 settembre 1934; Gli ebrei a Venezia 1938-1945. Una comunità tra persecuzione e rinascita, a cura di Renata Segre, Venezia 1995, pp. 37-40.

15. Cf. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica , b. 67 «Anagrafe e stato civile», fasc. «Censimento», 1921, relazione del vicepresidente Giacomo Levi, 23 aprile 1922 (cf. inoltre «Israel», 18 maggio 1922).

16. Calcolo basato sui dati comunicati annualmente dalla comunità israelitica di Venezia all’Unione delle  comunità israelitiche, cf. ivi, b. 435 «Corrisponden;-

za», fascc. 1933, 1934, 1935, 1936, sottofasc. «Corrispondenza con l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane».

17. Così le chiama Donatella Calabi, Gli ebrei veneziani dopo l’apertura delle porte del ghetto: le dinamiche insediative, in 1797. Le metamorfosi di Venezia. Atti del seminario internazionale di alta cultura presso la Fondazione Giorgio Cini a Venezia, a cura di Gaetano Cozzi, in corso di stampa.

18. Utilizzo la terminologia e le suggestioni che ancora derivano da Robert E. Park-Eduard W. Burgess, Il processo di assimilazione (1921), in Società e metropoli. La scuola sociologica di Chicago, a cura di Raffaele Rauty, Roma 1995, pp. 37-53. V. inoltre il capitolo La memoria collettiva e lo spazio, in Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, a cura di Paolo Jedlowski, Milano 1987 [Paris 1950], pp. 135-162.

19. Cf. Comune di Venezia, Rilievo degli abitanti di Venezia 1869 per religione, condizioni, professioni, arti e mestieri, Venezia 1871, p. 125, tav. «Popolazione secondo la religione» (nella tabella che segue sono aggregati i dati di Cannaregio e Castello per la parrocchia dei SS. Giovanni e Paolo).

20. Cf. Id., Relazione sul V. Censimento Demografico e I. Censimento degli opifici e delle imprese industriali, 10-11 giugno 1911, Venezia 1912, pp. 142-143, tav. 35 «Popolazione presente divisa per parrocchie secondo il sesso e la religione».

21. Cf. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 61 «A.C.E.G. Elenchi popolazione, Censimento demografico del 1911», registro.

22. Cf. ivi, Archivio Storico Comunale, Censimento 1911, bb. «Cannaregio, Anagrafici 1001-1400; 2701-3000, schede di famiglia».

23. Cf. ivi, Archivio della Comunità Ebraica, b. 67 «Anagrafe e stato civile», fasc. «Censimento», 1921, relazione del vicepresidente Giacomo Levi sul censimento, 23 aprile 1922. I risultati del censimento compaiono inoltre in «Israel», 18 maggio 1922; vengono qui riferiti in forma parzialmente aggregata, senza distinguere inoltre maschi e femmine.

24. È questa una sintesi dei dati del censimento del 1938, rielaborati da Renzo Derosas e Mauro Pitteri in Gli ebrei a Venezia 1938-1945, p. 39.

25. Cf. Antonio Pilot, Breve storia del caffè Martini (1922), in Id., La bottega del Caffè, Venezia 1980, pp. 90-91.

26. V. gli elenchi dei soci e delle cariche in «Ateneo Veneto», 44, 1921, pp. 49-60; ibid., 122, 1931, nr. 1/1, pp. 173-178; ibid., 150, 1959, nr. 2, p. 10 (pp. 7-16). Per le vicende del 1938 cf. Venezia, Archivio dell’Ateneo Veneto, Verbali Assemblee dei Soci dal 10 Aprile 1921 al 17 novembre 1968, assemblea del 27 novembre 1938, pp. 115-117.

27. Cf. Venezia, Archivio Storico Comunale, b. 2099 «1936-1940», cat. V, cl. 2, fasc. 13 «Teatro La Fenice, Passaggio in proprietà al Comune (1936)».

28. Cf. Ugo Ojetti, I taccuini, Firenze 1954, pp. 283-284, cit. in Sergio Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Venezia 19972.

29. Cf. Testo Unico di Statuto della Fraterna Generale di Culto e Beneficenza degli Israeliti in Venezia, Venezia 1887. Dal 1910 fu discusso, ma non approvato, un nuovo Progetto di statuto organico, s.a. [ma 1910].

30. Cf. Gadi Luzzatto Voghera, Il prezzo dell’uguaglianza. Il dibattito sull’emancipazione in Italia (1781-1848), Milano 1998, pp. 124 ss.

31. V. il necrologio, a firma del successore Adolfo Ottolenghi, «Il Vessillo Israelitico», dicembre 1918, pp. 475-476.

32. Cf. Norme sulle Comunità israelitiche e sull’Unione delle comunità medesime (r.d. 30 ottobre 1930, nr. 1731). Per un inquadramento più generale cf. Guido Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano. Dal periodo napoleonico alla Repubblica, Torino 19992.

33. Emilio Pardo, Luci e ombre. Il Ghetto di Venezia alla fine del 1800 ed al principio del 1900, Roma 1965, pp. 14-15. L’autore di questa testimonianza era nato nel 1889, da famiglia che viveva in campo di Ghetto Nuovo.

34. Cf. Mario Toscano, Ebrei ed ebraismo nell’Italia della Grande Guerra. Note su una inchiesta del Comitato delle Comunità Israelitiche Italiane del maggio 1917, in Israel. Un decennio, 1974-1984. Saggi sull’Ebraismo italiano, a cura di Francesco Del Canuto, Roma 1984, p. 389 (pp. 349-392).

35. Per questa attività v. gli statuti e regolamenti a stampa dei vari enti e, in Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, i verbali della direzione di beneficenza (b. 45A.C e b. 46); i fascc. della stessa direzione (b. 50 «Presidenza»); la documentazione sulle scuole (bb. 175 e 185).

36. Comunità Israelitica di Venezia, Relazione morale finanziaria della gestione straordinaria 30 gennaio 1935-XIII-8 aprile 1937-XV, Venezia 1937, p. 20.

37. Cf. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 175 «Scuole», fasc. «Scuole», 1926, lettera del rettore delle scuole rabbino Adolfo Ottolenghi alla r. ispettrice scolastica, 29 ottobre 1925.

38. Cf. ivi, Archivio privato Bianca Arbib Nunes Weis, b. 1, fasc. 4, circolare dell’A.D.E.I., s.a. [ma 1928]; b. 175 «Scuole», fasc. «Insegnamento religioso. Questione scuola», 1924, lettera del presidente della Fraterna israelitica al Consorzio delle comunità israelitiche italiane, 28 maggio 1924.

39. I programmi, a firma delle maestre Clementina Heller e Giulia Marconi, sono nel quaderno «Programmi di studi svolti nel Talmud Thorà Maschile e Femm. di Venezia», ivi, b. 185 «Scuole Morali». Da notare la traslitterazione dall’ebraico che ricalca la morfologia e la pronuncia della parlata giudeo-veneziana (per cui cf. Umberto Fortis-Paolo Zolli, La parlata giudeo-veneziana, Assisi-Roma 1979), e l’uso del termine della tradizione cattolica «catechismo».

40. Sul collegio «Ravà» v. la pubblicazione del suo fondatore Moisè Ravà, Alcune considerazioni sulla istruzione pubblica e privata e monografia del convitto internazionale Ravà per cura del suo direttore, Venezia 1872. Cf. inoltre: B. Guadagni, Il Collegio Convitto Internazionale Ravà in Venezia, «La Flora del Mincio», ripubblicato in «Il Vessillo Israelitico», settembre 1887, pp. 300-301; l’opuscolo In memoria di Moisè Ravà, Venezia 1892. Fino al 1907, il convitto garantiva l’osservanza scrupolosa delle prescrizioni ebraiche alimentari e per le feste.

41. V., ad esempio, le testimonianze di Luigi Luzzatti, Prospero Ascoli, Cesare Musatti, in Giacomo Franceschini, Un secolo di cultura nazionale nel Liceo-ginnasio M. Foscarini, Venezia 1907, pp. 99 e 104. Cf. inoltre i resoconti della premiazione per i successi degli allievi ebrei in tutte le scuole pubbliche veneziane, tenuta al tempio in occasione delle feste solenni dell’autunno, in Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 185 «Scuole Morali».

42. Per la vicenda del 1924, cf. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 175 «Scuole», fasc. «Insegnamento religioso. Questione della scuola», 1924; per gli sviluppi successivi ibid., fascc. degli anni 1932-1937; per la scuola ebraica dal 1938, Gli ebrei a Venezia 1938-1945, pp. 51-52, 107-125.

43. Cf. tra l’altro in proposito, del rabbino Adolfo Ottolenghi, Il Tempio. Discorso pronunciato nel Tempio Spagnolo di Venezia nel giorno di Chipur 5689 (1928), Venezia 1929.

44. La documentazione sui templi si trova in Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, bb. 92-94 «Templi». Cf. inoltre Regolamento pel Tempio Spagnuolo Israelitico di Venezia, Venezia 1893. V., infine, F[laminio] S[ervi], Un viaggio nel Veneto, «Il Vessillo Israelitico», marzo 1905, pp. 138-141; E. Pardo, Luci e ombre, pp. 7-10.

45. La documentazione si trova in Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 200 «Manifestazioni». Sulle trasformazioni del culto a Venezia v. Steve Siporin, Pass;over, Shavuot and Simhat Torah in Venice: Elite Innovation and their Acceptance by the Folk, «La Rassegna Mensile di Israel», gennaio-aprile 1984, pp. 23-41.

46. Cf. Statuto della Società Israelitica di Previdenza ‘Cuore e Concordia’ Venezia, Venezia 1912; v. inoltre la testimonianza di Emilio Pardo, Brevi cenni sulla «Associazione Israelitica di Previdenza ‘Cuore e Concordia’», Venezia-Roma 1962.

47. Nacque in questo contesto la commedia in giudeo-veneziano, ambientata nel Ghetto di Venezia, Quarant’anni fa, opera del futuro rabbino Bruno Polacco, ora edita in Umberto Fortis, Il ghetto in scena. Teatro giudeo-italiano del Novecento. Storia e testi, Roma 1989.

48. Per la nascita dell’A.D.E.I. veneziana cf. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 437 «Corrispondenza», fasc. «Associazione delle Donne Ebree d’Italia», 1928-1929. V. inoltre L’A.D.E.I. dalla nascita ai giorni nostri. Breve storia della Federazione Italiana della Wizo, Venezia 1971, e Laura Fano Jacchia, Ricordo di Amelia Fano, «La Rassegna Mensile di Israel», dicembre 1964, pp. 545-553.

49. L’attività del Convegno è documentata sulle pagine del settimanale «Israel», nonché nella corrispondenza con il Consiglio della comunità ebraica, in Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 50 «Presidenza», e bb. 435-440 «Corrispondenza», fascc. degli anni 1921-1938.

50. Cf. Francesco Coppola, Israele contro l’Italia, «L’Idea Nazionale», 16 novembre 1911; Alberto Musatti, Parole chiare, ibid., 23 novembre 1911. La polemica fu ripresa anche sulle pagine del «Corriere Israelitico», cf. ad esempio Un Giovane Ebreo, Gli ebrei e il nazionalismo, 30 aprile 1912; Alberto Musatti, Lettera alla Direzione, 31 maggio 1912. Per il contesto veneziano cf. Luciano Pomoni, Il Dovere Nazionale. I nazionalisti veneziani alla conquista della piazza (1908-1915), Padova 1998.

51. Fano partecipò, con Trentin e Marinoni, alla stesura del programma del nuovo movimento, cf. Frank Rosengarten, Silvio Trentin dall’interventismo alla resistenza, Milano 1980 [New York 1977], pp. 56-57. Su di lui cf. Ugo Facco De Lagarda, Vita esemplare di Angelo Fano, «Nuova Rivista Storica», 1968, nrr. 1-2, pp. 115-118, e la testimonianza della figlia Nella, letta al Beit W.i.z.o. Italia di Tel Aviv nel 1986 (dattiloscritto inedito).

52. Cf. Antisemitismo, «Il Popolo», 25 ottobre 1920, che replicava a La lotta elettorale, «Venezia», 23 ottobre 1920.

53. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Casellario Politico Centrale, b. 1945, fasc. «Fano Angelo di Consiglio».

54. Cf. ibid., b. 2891, fasc. «Luzzatto Gino fu Giuseppe». V. inoltre Giannantonio Paladini, Gino Luzzatto (1878-1964), s.n.t. [ma Venezia 1987].

55. V. la documentazione in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Casellario Politico Centrale, b. 3463, fasc. «Musatti Elia fu Giuseppe»; b. 2778, fasc. «Levi Alessandro di Giacomo»; b. 4051, fascc. «Polacco Girolamo (detto Armando) di Giuseppe» e «Polacco Pellegrino di Giuseppe».

56. Cf. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 45A.45B «Verbali», reg. «Verbali di seduta dal 21.12.26 al…», pp. 66-71. Sulla vicenda a livello nazionale cf. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani, pp. 95-97.

57. Cf. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 50 «Presidenza», fasc. «Relazione del Commissario Governativo al Consiglio della Comunità», 2 agosto 1932; b. 437 «Corrispondenza», fasc. «Corrispondenza», 1931, sottofasc. «Enti israelitici varii», lettera del 28 maggio 1931.

58. Cf. ivi, b. 50 «Presidenza», fasc. «Presidenza e Consiglieri», 1934, minuta di verbale della seduta del Consiglio della comunità israelitica, 9 aprile 1934.

59. Cf. Milano, Archivio della Fondazione Centro Documentazione Ebraica Contemporanea, Fondo Ravenna, b. 8 «Unione delle Comunità Israelitiche Italiane», fasc. 5, lettera del 25 aprile 1934.

60. Cf. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, Cat. 480/R, fasc. «Ravà avv. Massimiliano e figlio Paolo», lettera del 30 aprile 1934.

61. Milano, Archivio della Fondazione Centro Documentazione Ebraica Contemporanea, Fondo Ravenna, b. 9, fasc. 3, lettera del presidente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane, Felice Ravenna, ai consiglieri dell’Unione, 30 gennaio 1935. L’episodio è riferito anche in R. De Felice, Storia degli ebrei italiani, p. 123 e n.

62. Cf. «Il Gazzettino», 6 e 7 febbraio 1935.

63. V. l’annuncio degli incontri apparso nel settimanale della diocesi di Venezia, «La Settimana Religiosa», del 1935: Il Martire Lorenzino e una recente polemica (24 febbraio); Infanticidio rituale: esagerazioni, probabilità, realtà (3 marzo); L’omicidio rituale: documenti pontifici (10 marzo); Il beato Simoncino da Trento (17 marzo). In precedenza l’atteggiamento della Chiesa veneziana non si era caratterizzato per particolari espressioni di antisemitismo. Sembra che il cardinale La Fontaine, patriarca di Venezia dal 1915 al 1935, intrattenesse rapporti cordiali con il rabbino capo Ottolenghi. La posizione ufficiale della Chiesa veneziana era comunque segnata dall’antigiudaismo cattolico (cf. dgs., Giudei e giudaismo, «La Settimana Religiosa», 7 ottobre 1928).

64. Gli articoli e le lettere erano riprese nella rubrica Voci della Stampa italiana, «Israel», 7 marzo 1935.

65. Cf. L’alta banca ebraica finanzierà le elezioni francesi?, «Italia Nova», 15 marzo 1935; Niper, Il dramma palestinese, ibid., 3 maggio 1935; Gente di… troppo larghe vedute, ibid., 21 giugno 1936; Ebrei al servizio del COMINTERN, ibid., 31 gennaio 1937.

66. Cf. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 439 «Corrispondenza», fasc. «Corrispondenza del Commissario Governativo», 1937, lettere al prefetto di Venezia, 29 e 30 novembre, 13 dicembre 1937.

67. Cf. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Casellario Politico Centrale, b. 2891, fasc. «Luzzatto Gino fu Giuseppe», lettera del 23 gennaio 1938.

68. Cf. ibid., b. 1945, fasc. «Fano Angelo di Consiglio», lettera del prefetto di Venezia Catalano al Ministero dell’Interno, 14 febbraio 1938; Venezia, Archivio dell’Ateneo Veneto, b. «Soci, anni 1927-1939, cartella Proposte e adesioni nuovi soci», fasc. «Atti finali e dimissioni presidenza», 1938, lettere di Musatti al prefetto di Venezia e al ministro per l’Educazione nazionale Bottai, 16 febbraio 1938.

69. Le vicende della comunità nel periodo delle persecuzioni (1938-1945) sono documentate in Gli ebrei a Venezia 1938-1945, su cui salvo diversa indicazione si basa la seguente ricostruzione. Cf. Paolo Sereni, Gli anni della persecuzione razziale a Venezia. Appunti per una storia, in Venezia ebraica. Atti delle prime giornate di studio sull’ebraismo veneziano, a cura di Umberto Fortis, Roma 1982, pp. 129-151; Id., Della comunità ebraica a Venezia durante il fascismo, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 503-540.

70. Cf. Relazione sulla ‘Situazione politico economica alla data 31 dicembre 1938.XVII’, ora edita in La Resistenza nel Veneziano, II, Documenti, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1985, p. 29.

71Relazione della Questura di Venezia al Ministero degli Interni, 15 novembre 1938, ora edita in Gli ebrei a Venezia 1938-1945, p. 56.

72. Cf. Giovanni Miccoli, Santa Sede e Chiesa italiana di fronte alle leggi antiebraiche del 1938, in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa. Atti del convegno, Roma 1989, pp. 203, 224-226 e nn. (pp. 163-274).

73. Cf. Relazione della Questura di Venezia al Ministero dell’Interno, 22 dicembre 1940, ora in La Resistenza nel Veneziano, II, Documenti, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1985, p. 38.

74. Cf. «Bollettino degli Atti Ufficiali della R. Prefettura di Venezia», 1941, nrr. 5 e 6, pp. 64-65, 78-79 (Circolari ministeriali del 23 e 29 gennaio 1941).

75. Lettera del presidente della comunità israelitica al prefetto di Venezia, 29 maggio 1941, ora edita in Gli ebrei a Venezia 1938-1945, p. 89.

76. Cf. Fonogrammi della Questura alla Prefettura di Venezia, 3 aprile e 23 luglio 1942, ibid., pp. 95-96. Il secondo riferiva di «sassi et castagnole deflagranti» lanciati da un «gruppo di giovinastri» contro una delle sinagoghe.

77. Su questi tre che si riunivano assieme ad altri al Caffè Piccolo Lavena in Frezzeria, già «negli anni immediatamente precedenti allo scoppio della guerra», cf. la testimonianza di Giovanni Giavi (Gianni), Gli anni oscuri, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 161-162 (pp. 151-167). Il 1° gennaio 1941 Maestro e Sullam, con Sandro Gallo, furono arrestati e assegnati al confino.

78. Su Lombroso, tra i fondatori del M.U.P. (Movimento di Unità Proletaria), e in seguito partigiano, organizzatore delle Brigate «Matteotti» nel Trevigiano, cf. in partic. Cesare Lombroso, Il MUP a Venezia e a Marghera, ibid., pp. 303-308.

79. Cit. in Gli ebrei a Venezia 1938-1945, p. 151.

80. Il facsimile del documento è pubblicato ibid., p. 153.

81. Cf. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 442 «Corrispondenza», fasc. C 3/4, 1945, «Breve relazione sulla Comunità di Venezia», 4 dicembre 1945, inviata dal presidente Vittorio Fano all’Unione delle comunità israelitiche italiane. Da Venezia, grazie anche al sostegno della comunità ebraica, partirono per la Palestina alcune navi di profughi clandestini, cf. la testimonianza di Ada Sereni, I clandestini del mare. L’emigrazione ebraica in terra d’Israele, Milano 19732, pp. 205-206.

82. Cf. Gli ebrei a Venezia 1938-1945, pp. 183-214.

83. Del rabbino, che fu in seguito rabbino capo a Roma, v. ora l’autobiografia, Elio Toaff, Perfidi giudei, fratelli maggiori, Milano 1988, pp. 131-161.

84. V., ad esempio, una lettera del direttore del «Gazzettino» Riccardo Forte al presidente della comunità ebraica di Venezia, in difesa di alcune affermazioni del gesuita Lombardi, improntate a un tradizionale antigiudaismo cattolico, sul destino degli ebrei nella seconda guerra mondiale (cf. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 444 «Corrispondenza», fasc. «Corrispondenza varia», 1947, lettera del 18 novembre 1947). V. inoltre i riferimenti stereotipi alla «razza ebraica», alle organizzazioni segrete e al comunismo, «così conforme al tormentato spirito di Israele», negli articoli dello stesso «Gazzettino» sulle vicende che precedettero la nascita dello Stato di Israele (cf. Corrado Pallenberg, Una potente organizzazione. Attività segreta dell’Haganah, «Il Gazzettino», 14 maggio 1948; Il focolare d’Israele, ibid., 18 maggio 1948, da cui è tratta la citazione).

85. Cf. Da Venezia. Le onoranze ai caduti, «Israel», 25 dicembre 1947.

86. Cf. E. Toaff, Perfidi giudei, pp. 154-155; Da Venezia, «Israel», 27 maggio 1948.

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