Globalizzazione

Dizionario di Storia (2010)

globalizzazione


Fenomeno di unificazione dei mercati a livello mondiale, consentito dalla diffusione delle trasformazioni economiche, dalle innovazioni tecnologiche e dai mutamenti geopolitici che hanno spinto verso modelli di produzione e di consumo più uniformi e convergenti. Coniato dalla rivista The Economist nel 1962, il termine g. si è diffuso solo a partire dalla metà degli anni Novanta del 20° secolo, e talvolta è inteso come sinonimo di liberalizzazione, per indicare la progressiva riduzione degli ostacoli alla libera circolazione delle merci e dei capitali su scala planetaria.

Origini e prime fasi della globalizzazione

La g. (o mondializzazione) è un processo storico di lunga durata, che iniziò con lo sviluppo degli imperi coloniali spagnolo e portoghese a partire dai secc. 15°-16°. Le esplorazioni geografiche e i regolari scambi commerciali, infatti, misero in contatto diretto l’Europa, l’Africa, l’Asia e l’America e da questi rapporti, principalmente di natura economica, si sviluppò una stabile interdipendenza, oltre che l’avvio di una divisione del lavoro a livello mondiale legata al sistema del . Tra la metà del 18° e la fine del 19° sec., l’espansione della capacità di produzione, trasporto e comunicazione avviata dalla Rivoluzione industriale contribuì all’affermarsi di intensi rapporti economici su scala mondiale. Verso la fine dell’Ottocento si delineò una politicizzazione della g., tipica dell’età dell’: le società rappresentate dagli Stati-nazione intendevano gestire politicamente gli effetti prodotti dalle reti dell’economia mondiale. Fra il 1870 e il 1914, si assisté alla prima fase della g. propriamente detta, caratterizzata da una imponente crescita dei flussi di capitali e dei flussi migratori, e dal raddoppio del commercio mondiale. Ne derivarono però anche gravi scontri tra le maggiori potenze, che preannunciarono un’epoca di crisi e di conflitti mondiali. Alla fine della Seconda guerra mondiale, la tendenza fu nuovamente invertita. Nelle intenzioni dei paesi vincitori, l’ordine politico definito in seno all’ONU doveva essere accompagnato da un nuovo ordine dell’economia mondiale. Già nella Conferenza di Bretton Woods del 1944 le potenze vincitrici si accordarono sul principio di fornire una cornice giuridico-istituzionale all’economia mondiale, al fine di impedire che i problemi economici venissero affrontati unilateralmente e di promuovere la cooperazione internazionale. Furono create a questo scopo istituzioni che ancora oggi caratterizzano la g. economica, dalla Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (➔ Banca mondiale) al Fondo monetario internazionale, al GATT. Dal 1960 (l’anno-simbolo della decolonizzazione) al 1980 ebbe luogo una seconda fase della g., in cui fu coinvolto un maggior numero di Paesi. Le esportazioni come percentuale del PIL crebbero non solo nei Paesi industrializzati, come all’inizio del secolo, ma anche in molti Paesi in via di sviluppo (PVS), sebbene con differenze notevoli: le economie di nuova industrializzazione dell’Asia (NIEs) aumentarono nettamente i propri legami con l’economia mondiale, e tale processo riguardò in una certa misura anche le economie del Secondo mondo, ossia del campo socialista, mentre l’Africa e l’America Latina furono coinvolte nel processo di integrazione principalmente attraverso la spirale crediti/debito estero. Intanto, all’inizio degli anni Settanta, la fine della convertibilità del dollaro decisa dagli USA segnò la fine del sistema di Bretton Woods, ma non certo dell’internazionalizzazione dell’economia; il sistema dei cambi flessibili, anzi, contribuì ad accentuarla.

La globalizzazione alla fine del 20° secolo

Nella terza fase della g., iniziata negli anni Ottanta e tuttora in corso, il rapporto fra flussi di esportazioni e importazioni e PIL è aumentato, arrivando a livelli mai raggiunti prima. Si è manifestata una radicale trasformazione della struttura del commercio: sono aumentati notevolmente sia il commercio intraindustriale fra Paesi con uno stesso livello di sviluppo sia gli scambi fra Paesi in fasi di sviluppo diverse, e soprattutto è avanzata la liberalizzazione degli scambi, fortemente sostenuta assieme alla deregulation dai teorici e dai politici protagonisti della stagione del neoliberismo. Il crollo del campo socialista ha consentito inoltre di reintegrare pienamente quelle economie e quei mercati nel mercato mondiale. Una serie di riforme economiche in Paesi emergenti come Cina e India ha indotto un forte aumento del prodotto mondiale, del commercio e dei flussi di investimenti diretti. A partire dai primi anni Novanta si è accelerata anche la g. finanziaria, come dimostra il rapido aumento simultaneo di attività e passività sull’estero di molti Paesi. Sono nel contempo aumentati gli investimenti diretti, che accentuano la divisione internazionale del lavoro e il dominio economico delle maggiori potenze. Hanno assunto particolare rilievo gli investimenti che riducono i costi di produzione, e molte imprese dei Paesi industriali hanno delocalizzato in Paesi a basso costo del lavoro le fasi produttive a minor valore aggiunto. D’altra parte, lo sviluppo delle economie emergenti è stato impressionante: nel 1974-2004 il reddito pro capite della Cina è aumentato di ben sei volte e quello dell’India è raddoppiato; in Cina il PIL è passato dal 3% di quello mondiale al 13%, le esportazioni dall’1% di quelle mondiali al 6% e gli investimenti diretti in entrata dal 2% al 10%.

Questioni aperte

La diffusione delle tecnologie ha avuto una forte accelerazione; il progresso tecnico, con i suoi effetti sui costi di trasporto e comunicazione, ha ridimensionato le barriere naturali agli scambi. In questo mercato «globale», le aziende multinazionali sono diventate il principale motore della globalizzazione. Tuttavia, mentre le restrizioni normative alla libera circolazione di merci e capitali si sono ridotte, i movimenti di lavoratori sono rimasti invece a un livello inferiore a quello dei primi anni del 20° sec., e hanno continuato a essere regolamentati da legislazioni restrittive. Inoltre le nuove tecnologie hanno facilitato il coordinamento di attività distanti tra loro e favorito la frammentazione dei processi produttivi e la delocalizzazione dei loro segmenti in Paesi diversi, il che ha finito per indebolire i lavoratori salariati. La corsa al ribasso nelle condizioni dei lavoratori e la crescente tendenza al predominio sull’economia mondiale da parte delle grandi multinazionali, sempre più autonome dai singoli Stati, la crescente influenza di queste imprese e delle istituzioni finanziarie internazionali sulle scelte dei governi hanno provocato un aggravarsi degli squilibri economici e sociali interni ai singoli Stati e nei rapporti tra Paesi e aree economiche. La g. è stata quindi accompagnata da un complessivo aumento delle disuguaglianze. Questi elementi, accanto all’emergere di «problemi globali», quali quelli legati all’ambiente, ai mutamenti climatici ecc., hanno fatto sì che la g. vedesse anche il sorgere dei suoi avversari e dei suoi critici, a partire da quel movimento no global che esordì a Seattle nel 1999 in occasione di un vertice della WTO. Secondo la critica dei no global, il libero scambio e le organizzazioni che lo regolano rappresentano una minaccia ai diritti sociali e al rispetto dell’ambiente. In particolare, il libero scambio rischia di non essere equo in quanto si realizza tra nazioni caratterizzate da livelli diversi di sviluppo e vede una (o un gruppo) di queste in posizione di enorme vantaggio rispetto alle altre. Anche economisti che hanno avuto un ruolo dirigente negli organismi sopranazionali, come J. Stiglitz, hanno manifestato critiche simili, mentre studiosi come M. Chossudovsky hanno parlato di «globalizzazione della povertà». Molti dei critici ritengono dunque necessario varare misure correttive in grado di garantire più che un libero commercio (free trade) un commercio equo (fair trade). In tal senso il movimento di critica alla g. è definito anche new global, in quanto si pone in larga parte non in modo ostile alla g. in quanto tale, ma alla g. presente, e muove dall’idea di adoperare i potenziali vantaggi derivati dall’integrazione economica mondiale per mutarne il segno e porla a disposizione degli interessi dell’umanità.

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