Gli ebrei

Storia di Venezia (2002)

Gli ebrei

Gadi Luzzatto Voghera

Continuità e trasformazioni

Il secolo XIX segna per la storia della comunità ebraica veneziana un periodo di lunga e articolata transizione che coinvolge in varia misura i suoi assetti istituzionali e giuridici, i suoi equilibri sociali e la sua stessa conformazione culturale e religiosa. Il passaggio da una condizione di segregazione fra le mura del Ghetto ad una di equiparazione civile più o meno formalmente riconosciuta a seconda dei momenti e dei regimi che governarono la città, ci consente di osservare i meccanismi di trasformazione che, qui come in altre città dell’Europa centro-occidentale, operarono nell’emancipazione degli ebrei. Si tratta innanzitutto di una questione sociale, a tutti i livelli; è necessario cioè stabilire se e in che misura l’emancipazione giuridica abbia determinato una ridefinizione delle reti sociali di riferimento, fossero queste di natura religiosa, culturale, politica o economica. In altri termini bisogna rendere conto delle occasioni effettive per gli ebrei emancipati di poter liberamente mutare la propria rete sociale di riferimento, mantenendo o meno (e vedremo in che termini) un legame con la comunità di origine. La questione dimostra di avere una duplice valenza, poiché ci permette da un lato di misurare la capacità di permeabilizzazione e di integrazione della società veneziana, e d’altra parte ci offre un case study ideale per verificare i meccanismi e le difficoltà incontrate dalla componente ebraica nel suo processo ottocentesco di integrazione sociale e culturale.

Apparentemente la vicenda dell’emancipazione degli ebrei veneziani ha seguito un percorso lineare e privo di particolari sussulti, soprattutto se messo in rapporto con le vicende ben più tormentate vissute da quegli ebrei — la maggioranza — concentrati in Europa orientale, per i quali un momento di vera ed effettiva equiparazione non fu in pratica mai raggiunto. A Venezia al contrario — come un po’ in tutta Italia, fatta eccezione per il caso di Roma e in un certo periodo per il Piemonte — diversi indicatori ci parlano nel complesso di un percorso sostanzialmente destinato a sfociare nella completa emancipazione civile degli ebrei.

I rapporti fra la Repubblica veneta e le comunità ebraiche erano regolati da «condotte» decennali che nel Settecento venivano rinnovate ormai quasi automaticamente. La situazione mutò in maniera improvvisa e radicale nel 1777, quando il senato veneziano, dopo accese polemiche incentrate in particolare sulla gestione dei Banchi di prestito, emanò la cosiddetta «ricondotta»(1); dettato dalla precisa volontà della corrente dell’aristocrazia senatoria capeggiata da Andrea Tron, che intendeva spingere l’imprenditoria veneziana a investire nel campo manifatturiero, in pratica il provvedimento andò a colpire le numerose attività extracommerciali gestite da ebrei, imponendone l’abbandono forzato. L’operazione non fu indolore e colpì uno dei settori più vitali dell’economia veneta; venne annullata la presenza ebraica nel territorio con un decreto di clausura forzata nei ghetti di Venezia, Padova, Rovigo, Verona e Conegliano e fu annichilita la presenza di ebrei nella gestione di imprese manifatturiere, che nel settore tessile avevano assunto un ruolo di discreta importanza. Intere comunità vennero letteralmente cancellate, come quella di San Daniele del Friuli o i piccoli nuclei di Este, Monselice e Montagnana.

Alla caduta della Repubblica l’emancipazione era stata in un primo momento decretata dalla Municipalità veneziana nel luglio del 1797. In quell’occasione, nel campo del Ghetto nuovo — rinominato per l’occasione Contrada dell’Unione — i cittadini ebrei Isach Grego e Raffaele Vivante celebrarono con discorsi entusiastici la cerimonia dell’abbattimento e incenerimento delle porte che avevano chiuso per tre secoli il vecchio quartiere. «La luce della filosofia [affermò fra l’altro Vivante in quell’occasione] rifulse dai lidi beati della Francia sino a questo paese, dove un’arida aristocrazia aggravava i nostri lacci e le ignominiose nostre catene»(2). Dopo la breve esperienza municipale, il trattato di Campoformido consegnava una prima volta Venezia all’Austria, e fino al 1805 gli ebrei continuarono in grande maggioranza a vivere nell’area del Ghetto sebbene non più in forma coatta.

Nel periodo del Regno d’Italia, dal 1806 al 1814, seguirono anni di piena emancipazione sul piano giuridico che venne vissuta in forma completa soprattutto dalle relativamente poche famiglie ebraiche che già nel secolo XVIII erano riuscite a darsi  una solidità finanziaria principalmente attraverso l’esercizio del commercio internazionale. In questo contesto è senz’altro da sottolineare la felice definizione degli ebrei di Venezia visti come una «classe dirigente di riserva»(3), un settore sociale dalle elevate potenzialità economiche sostanzialmente non utilizzate nel periodo della Repubblica che si presentava alla ribalta della realtà cittadina in un momento in cui la vecchia e usurata aristocrazia veneziana, debole finanziariamente e screditata politicamente, doveva in certa misura mettersi da parte nella gestione amministrativa della città in regime napoleonico.

La vicenda dell’ebraismo veneziano in epoca di Restaurazione è senz’altro quella che ha suscitato maggiore attenzione da parte della ricerca storica; negli anni della seconda dominazione austriaca ci troviamo di fronte a una condizione giuridica di sostanziale emancipazione, con il definitivo ingresso di numerose famiglie della media e alta borghesia ebraica in settori chiave dell’amministrazione economica della città, essendo per il momento esclusa qualsiasi partecipazione diretta alla vita politica della stessa. Ma con i moti rivoluzionari del 1848-1849 anche quest’ultima barriera veniva a cadere, e i nomi ben noti di Isacco Pesaro Maurogonato, Leone Pincherle, Leone Fortis, Abraham Lattes, Cesare Della Vida e altri ancora diedero il senso della volontà della classe dirigente ebraica veneziana di dare il proprio contributo anche alla conduzione politica della vita cittadina. Gli anni della terza dominazione austriaca frustrarono in parte queste aspirazioni finché con l’integrazione di Venezia e del Veneto all’Italia unita nel 1866 anche le ultime barriere formali vennero a cadere e gli ebrei veneziani entrarono da liberi cittadini a partecipare delle vicende sociali e politiche dell’intera città(4).

Il percorso che la comunità ebraica veneziana dovette affrontare nella strada verso una completa emancipazione civile fu tuttavia tutt’altro che lineare, e sono svariati i piani che si incrociano nel disegnare una realtà in effetti non sempre omogenea. Si dovrà innanzitutto affrontare la questione della periodizzazione: l’Ottocento, preso nei suoi confini cronologici netti, spiega relativamente poco e non vale a caratterizzare le dinamiche sociali, culturali e politiche della presenza ebraica in città. Se certamente il secolo XIX appare nel suo complesso un periodo di tempo nel quale giungono a maturazione l’emancipazione e l’integrazione degli ebrei nella società civile veneziana, i singoli regimi politici che si susseguirono dal crollo della Repubblica fino all’integrazione di Venezia nel Regno d’Italia furono portatori di concezioni per nulla omogenee dal punto di vista giuridico, in particolare per quel che riguarda i rapporti con la minoranza ebraica. Nel dominio austriaco tali rapporti vennero regolati in base allo schema predisposto fin dal 1781 dall’imperatore Giuseppe II con l’elargizione delle patenti di tolleranza. Questo atto, il primo a inaugurare la lunga e travagliata esperienza dell’emancipazione ebraica in Europa, era di fatto entrato in vigore fin dal suo apparire anche nei territori italiani sottoposti alla legislazione austriaca, e in particolare nelle comunità di Mantova, Trieste, Gorizia e Gradisca d’Isonzo. Le innovazioni stabilite nel provvedimento legislativo andavano ad incidere profondamente nel rapporto ebreo-Stato e spingevano in direzione di una graduale integrazione delle comunità ebraiche nella società civile. Veniva fatto obbligo agli ebrei di usare il volgare in tutte le attività sociali, ad eccezione del culto sinagogale; era permesso e incoraggiato l’accesso degli ebrei alle scuole pubbliche e alle università; era finalmente rotto il tabù dell’esercizio dell’agricoltura e dell’affitto di poderi; era abolito l’obbligo del segno distintivo e veniva promossa la libera impresa artigiana e manifatturiera, nel tentativo di diversificare le attività economiche ebraiche, fino ad allora concentrate di necessità nel campo del commercio e del prestito di denaro.

Il concetto di emancipazione espresso nel corpus legislativo giuseppino era difforme da quello napoleonico se non negli esiti — tutto sommato simili, fatte salve alcune eccezioni — sicuramente nell’impianto teorico. Nel primo si prendevano le mosse dalla convinzione che l’integrazione della minoranza ebraica nella società civile dovesse essere l’esito di un processo di acculturazione che avrebbe progressivamente adeguato gli usi e i costumi in parte difformi degli ebrei a quelli della popolazione maggioritaria. L’impostazione francese — di matrice rivoluzionaria — poneva invece come prioritario il rispetto del principio di eguaglianza, per cui gli ebrei venivano per principio equiparati agli altri cittadini nei diritti e nei doveri. Se sullo sfondo di entrambe le concezioni si intravedeva l’idea di una necessaria ‘rigenerazione’ degli ebrei che venivano accolti nella società civile, è tuttavia evidente che le modalità di raggiungimento di un simile obiettivo erano, dal punto di vista dell’impostazione giuridica, sostanzialmente differenti.

Per quanto riguarda poi l’accoglimento degli ebrei come liberi cittadini dell’Italia unita dopo il 1866, bisogna sottolineare che se da un lato questi erano ormai considerati anche sul piano formale cittadini in tutto e per tutto, la pratica del culto e l’organizzazione delle comunità ebraiche venivano fatte rientrare in un particolare ambito dello Statuto albertino che regolava i rapporti dello Stato con i cosiddetti «culti ammessi», dando in tal modo sostanziale preminenza sul piano giuridico alla religione cristiana cattolica riconosciuta religione «di Stato» e ponendo di conseguenza in posizione non egualitaria gli altri culti(5).

La questione dell’emancipazione civile degli ebrei veneziani si deve quindi interpretare con le dovute cautele nell’ambito delle singole cornici giuridiche formali dei diversi regimi che si alternarono alla guida della città. A questo va aggiunto che le effettive dinamiche sociali e i rapporti politici e amministrativi fra singoli ebrei o la comunità ebraica nel suo complesso e la società veneziana non risposero spesso alla formalità del dettato giuridico, ponendo allo storico il compito di verificare la ricaduta che i differenti impianti formali ebbero nella realtà quotidiana. E va innanzitutto sottolineato che se di lentezza si può parlare nella ricezione delle norme emancipatorie, questa va probabilmente addebitata in ambito sociale a due fattori sostanziali: la forte e radicata presenza di un antigiudaismo di matrice religiosa che faceva parte integrante del bagaglio culturale delle classi dirigenti come degli strati popolari della società veneziana, e l’abitudine ormai secolare di considerare l’«Università degli ebrei» come una società separata e monolitica, un qualche cosa a sé stante a cui riferirsi con provvedimenti amministrativi in qualche misura sempre un po’ speciali. Più che di lentezza, bisognerebbe insomma parlare di consistente presenza di resistenze culturali e mentali ad accettare l’integrazione della minoranza ebraica come automatico risultato di decreti legislativi, resistenze che determinarono nel corso del secolo XIX un cammino tutt’altro che lineare nel processo di integrazione della minoranza ebraica in città.

Se le differenti condizioni giuridiche che caratterizzarono la vita di Venezia nell’Ottocento pongono serie difficoltà al tentativo di tracciare un quadro omogeneo nella storia dei rapporti fra la città e la sua componente ebraica, altri aspetti ci aiutano in questo senso fornendoci elementi di sostanziale continuità in alcuni determinanti aspetti delle dinamiche interne alla comunità ebraica. Innanzitutto l’aspetto demografico: gli ebrei di Venezia nel corso dell’Ottocento mantengono il loro numero sostanzialmente stabile, con una crescita relativa registrabile solo nei primi decenni del secolo. I dati che abbiamo in possesso non sono omogenei fra loro vista la diversità dei metodi di rilevamento, e tuttavia ci consentono di disegnare una comunità che nel corso del secolo fa registrare un modesto accrescimento demografico.

Tab. I. Gli Ebrei a Venezia tra il 1761e il 1901 (6)   Uomini Donne Totale 1761: anagrafe della sanità 874 909 1.783 1797: anagrafe Saul Levi Mortera 820 806 1.626 1805: anagrafe austriaca (incompleta)     1.673 1840: anagrafe interna 1.109 1.028 2.137 1843  1.147 1.061 2.208 1857     2.023 1869      2.415 1871     2.667 1882 1.231 1.223 2.454 1901     2.474

Tab. 1. Gli ebrei a Venezia tra il 1761 e il 1901(6)

Un documento del 1882(7), in cui la comunità ebraica rispondeva a un formulario statistico statale, presenta schematicamente la comunità e le sue strutture e fornisce un sunto demografico degli anni 1869-1881, dando per residenti nel 1882 a Venezia 2.454 ebrei (1.231 maschi e 1.223 femmine) e fornendo i seguenti dati:

Tab. 2. Sunto demografico per gli anni 1869-1881 Anno Nati

maschi Nate

femmine Morti

maschi Morte

femmine Saldo Matrimoni

ebraici 1869 32 31 17 18 +28 11 1870 29 32 20 14 +27 20 1871 34 26 27 22 +11 18 1872 29 34 29 22 +12 20 1873 31 24 20 20 +15 13 1874 26 38 29 25 +10 15 1875 23 32 41 30 -16 12 1876 29 29 26 32 0 22 1877 35 22 27 23 +7 17 1878 29 33 28 25 +9 14 1879 36 26 28 30 +4 18 1880 35 29 36 19 +9 16 1881 39 21 29 18 +13 15 Totale 407 377 357 298 129 211

La statistica ci parla quindi di una comunità in modesta espansione demografica (un saldo attivo fra nascite e morti di 129 unità in dodici anni), che tuttavia registra già una discreta emorragia se si prende per buono il dato che dà 2.415 ebrei nel 1869 e 2.454 nel 1882: mancherebbero all’appello 90 unità, determinando una dispersione demografica che potrebbe genericamente essere ricondotta a fenomeni quali emigrazione, abbandono delle pratiche religiose e (più di rado) conversione, su cui però mancano dati certi e studi specifici.

Un ulteriore elemento di continuità è dato dalla piramide sociale che caratterizza la struttura della comunità ebraica veneziana e che nel corso dell’Ottocento subisce modifiche non così rilevanti come ci si potrebbe attendere da un processo di emancipazione che, oltre ad essere giuridica, avrebbe dovuto conoscere nelle intenzioni di chi la attuava — fossero questi amministratori della città o esponenti della classe dirigente della comunità ebraica stessa — fenomeni di mobilità e ascesa sociale ben più consistenti e rapidi. Le fonti in nostro possesso ci presentano al contrario un quadro piuttosto ingessato, che solo negli ultimi decenni del secolo portò a visibili mutamenti. Su questo punto la mia analisi si scosta fortemente da alcuni assunti spesso aprioristici della storiografia che fino ad oggi si è occupata della minoranza ebraica veneziana nel secolo XIX, e che volevano in sostanza una popolazione rapidamente integrata agli strati medi e all’alta borghesia cittadina(8). La realtà che traspare dalle nostre fonti è diversa nella sostanza da questo tipo di visuale, e ci parla di una stratificazione netta e persistente, che comprendeva una ristrettissima élite di famiglie con redditi elevati, seguita da uno strato sociale che potremmo definire di piccola e media borghesia impegnata soprattutto nell’ambito commerciale, ma con una crescente presenza di professionisti (medici, avvocati, ingegneri, ecc.). A questa stratificazione si andava tuttavia ad aggiungere un settore che nel corso dell’Ottocento fu sempre maggioritario e che comprendeva in varia misura famiglie i cui redditi dovevano essere appena sufficienti all’autosostentamento e un ulteriore consistente strato di famiglie costantemente assistite dalle numerose istituzioni di beneficenza e di mutua assistenza che, sorte come retaggio della chiusa realtà sociale del Ghetto, nel secolo XIX lungi dallo scomparire si riorganizzarono e ampliarono sensibilmente i loro compiti, accrescendosi di numero e divenendo in vario modo le strutture portanti della comunità ebraica veneziana.

Questa situazione ci viene trasmessa da alcune fonti forse fra loro poco comparabili, che tuttavia ci paiono omogenee nel restituirci l’immagine di una profonda spaccatura sociale che nel corso del secolo andò sempre più radicalizzandosi in un confronto non sempre pacifico e amichevole fra le famiglie del «su» (sostanzialmente i contribuenti che gestivano l’amministrazione della comunità) e quelle del «zò» (famiglie che spesso ricorrevano alla beneficenza). Le fonti parlano di un Ghetto che all’inizio del secolo risultava fra i quartieri più fatiscenti e in cattive condizioni della città, abbandonato nei primi decenni da numerose famiglie ebraiche che in vario modo avevano la possibilità economica di trovare nuove sistemazioni abitative; e tuttavia ci presentano anche una continuità nella presenza di famiglie ebraiche costrette per impossibilità economica ad abbandonare le piccole e malsane abitazioni del vecchio quartiere ebraico. In queste condizioni l’area del Ghetto andava sempre più caratterizzandosi come settore urbano degradato, oggetto di un crescente sforzo di riqualificazione urbana e tuttavia abitato ancora per lungo tempo da strati di popolazione marginale che fino a non molto tempo fa sarebbe stata definita di sottoproletariato urbano; nelle parole di Donatella Calabi, «non sono più l’isolamento e la segregazione etnica, ma il fatto di essere povera, degradata, dotata di alloggi scomodi e poco igienici che caratterizzano il Ghetto come ‘periferia’»(9).

Le fonti relative ai problemi sanitari sono piuttosto esplicite sulle condizioni di vita delle calli, delle corti e delle case: è del 1830 la relazione allarmata di un medico di nome Levi, incaricato dai maggiorenti della comunità ebraica di indagare sulla causa della innaturale moria di oche allevate in Ghetto. Si viene così a scoprire che ai sei macellai autorizzati a vendere carne kasher(10) erano morte 45 delle 1.625 oche che allevavano, e il dottor Levi era costretto a constatare che tale percentuale di mortalità non era da considerarsi eccezionale viste le condizioni di vita dei pennuti, «che amerebbero spaziare alla larga» e sono invece costretti a vivere in «aria mefitica»(11). E noi, d’altro canto, rimaniamo per lo meno stupiti nell’immaginare la presenza di migliaia di oche in un’area urbana già di per sé ristretta e malsana. Se questa situazione rispecchiava in qualche modo la normalità, in occasione di eventi eccezionali quali l’esplosione di epidemie appariva in tutta la sua drammaticità la debolezza e vulnerabilità degli strati più miseri della popolazione ebraica. In numerose occasioni, nel 1835, nel 1839 e ancora nel 1886 si ripetono le sottoscrizioni eccezionali per la distribuzione di letti, lenzuola, pagliericci e abiti nuovi per mantenere un livello di igiene accettabile contro il diffondersi del colera. Se nel 1835 sono 193 i nuclei famigliari che vengono beneficiati dalla distribuzione di sovvenzioni, nel 1886 la comunità ebraica ancora distribuiva 23 letti, 62 pagliericci, 94 lenzuola e 3.500 chili di paglia che andavano tuttavia ad aggiungersi alle varie forme di beneficenza pubblica che ormai raggiungevano anche gli strati indigenti della popolazione ebraica(12).

Per tentare di fornire un quadro statisticamente comprensibile della stratificazione sociale ci può venire in aiuto il ruolo dei contribuenti della «tassa culto» della comunità ebraica. Nel corso di tutto il secolo la famiglia Treves de’ Bonfili contribuì da sola per una quota variabile da un terzo a un quarto dell’intera «tassa culto» della comunità ebraica. Le famiglie dei grandi contribuenti (sempre meno di una decina) finanziarono per una quota che variò nel corso del secolo fra il 38% e il 50% del totale della tassa di culto.

Tab. 3. Statistica dei contribuenti della «tassa culto»   1844* 1874 1884 1894 Oltre le 500 lire annue 5 9 6 9 Da 100 a 500 lire annue 68 60 59 45 Da 10 a 100 lire annue 94 96 91 97 Totale famiglie contribuenti 167 165 156 151 * Contributi in lire austriache.

Questa situazione ci restituisce l’immagine di una comunità composta da un’élite finanziaria ristrettissima e dalle forti potenzialità economiche, affiancata da un numero piuttosto consistente di famiglie che potremmo definire di media borghesia. Furono queste che nel corso di tutto il secolo ressero le redini politiche ed amministrative di una comunità ai cui vertici si poteva accedere solo per censo. Ne rimanevano esclusi — e non è un caso raro nella storia — gli strati dei meno abbienti e quelle centinaia di famiglie che in maniera più o meno continua dovevano far ricorso proprio alle istituzioni di beneficenza finanziate dalle famiglie possidenti per sbarcare il lunario e far fronte alle mille emergenze quotidiane. Per queste ultime le fonti sono tuttavia assai più avare di notizie, sicché spesso non resta che ricorrere all’interpretazione ‘in negativo’ dei dati in nostro possesso per poter ricostruire un quadro credibile delle condizioni effettive di vita degli ebrei veneziani.

Un ulteriore elemento di continuità, che ci permette di ricostruire in forma tutto sommato omogenea le vicende della comunità ebraica veneziana nell’Ottocento, è determinato dal suo assetto istituzionale, che dopo la riorganizzazione del 1828 non muterà più nella sostanza fino all’istituzione dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane nel 1930. Ma prima di descrivere nei particolari questa struttura, credo sia importante sottolineare che per quanto complessa e articolata fosse la composizione della comunità, spesso e volentieri questa, per le autorità cittadine così come per gli organi di controllo statali (fossero austriaci o italiani), continuava ad essere un luogo distante e sconosciuto dell’immaginario. In altre parole, nel corso di tutto il secolo XIX, nonostante le numerose azioni di controllo amministrativo esercitate dall’autorità centrale alla quale venivano sottoposti i regolamenti della comunità e delle sue istituzioni di beneficenza e venivano trasmessi i resoconti di bilancio, la comunità ebraica rimaneva un’entità sostanzialmente sconosciuta ai più. Non si può che giungere a questa conclusione quando si pensi che le stesse autorità proiettavano sulla comunità la loro immagine di comunità religiosa o di «parrocchia ebraica», rivolgendosi spesso e volentieri al rabbino maggiore quale autorità indiscussa e superiore dell’intera comunità. «Capo indiscusso della comunità israelitica è il Rabbino maggiore[scrive Sagredo in una sua nota del 1843] […] Come Capo della Comunità custodisce i registri civili, corrisponde colle autorità, presiede alle funzioni sacre, alla educazione religiosa di piccoli e grandi»(13). Le cose erano assai diverse, come vedremo immediatamente; e, tuttavia, come Sagredo, le stesse autorità cittadine dimostravano di non riuscire a comprendere la complessa realtà organizzativa e i precari equilibri interni che facevano del rabbino stesso al più un’autorità religiosa e morale, che tuttavia non solo non aveva alcuna funzione di dirigenza politica e amministrativa, ma che anzi era considerato formalmente un semplice impiegato stipendiato dalla comunità per sovrintendere al culto e all’istruzione. Ma sul ruolo del rabbino torneremo a suo tempo.

Dunque, la struttura organizzativa. Come già accennato l’amministrazione della comunità veniva affidata alla scelta espressa da un elettorato attivo maschile selezionato rigidamente per censo, al quale cioè poteva essere iscritto solo chi poteva contribuire alla tassa di culto. Il tentativo effettuato ai tempi della Municipalità rivoluzionaria di stabilire una qualche forma di partecipazione democratica alla gestione della comunità ebraica era stato rapidamente stroncato dall’alleanza fra grandi mercanti e proprietari e l’autorità rabbinica(14). Già all’inizio del secolo XIX era quindi chiaro che la guida politica e amministrativa della comunità era affidata alle famiglie di contribuenti, e passò ben più di un secolo prima che a questo sistema si sostituisse una forma di più aperta partecipazione democratica.

Secondo l’ordinamento che entrò in vigore nel 1828 e che regolò per oltre un secolo la vita della comunità(15), l’elettore veniva convocato ogni anno per un «Capitolo Generale», e ogni tre anni per l’elezione degli organi di presidenza di quella che per comodità noi chiamiamo comunità ebraica, ma che formalmente si chiamava Riunite sezioni della Fraterna generale di culto e beneficenza degli israeliti in Venezia. Le sezioni, che subirono alcune parziali modifiche nel corso del secolo, erano le seguenti: 1) la presidenza, composta dal presidente e da due vicepresidenti, era in sostanza la giunta che rappresentava legalmente la comunità e ne determinava l’indirizzo politico; il rabbino non poteva farne parte in alcun modo; 2) la direzione, composta da quattro membri, si occupava della beneficenza e curava la gestione della tassa di culto e del bilancio; 3) la direzione delle scuole religioso-morali, composta da tre membri, si occupava della complessa gestione del sistema di istruzione; 4) la direzione della Casa d’industria (dal 1844), composta da tre membri, era delegata alla gestione della Casa d’industria israelitica, sezione separata della Casa d’industria municipale; 5) il delegato alle scuole per fanciulle, responsabile della gestione della Scuola femminile; 6) quattro aggiunti, con funzione di revisori dei conti.

In una relazione trasmessa alle autorità centrali nel 1882 per rendere conto un’ennesima volta della complessa struttura organizzativa delle Riunite sezioni, veniva chiarito il ruolo del rabbino. Questi aveva un rapporto di «conduttore d’opera» con la comunità, non aveva voce in argomenti di natura amministrativa, e tuttavia poteva «essere invitato dalla direzione ad intervenire alle sedute nelle quali debbesi trattare di beneficenza», avendo però solo voto consultivo. In effetti, come già accennato da Sagredo, aveva compiti di supervisione sulle scuole e sugli insegnanti, anche se a partire dal 1876 la sua posizione in questo senso era stata indebolita da una mozione che aveva aperto la possibilità di affidare la direzione delle scuole anche ad altri(16).

Questa struttura organizzativa si intrecciava a una complessa rete di istituzioni di beneficenza, di culto e di istruzione nella maggior parte dei casi legate alla comunità da formali vincoli di dipendenza, ma talvolta frutto di iniziative autonome di singoli esponenti della comunità ebraica stessa. Sebbene in una nota del 1886(17) la direzione della Fraterna generale segnalasse alla prefettura la presenza di ben ventidue opere pie ebraiche autonome a Venezia, istituite per far fronte alla diffusa miseria presente negli strati inferiori della popolazione ebraica — miseria definita «comprovata e notoria, purché senza colpa» —, nella realtà erano sostanzialmente cinque le opere pie che operavano con una certa continuità e che godevano di bilanci solidi e autonomi: 1) Casa d’industria israelitica. Amministrata, come abbiamo visto, dalla Fraterna generale, questa istituzione era sorta nel 1844 come filiale della casa cittadina e aveva rappresentato — assieme all’apertura di una sezione ebraica dell’Ospedale civile — il più importante tentativo di interagire con il sistema di assistenza municipale nel periodo preunitario. Già nel 1840 era sorta all’interno della comunità l’esigenza di creare un’istituzione di ricovero adeguata per gli anziani senza mezzi propri: «I miseri [scrivevano in una perorazione i signori Serravalle e Gentilomo] trovano nella loro tarda età un asilo che li conforta e che loro fa sentir tanto meno il peso delle proprie sciagure». E d’altra parte un tale ricovero avrebbe offerto «modo d’impiego agli scioperati, arresta[ndo] così il torrente impetuoso di questuanti e accattoni»(18). Nel 1842 fu Abraham Lattes, l’irrequieto rabbino maggiore che ebbe ampia parte nell’impegno politico e solidaristico della comunità ebraica nei mesi della Repubblica di Daniele Manin, ad avanzare formale richiesta alle autorità comunali affinché accogliessero nella Casa d’industria gli ebrei sbandati e privi di occupazione («giovani scioperati»), sostenendo a chiare lettere che, in qualità di cittadini, essi avevano gli stessi doveri, ma anche i medesimi diritti degli altri(19). Il direttore della Casa d’industria aveva risposto con un secco diniego alle richieste di egualitarismo di Lattes, affermando che il permesso accordato agli ebrei di frequentare le scuole e le università pubbliche costituiva l’«eccezione» e non la regola, e soprattutto non comportava il diritto all’assistenza pubblica. Questo era solo in parte vero, dato che era stata da qualche tempo attivata la sezione ebraica dell’Ospedale civile e che — nelle parole dello stesso Lattes — «la munificenza Vicereale non li dimentica [gli israeliti] nel dispensare le pietose sue elargizioni [e] la Commissione di pubblica beneficenza ne conforta di annuo assegno i poveri»(20). Ma evidentemente le resistenze a una completa integrazione della minoranza ebraica nelle istituzioni cittadine erano ancora forti, e la vicenda si concluse con un compromesso che vide nel 1844 la realizzazione appunto di una Casa filiale d’industria che «con nobile sentimento del bene aderiva il Municipio a fondare pegli Ebrei con superiore sanzione»(21). Nel 1858 la Casa d’industria veniva dotata di una moderna struttura in Ghetto nuovo, voluta e finanziata da Isacco Treves de’ Bonfili, e si avviava a divenire la più importante istituzione assistenziale della comunità: in essa «si lavora d’intaglio, da falegname, da calzolaio e sopra telai, mentre le vecchie donne vi fanno le calze. Vi stanno giornalmente ricoverati da 40 a 50 individui fra uomini, donne e ragazzi»(22). Dopo la chiusura della Casa municipale nel 1875, questa istituzione proseguì una sua vita autonoma dimostrando di dipendere solo in minima parte dal contributo assicuratogli annualmente dall’amministrazione comunale. 2) Pio Stabilimento Hanau. Fondato su un lascito testamentario di Elia di Davide Hanau (1838), era presieduto dal rabbino maggiore e dal presidente delle Riunite sezioni. I suoi compiti erano sostanzialmente quelli di emettere sussidi per la cura di una cinquantina di malati bisognosi ogni anno. Inoltre veniva assicurato un contributo per le spese d’istruzione per 29 giovani e per l’avviamento a lavori di artigianato per altri 15. Piccoli premi venivano fra l’altro assicurati a giovani apprendisti artigiani. 3) Fraterna di misericordia e pietà. Istituita nel 1830 dalla fusione delle due associazioni autonome che in età di Ghetto curavano l’assistenza per le comunità ebraiche tedesca e spagnola, la Fraterna dipendeva direttamente dalla Fraterna generale ed aveva un comitato direttivo di nove membri. I suoi compiti si confondevano in gran parte con quelli di un’altra istituzione benefica, i cosiddetti Riuniti sovvegni, che dal 1844 si erano assunti l’onere di offrire assistenza medica e finanziaria ai malati, provvedere alla sepoltura dei morti e curarne il ricordo nelle funzioni religiose. Fra l’altro la Fraterna aveva a propria disposizione del personale medico autonomo e provvedeva alla gestione del cimitero ebraico del Lido. In questo caso non si trattava di istituti di pura beneficenza gratuita, ma di primi germogli di istituti previdenziali privati disciplinati da un rigido regolamento; i confratelli erano suddivisi in soci ordinari, che contribuivano a fondo perduto alle esigenze finanziarie, e soci effettivi, che contribuivano con piccoli versamenti annuali e potevano godere in un’età compresa fra i quindici e i quarant’anni di una serie di opere di assistenza elencate nei particolari, fra cui cure sanitarie fino a sessanta giorni, sepoltura gratuita in caso di decesso, deposizione di una lapide ed ereditarietà del diritto di assistenza. Il regolamento stampato nel 1890 riporta il nome di 128 confratelli, che come capifamiglia assicuravano in tal modo un’assistenza sanitaria continuativa a diverse centinaia di persone. 4 e 5) Infine le due pie fondazioni Enrichetta Consolo Treves de’ Bonfili ed Enrichetta Treves-Treves, che negli anni Cinquanta furono deputate all’assistenza di anziani.

Con gli istituti fin qui presi in esame non si esaurisce se non in parte la descrizione dell’articolata rete di istituzioni che andavano a formare la comunità ebraica veneziana. A queste infatti vanno aggiunte sia le scuole, sulle quali ci soffermeremo più avanti, sia le 7 sinagoghe funzionanti per tutto il secolo, ognuna titolare di un bilancio autonomo, con propri cantori e proprie usanze particolari.

Abbiamo quindi di fronte una realtà complessa, nella quale a elementi di discontinuità che abbiamo identificato in un mutevole quadro giuridico di riferimento fanno riscontro elementi di continuità quali una certa stabilità demografica, una sostanziale lentezza nell’acquisizione di un effettivo e visibile miglioramento nelle condizioni sociali degli strati più miseri della popolazione ebraica, e una discreta stabilità delle strutture organizzative di beneficenza, di assistenza e di gestione amministrativa della comunità ebraica stessa.

L’integrazione di un’élite borghese

La presenza di una realtà così complessa nel cuore della città si fece sentire nel corso del secolo XIX su vari livelli, ma innanzitutto fu assai rilevante e visibile il peso assunto dall’élite ebraica con il rapido emergere di personalità di spicco, di «ditte» e di intere famiglie che nell’età del Ghetto erano state giocoforza escluse da una concreta vita sociale. La vicenda dell’emancipazione assume in quest’ottica caratteristiche decisamente differenti per la rapidità con cui questo strato di popolazione si integrò nei meccanismi economici e sociali che muovevano la realtà cittadina e per il peso specifico relativo con cui questo intervento si fece sentire. Già la Municipalità del 1797 aveva conosciuto l’inedito ingresso di alcuni ebrei negli organi politici e amministrativi della città: Vita Vivante, Moisè Luzzatto, Isach Grego, Caliman Jenna e Consiglio d’Abram Motta furono esponenti di spicco del partito municipalista, tanto da subire (nel caso degli ultimi tre) le conseguenze della repressione austriaca: arrestati nel marzo del 1798 essi vennero deportati in Dalmazia e Ungheria e poterono far ritorno a Venezia solo il 6 maggio 1801(23). Nei mesi della Municipalità era stato infranto per la prima volta un vero e proprio tabù economico che durava a Venezia da oltre due secoli e mezzo, vale a dire l’acquisto diretto da parte di ebrei di beni immobili, terreni nelle campagne di terraferma e case e palazzi in città. A dire la verità questo secondo tipo di investimento dovette attendere qualche anno per potersi avviare a un normale ritmo di transazione. Troppo forti erano ancora, nel 1797, le resistenze mentali e sociali ad avviare decisamente una integrazione abitativa fra ebrei e cristiani, e anche da parte ebraica le titubanze e i dubbi dovettero essere ancora ben forti se solo con la fine della prima dominazione austriaca si inizia ad assistere a una lenta emigrazione delle famiglie più agiate dalle malconce abitazioni del Ghetto. È vero che già nel 1800 il parroco di S. Marcuola esprimeva allarme per gli acquisti di abitazioni effettuati dalla «nazione ebrea», la qual cosa toglieva alla chiesa gli incerti proventi di stola; tuttavia, come rileva Berengo, «l’allarme non risultava motivato perché quelli presi in locazione erano soprattutto magazzini e ‘il prender magazzini ad affitto non è impedito a chiunque, nemmeno agli ebrei, e specialmente a’ commercianti’»(24).

In effetti, anche più recenti ricerche sui percorsi di integrazione urbana della minoranza ebraica fuoriuscita dal Ghetto non segnalano un decisivo inizio di questo abbandono se non a partire dal 1806. Solo poche famiglie ebraiche — come abbiamo visto — risultano dall’anagrafe austriaca del 1805 residenti all’esterno del Ghetto. Di maggiore momento, almeno nei primi anni dell’Ottocento, risulterà l’attività di acquisizione da parte delle più eminenti famiglie ebraiche di terreni e fondi agricoli, alcune volte con annesse ville nobiliari, spesso cedute per debiti da un’aristocrazia che oltre ad essere in grave crisi politica era spesso e volentieri in forte crisi di liquidità. L’argomento ha già avuto l’onore di studi di rilievo sia sul piano locale veneziano(25), sia come fenomeno che ha investito l’intera penisola in epoca di emancipazione, soprattutto per quanto riguarda la dismissione dell’asse ecclesiastico(26).

Va tuttavia posto a questo proposito un interrogativo che se certo non potrà trovare risposta in queste pagine, tuttavia ci aiuterà a meglio inquadrare il visibile ingresso della facoltosa élite ebraica nella vita economica cittadina. La questione non è di poco spessore se ha interessato studiosi del calibro di Max Weber nel cercare di sondare se e in che termini l’appartenenza a una certa comunità religiosa, con il suo bagaglio di valori e una concezione particolare dell’attività economica e del ruolo che questa assume nella vicenda umana, possa aver influito in tutto o in parte nei comportamenti economici degli esponenti di questa comunità religiosa. In più, aggiungo io, se questi supposti comportamenti univoci siano stati compiuti seguendo un complesso organico di intervento nell’economia, o siano stati attuati dai singoli membri dell’élite borghese ebraica indipendentemente dalle azioni degli altri confratelli. Tutto questo mette in gioco due aspetti che ebbero la loro rilevanza nelle vicende sociali e politiche del secolo XIX: sto parlando da un lato della nascita dell’antisemitismo politico, che utilizzò abbondantemente l’accusa all’élite finanziaria ebraica di muoversi come una lobby dai fini sostanzialmente eversivi, e dall’altro dell’effettiva capacità e disponibilità della borghesia ebraica a riformulare la propria rete di relazioni sociali ed economiche. Le questioni poste non sono di poco momento, e lo si comprende bene se si analizza uno dei primi tentativi compiuti dai vertici dell’allora Università degli ebrei di mutare la propria condizione giuridica: come ancora ci dice Berengo, «il governo veneziano l’aveva considerata agli effetti tributari ‘un corpo’, solidarmente responsabile per i suoi membri», assimilandola a una delle tante arti «di cui corrispondeva le gravezze tipiche», il «taglione» e la «tansa»(27). Nel 1798 i tre capi dell’Università prospettavano al governo austriaco la possibilità (da loro sentita come necessità) di «applicare a ciaschedun individuo la rispettiva tassa a misura del traffico de’ rispettivi soggetti componenti la stessa nazione»(28). L’idea, a prescindere dalle ricadute economiche negative per lo Stato che ne portarono nell’immediato alla bocciatura, era espressa nell’ambito della più pura concezione della libera intraprendenza economica e, sia detto per inciso, contraddiceva espressamente uno dei principi fondamentali della vita comunitaria ebraica per cui ogni ebreo è singolarmente responsabile per la sorte del suo confratello(29).

Uno dei primi atti politici formulati dagli ebrei veneziani in epoca immediatamente successiva alla cosiddetta prima emancipazione fu quindi quello di chiedere alle autorità di governo di cessare di considerare gli ebrei come un corpo separato e dagli univoci comportamenti economici; ma non passarono molti anni e i vertici della comunità ebraica veneziana reiterarono con le nuove pubbliche autorità francesi una precisa richiesta di equiparazione politica: è del 7 luglio 1806 un «Ricorso prodotto a Milano per l’affare delle Arti», in cui si chiedeva esplicitamente a Napoleone di concedere agli ebrei di Venezia la facoltà di esercitare liberamente le arti e professioni superando le resistenze e le restrizioni ancora imposte in città(30). Se poi mettiamo in relazione questi episodi con la conclusione a cui giunse il processo di riorganizzazione interna della comunità stessa, tramite la stesura definitiva nel 1828 del regolamento che portò alla creazione delle Riunite sezioni che poco sopra abbiamo descritte, si comprenderà meglio la portata della rivoluzione avvenuta in epoca emancipatoria nei rapporti fra comunità ebraica e autorità costituite; una rivoluzione che comprese l’accettazione delle famiglie dell’élite economica ebraica come componenti dell’élite cittadina a tutti gli effetti e la riformulazione dell’aggregazione della comunità ebraica su basi solidaristiche, mutualistiche e benefiche, lontane mille miglia dalla struttura della «nation hebrea» dell’età del Ghetto.

L’integrazione dell’élite ebraica in città era avvenuta in tempi assai brevi, e con ogni probabilità era stata preparata da più o meno scoperte frequentazioni sociali già negli ultimi decenni della Repubblica. Così, già a metà dell’Ottocento la presenza di famiglie ebraiche in città era visibile e comunemente accettata come una forma di arricchimento per tutta Venezia: «Ricchissimi possidenti e mercanti si noverano fra loro [scrive ancora Sagredo]. Adesso i più ricchi e gli agiati abitando nelle parti diverse della città stessa procacciarono notabile ammiglioramento al materiale della città comperando palazzi e case, e restaurandoli con decoro e splendore»(31). Non abbiamo ancora a disposizione uno studio complessivo degli investimenti immobiliari compiuti dalle più eminenti famiglie ebraiche in città, soprattutto per quel che riguarda l’acquisto di case e palazzi fuori dal recinto del Ghetto. Dai sondaggi fin qui eseguiti, tuttavia, risulta che tali investimenti ci furono, vennero effettuati con una certa regolarità per lo meno a partire dall’epoca napoleonica (ma probabilmente già avviati in precedenza), e furono anche molto visibili e generalmente non osteggiati.

In un suo studio recente Donatella Calabi ci conferma che gli ebrei effettuarono «enormi investimenti nel tumultuoso mercato immobiliare» e sottolinea l’impressione di trovarsi di fronte a «un fenomeno di grande mobilità residenziale»(32). Gli esempi che Calabi ci porta sono assai significativi e danno la misura del grado di libertà e di integrazione con cui le famiglie dell’élite ebraica si muovevano ormai nella realtà cittadina. È di grande interesse, ad esempio, seguire le vicende della famiglia Vivante, che dal 1811 va ad abitare palazzo Bonfadini, in fondamenta Savorgnan a Cannaregio: ancora non lo acquista, ma lo prende solo in affitto non effettuando in tempi di instabilità politica investimenti che avrebbero potuto risultare arrischiati. Tuttavia, per vivere in un ambiente degno del livello sociale raggiunto, viene ingaggiato il pittore Bevilacqua ad affrescare il palazzo secondo il gusto francese dell’epoca, senza far trasparire alcunché dal punto di vista iconografico che ricordasse la loro appartenenza religiosa.

Sono comunque gli anni della Restaurazione a segnare una definitiva impennata negli investimenti immobiliari delle più eminenti famiglie ebraiche. Nel 1824 una prima volta la Ca’ d’Oro viene acquistata dall’ebreo Moisè Conegliano, e dopo numerosi passaggi di proprietà viene infine acquisita dai fratelli Errera, ricchi banchieri per decenni ai vertici politici e amministrativi della comunità ebraica, che nel 1865 effettuano un restauro radicale del palazzo e vi si insediano assieme ai figli e alla servitù, oltre che ad altre famiglie dell’élite ebraica quali i Trieste di Padova e i Ravà.

Non molto lontano, a S. Felice, un altro grande palazzo, il seicentesco palazzo Fontana, viene acquistato nel 1845 da un Giuseppe Finzi, e nel 1862 passa alla ditta bancaria Jacob Levi rimanendo fino ai giorni nostri proprietà della stessa famiglia, in seguito imparentatasi con la famiglia Sullam.

Infine i Treves de’ Bonfili, la famiglia di gran lunga più solida dal punto di vista finanziario. Già nota come la ditta commerciale più grande in città negli anni della fine della Repubblica, grazie alle benemerenze acquisite in sostanza prestando denaro all’aristocrazia veneziana e allo stesso imperatore d’Austria, il capofamiglia Isacco viene elevato (probabilmente il primo esempio per un ebreo in Italia da diversi secoli) al grado di barone già nel 1801. Tuttavia la famiglia attenderà il 1827 prima di fissare la propria residenza all’esterno del recinto del Ghetto, acquisendo dai nobili Emo la proprietà del seicentesco palazzo Barozzi, prospiciente il bacino di S. Marco di fronte alla punta della Dogana, la cui imponente facciata dà però sul rio di S. Moisè. I Treves lo ristrutturano e anche in questo caso lo arredano secondo il gusto dell’epoca portandovi statue di Canova, quadri del primo romanticismo veneziano e facendo affrescare le sale da Giuseppe Borsato con temi neoclassici, mitologici o libertari(33).

Se sul piano urbanistico assistiamo quindi a un percorso di deciso allontanamento residenziale dall’area del Ghetto — fatto che tutti gli indicatori concordano nel non limitare ai soli esempi eclatanti che abbiamo visto poc’anzi — anche sul piano dell’integrazione della stessa élite nell’ambito delle istituzioni cittadine il processo fu a tutti gli effetti piuttosto rapido, se si eccettua la questione dell’accesso alle cariche politiche, che verrà rimandato all’epoca unitaria, fatta salva la breve parentesi del 1848-1849.

È chiaro al lettore che la presenza di una componente che demograficamente si aggirò sempre attorno al 2% della popolazione cittadina non poté comunque non influire sulle vicende sociali, economiche e politiche della laguna; se, poi, a questo dato si aggiunge quello meno quantificabile, ma di grande rilievo, dell’ingresso della comunque numerosa élite borghese ebraica nella gestione economica e amministrativa di Venezia, è del tutto evidente che si può rapidamente concludere nel segno di una presa d’atto che la comunità ebraica nelle sue diverse componenti fu, anche in un momento non proprio roseo per la vita della città, un elemento imprescindibile della sua storia. Fare un elenco completo delle personalità ebraiche senza le quali — diciamo così — la storia di Venezia nel secolo XIX sarebbe stata differente, è impresa impensabile in questa sede. E tuttavia non si possono non citare alcune delle figure chiave che fecero di questa presenza qualcosa di più che non un semplice atto da segnalare ai cronisti della storia cittadina. A cominciare dal barone Giuseppe o Iseppo Treves, che fu il primo ebreo, ma anche il primo veneziano, a ricoprire la carica di presidente della Camera di commercio e che avviò una presenza costante della famiglia Treves nelle vicende politiche e soprattutto economiche della città; se suo figlio Jacopo venne eletto all’Assemblea permanente del 1848 con il maggior numero di voti dopo Manin, è importante segnalare che per le immediate esigenze della traballante Repubblica la famiglia donò l’importante somma di 100.000 lire, e che solo un decennio dopo la medesima famiglia istituì un fondo di 60.000 lire donato al Comune per sostentare opere di beneficenza con grazie da distribuirsi a famiglie bisognose senza differenze di religione.

Non era, quindi, una politica economica limitata all’ambito della comunità ebraica (abbiamo visto le opere pie interne alla Fraterna) quella che spingeva gli esponenti dell’élite ebraica a elargire fondi di beneficenza; l’operazione rientrava in una più complessiva visione della realtà economica e della funzione che le grandi case bancarie e commerciali potevano assumere nel sollevare le sorti economiche degli strati più disagiati della popolazione. E non si trattava di semplice carità; al contrario, questa era rifuggita e contestata come retaggio di un malinteso dovere cristiano: «[…] la carità viene considerata non come modo d’alleviare i dolori altrui, ma quale strumento di eterna salvezza [scriveva nel 1868 in altro contesto l’ebreo Enrico Fano]. I poveri sono dunque necessari perché i ricchi possano redimersi. […] E come, a sentir tutto giorno glorificare la povertà nelle preci, dal pergamo, nel confessionale, nei non pochi libri che gli vien permesso di leggere, può nel popolo svolgersi il sentimento della previdenza, del dovere di vivere della sua industria, e il proposito di redimersi dalla miseria per virtù del lavoro e del risparmio?»(34). L’aiuto economico, necessario, doveva essere indirizzato all’educazione, all’istruzione dei giovani e al loro avviamento ad attività economiche produttive.

In un approccio socioeconomico che univa alle sovvenzioni immediate un progetto di educazione al mutuo soccorso e alla costruzione dell’uomo-nuovo, il selfhelp man capace di muoversi in una società dalle sorti progressive(35), i rampolli della borghesia ebraica recitarono nel corso dell’Ottocento un ruolo da protagonisti. Se i Treves, assieme ai Levi e ai Todros, si dimostravano disponibili a finanziare la beneficenza cittadina che si muovesse su queste linee, furono i vari Alberto Errera, Luigi Luzzatti, Cesare Della Vida, Gerolamo Levi ed Enrico Castelnuovo ad essere fra i principali animatori (cinque su quattordici, segnalati dalla polizia austriaca come «quasi tutti Israeliti di giovanile età e di guaste tendenze politiche») che nel 1864 fondarono la prima Società operaia di mutuo soccorso a Venezia(36). Ci troviamo di fronte con ogni evidenza a una precoce manifestazione di quel ‘socialismo di stato’ o ‘socialismo della cattedra’ che tanto peso ebbe nella storia del nostro paese nella seconda metà dell’Ottocento. «È comunemente noto [sottolineava qualche tempo fa Silvio Lanaro] che nonostante il loro conservatorismo — aggravato da una diffusa appartenenza al partito della destra — i ‘socialisti di stato’ sono i precursori e gli artefici della legislazione sociale italiana», e citava fra l’altro la legge Luzzatti del 1898 sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e sulla cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia(37).

Per quasi tutti gli ebrei che furono partecipi e animatori di iniziative economiche volte alla salvaguardia della salute del lavoratore, alla sua tranquillità economica e alla sua elevazione morale si possono usare gli stessi parametri di riferimento: schierati politicamente a destra (ma raramente di mentalità conservatrice), portatori di una solida coscienza di élite che li spingeva ad adoperarsi per l’assistenza agli strati disagiati ma da una posizione di estremo distacco e — diciamolo pure — superiorità, questi personaggi si impegnarono tuttavia in imprese educative ed economiche che incisero profondamente nella storia della città. È il caso di ricordare per lo meno il nome di Enrico Castelnuovo, anomala figura di letterato, che diresse per anni la Scuola Superiore di Commercio, nucleo originario dell’Università di Ca’ Foscari voluta dal cognato(38) Luigi Luzzatti, che fu decisamente la figura più rappresentativa dell’impegno della borghesia ebraica veneziana in ambito politico ed economico(39). Non si può poi tralasciare di ricordare le figure di Isacco Pesaro Maurogonato e Leone Pincherle, che furono fra gli ebrei maggiormente coinvolti nella Repubblica del ’48; se il primo ricoprì nel biennio rivoluzionario la carica di ministro delle Finanze, e dal 1866 in avanti fu eletto deputato sia nel collegio di Mirano sia — negli anni Ottanta — a Venezia, il secondo subì interamente le conseguenze del suo impegno politico e visse da esiliato a Parigi il resto della sua vita. Entrambi — e non furono i soli — concentrarono il loro impegno nella gestione e sviluppo delle imprese assicurative (in particolare nelle Assicurazioni Generali), dando in tal modo prova di quanto radicata fosse nell’élite ebraica veneziana la volontà di impegnare i propri capitali e le proprie risorse umane non in attività di speculazione finanziaria, ma in imprese che andassero ad incidere nel sociale.

Nonostante gli ostacoli frapposti alla piena integrazione giuridica nella prima metà del secolo XIX, l’accettazione e la partecipazione dei membri dell’élite ebraica agli ambienti dell’alta cultura e dell’economia cittadina fu un fenomeno vorrei dire quasi naturale e raramente contrastato da esplicite azioni di rifiuto e rigetto da parte della società veneziana. Abbiamo accennato al ruolo ricoperto dalla famiglia Treves, ma questa non era certo lasciata sola nella sua funzione propositiva di «classe dirigente di riserva», come è stata chiamata di recente dalla storiografia veneziana. Negli stessi anni le famiglie Sullam, Ravenna e Levi nel Polesine, e Lattis a Caorle, inauguravano nei loro possedimenti fondiari una nuova imprenditorialità agraria fatta di estese bonifiche e di organizzazione industriale del lavoro(40). Sempre nella prima metà del secolo numerosi rampolli della borghesia ebraica, dopo aver ricevuto l’educazione primaria da privati precettori e quella secondaria presso il rigido ginnasio «S. Caterina», venivano avviati all’università e quindi alle professioni liberali, entrando così a far parte di quelle reti relazionali che andarono a costituire la classe dirigente cittadina del XIX e poi del XX secolo(41). Anche in questo caso la lista sarebbe troppo lunga, ma è certo significativo constatare che già nel 1812 un istituto culturale come l’Ateneo Veneto riconoscesse fra i suoi membri un dottor Joele Kohen di Trieste, mentre l’anno successivo il primo ebreo veneziano, Moisè Giuseppe Levi, ne diveniva membro corrispondente. Nella stessa istituzione verranno in seguito accolti, fra gli altri, personaggi che in qualche misura ‘fecero’ la storia culturale della città, da Giacinto Namias (1833) a Leone Fortis (1836), da Samuele Romanin (1846) a Marco Diena e Isacco Pesaro Maurogonato (1859) fino alla prima donna, Eugenia Pavia Gentilomo, vedova di Leone Fortis, animatrice di un frequentato salotto letterario e poetessa.

Nella loro partecipazione alla vita pubblica queste personalità si muovevano seguendo reti relazionali che sempre più erano parallele ed esterne a quelle adottate nella sfera del privato. Non ricordavano esternamente, e non amavano che venisse ricordata l’appartenenza alla religione ebraica, che nella loro ottica era questione che riguardava strettamente la vita familiare e che nulla aveva a che fare con gli impegni di carattere pubblico. Il ragionamento era con ogni probabilità speculare, e riguardava nel medesimo tempo la non volontà di interferire con la sfera personale e privata dei sodali nelle molteplici istituzioni pubbliche in cui i rampolli della borghesia ebraica veneziana si trovavano ad operare. Per ottenere questo, un punto doveva essere chiaro: il lavoro nella sfera pubblica doveva significare riconoscersi in un progetto comune, fosse questo il tentativo di risollevare le sorti economiche della città nella prima metà del secolo, o l’ideale politico di riunificazione di Venezia all’Italia nel 1848, o ancora la costruzione di una città che si riconoscesse nel nuovo Regno unitario dopo il 1866; nulla della sfera privata doveva intromettersi a turbare con le inevitabili differenziazioni (in questo caso di ordine religioso) un percorso che doveva essere unitario. Questo tipo di ideale doveva essere ben radicato nelle personalità ebraiche che si impegnarono politicamente e culturalmente a Venezia: già sufficientemente chiare erano state le parole di Isach Grego nel 1797 al momento dell’abbattimento delle porte del Ghetto: «[…] la Religion niente ha da far coi diritti Civili, tutti i Omini xe eguali nei diritti». E nel 1870 gli faceva eco Giacinto Namias, a conclusione dell’adunanza del Regio Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti di cui fu poi per anni segretario: «Concordia e lavoro, o signori, concordia e lavoro, e se non saremo gli aristocratici dominatori dei tempi andati, saremo, ciò che torna assai meglio, degni figli della nuova patria, di una potente e libera Italia»(42).

A dare sostanza a questo ideale egualitario era intervenuto a partire dal 1850 un istituto di istruzione di nuova concezione che, nel pensiero del suo ideatore e realizzatore Moisè Ravà, si proponeva di conseguire sostanzialmente due risultati: erigere una scuola per «l’insegnamento della classe agiata» e fare di questo istituto un «luogo di ravvicinamento e di educazione comune pei giovani appartenenti a diverse nazioni»(43). Nel corso di tutta la seconda metà del secolo e nei primi anni del Novecento l’Istituto «Ravà» fu una delle principali scuole scelte dalla borghesia non solo ebraica per l’educazione delle nuove generazioni, e fu cura del suo direttore di fare in modo che in essa potessero trovarsi a loro agio tutte le confessioni religiose. Nel 1872, in anni in cui la contrapposizione ideologica era forte fra un partito clericale che rifiutava di digerire l’annessione di Roma all’Italia e uno schieramento liberale (nel quale si riconosceva gran parte della borghesia ebraica) che accentuava proprio a causa del contrasto con la Chiesa gli aspetti di razionalismo che avevano fino ad allora segnato le linee guida del secolo del «progresso», Moisè Ravà proponeva la «tolleranza» come parola d’ordine:

Certamente che l’intolleranza, le superstizioni e le ubbie non hanno mai trovato ospitalità presso di me; certamente che la storia, le scienze morali e le scienze fisiche sono insegnate liberamente, assecondando in ciò il felice indirizzo dell’istruzione governativa. Ma io desidero nullameno che il ragazzo, il cui genitore è cattolico, protestante, israelita o mussulmano (pur rispettando la fede altrui), abbia l’istruzione religiosa che i suoi genitori domandano. Io credo di far omaggio alla libertà e d’oppormi alla intolleranza di tutti i partiti estremi e con questi atti e con questa mia esplicita dichiarazione. La stessa tolleranza mi sono prefisso nella parte politica(44).

Fu tramite istituzioni come queste che i figli dell’élite ebraica veneziana entrarono più stabilmente in relazione con i loro coetanei non ebrei, dando vita nel breve volgere di pochi decenni a una rete relazionale che da confessionale e «nazionale» si trasformava rapidamente in solidarietà di classe. D’altra parte, per quegli ebrei che — pur partecipi della gestione politica e amministrativa della città (quando non addirittura del paese(45)) — erano tuttavia rimasti fedeli a una certa partecipazione alla vita della comunità ebraica stessa, la rete sociale continuò ancora per lungo tempo a far riferimento a un giro di famiglie tutto sommato ristretto, in cui forse l’appartenenza o meno alla comunità ebraica assumeva una sua valenza di riconoscimento reciproco.

Religione ebraica fra tradizione e riforma

La solennità religiosa che al tempo mio e ancor oggi è più scrupolosamente osservata è quella del Chipur, ossia dell’espiazione: un digiuno assoluto ed intero, da un tramonto all’altro, accompagnato da orazioni, da raccoglimento, e da rappacificazioni dove vi siano stati dissapori od offese. […] Se vi è una pratica religiosa che per i suoi alti fini meriti rispetto, essa è proprio questa che si raccomanda dalle religioni di tutto il mondo e che in molti paesi, come nell’America del Nord, in Prussia, in Svizzera, è precetto civile e nazionale prescritto a tutti i cittadini, perché si abbia almeno una volta all’anno un giorno di raccoglimento pieno ed intero col pensiero rivolto unicamente all’adempimento dei propri doveri morali, all’emendazione dei propri falli(46).

Con queste parole il triestino Marco Besso, genero di Isacco Pesaro Maurogonato e per lunghi anni direttore delle Assicurazioni Generali, descriveva il suo modo di intendere una delle pratiche di devozione religiosa più seguite dell’ebraismo. Il rispetto delle norme tradizionali, nonché delle usanze rituali proprie dell’ebraismo, veniva a confliggere in forma sempre più accentuata con il percorso di integrazione sociale e culturale avviato nell’Ottocento un po’ in tutta l’Europa centro-occidentale. In un mondo pervaso da una crescente secolarizzazione che determinava una visibile recessione del ruolo sociale affidato alla devozione religiosa, soppiantata dalla nuova fede nel progresso, le vecchie forme di religiosità quando non venivano abbandonate tout court dovevano spesso essere supportate da collegamenti più o meno evidenti con i nuovi valori secolari. Così Besso — ma le sue parole potrebbero essere messe in bocca a suoi omologhi più propriamente veneziani, da Luigi Luzzatti a Ernesto Levi Della Vida, da Cesare Musatti a Marco Diena — cercava di trovare una interpretazione del digiuno di Kippùr che lo privasse dei suoi aspetti specifici ebraici per proiettarlo a pratica generalmente acquisita da tutti i popoli e quindi dal valore eminentemente universale.

La descrizione delle principali forme e dei mutamenti avvenuti nelle pratiche di devozione religiosa fra gli ebrei veneziani nel secolo XIX deve di necessità confrontarsi con l’inclinazione dell’élite dirigente della comunità a mutare il proprio modo di intendere l’ebraismo secondo canoni che si adattassero o che non confliggessero con le più immediate esigenze di relazione sociale. Doveva essere difficile far parte del collegio dei sindaci della Camera di commercio e non potersi sedere alla stessa tavola con i propri colleghi per motivi di rispetto delle regole alimentari tradizionali ebraiche; problematico essere membri del consiglio comunale e non partecipare per rispetto del riposo sabbatico a un ricevimento organizzato dal sindaco; imbarazzante candidarsi alle elezioni e rappresentare come deputato uno dei collegi veneziani, e non poter accettare un passaggio in gondola gentilmente offerto da un elettore perché di sabato non si può utilizzare un mezzo di trasporto. Fra le famiglie del ceto elevato, fu proprio il prevalere di esigenze più o meno pressanti dettate dalle regole della vita sociale a determinare un progressivo allontanamento dalle pratiche religiose più rigorose. Il fenomeno non fu — sia detto per inciso — solamente veneziano né limitato alla realtà italiana. In tutta Europa l’emancipazione civile degli ebrei portò a un ripensamento della pratica religiosa e del modo stesso di intendere l’appartenenza a una comunità ebraica, tanto che in realtà dove più forte era la consistenza demografica degli ebrei, come in Germania e in Ungheria, si verificarono veri e propri scismi da cui derivarono vari gradi di «Riforma» dell’ebraismo stesso(47).

A Venezia non giunse se non la lontana eco di questi sommovimenti(48), e tuttavia anche la pratica religiosa nell’ambito della comunità e all’interno delle singole famiglie si trasformò fortemente nel corso del secolo XIX. Dal punto di vista della ricerca storica, rintracciare elementi significativi che ci aiutino nel nostro tentativo di ricostruire i percorsi della devozione religiosa è particolarmente difficile per la mancanza di strumenti adeguati. Tuttavia, rimanere legati a semplici impressioni o interpretazioni della pratica religiosa basate su note autobiografiche come quelle di Besso, senza ancorarle a più puntuali dati statistici, non ci aiuta a fare giustizia di una situazione per certi versi ambigua. In altre parole, se è certo che fra le famiglie dell’élite ebraica le esigenze sociali determinavano un progressivo allontanamento dall’osservanza puntuale dei precetti (in forme più o meno accentuate a seconda dei casi), è altrettanto certo che i membri delle stesse famiglie, calati nei panni di amministratori delle Riunite sezioni della Fraterna generale di culto e beneficenza utilizzavano proprio l’osservanza della precettistica ebraica e il rabbinato in genere come strumenti di efficace controllo sociale sugli strati più disagiati della popolazione ebraica. Gli esempi non mancano e ne abbiamo già visti alcuni, come la fondazione Consolo-Treves che distribuiva premi in denaro ad anziani bisognosi purché questi assicurassero la recita di preci in ricordo dei defunti della famiglia; ma la stessa pratica è segnalata nell’ambito del sistema dell’istruzione, dove fino al secolo XX inoltrato veniva assicurata una colazione calda solamente ai bambini che si presentavano la mattina presso il Talmud Toràh (la «Scuola di religiosa istruzione») dove venivano loro impartite lezioni sui principi dell’ebraismo; e che dire del soldo che i medesimi bambini ricevevano nel presentarsi all’alba alla recita delle selichòth, le preghiere consolatorie che si recitano nei dieci giorni di vigilia del digiuno di Kippùr. Nel 1831, una «Strida» lamentava la non partecipazione dei poveri israeliti sovvenzionati settimanalmente alle funzioni quotidiane nei Midrashim (oratori), e minacciava di escludere dalla distribuzione di denaro in beneficenza quei poveri che persistessero in simile atteggiamento(49).

Strumento di controllo sociale, quindi, ma anche forma devozionale che se mutò nel corso dell’Ottocento mantenne tuttavia una sua vitalità che contrasta con la visione di un ebraismo emancipato in forte regressione e decadenza: io userei il termine più appropriato di «trasformazione», dettata in parte da un generale processo di secolarizzazione della società civile, e in parte frutto di effettivi ripensamenti interni alla comunità ebraica.

Ma parliamo innanzitutto delle strutture, fisiche e umane, che assicurarono il mantenimento e la trasmissione delle pratiche religiose nella comunità ebraica veneziana. La relativa stabilità demografica della comunità nel corso del secolo non dovette determinare sul piano numerico eccessive modifiche delle strutture del culto rispetto ai pochi dati certi di cui siamo in possesso. Questa la situazione: «I 2.500 Israeliti che contasi nell’insieme a Venezia si riuniscono per l’esercizio delle pratiche religiose sotto un capo supremo di religione che s’intitola rabbino maggiore, assistito da un altro rabbino e da 13 minori ministri di culto»(50). La stessa fonte ci parla, per il 1881, di sette sinagoghe aperte e precisa che il rabbino maggiore aveva giurisdizione anche sulle piccole comunità di Treviso, Conegliano, Ceneda, Udine e San Daniele del Friuli. Negli anni Trenta la situazione era solo leggermente diversa: in una lettera indirizzata al commissariato generale del sestiere di Cannaregio in rapporto alla richiesta dell’ebreo Davide Coen «oriundo di Turchia» che avrebbe voluto aprire un oratorio privato fuori dalle mura del Ghetto (dove erano concentrate le altre sinagoghe), il rabbino Elia Aron Lattes affermava che già in passato egli aveva fatto chiudere oratori privati e che giudicava «totalmente impolitico» farne aprire un altro. La situazione, infatti, era già piuttosto complessa per la necessità di gestire gli otto oratori esistenti, cioè le sinagoghe Spagnola, Levantina, Italiana, Tedesca e Canton, a cui si aggiungevano gli oratori Meshullamim, Luzzatto e Vivante: decisamente troppi — nelle parole del rabbino — in proporzione al numero degli ebrei, tanto più che alcuni di essi «aprirono abusivamente». Era proprio il proliferare di oratori, per Lattes, la causa dell’abbandono in cui versavano le sinagoghe vere e proprie, che spesso apparivano «deserte»; e questo era grave in particolare perché «le spese di culto, e delle scuole nonché molti soccorsi alla classe indigente provengono dalle offerte, che si fanno in occasione della lettura del Pentateuco, e dalla vendita di alcune cerimonie religiose»(51).

Le diverse personalità che si alternarono nella carica di rabbino maggiore della comunità di Venezia nell’Ottocento furono in forma più o meno accentuata protagoniste attive del processo di trasformazione avviato dall’emancipazione. Forse l’ultimo, Moisè Coen Porto — rabbino dal 1875 al 1918 e coadiuvato per un certo periodo da Leone Luzzatto e Giuseppe Bassi — dovette fare i conti più da vicino con la forte volontà dei vertici dell’amministrazione della comunità che mal sopportavano rabbini che si allontanassero troppo dalla funzione loro assegnata di «prestatori d’opera» e che tendevano a relegare il loro intervento a semplici supervisori del culto e dell’istruzione. Ma i primi tre — Jacob Emanuele Cracovia (1746-1820), Elia Aron Lattes (?-1839) e Abraham Lattes (1809-1875) — ebbero certamente ruolo attivo e furono spesso pungolati dal vivace ambiente che almeno fino alla metà degli anni Settanta caratterizzò gli studi rabbinici in Veneto.

Cracovia si era trovato fra i primi a dover affrontare il delicato momento di transizione dal regime di isolamento nel Ghetto a una situazione di più o meno aperta integrazione; non è chiaro se lui e la sua famiglia fossero originari di Venezia, né se appartenesse alla comunità tedesca o spagnola, fatto sta che fu lui a dover rappresentare la comunità lagunare nell’Assemblea di rabbini e notabili voluta da Napoleone nel 1806 a Parigi e trasformata in vero e proprio Sinedrio nel 1807. Di ritorno dall’importante consesso — nel quale erano state dettate in forma ufficiale le regole che avrebbero dovuto segnare la piena integrazione degli ebrei nella società civile(52) — Cracovia aveva voluto trasmettere alla sua comunità le motivazioni profonde che avrebbero dovuto guidare d’ora in avanti le azioni degli ebrei veneziani e il loro rapporto con la città. Per far questo scelse il metodo più consono alla figura di un rabbino e predicatore, pronunciando un sermone nella grande sinagoga Spagnola(53): un discorso assimilabile a quello di funzionario di regime, che voleva affermare un proprio preciso ruolo politico di guida e tramite fra la somma autorità imperiale e il popolo al quale trasmettere le decisioni assunte per il suo bene. Cracovia costruiva il suo ragionamento sull’idea che gli ebrei dovevano a Napoleone riconoscenza eterna per averli finalmente ricongiunti alla «nazione italiana» e per aver convocato il Sinedrio nell’intento di smitizzare definitivamente le accuse mosse alle tradizioni e alle leggi ebraiche. Un’interpretazione degli avvenimenti politici che doveva avere come effetto il generale allineamento dell’intera comunità ebraica alle decisioni assunte dall’assemblea rabbinica. Nei toni del rabbino veneziano si intuiva la preoccupazione di armonizzare la fedeltà alla tradizione ebraica con gli esiti della discussione parigina; per fare questo egli tentava di dimostrare

indivisibile la parte religiosa del nostro sacro Codice dall’altra morale dello stesso; e che questa non riguarda quelli solamente, che professano il nostro Culto, ma altresì qualsivoglia altro nostro simile, verso di cui siamo tenuti di esercitare tutti i doveri sociali, umani, caritatevoli, come verso i nostri correligionarj medesimi(54).

Due erano per Cracovia i principi fondamentali dettati a Parigi: «l’esercizio delle utili professioni» e «la difesa della patria». Ed erano questi — giova sottolinearlo — i due fondamentali elementi che dovevano permettere nel corso dell’intero processo di emancipazione e integrazione la pratica attuazione di quel concetto più generale che l’abate Henry Grégoire aveva indicato col nome di «rigenerazione».

Erano concetti sicuramente condivisi da Elia Aron Lattes, il rabbino piemontese che — membro anch’egli del Sinedrio — sostituì Cracovia (dopo un breve passaggio di Jacob Recanati) e resse la cattedra rabbinica fino al 1839. Dopo la parentesi napoleonica, il 1820 fu certamente l’anno che determinò i maggiori sviluppi negli orientamenti religiosi della comunità veneziana. Fu in quel periodo, infatti, che si affacciarono anche in laguna i timori di una possibile riforma interna dell’ebraismo, e sempre nel medesimo contesto si diede avvio all’esecuzione della sovrana risoluzione del gennaio 1820 che invitava le comunità del Lombardo-Veneto ad organizzare un istituto centrale per gli studi rabbinici. Il rabbinato ortodosso di Amburgo, nel tentativo di arginare i primi accenni di scisma segnati in città dall’apertura di una sinagoga «riformata», aveva avanzato richiesta al rabbinato italiano di sondare l’atteggiamento al riguardo delle comunità della penisola. Alle questioni poste per il tramite del rabbino di Trieste Abraham Eliezer Levi su vari punti di possibile riforma, da Venezia era giunta la risposta dell’ormai anziano Cracovia, che concordava con Levi sulla necessità di non derogare dalle regole dell’ortodossia, e tuttavia si dimostrava possibilista sull’uso dell’organo in sinagoga: «Sopra il quesito, se fosse proibita l’introduzione dell’Organo nelle Sinagoghe del culto [rispondeva] che non constavami verun autore che lo avesse proibito, come altresì non alcuno che lo avesse permesso» e rammentava che una volta nella sinagoga di Casale Monferrato veniva usato l’organo «che serviva per accompagnare l’inno che si recita nell’introduzione del sabato». Inoltre Cracovia faceva presente che l’introduzione del sermone in volgare in sinagoga non costituiva per Venezia elemento di «riforma», poiché già era uso comune(55).

Alcuni anni più tardi, nel 1828, Elia Aron Lattes avrebbe elaborato un altro progetto per così dire ‘riformatore’ (che non andò in porto) di riunificazione dei riti nella comunità lagunare. All’epoca erano funzionanti nei Ghetti veneziani 8 fra sinagoghe e oratori di rito spagnolo, tedesco e italiano. Lattes dichiarava possibile in alcuni casi «abrogare usi e vincoli in materia religiosa» mediante il concorso di sette saggi, che per l’occasione si sarebbero dovuti occupare della possibilità di «ridurre a una sola liturgia le tre», cioè la sefardita, l’ashkenazita e l’italiana. Ma le eventuali modifiche che fossero state approvate dalla commissione avrebbero dovuto essere volte a «maggiormente glorificare la religione», per non causare «conseguenze, e dissenzioni dannose ai confratelli forrestieri, e dello stesso stato»(56).

Elia Aron Lattes fu uno dei personaggi chiave che determinarono, a partire dal 1820, l’assetto del sistema educativo ebraico nel Regno lombardo-veneto; fu infatti membro della commissione rabbinica che delineò i programmi dell’insegnamento primario nelle scuole ebraiche del Regno e che istruì le pratiche per l’assegnazione delle cattedre dei docenti del collegio rabbinico di Padova. Era stato lui ad offrire a Isacco Samuele Reggio, il riconosciuto maestro dell’ebraismo veneto che declinò l’invito, la cattedra poi assegnata per concorso a Samuel David Luzzatto; fu sempre Lattes uno fra i maggiori responsabili della revisione e dell’adattamento di una traduzione del catechismo ebraico di Hertz Homberg Bené Zion, che per oltre mezzo secolo costituì il testo principale di educazione della gioventù ebraica all’esercizio dei diritti e doveri della cittadinanza rimanendo nel contempo legati al rispetto dei valori e della tradizione ebraica. E fu sempre lui, infine, a redigere il primo Regolamento per l’istituto Convitto Rabbinico in Padova, nel quale seguendo le indicazioni di Reggio si delineava il quadro normativo per istruire i nuovi rabbini del secolo XIX, i quali a una forte e omogenea cultura ebraica fondata su basi sì devozionali, ma anche solidamente scientifiche, avrebbero dovuto associare una robusta cultura umanistica e secolare per potersi confrontare ad armi pari con un mondo in continua trasformazione. Era, in sostanza, la nuova figura di rabbino, che non gestiva più una comunità relegata nel Ghetto, ma aiutava i suoi fratelli ad integrarsi nella società civile fondando il proprio operato in un forte radicamento nei valori propri della tradizione ebraica di fratellanza e solidarietà(57). Su queste basi si formò — per fare un esempio che influì sulla realtà veneziana — Abraham Lattes, nipote di Elia Aron, che partecipò attivamente cercando di ritagliare per la figura del rabbino un ruolo che andasse al di là della pura e semplice figura di pastore d’anime e riuscendo in determinati momenti (soprattutto nel biennio repubblicano 1848-1849) a farsi riconoscere dalla città, se non dalla comunità ebraica, un ruolo eminentemente politico. E sulle medesime basi si formò il rabbino Samuele Salomone Olper, che venne formalmente autorizzato dalla presidenza delle Riunite sezioni a tenere in sinagoga un sermone politico di incoraggiamento agli ebrei affinché dessero il loro appoggio alla Repubblica di Manin e che fu in seguito costretto all’esilio, andando a ricoprire le cattedre rabbiniche di Firenze, Casale Monferrato e infine di Torino.

È peraltro incontestabile che nel corso del secolo XIX le pratiche devozionali all’interno della comunità ebraica subirono una trasformazione che, seguendo di pari passo i mutamenti organizzativi della comunità stessa e la crescente tendenza a un’integrazione sempre più accentuata alla società maggioritaria, danno l’impressione all’osservatore esterno di un rapido e apparentemente inarrestabile annacquamento. È quanto emerge dalle continue lamentele del rabbinato per la scarsa affluenza alle sinagoghe; il fenomeno riguarda non solo Venezia, ma un po’ tutto l’ebraismo dell’Europa occidentale, e tuttavia in laguna la persistenza di certi istituti religiosi dà il segnale di un’ancora forte vitalità della devozione nella comunità ebraica. Certo le forme devozionali mutarono profondamente nel corso del secolo, tanto da portare anche a Venezia elementi incontestabili di un avvicinamento alla Riforma e di allontanamento dall’ortodossia propriamente detta: la comparsa di un sontuoso organo nella sinagoga Spagnola, l’uso di scolpire il volto del defunto o di apporre fotografie sulle lapidi al cimitero, e infine la realizzazione di un comparto di loculi per ospitare le ceneri dei cadaveri cremati(58) sono segni inequivocabili di questa tendenza. E tuttavia altri elementi paiono segnare una certa resistenza ad abbandonare la religiosità: abbiamo visto (Tab. 2) come il numero di matrimoni ebraici negli anni non subì un particolare calo, e la stessa usanza di praticare la circoncisione (che ai positivisti dell’Ottocento sembrava un retaggio barbaro di usanze tribali da abbandonare) venne in sostanza mantenuta senza particolari polemiche(59).

Se, infine, seguiamo le vicende di una istituzione volontaria di devozione religiosa quale fu la Fraterna mattutina Shomerìm laBòqer possiamo farci un’idea della continuità mantenuta nel corso di tutto il secolo di un’autentica e popolare devozione religiosa. Il 22 settembre 1835 era ancora il vecchio rabbino Elia Aron Lattes a presiedere la commissione incaricata di emendare il regolamento della Fraterna, che andava adeguato ai nuovi tempi «le leggi dagli uomeni stabilita andando soggetta a delle variazioni per il cambiamento delle circostanze». Per questo si erano «rilevati vari articoli suscettibili di emendazioni […] senza però alterare menomamente le principali massime del Sacro Istituto». Con questa premessa si stabiliva, con l’art. 1, che lo scopo della Fraterna è quello di celebrare l’orazione mattutina ogni mattina nel Midrash (probabilmente l’oratorio Vivante), con l’obbligo «dell’intervento di tutti i venditori di carni e polli». Al regolamento (che fra l’altro conteneva una norma relativa all’elargizione di una dote l’anno per maritare una figlia o una sorella di uno dei confratelli) seguiva un’aggiunta relativa agli obblighi dei venditori di carne e pollame i quali, se trasgressori, erano punibili con la sospensione della shechità(60) per dieci giorni e perfino con la denuncia alle autorità di polizia(61).

A fine secolo la Fraterna si era completamente trasformata. Due, in sostanza, erano gli elementi di novità: da un lato la perdita evidente del ruolo di controllo sociale. Nel regolamento del 1899 non si fa più alcun riferimento ai rivenditori di carne e pollame, e men che meno si minaccia il ricorso all’autorità di polizia per la mancata presenza alle orazioni. In secondo luogo entrano a far parte della confraternita stessa le donne, a dimostrazione ancora una volta della profonda integrazione della popolazione ebraica alla società di maggioranza: anche fra gli ebrei la figura delle «beghine» cominciava ad avere una sua vitalità, e non a caso proprio a fine secolo fu introdotto alla sinagoga Spagnola un coro femminile che fu abolito solo negli anni Sessanta del Novecento. In molti punti la revisione del regolamento nel 1899 manteneva intatta la Fraterna, con la consueta distribuzione di beneficenze e di doti; e tuttavia la decadenza era percepita dal rabbino Giuseppe Bassi, che faceva scrivere: «Per le mutate circostanze non fu possibile continuare questa pratica religiosa [la recita delle preghiere mattutine] e per conservare il fine principale di tale associazione venne fissato di recitare ogni giorno la preghiera vespertina. L’ufficiatura giornaliera della Minhà [preghiera serale] viene celebrata nel S. Tempio Luzzatto col concorso dei vecchi delle pie fondazioni Consolo-Treves»(62).

L’istruzione come integrazione

Nel 1807 il sacerdote giansenista Francesco Fontanella indirizzava agli ebrei veneziani una perorazione(63) per invitarli ad abbracciare il sistema di istruzione secolare per un debito di coerenza con la tradizione ebraica che aveva fatto dello studio la sua principale base di coesione. L’intento non era così lontano dallo spirito che negli stessi mesi avrebbe mosso il rabbino Jacob Cracovia a indirizzare la predica in sinagoga per esortare la comunità ad abbracciare le istanze rigeneratrici proposte dal Sinedrio parigino, ma in aggiunta a questo necessario presupposto politico, il discorso di Fontanella identificava la rinascita spirituale degli ebrei in una riacquisizione della propria cultura. L’esortazione del sacerdote veneziano si sviluppava su due piani paralleli: da un lato la preghiera agli ebrei di accogliere positivamente l’invito di Napoleone a frequentare le scuole pubbliche per partecipare in prima persona alla costruzione della nuova civiltà. «Aprite, o Signori [scriveva Fontanella] aprite gli occhi; e mirate quale brillantissima luce di umana sapienza diffonde anche sopra di Voi il cuore piucché benefico del nostro amorosissimo Sovrano. Più non esistono, è vero, le celebri Accademie di Sora, di Lidda, di Jafne [recte Yavne], ove concorrevano ad erudirsi i vostri padri; ma quanti licei, e quante Università non si vanno di giorno in giorno aprendo per voi pure nel vasto Imperio della Francia e in questo Regno d’Italia»(64). In bocca a un prete cattolico il discorso, per quanto coerente, appariva sorprendente: egli identificava proprio negli insegnamenti biblici e talmudici, e nelle loro esortazioni ad applicarsi allo studio, lo stimolo indispensabile che avrebbe dovuto spingere gli ebrei ad intraprendere l’opera della propria rigenerazione. Per far questo Fontanella sceglieva e citava in ebraico (!) brani significativi della letteratura rabbinica, lamentando l’abbandono, da parte della gran maggioranza degli ebrei, dello studio della propria storia e cultura. Si chiedeva, ad esempio, quale fosse la ragione per cui solo pochissimi fra gli ebrei erano ancora in grado di tenere un sermone sulle sacre scritture, e citava liberamente e con competenza brani del Talmud e delle Massime dei Padri, richiamando l’attenzione degli ebrei sulle figure più significative — passate e presenti — della cultura ebraica(65) che oltre ad aver coltivato lo studio delle sacre scritture si erano applicati alle «profane scienze».

Per quanto queste premesse fossero promettenti, la questione dell’accesso degli ebrei alla scolarità pubblica e dell’organizzazione dell’istruzione all’interno della comunità stessa non seguì un percorso facile né lineare nel corso del secolo XIX. Per quel che riguarda le scuole pubbliche, il primo invito formale ad una integrazione di scolari ebrei venne formulato dalla sovrana risoluzione del 22 gennaio 1820 che nella sua seconda parte formalizzava il diritto di accesso dei giovani ebrei alle scuole cristiane. Si tratta in particolare di quello che a me pare il primo vero banco di prova dell’emancipazione ebraica in area veneta. Già con lettera del 14 gennaio 1819 indirizzata alla cesarea regia delegazione (che aveva precedentemente richiesto chiarimenti sul metodo di studio adottato per la gioventù ebraica) il rabbino di Venezia chiariva le linee organizzative che guidavano il sistema di istruzione della comunità. E, in primis, chiariva che il discorso riguardava sostanzialmente l’educazione per i figli delle famiglie disagiate: i rampolli dell’élite già godevano del privilegio di istitutori privati che li «rendevano capaci di passare come gli altri abitanti a’ pubblici Ginnasi, o Liceo come ve ne furono in passato e ve ne sono al presente». La classe sociale superiore non aveva dovuto evidentemente attendere risoluzioni imperiali per avere accesso a pubbliche scuole. Ma il rabbino (dovrebbe trattarsi di Elia Aron Lattes o di Jacob Vita Recanati: purtroppo la lettera non è firmata) ci fornisce anche altre preziose indicazioni. Ci parla — per i meno agiati — di scuole private a pagamento dove i fanciulli vengono istruiti nell’apprendimento dell’ebraico, dell’italiano e dell’aritmetica. E indica infine l’esistenza di un istituto di educazione (il Talmud Torà) dove i bambini si recavano ad apprendere le medesime materie. Il programma di insegnamento era comunque comune e prevedeva esami finali. Nel 1821 la vecchia istituzione denominata Talmud Torà veniva sostituita da una nuova scuola, il Midrash reshit da’at (letteralmente «Scuola per l’iniziale apprendimento») che intendeva — come apprendiamo dal suo statuto(66) — sostituirsi in tutto alla scuola pubblica, ripromettendosi di fornire istruzione sia nelle materie ebraiche, sia nelle materie secolari quali la lingua e la grammatica italiana e l’aritmetica. La frequenza al Midrash era piuttosto elevata e in continua crescita; l’imprecisione dei dati a nostra disposizione non ci consente di fornire statistiche definitive, ma i numeri sono comunque significativi di una certa attenzione della comunità ebraica alle attività di istruzione e alfabetizzazione della gioventù. Nel 1829 gli alunni ufficialmente censiti erano 274, 129 femmine e 145 maschi, a cui andavano aggiunti 41 ragazzi solo maschi che frequentavano la scuola pubblica, ma che ricevevano istruzione religiosa nel Midrash. Si trattava quindi di 315 fanciulli e fanciulle di età compresa fra i quattro anni e i sedici (in realtà dodici) anni. Solo nel 1820, nove anni prima, un «Elenco dei fanciulli d’ambo i sessi atti alla Scuola esistenti nel Comune di Venezia, Comunione Israelitica»(67) riportava 178 nominativi, 86 femmine e 92 maschi.

A questi numeri va certamente aggiunta la quota di fanciulle che dal 1822 in poi frequentarono la Scuola femminile, istituita dalla comunità ebraica con il preciso scopo di istruire gratuitamente le figlie di famiglie disagiate. Non si trattava solo di filantropia e di solidarietà interna alla comunità; precise esigenze economiche guidavano l’investimento delle famiglie socialmente elevate che di fatto gestivano la comunità, che per omogeneità culturale preferivano avere al proprio servizio giovani fanciulle ebree, istruite oltre che nell’economia domestica anche nelle esigenze di una casa ebraica, con i suoi ritmi particolari, le usanze del sabato e delle festività, le complesse norme alimentari.

Così si possono leggere nella bozza di statuto della nuova scuola, redatta da Davide Maurogonato (padre adottivo di Isacco) il 10 settembre 1822, le seguenti considerazioni che ci chiariscono alcune delle esigenze interne alla comunità ebraica. Dopo aver messo in evidenza gli sforzi compiuti dalla Fraterna per «rendere l’infelice classe correligionaria utile a se stessa» cercando di educare «i fanciulli, in massima parte con misure di rigore», si lamenta la condizione delle fanciulle che «si danno in preda alla sfrenatezza e mal costume, già fatalmente molto radicati». «Vagano per le strade [continua Maurogonato] fanciulle sane, e robuste, e li agiati correligionari sono loro malgrado costretti a introdurre domestiche forestiere, poiché trovar non possono in questa città giovani, o donne, capaci di accudire al servizio delle loro famiglie».

Le scuole per fanciulle volute dall’«Augustissimo Monarca» prevedevano una sovrabbondanza di istruzione religiosa cattolica che impediva di fatto alle ragazze ebree la frequenza di quelle istituzioni, per cui la Fraterna istituì una scuola (in realtà stipendiando una maestra sola) per l’istruzione di giovani ragazze fino a quattordici anni sia nell’economia domestica, sia «nella lettura e principj di scrivere Italiano, come altresì nelle prime regole di aritmetica». Nel 1833 avevano frequentato la scuola trentadue allieve; oltre all’istruzione delle fanciulle, la scuola metteva a frutto il lavoro delle ragazze compiendo lavori di biancheria (cucitura di camicie, asciugamani, lenzuola, mutande, tovaglie, ecc.) per le famiglie che ne facevano richiesta.

Il sistema così strutturato fu mantenuto in sostanza nel corso di tutto il secolo; i giovani delle famiglie cosiddette «su» passavano rapidamente dall’iniziale affidamento alle cure di precettori privati alla frequenza dei pubblici ginnasi (in special modo del «S. Caterina») e, dal 1850, del convitto «Ravà». I figli delle famiglie del cosiddetto «zò» frequentavano generalmente la scuola pubblica solo nei gradi inferiori, mentre l’istruzione «morale e religiosa» veniva loro impartita presso il Midrash della comunità ebraica che spesso e volentieri era anche il luogo in cui la miseria veniva alleviata con qualche forma di beneficenza.

Ed è proprio il sistema di istruzione a dare più compiutamente l’idea dei mutamenti che interessarono l’ebraismo veneziano (ma anche italiano ed europeo) nel secolo XIX. Ci si avviava a una trasformazione della stessa comunità ebraica che, da complesso di tradizioni e normative sociali, culturali e anche religiose, andava sempre più rapidamente a riconoscersi in una «religione» senza altri aggettivi, che veniva conformata e manipolata per permettere ai suoi aderenti di vivere senza soverchie difficoltà in una società che — dopo secoli di discriminazione — dichiarava di volerli integrare. È ancora il nostro Elia Aron Lattes che nel 1830 addita a «rossore e obbrobrio» il dedicare gli studi solo alla «Teologia» (cioè alle materie legate all’istruzione ebraica) tralasciando le «profane scienze». Ed è sempre lui — rabbino tradizionalista a volte ai limiti della superstizione, eppure conscio della delicatezza del momento storico — che cercando una via di mezzo, un percorso alternativo da seguire negli studi, si indirizzava agli allievi del Midrash con queste parole:

[...] nel progresso dei vostri studj, riscontrerete ad evidenza che quanti uomini illustri vanta a buon diritto la nazione, tutti coltivarono con ardore le profane scienze, e alquanti di essi ne cooperarono colla loro Dottrina al felice avanzamento; come per altra parte vi verrà fatto di riconoscere, che moltissimi tra gli eruditi innazionali, e precipuamente in questi ultimi tempi, si applicarono agli studj delle sacre nostre opere con ammirabile successo, e ne divennero espertissimi e dottissimi. Quindi vi eccito a profondamente imprimervi nel cuore, che le cognizioni da un lato cui acquisterete dalle umane scienze, quelle dall’altro, cui andrete ricevendo dalla Sacra Legge, e dagli esimj scritti dei venerabili Dottori della Misnà e specialmente del Talmud, e dei posteriori Classici autori formeranno in complesso quel tutto sorprendente che è l’apice dell’umana perfezione(68).

1. Sulla «ricondotta» v. Giovanni Tabacco, Andrea Tron e la crisi dell’aristocrazia senatoria a Venezia, Udine 19802. Cf. anche Walter Panciera, L’economia: imprenditoria, corporazioni, lavoro, in Storia di Venezia, VIII, L’ultima fase della Serenissima, a cura di Piero Del Negro-Paolo Preto, Roma 1998, p. 504 (pp. 479-553).

2. Cf. Adolfo Ottolenghi, Il governo democratico di Venezia e l’abolizione del ghetto, «Rassegna Mensile di Israel», 5, 1930-1931, nr. 2, pp. 88-104.

3. Cf. Mario Isnenghi, I luoghi della cultura, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, p. 319 (pp. 233-406).

4. Per una bibliografia sugli ebrei veneziani dell’Ottocento v. Marino Berengo, Gli ebrei veneti nelle inchieste austriache della Restaurazione, «Michael», 1, 1972, pp. 9-37; Id., Gli ebrei dell’Italia asburgica nell’età della Restaurazione, «Italia», 6, 1987, nrr. 1-2, pp. 62-103; Id., Gli ebrei veneziani alla fine del Settecento, in Italia Judaica, III, Roma 1989, pp. 9-30; Riccardo Calimani, Gli ebrei a Venezia dopo l’apertura del Ghetto, nel secolo dell’emancipazione, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 729-748; Maddalena Del Bianco Cotrozzi, Gli ebrei dell’area alto-adriatica nell’età delle riforme e della prima emancipazione. Istituzioni, cultura e religione, in L’area alto-adriatica dal riformismo veneziano all’età napoleonica, a cura di Filiberto Agostini, Venezia 1998, pp. 271-305; Antonio Lazzarini, Fra terra e acqua. L’azienda risicola di una famiglia veneziana nel Delta del Po, I-II, Roma 1990-1995; Gino Luzzatto, Un’anagrafe degli ebrei di Venezia del settembre 1797, in Scritti in memoria di Sally Mayer (1875-1953). Saggi sull’ebraismo italiano, Gerusalemme 1956, pp. 194-198; Gadi Luzzatto Voghera, Cenni sulla presenza ebraica a Venezia durante la dominazione austriaca, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 195-212; Adolfo Ottolenghi, Abraham Lattes nei suoi rapporti con la repubblica di Daniele Manin, «Rassegna Mensile di Israel», 5-6, 1930-1932, pp. 25-35; Id., L’azione di Tommaseo a Venezia per l’emancipazione degli israeliti, Venezia 1933; Giovanni Vian, Le chiese e la comunità ebraica di Venezia dopo la caduta della repubblica aristocratica, in L’area alto-adriatica dal riformismo veneziano all’età napoleonica, a cura di Filiberto Agostini, Venezia 1998, pp. 307-327.

5. Cf. Giulio Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, Torino 1983.

6. Per il dato del 1871 cf. Simon Levis Sullam, Una comunità immaginata. Gli ebrei a Venezia negli anni Venti e Trenta, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1998-1999, p. 53; esso, sorprendentemente, non corrisponde alle statistiche interne indicate dalla comunità ebraica (v. Tab. 2), il che indica che una quota — seppur minimale — di ebrei rilevati nel censimento del 1871 sfuggiva al controllo della comunità stessa.

7. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 508 «Varie», fasc. «Statistiche».

8. V. in partic. Gabriella Cecchetto, Gli Ebrei a Venezia durante la III dominazione austriaca, «Ateneo Veneto», n. ser., 13, 1975, nr. 2, p. 84 (pp. 83-104), e Emilio Franzina, La Società, in Venezia, a cura di Id., Roma-Bari 1986, p. 308 (pp. 301-322). Al contrario altri, come M. Berengo, Gli ebrei veneziani alla fine del Settecento, o R. Calimani, Gli ebrei a Venezia, fanno ben presente l’esistenza di ampi strati di popolazione ebraica non abbiente.

9. Cf. Donatella Calabi, Gli ebrei veneziani dopo l’apertura delle porte del ghetto: le dinamiche insediative, in corso di pubblicazione.

10. Macellata secondo le norme rituali ebraiche.

11. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 202 «Sanità».

12. Ibid.

13. Agostino Sagredo, Notizie sugli ammiglioramenti di Venezia, «Annali Universali di Statistica», ottobre-novembre-dicembre 1843, pp. 21-29.

14. Cf. M. Berengo, Gli ebrei veneziani alla fine del Settecento, pp. 23-27.

15. Cf. Regolamento per la Fraterna Generale di Culto e Beneficenza degl’Israeliti di Venezia, Venezia 1828.

16. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 508 «Varie», fasc. «Statistica (1882)».

17. Ibid., fasc. «Inchieste ed ispezioni».

18. Cf. Susanna Szabados, relazione dell’11 settembre 1996 tenuta nell’ambito del XXVIII Corso internazionale di alta cultura presso la Fondazione Giorgio Cini a Venezia.

19. Venezia, Archivio Storico Comunale, 7/11, Attivazione casa filiale d’industria israelitica, lettera del 27 giugno 1842.

20. Abraham Lattes, Cenni sulla Comunità Israelitica di Venezia, in Venezia e le sue lagune, I, Venezia 1847, pp. 103-107 in appendice.

21. Ibid.

22. Luigi Sormani Moretti, La Provincia di Venezia. Monografia statistica, economica, amministrativa, Venezia 1880-1881, p. 458.

23. Michele Gottardi, Vicende e destini dei protagonisti politici, in Venezia e l’esperienza ‘democratica’ del 1797, a cura di Stefano Pillinini, Venezia 1997, pp. 151-152 (pp. 141-152).

24. M. Berengo, Gli ebrei veneziani alla fine del Settecento, p. 17.

25. A. Lazzarini, Fra terra e acqua; Renzo Derosas, Aspetti del mercato fondiario nel Veneto del primo Ottocento, «Quaderni Storici», 22, 1987, nr. 65, pp. 549-578, e Id., Aspetti economici della crisi del patriziato veneziano tra fine Settecento e primo Ottocento, in Veneto e Lombardia tra rivoluzione giacobina ed età napoleonica. Economia, territorio, istituzioni, a cura di Giovanni Luigi Fontana-Antonio Lazzarini, Roma-Bari 1992, pp. 80-132.

26. Cf. Renzo De Felice, La vendita dei beni nazionali nella repubblica romana del 1798-99, Roma 1960; Renato Zangheri, La proprietà terriera e le origini del Risorgimento nel Bolognese, I, 1789-1804, Bologna 1961; Pasquale Villani, La vendita dei beni dello stato nel regno di Napoli (1806-1815), Milano 1964; Giovanni Zalin, L’economia veronese in età napoleonica. Forze di lavoro, dinamica fondiaria e attività agricolo-commerciali, Milano 1973; Paola Notario, La vendita dei beni nazionali in Piemonte nel periodo napoleonico (1800-1814), Milano 1980; Maurizio Bassetti, La vendita dei beni nazionali in Toscana nel periodo napoleonico: il dipartimento dell’Arno, e Francesco Mineccia, La vendita dei beni nazionali in Toscana (1808-1814): i dipartimenti dell’Ombrone e del Mediterraneo, ambedue in La Toscana nell’età rivoluzionaria e napoleonica, a cura di Ivan Tognarini, Napoli 1985, pp. 471-509 e 511-548.

27. M. Berengo, Gli ebrei veneziani alla fine del Settecento, p. 14.

28. Ibid., dove Berengo cita A.S.V., Governo, 1798, XXX.136, b. 271.

29. «Kol israel arevin ze le ze», cf. Talmud Babilonese, trattato di Sanhedrin, 27b.

30. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 503 «Miscellanea».

31. A. Sagredo, Notizie.

32. D. Calabi, Gli ebrei veneziani dopo l’apertura.

33. Ibid.

34. Enrico Fano, Della carità preventiva e dell’ordinamento delle società di mutuo soccorso in Italia, Milano 1868, p. 107.

35. Cf. Silvio Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925, Venezia 1979.

36. Cf. Bianca Nunes Vais, La comunità israelitica di Venezia durante il Risorgimento, «Rassegna Mensile di Israel», 27, 1961, nrr. 5-8, pp. 219-229, 272-282, 343-354.

37. S. Lanaro, Nazione e lavoro, p. 146.

38. I due avevano sposato fra il 1863 e il 1864 due sorelle, figlie di quell’Adele Levi Della Vida che fu fra le principali animatrici dell’educazione primaria in città, introducendo il metodo froebeliano dei giardini d’infanzia. Adele Levi Della Vida si trasferì in vecchiaia a Roma, seguendo il figlio Ernesto che era stato nominato vicedirettore della Banca d’Italia.

39. Cf. Marino Berengo, Luigi Luzzatti e la tradizione ebraica, in Luigi Luzzatti e il suo tempo. Atti del convegno, a cura di Pier Luigi Ballini-Paolo Pecorari, Venezia 1994, pp. 527-541, e il saggio di Paolo Pecorari in questo volume.

40. Cf. in partic. il saggio di Antonio Lazzarini sulla famiglia Sullam in questo volume.

41. La frequenza di allievi ebrei al ginnasio «S. Caterina» dovette essere precoce e piuttosto consistente se in un elenco dei premiati del 1841 su 29 nominativi 4 erano ebrei (Beniamino Fano, Fortunato Levi, Filosseno Luzzatto e Aron Pavia), di cui peraltro solo 2 erano veneziani, cf. Juventus caesareo-regii gymnasii ad divae Catharinae […], Venezia 1841.

42. Cf. Giuseppe Gullino, L’economia, in Venezia suddita 1798-1866, a cura di Michele Gottardi, Venezia 1999, p. 104 (pp. 97-105).

43. Moisè Ravà, Alcune considerazioni sulla Istruzione pubblica e privata e monografia del Convitto Internazionale Ravà, Venezia 1872, p. 59.

44. Ibid., p. 70.

45. Non furono pochi, in proporzione, gli ebrei veneziani eletti in Parlamento nell’Ottocento: Isacco Pesaro Maurogonato venne eletto nel collegio elettorale di Mirano già dal 1866, ma fu rieletto nel collegio Venezia I nella XV e XVI legislatura; Luigi Luzzatti fu sempre eletto fuori città, a Piove di Sacco, Oderzo, Treviso e Padova; Guido Castelnuovo fu eletto a Ceneda; Alberto Treves risultò eletto nel collegio di Venezia I nella XVII, XVIII e XIX legislatura.

46. Marco Besso, Autobiografia, Roma 1925, p. 8.

47. Cf. Gadi Luzzatto Voghera, Il prezzo dell’eguaglianza. Il dibattito sull’emancipazione degli ebrei in Italia 1781-1848, Milano 1998, pp. 167-185.

48. Il caso più significativo riguarda l’opera e il pensiero di Moisè Soave espressi nell’opuscolo anonimo L’israelitismo moderno, Venezia 1865, cf. M. Berengo, Luigi Luzzatti, pp. 532-534 e Gadi Luzzatto Voghera, Cenni storici per una ricostruzione del dibattito sulla riforma religiosa nell’Italia ebraica, «Rassegna Mensile di Israel», 60, 1993, pp. 47-70.

49. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 503 «Miscellanea», strida del 21 luglio 1831.

50. L. Sormani Moretti, La Provincia di Venezia, p. 599.

51. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 503 «Miscellanea».

52. Sul Sinedrio v. Simon Schwarzfuchs, Napoleon, the Jews and the Sanhedrin, London 1979 e G. Luzzatto Voghera, Il prezzo dell’eguaglianza, pp. 116-123.

53. Cf. Jacob Emanuele Cracovia, Sermone […] pronunciato [...] nella sinagoga ponentina il giorno [...] 13 giugno 1807, Venezia s.a. [ma 1807]; cf. anche Id., Discours à l’occasion de l’installation du Grand Sanhédrin, Paris 1807.

54. Id., Sermone, p. 37.

55. G. Luzzatto Voghera, Il prezzo dell’eguaglianza, pp. 167 ss.; per quanto riguarda Jacob Recanati (1758-1824), va segnalato come uno dei due rabbini italiani che si schierarono a favore delle idee riformate.

56. Cf. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 167 «Convitto rabbinico».

57. Cf. G. Luzzatto Voghera, Il prezzo dell’eguaglianza, pp. 133 ss.; Maddalena Del Bianco Cotrozzi, Il collegio rabbinico di Padova. Un’istituzione religiosa dell’ebraismo sulla via dell’emancipazione, Firenze 1995; Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 168 «Convitto rabbinico», fasc. «Professori pel Convitto Rabbinico in Padova».

58. La cremazione è una pratica vietata dall’ortodossia ebraica.

59. Perfino Elia Musatti, socialista di spicco e assai poco legato alle pratiche religiose, nel giustificare la mancata circoncisione del figlio Cesare (il futuro padre della psicanalisi italiana) adduceva ragioni mediche, riconosciute valide dal rabbino Moisè Coen Porto, cf. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 80 «Oggetti religiosi, macellazione ed azzime».

60. Macellazione rituale eseguita sotto il controllo dell’autorità rabbinica, che permetteva al venditore di carne di commercializzare il prodotto.

61. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 37a «Fraterna Mattutina».

62. Ibid.

63. Francesco Fontanella, Discorso alla nazione ebrea sopra la necessità di applicarsi alla coltura letteraria, Venezia 1807; cf. Gadi Luzzatto Voghera, Francesco Fontanella (1768-1827): un giansenista italiano di fronte all’emancipazione degli ebrei, «Bailamme», gennaio/giugno 1995, nr. 17, pp. 231-274.

64. F. Fontanella, Discorso, p. 29.

65. In partic. Fontanella faceva i nomi di Elia Levita, Karise Africano, Emanuele di Jekutiel da Benevento; e per i tempi più recenti dei dotti veneziani Simone Calimani e Jacob Cracovia.

66. Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 176 «Scuole morali».

67. Ibid.

68. Ivi, b. 178 «Scuole morali».

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