Globalizzazione

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

Globalizzazione

Henri Bartoli

sommario: 1. Introduzione. 2. La globalizzazione: un processo a più dimensioni. 3. Gli attori della globalizzazione: a) le imprese e i gruppi multinazionali, attori primari della globalizzazione; b) gli Stati. 4. La globalizzazione crea ordine o disordine?: a) rischi di collasso del sistema finanziario e ostacoli alla politica economica degli Stati; b) costi sociali e pericoli di regresso sociale; c) i problemi posti da una civiltà e una cultura mondiali. 5. Globalizzazione, governo e governabilità: a) governo e governabilità a livello globale; b) governo e governabilità a livello locale. □ Bibliografia.

1. Introduzione

‛Globale' è ciò che è connesso, compatto, ciò che va ‛preso in blocco'. In topologia una proprietà di uno spazio S è ‛locale' se, per ogni punto x di tale spazio, esiste un intorno di x in cui essa è ‛vera'; è invece ‛globale' se è vera nell'intero spazio S. ‛Locale' e ‛globale' possono essere equivalenti: ogni punto di un ologramma (nel senso di D. Gabor) è memorizzato dall'intera immagine fisica, e a sua volta contiene la totalità delle informazioni che essa rappresenta; quindi, pur essendo locale, informa in modo globale sull'oggetto registrato. Si ‛totalizza' ciò che è costituito da elementi omogenei aggregati mediante un calcolo; si ‛globalizza' ciò che tende a divenire un insieme retto da regole operazionali, così che il ‛tutto' organizzato sia più ricco della semplice somma o giustapposizione delle parti. Dal ‛globale' si passa quindi agevolmente al ‛sistemico', ossia a una concatenazione complessa e finalizzata di azioni interdipendenti, vista nella sua unità, nella sua coerenza o nella sua progettualità.

Dire che oggi il mondo si va globalizzando significa constatare che a un mondo strutturato come un campo di forze, in cui Stati sovrani mossi da una logica geopolitica si affrontano e si adattano gli uni agli altri, tende a sostituirsi un mondo organizzato come una rete gerarchizzata, definito da centri e da periferie i cui spazi hanno perso la rigidità delle divisioni statali. Questo mondo, definito da K. Ohmae (v., 1990) ‟senza confini", non è ancora globale ma lo sta diventando, mosso com'è da molteplici processi evolutivi che contemporaneamente diffondono eventi, provocano mutamenti nelle parti, le strutturano e le coordinano: nella complessa dialettica di tutti questi processi è possibile scorgere il tutto nell'atto di organizzare le parti.

Alcuni, bruciando le tappe, parlano già dell'emergere di una comunità internazionale, comprendente le relazioni tra gli Stati, l'economia, gli scambi tra le società civili e anche le istituzioni internazionali. Altri, per i quali l'economia mondiale è al tempo stesso locale, regionale, nazionale e internazionale o multinazionale, la vedono evolversi in un sistema in cui si delineano vari sottoinsiemi strutturati, diversi per dimensioni e per potenza, legati da relazioni asimmetriche e soggetti a retroazioni non in grado di produrre in modo sicuro e rapido equilibri sia pure approssimativi. Altri ancora, dimenticando ogni cautela, vanno elaborando una concezione tecnoglobalistica, secondo cui tutte le attività umane sono soggette, come quelle biologiche, alla legge dell'autoorganizzazione, o annunciano l'ingresso dell'umanità nell'era del ‟villaggio planetario" (McLuhan), oppure, mescolando neopaganesimo (il ‟reincantamento del mondo") e un teilhardismo male inteso (l'‟incarnazione" a livello della Terra), sacrificano al mito di Gaia, il pianeta ‛vivente' che bisogna salvare proteggendo l'ambiente (J. Lovelock) e di cui occorre preservare il senso vegliando sulla sua autoorganizzazione evolutiva (L. Margulis).

Più realisticamente, bisogna riconoscere che si vanno moltiplicando i segni della nascita di una formazione mondiale che tende a gestire le chiusure e le aperture delle entità nazionali in un sistema di interazioni generalizzate. Elementi costitutivi di tale formazione sono sempre le economie nazionali e regionali, che però ormai interagiscono secondo rapporti diversi dai tradizionali rapporti di scambio fra territori nazionali. La struttura reticolare di questa formazione riflette la partecipazione di paesi di vari continenti alla produzione, agli investimenti e al commercio, attraverso imprese intermediarie, spesso multinazionali o transnazionali; il compenetrarsi dei mercati è tanto più rapido quanto più i flussi di beni e di servizi che li collegano vanno perdendo di materialità. Le aree d'influenza e di egemonia delle grandi potenze continuano a oltrepassare le frontiere nazionali, ma ciò avviene anche per i grandi gruppi economici e finanziari, le cui politiche e le cui strategie non sempre coincidono con quelle degli Stati.

Marx affermò che la tendenza a creare un mercato mondiale è ‟inerente al concetto stesso di capitalismo": questo infatti tende a ‟superare le barriere e i pregiudizi nazionali", a ‟distruggere" i confini di un ‟soddisfacimento limitato" e a ‟infrangere" tutto ciò che vincola le forze produttive. Il suo ‟grande influsso civilizzatore" è tale da ‟innalzare la società a un livello rispetto al quale tutti gli stadi precedenti appaiono come evoluzioni locali dell'umanità e come idolatrie della natura". Fra tutti i sistemi economici e sociali, il capitalismo è l'unico dotato di una logica della riproduzione e della crescita che lo spinge a svilupparsi su scala mondiale. Come osservò giustamente Raymond Aron (v., 1984) all'epoca della guerra fredda, solo il capitalismo può definirsi ‛mondiale', mosso com'è da una logica implacabile che lo porta a invadere e a trasformare tutte le sfere dell'economia e della società, tutte le regioni del globo, e a ‛mercificare' ogni cosa.

In precedenza l'internazionalizzazione dell'economia e della società comportava la partecipazione di operatori economici nazionali che conservavano intatta la propria autonomia; nella multinazionalizzazione, alcuni operatori economici di un paese esercitavano un influsso o addirittura un controllo su attori economici e sociali di un altro paese, contribuendo a orientarne il futuro. La mondializzazione oggi in atto - detta anche, secondo l'uso anglosassone, ‛globalizzazione' - ha un carattere diverso: essa si basa su una complessa rete di interconnessioni che uniscono gli Stati e le società, in modo tale che gli eventi, le decisioni e le attività che hanno luogo in un punto del globo sortiscono effetti su individui e collettività anche lontanissimi. Si tratta di un fenomeno di estensione e d'intensità ancora molto disuguali, con conseguenze largamente differenziate e imprevedibili: la mondializzazione globalizza l'economia-mondo trasformandola in un vero e proprio ‛sistema' in cui il gioco della competizione oligopolistica oltrepassa le frontiere e perturba le aree di coesione e d'integrazione nazionali, giacché ‟dietro il teatrino dei meccanismi del mercato, a governare quest'ultimo sono in realtà le imprese" (C. A. Michalet).

Negli anni cinquanta Gunnar Myrdal (v., 1956) era preoccupato per gli enormi problemi che si ponevano alla comunità mondiale e per le scarse possibilità d'azione di cui ‟le nostre deboli organizzazioni internazionali" disponevano per risolverli. Da allora senza dubbio sono stati compiuti dei progressi sulla strada dello sviluppo umano; tuttavia gli ‛enormi' problemi ‛globalizzati' attuali - la disoccupazione, la povertà, l'ambiente, l'AIDS, il culto del dio denaro, la guerra economica - richiedono più che mai di essere trattati su scala planetaria.

Nel 1976 il Club di Roma richiamava a una ‛pianificazione' internazionale nel quadro delle Nazioni Unite ristrutturate; da allora si sono moltiplicati gli studi e i rapporti sull'ingovernabilità del mondo attuale e sull'urgenza di una politica di ‛sicurezza umana' a livello mondiale. La capacità da parte del governo di un paese di condurre una politica autonoma è divenuta uno dei temi centrali di riflessione della Banca Mondiale, e l'Istituto di Studi Strategici di Londra s'interroga sulla crisi di tale capacità. La globalizzazione impone di prendere in considerazione il ‛governo' e la governabilità a livello mondiale e contemporaneamente a livello locale (v. cap. 5), essendo i due livelli indissociabili tra loro. Si pone così il problema della riforma delle organizzazioni internazionali, del coordinamento delle loro attività e della loro armonizzazione con le politiche nazionali. Occorre elaborare un diritto internazionale ispirato al principio d'ingerenza, anziché al rigido rispetto delle sovranità statali, che però non possa servire come pretesto per manovre imperialistiche o come strumento di interessi particolari. Ciò presuppone una presa di coscienza generale dei valori propri della comunità umana, come pure un livello di solidarietà e una disciplina collettiva che sono ancora lontani dall'essere raggiunti.

2. La globalizzazione: un processo a più dimensioni

Ciò che è internazionale, e a maggior ragione ciò che è mondiale, è sempre a più dimensioni. I fattori d'integrazione di cui è intessuto il sistema mondiale sono molteplici: crescente ‛estroversione' delle economie nazionali, enorme aumento dei flussi di scambio di beni e servizi, investimenti diretti all'estero, diffusione delle nuove tecnologie, migrazioni e ‛delocalizzazioni', nascita di città globali, nuova configurazione dei mercati finanziari all'insegna dell'arbitraggio generalizzato, diffusione a livello mondiale di una ‛cultura dei consumi'.

Basta costruire un grafo dei flussi netti dei pagamenti tra i principali attori del commercio mondiale per constatare che si tratta di una struttura con ruoli differenziati ma complementari: l'insieme dei flussi netti presenta l'aspetto di un sistema ad anelli, anziché di una somma di economie nazionali. Tra il 1950 e il 1995, a fronte di una crescita della produzione mondiale di 5,5 volte, il commercio mondiale è aumentato di 14 volte. In nessuna parte del globo è diminuito il rapporto tra le esportazioni e il Prodotto Interno Lordo (PIL). Tra i mercati di approvvigionamento e quelli di sbocco si crea una certa dissociazione, mentre ciascuna economia nazionale diventa sempre più dipendente dall'estero; aumentano sia la quota degli scambi incrociati (commercio intra-settoriale), sia quella degli scambi di beni intermedi (commercio intra-aziendale), a causa della segmentazione internazionale dei processi produttivi. Le esportazioni sembrano essere il vero motore della crescita economica.

Ancor più che dagli scambi, la globalizzazione riceve impulso dagli investimenti diretti all'estero, grazie ai flussi di attrezzature, di prodotti e di profitti che essi generano, ai notevoli adattamenti che richiedono e ai mutamenti duraturi che introducono quasi ovunque. I flussi medi annui di questi investimenti sono passati da 21 miliardi di dollari nel 1970 a 126 miliardi nel 1992; i flussi annui cumulati sono passati da 220 miliardi di dollari nel quinquennio 1981-1985 a 650 miliardi in quello successivo. Gli investimenti diretti all'estero continuano a riguardare per la maggior parte i paesi industrializzati: si intensificano i flussi dal Giappone e dall'Europa verso gli Stati Uniti, dal Giappone verso l'Europa, dagli Stati Uniti verso l'America Latina e soprattutto tra i paesi dell'Unione Europea. I flussi verso i paesi in via di sviluppo si sono quadruplicati tra il 1980 e il 1993, a beneficio soprattutto della Cina (circa il 26% del totale), seguita dal Sudest asiatico e dall'America Latina. Ristagnano invece gli investimenti verso i paesi a basso reddito, in particolare verso l'Africa subsahariana. Poiché i servizi sono per loro natura difficili da esportare, la loro internazionalizzazione si traduce in notevoli flussi di investimenti diretti all'estero: la quota relativa ai servizi supera ormai il 50%, contro il 25% circa dei primi anni settanta. Ciò si avverte particolarmente nei grandi paesi membri dell'OCSE: la quota spettante alle banche, alle assicurazioni e ai servizi finanziari supera il 44% in Italia, il 26% negli Stati Uniti e in Francia, il 20% in Giappone e in Germania.

Le nuove tecnologie, riducendo le distanze e i costi, agiscono come condizioni che permettono la globalizzazione e come fattori che la intensificano. Le telecomunicazioni e le tecnologie connesse sono al centro del mercato mondiale: esse trattano e diffondono in tutto il mondo, continuamente e quasi istantaneamente, enormi quantità di informazioni. Le attività economiche e sociali dipendono sempre più dai sistemi multimediali e dalle autostrade informatiche, di cui Internet è il prototipo; le grandi imprese industriali e commerciali e gli istituti bancari e finanziari dispongono di reti mondiali private di telecomunicazioni. La telematica consente il ricorso alla subfornitura a distanza, la delocalizzazione delle attività di routine, la segmentazione dei processi produttivi, la riduzione delle scorte e dei fondi di cassa, l'estensione del franchising; inoltre, essa accresce la capacità delle imprese di reagire alle mutevoli condizioni del mercato e al tempo stesso favorisce potentemente l'adozione di una struttura di gruppo da parte delle imprese multinazionali.

Anche la globalizzazione delle tecnologie è molto avanzata. Le conoscenze più astratte sono state tradotte in concreti processi produttivi; si è quindi notevolmente rafforzato il nesso fra le tecnologie finalizzate alla competitività, fra la ricerca di base e la ricerca applicata, e pertanto i laboratori e i centri di sperimentazione dei gruppi industriali hanno assunto un ruolo strategico. Le attività di ricerca e sviluppo accrescono la capacità di innovazione delle imprese e al tempo stesso la loro capacità di assimilare le conoscenze prodotte all'esterno, mettendole in grado di sfruttare meglio le possibilità offerte dal progresso tecnico e rendendole più competitive. Dopo una fase in cui le imprese e i gruppi conducevano la ricerca nel paese d'origine o in quelli vicini, demandando a laboratori periferici ausiliari il solo compito di adattare i procedimenti e i prodotti alle caratteristiche locali, si tende oggi a un certo decentramento: i gruppi affidano l'intera ricerca riguardante un prodotto o una linea di prodotti a laboratori situati presso alcune delle loro filiali, in considerazione dei vantaggi che queste presentano, compiendo tale scelta in funzione di una divisione internazionale della ricerca.

La globalizzazione del lavoro procede rapidamente: si stima che nel 2000 la quota di lavoratori non ancora integrati nell'economia-mondo sarà inferiore al 10%. Sebbene importanti, le migrazioni internazionali sono soltanto una delle sue cause; esse non hanno ancora raggiunto una dimensione mondiale: dai paesi in via di sviluppo partono ogni anno, legalmente o no, da 2 a 3 milioni di nuovi emigranti (più o meno l'1% della popolazione), circa la metà dei quali è diretta verso i paesi industrializzati - dove oggi, come nel 1970, rappresentano circa il 5% dei residenti. Le migrazioni tra i paesi industrializzati sono diminuite; i flussi migratori verso gli Stati Uniti e la Germania, dopo un periodo di ristagno, hanno avuto una ripresa sul finire degli anni ottanta. Nuovi flussi sono apparsi in Europa, provenienti dalle regioni centrali e orientali del continente, e in Asia, in direzione del Giappone e di Taiwan. I tradizionali paesi di emigrazione dell'Europa meridionale (Spagna, Grecia, Italia) sono diventati paesi di immigrazione. Si sono rallentati i flussi migratori verso il Golfo Persico; in Africa gli emigranti si dirigono prevalentemente verso altri paesi africani. In Europa, per effetto dei numerosi arrivi dalle ex colonie, è calata la percentuale degli immigrati di origine europea: nella popolazione dei paesi industrializzati la quota di stranieri si aggira intorno a un valore medio del 5% (Canada 15,6; Stati Uniti 7,9; Germania 8,5; Francia 6,3; Italia 1,7; Giappone 1,1).

Come vedremo esaminando i rischi della globalizzazione (v. cap. 4), la mondializzazione del lavoro si attua, più che con le migrazioni, con il flusso degli scambi: un contributo notevole è dato dagli investimenti diretti all'estero e dalle delocalizzazioni. Nel delocalizzare la produzione, le imprese multinazionali utilizzano gli stessi sistemi tecnici e organizzativi usati nei paesi d'origine: risulta così profondamente trasformata la vecchia organizzazione del lavoro nei nuovi paesi industriali, che adottano i metodi dei paesi già da tempo industrializzati, salvo apportarvi delle innovazioni. Durante la lunga crisi organizzativa degli anni settanta e ottanta, riguardante tutto il complesso delle funzioni e dei livelli gerarchici dell'impresa, la ricerca di una forma di organizzazione più flessibile e partecipativa si è richiamata ad alcune esperienze nazionali (modello scandinavo, californiano, giapponese).

Con la globalizzazione urbana nasce una nuova centralità, basata non più sulle nazioni o sulle regioni, ma su città integrate nell'economia-mondo e divenute ‛globali'. Possono considerarsi tali le città in cui gli operatori economici trovano le risorse necessarie per svolgere la propria attività su scala mondiale (‛emittenti universali'), o quelle a cui hanno libero accesso gli operatori di ogni paese (‛riceventi universali'). Queste città, vere postazioni di comando e di controllo, rispondono all'esigenza di centralizzazione e di unità sorta dalla dispersione delle attività delle imprese transnazionali e dall'adozione, da parte loro, di strutture reticolari.

Il fenomeno è particolarmente evidente nella sfera finanziaria. Man mano che essa si globalizza, si formano dei centri che offrono alle imprese i capitali da investire e le valute ai tassi più favorevoli; questa tendenza è accentuata dalle esigenze di copertura dei deficit pubblici. I tre centri dominanti sono Londra, New York e Tokyo, seguiti da Francoforte e Parigi.

Inseparabile dall'ingegneria finanziaria è la fornitura di servizi alle imprese; perciò sia le grandi società che si occupano di tecnologie dell'informazione e della comunicazione, sia le grandi società legali e di consulenza, si sono insediate nelle città globali. New York è un'emittente universale di servizi giuridici, in quanto ospita le più importanti società specializzate in questo campo; Londra è al tempo stesso emittente e ricevente, grazie anche alle sue reti mondiali di banche e di società di assicurazione; Tokyo è scarsamente ricevente e non emittente; Parigi è una ricevente universale (nel settore della consulenza legale le grandi società francesi sono poco numerose e in diretta concorrenza con quelle anglo-americane).

La globalizzazione finanziaria costituisce senza dubbio la punta avanzata del fenomeno che stiamo esaminando: l'espansione dei flussi finanziari internazionali ha assunto infatti dimensioni che non hanno riscontro nella mondializzazione delle attività produttive. Negli anni ottanta il volume delle transazioni sui mercati dei cambi è aumentato di 10 volte, e solo il 3% di esse ha riguardato scambi di merci; tra il 1982 e il 1992 il volume delle operazioni internazionali su azioni e obbligazioni è passato dall'11,8 al 109,3% del PIL negli Stati Uniti, dal 12,5 al 90,8% in Germania e dall'1 al 118,4% in Italia.

Per fronteggiare l'instabilità dei tassi di cambio e di interesse sono stati ideati nuovi ‛prodotti' finanziari, tutti rispondenti a una logica di controllo dei rischi. Questi prodotti, sempre più complessi, hanno rapporti sempre meno stretti con gli attivi cui si riferiscono e possono dare origine a transazioni a catena in cui uno stesso credito viene negoziato prima come credito principale e poi come suo ‛derivato'; più il derivato è complesso, più sono elevate le spese, e con esse gli utili dell'istituto finanziario che lo ha creato. La globalizzazione finanziaria è ulteriormente intensificata da queste innovazioni perché i paesi economicamente più importanti, lungi dal contrastare lo scatenarsi dell'inventiva in questo campo, la incoraggiano per mantenere competitivo il proprio sistema finanziario di fronte al crescente intervento delle banche e degli istituti finanziari esteri sui mercati nazionali.

La globalizzazione è favorita anche dalla disintermediazione dovuta allo sviluppo della finanza diretta da impresa a impresa e alla ‛titolizzazione' (la sostituzione di attivi poco o niente affatto negoziabili con titoli finanziari facilmente trattabili sui mercati secondari). Le grandi imprese - in competizione con lo Stato, costretto a emettere buoni del Tesoro e obbligazioni per coprire il disavanzo pubblico - soddisfano le proprie esigenze di finanziamento al di fuori delle istituzioni e dei circuiti tradizionali, collocando direttamente titoli con formule variabili in modo praticamente illimitato. Le banche rispondono diversificando le proprie attività in direzione delle operazioni ‛fuori bilancio', ossia verso attività di mercato (tesoreria, prodotti derivati, gestione di attivi, ecc.) anziché di finanziamento, dando così origine alla ‛banca di servizi', contrapposta alla ‛banca industriale'.

La globalizzazione ha ricevuto impulso anche dalla comparsa degli euromercati, enormi mercati sovranazionali nati dalle operazioni di dare e avere su conti in dollari gestiti fuori degli Stati Uniti, luogo della loro emissione; gli euromercati sono fonte di una notevole integrazione internazionale riguardante sia la finanza indiretta, in quanto sono aperti all'intermediazione bancaria internazionale, sia quella diretta, in quanto sono luoghi di emissione di eurotitoli (eurobbligazioni, euronotes). È nato così un nuovo spazio finanziario, che ignora o quasi le frontiere statali; e anche un nuovo tempo, giacché le tecnologie odierne consentono l'interconnessione in tempo reale dei mercati, la cui distribuzione geografica su tutti i fusi orari consente il funzionamento continuo del sistema su tutto l'arco delle 24 ore. Numerosi collegamenti uniscono su scala nazionale e mondiale banche, investitori istituzionali (fondi pensione, fondi d'investimento), imprese industriali e commerciali: tutti vendono e comprano valute, prodotti derivati, titoli, e tutti operano sui mercati dei cambi e su quelli dei capitali. Mutuatari e investitori hanno accesso a un'infinità di prodotti finanziari, offerti su tutte le piazze del mondo, mentre il successo della finanza diretta implica una rinnovata specializzazione degli operatori a beneficio di attori che intervengono su mercati aventi una funzione espressamente speculativa (mercato a termine di contratti finanziari, mercato secondario di euronotes, mercato interbancario). È nato un mondo ‛virtuale' in cui i fenomeni monetari e finanziari vanno visti in primo luogo a livello globale e solo in seguito a livello locale; è il mondo del denaro, un mondo di concorrenza e di speculazione in cui tutto è arbitraggio e in cui al ‛reale' subentra il ‛nozionale'.

La globalizzazione oggi in atto è un processo a più dimensioni e dai molteplici aspetti, portatore di una civiltà e di una cultura mondiali: 1) di una civiltà, ossia di un modo di vivere, in quanto - nonostante le gravi carenze residue - favorisce la diffusione di un benessere elementare, non più riservato a una piccola parte dell'umanità, ma conseguito o atteso da masse di uomini in tutti i continenti; 2) di una cultura, ossia di ragioni di vita, in quanto consente a popoli per lungo tempo sfruttati e oppressi di accedere a un sapere di base e a valori di dignità e di autonomia da cui finora erano rimasti esclusi. Questa civiltà e questa cultura, derivanti entrambe dallo sviluppo tecnologico, unificano l'umanità sia in astratto, esprimendo una specie di unità di diritto, sia in concreto, facendo da tramite alla diffusione del progresso. Non mancano, peraltro, le contropartite (v. cap. 4).

3. Gli attori della globalizzazione

Di fronte alla globalizzazione i politologi tendono a definire le relazioni internazionali come flussi di vario genere e di varia origine che attraversano le frontiere. Vi è in ciò una parte di verità, perché ormai l'economia si sottrae sotto molti aspetti alla politica; ma vi è anche una certa esagerazione, perché il potere su base territoriale sopravvive e l'economia-mondo, anche se è dominata dalle imprese e dai gruppi multinazionali, si presenta come un tessuto gerarchizzato di reti in cui gli scambi che generano la globalizzazione sono in ogni campo il risultato del gioco combinato degli interventi e delle strategie non solo delle imprese e dei gruppi, ma anche degli Stati.

a) Le imprese e i gruppi multinazionali, attori primari della globalizzazione

Non sono le nazioni a essere in competizione, ma le imprese, le quali, a cominciare dagli anni cinquanta e sessanta, hanno intuito che l'economia mondiale si andava evolvendo verso una maggiore apertura dei mercati. La crisi degli anni settanta e ottanta, sopraggiunta mentre la capacità di produzione cresceva per effetto delle nuove tecnologie, ha accentuato fortemente questa tendenza. Le imprese non cercano di dominare il mondo, ma di trarne profitto, e ciò le porta a ridisegnarne la mappa.

La globalizzazione nasce anzitutto dalle decisioni delle imprese e dei gruppi che si sforzano di cogliere le occasioni per accumulare e valorizzare i propri capitali, in una dinamica dell'internazionalizzazione che ha come meta l'impresa ‛globale', capace di produrre e di vendere in tutto il mondo. Quale che sia la loro forma (global companies, cosmos sociétés), le multinazionali operano in uno spazio che non è senza frontiere, ma che tende a ridurne l'importanza.

F. Chesnais (v., 1994) chiama ‟oligopolio mondiale" lo ‟spazio di competizione" delimitato dai rapporti d'interdipendenza esistenti nella ristretta schiera di imprese che riescono ad acquistare e a conservare una posizione di effettiva concorrenza su scala mondiale in un settore industriale (o in un complesso di tali settori) disponendo di una tecnologia generica comune. Poiché ogni impresa conosce le sue rivali, la lotta tra di esse è spietata. Le strategie usate per condurre questa lotta sono molteplici: talvolta le imprese si avvalgono di un aumento di concentrazione e di potere sul mercato, oppure aggirano i costi di transazione e i costi-opportunità mediante integrazioni a valle e a monte; in altri casi cercano di ampliare l'area di controllo del processo produttivo o della gamma di prodotti, o addirittura di assicurarsi i vantaggi legati al possesso di attivi immateriali o di beni comuni. Le imprese globali tendono a realizzare volumi di vendite molto grandi, e quindi i loro prodotti sono concepiti e realizzati in vista di una clientela universale; tuttavia la tensione tra ‛globale' e ‛locale' è così forte che in molti casi le imprese devono tener conto delle peculiarità culturali che ostacolano la formazione di uno spazio isotropo e associare alla globalizzazione la localizzazione (‛glocalizzazione'), differenziando le loro attività secondo i paesi o le ‛regioni' (insiemi di paesi). Un'altra strada è quella della delocalizzazione, per cui le imprese si insediano in paesi che presentano caratteristiche vantaggiose - come infrastrutture adatte, manodopera abbondante e a buon mercato o particolarmente qualificata, legislazione sociale e fiscale favorevole, sindacati deboli, mercato destinato a espandersi o di facile penetrazione, ecc. Le imprese giapponesi utilizzano spesso le capacità intellettuali locali, installando all'estero laboratori di ricerca e sviluppo o partecipando a programmi di ricerca.

Per lungo tempo l'internazionalizzazione degli scambi commerciali ha preceduto quella della produzione, perché le imprese preferivano accrescere la produzione per esportarla anziché impiantare nuovi stabilimenti su un'area geografica più estesa. Oggi la globalizzazione esige una strategia diversa, in cui sono associati il lancio dei prodotti sui grandi mercati, la costituzione di una fitta rete di partners e di subfornitori con stabilimenti in loco e una gestione su scala mondiale capace di conciliare le esigenze di qualità, flessibilità e accettabilità politica. È questo il prezzo che le imprese globali devono pagare per garantirsi la sopravvivenza e la crescita, in una situazione in cui lo sviluppo tecnologico richiede un'attenta ‛vigilanza' e fa aumentare i costi di ricerca, la vita dei prodotti si abbrevia, le economie di scala si possono ottenere solo con quote di mercato abbastanza grandi e l'informazione ha assunto un ruolo fondamentale.

La globalizzazione accelera il passaggio dalle vecchie forme organizzative, fondate sulla centralizzazione (concorrenza attraverso i costi, economie di scala, marketing di massa) o sul decentramento (diversificazione in base alla qualità, marketing segmentato), a forme moderne fondate sulle reti (partnerships esterne e internalizzate, diversificazione mediante la divisione dei valori, marketing adattativo). L'impresa allora non è più una ‛grande' impresa (o un insieme di imprese più piccole), ma una rete di imprese in cui il centro fornisce la visione strategica e coordina i vari elementi, spesso dotati di un'autonomia sufficiente per stabilire accordi vantaggiosi con altre reti. Non vi è una separazione netta fra l'interno e l'esterno dell'impresa: variano solo le distanze tra le unità componenti e il centro, per lo più finanziario, che governa il complesso.

Grazie alla sua struttura, costituita da una rete di unità complementari o sostituibili, con un'integrazione internazionale permanente dovuta agli scambi intra-aziendali di beni intermedi, l'impresa globale è in grado di attuare una strategia realmente planetaria. La sua forza sta nella capacità di organizzare operazioni complesse, che richiedono una combinazione di varie attività alle quali collaborano imprese industriali, società d'ingegneria, organismi di ricerca, banche e istituti finanziari, società commerciali, aventi tutti status e regime giuridico differenti; il coordinamento e l'integrazione su scala mondiale delle attività strategiche avvengono nell'ambito stesso dell'organizzazione. Gli alleati strategici vengono scelti in quanto arrecano vantaggi comparati, complementari o compatibili, perché non c'è motivo di temere che si trasformino in concorrenti o perché si vuole evitare che si associno con imprese rivali.

Un settore industriale è ‛nazionale' quando riunisce un gruppo di imprese interessate essenzialmente al mercato interno; è ‛internazionale' quando implica una pluralità di imprese interconnesse e quando i gruppi rivali si affrontano su una base veramente mondiale; è ‛globalizzato' quando la posizione di un'impresa in un paese è influenzata in misura significativa dalla sua posizione in altri paesi e l'interdipendenza tra gruppi rivali è tale che essi sanno di essere in uno stato di reciproca dipendenza di mercato, e quindi di conflitto e al tempo stesso di collaborazione. Nei settori industriali che hanno raggiunto questo stadio intervengono accordi tra imprese, talvolta dopo un periodo di ostilità, talvolta come premessa a una fusione o a un assorbimento. Molti di questi accordi riguardano le tecnologie e comprendono cessioni di licenze, conduzione in comune di ricerche, ripartizione di rischi, definizione di norme che consentano la concorrenza su prodotti specifici; le imprese non partecipanti all'accordo sono tenute all'oscuro delle nuove conoscenze acquisite.

Lo sviluppo della globalizzazione non è uniforme: il suo influsso diretto e indiretto è meno sensibile nell'agricoltura, nell'artigianato e anche in alcuni settori industriali. Nelle industrie meccaniche e in quelle ad alta tecnologia la globalizzazione presuppone la capacità di portare la concorrenza in campo avversario, di andare là dove la domanda è forte e il mercato è promettente; per competere efficacemente è necessario essere un global insider, superare le barriere che proteggono gli oligopoli nazionali compiendo investimenti diretti all'estero; ciò provoca, per reazione, dei movimenti di capitali in senso inverso, e quindi un gioco di investimenti incrociati. Invece, nelle industrie che producono beni di largo consumo le imprese con struttura reticolare si espandono mediante subappalti a imprese locali, senza bisogno di investimenti diretti importanti; spesso si assume il controllo di una rete di distribuzione per poter disporre di mercati vincolati e per evitare prelievi sui profitti realizzabili.

Un esempio di industria globalizzata è rappresentato dal settore delle telecomunicazioni. In esso le decisioni riguardanti la standardizzazione delle tecnologie vengono spesso elaborate nel quadro di riunioni informali; le imprese che non vi partecipano, o che addirittura ne ignorano l'esistenza, non hanno quasi nessuna possibilità d'influenzare il contenuto delle applicazioni; i fornitori sono esclusi dal processo. Si tratta quindi di veri e propri sbarramenti e di una scelta di traiettorie tecnologiche a beneficio di un ristretto numero di partecipanti. Nel 1994 erano presenti sul mercato mondiale delle telecomunicazioni solo otto gruppi, quattro dei quali coprivano il 70% delle vendite.

Un altro esempio di industria globalizzata è il comparto tessile e dell'abbigliamento, in cui i cambiamenti intervenuti nella domanda e nelle tecnologie e il sufficiente livello di qualificazione e di affidabilità raggiunto dai produttori dei paesi in via di sviluppo hanno portato a delocalizzazioni su vasta scala, realizzate dapprima con investimenti diretti, trasferimenti di tecnologie e accordi di cooperazione, poi col ricorso alla subfornitura. Nelle imprese a struttura reticolare il centro nevralgico è collegato per via informatica da un lato a una rete di produzione decentrata, formata spesso da parecchie centinaia di subfornitori, e dall'altro a una rete di vendita al minuto che conta talvolta alcune migliaia di negozi affiliati; entrambe le reti si estendono su un gran numero di paesi.

b) Gli Stati

Il mondo è costituito dal complesso delle società umane con le loro aree culturali, le loro religioni e ideologie, le loro attività e i loro mercati, ma anche dalle divisioni territoriali, marcate dai confini che delimitano i vari Stati costituendone le linee di contatto con quelli adiacenti: essi rappresentano, è stato detto, ‟l'unica norma di carattere universale" (v. Foucher, 1988). La Carta delle Nazioni Unite vede nella sovranità nazionale che si esercita entro i confini dei singoli Stati la base delle relazioni internazionali; popoli e governanti continuano a considerare fondata su di essa l'organizzazione del mondo. La perdita d'importanza delle frontiere, condizione necessaria per la globalizzazione, dipende anche - per quanto ciò possa apparire paradossale - dagli stessi Stati sovrani, tramite la liberalizzazione e la deregolamentazione, subito sfruttate dalle imprese, dei movimenti di beni, servizi, capitali e manodopera.

La grande depressione degli anni trenta portò a un protezionismo così spinto da far parlare di ‛neomercantilismo'; all'indomani della seconda guerra mondiale prevalse invece l'idea che si dovesse metter fine al protezionismo e aprire i mercati nazionali, nella convinzione che solo la concorrenza fra attori in grado di utilizzare nel modo migliore i vantaggi comparati avrebbe potuto assicurare il progresso e l'ordine internazionale. Questo principio trovò applicazione nell'Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT, General Agreement on Tariffs and Trade) stipulato all'Avana nel 1948, inteso a ottenere una liberalizzazione generale degli scambi mediante sessioni di negoziati multilaterali fondati sul criterio della reciprocità: l'attenuazione delle barriere sarebbe quindi risultata da mutue concessioni degli Stati. Le sessioni finora svoltesi hanno permesso una notevole riduzione dei dazi doganali, il cui livello medio è sceso nei paesi industrializzati dal 40% del 1948 al 5% del 1993.

Verso la metà degli anni settanta hanno cominciato tuttavia a manifestarsi delle tendenze neoprotezionistiche, sotto forma di provvedimenti non tariffari. Alcuni di questi (limitazioni ‛volontarie' delle esportazioni, sistemi di distribuzione che si oppongono alla penetrazione di prodotti stranieri, ostacoli alla partecipazione di imprese straniere al capitale di imprese nazionali, come pure alla fusione tra imprese straniere e imprese nazionali) non si attengono alla normativa fissata dal GATT; altri, pur essendo in teoria compatibili con essa, la applicano in realtà in modo improprio (dazi compensativi e anti-dumping contro gli attacchi giudicati ‛sleali' dei concorrenti, regolamentazioni tecniche e sanitarie, prescrizione di un contenuto minimo di produzione locale nel prodotto finale); altri infine attuano politiche industriali intese a sostenere alcuni settori (settori in declino o, al contrario, settori di punta ad alta tecnologia). Tutti questi provvedimenti tendono a essere bilaterali: ciò spiega perché ci siano voluti sette anni di negoziati, segnati da parecchi fallimenti, prima che nel 1993 l'ottava sessione del GATT, l'Uruguay Round, si concludesse positivamente. Gli obiettivi da raggiungere erano: colmare le lacune delle sessioni precedenti includendo nell'Accordo alcuni settori tradizionalmente esclusi (prodotti agricoli, prodotti tessili), stabilire nuovi diritti e obblighi in campi non ancora sottoposti alla disciplina del GATT (servizi, investimenti all'estero, proprietà intellettuale) e, soprattutto, sanzionare l'ingresso nel sistema dei paesi di nuova industrializzazione. Questi obiettivi sono stati in gran parte conseguiti, malgrado in alcuni casi le nuove disposizioni vengano applicate con molta gradualità, siano state rafforzate le norme anti-dumping e contro le contraffazioni, siano state istituite barriere protettive per evitare l'invasione del mercato europeo da parte degli Stati Uniti e dei loro associati (paesi del gruppo Cairns esportatori di prodotti agricoli), sia stata redatta una ‛lista verde' delle sovvenzioni (aiuti alla ricerca e alle aree regionali, tutela dell'ambiente) e l'Europa sia riuscita a conservare le sue barriere nel settore degli audiovisivi. In futuro le legislazioni nazionali dovranno adeguarsi ai testi che saranno elaborati dalla neonata Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, World Trade Organization); le controversie verranno risolte mediante un meccanismo quasi giurisdizionale, automatico e coattivo.

L'economia mondiale è al tempo stesso locale, e quindi la globalizzazione dipende, oltre che dai provvedimenti presi a livello mondiale, anche dalle misure di liberalizzazione e di deregolamentazione decise a livello nazionale. Un esempio al riguardo è dato dalla sfera finanziaria.

Prevale dappertutto l'idea che il denaro debba essere mobile, affinché prestatori e mutuatari dispongano della libertà di scelta e di arbitraggio richiesta dall'economia moderna e dalla guerra dei capitali. Nel corso degli anni settanta e ottanta le autorità di tutti i paesi industrializzati hanno ceduto sempre più alle pressioni delle banche a favore della liberalizzazione del sistema finanziario. Si è ovunque attenuato il controllo del credito: sono diminuiti i controlli sui possessori di attivi e le quote di riserva obbligatoria delle banche sono state ridotte o regolamentate in modo nuovo, tenendo conto dei rischi indotti dalle innovazioni finanziarie. Questa deregolamentazione favorisce la formazione di vasti mercati finanziari: il mercato monetario, quello delle obbligazioni e quello ipotecario sono ormai intercomunicanti; sono sorti mercati a termine di strumenti finanziari che applicano ai titoli le tecniche della contrattazione a termine delle materie prime; le istituzioni finanziarie possono diversificare i loro portafogli di prestiti grazie alla deregolamentazione del loro passivo ed è tollerata l'esistenza di mercati paralleli a quelli ufficiali (mercati a trattativa privata), sui quali è possibile ottenere liquidità vendendo opzioni senza verificare l'identità del prestatore. È stata intrapresa una riforma delle piazze finanziarie per adattarle alle nuove tecniche di comunicazione e d'informazione: su numerose piazze i titoli, i buoni del Tesoro e gli altri valori mobiliari non sono più materializzati su carta, ma inseriti con una scrittura informatica su un conto titoli, e ogni grande mercato borsistico ha un indice che misura i rendimenti di un paniere di azioni e funge da base degli arbitraggi (indice Dow Jones a New York, CAC 40 a Parigi, Nikkei a Tokyo). La liberalizzazione dei flussi di cambio e dei movimenti di capitali e l'apertura dei mercati finanziari nazionali alle banche e agli istituti finanziari esteri portano alla formazione di un mercato unico dotato di un forte grado di autonomia, che ingloba e subordina a sé i mercati nazionali.

Vi è infine un'altra dimensione dell'economia mondiale, quella regionale. Liberalizzazione e deregolamentazione sono particolarmente intense nell'ambito dei mercati comuni e delle aree di libero scambio, comprendenti più paesi; la loro esistenza è diventata una delle basi delle relazioni internazionali, come dimostra il fatto che fino all'inizio del 1995 erano stati registrati ed esaminati dal GATT più di 70 accordi regionali. Su questi strumenti d'integrazione economica vi sono due tesi contrapposte. Secondo la prima, la conclusione di accordi regionali tende a stimolare la globalizzazione, in quanto l'apertura dei mercati interni permette alle imprese di servirsi dei mercati regionali come basi per sviluppare le proprie strategie mondiali. Le economie nazionali interessate da questi accordi sono più idonee ad affrontare la concorrenza su scala mondiale, essendo divenute più competitive grazie agli adattamenti richiesti dalla perdita d'importanza delle frontiere, all'attrazione esercitata sugli investimenti diretti dall'esistenza di un vasto mercato integrato e infine, qualora tale mercato implichi una dimensione nord-sud, grazie alla possibilità di giocare sulle disparità dei salari e degli oneri sociali. Secondo l'altra tesi, le vie della storia sono più tortuose e non vi è un'unica forma di regionalizzazione, bensì due: la prima è promossa dalla politica, anche se le imprese vi svolgono un ruolo non trascurabile; l'altra è stimolata dall'economia, anche se i governi vi partecipano attivamente. La logica della globalizzazione s'impone anzitutto alle imprese, e solo in seguito agli Stati: in entrambe le forme la regionalizzazione tende quindi a rafforzare il potere delle imprese, più che quello degli Stati, anche se questi sono dotati di organi sopranazionali. Le eventuali collusioni d'interessi possono tuttavia produrre dei movimenti in senso opposto, e la globalizzazione può cedere il posto alla costituzione di tante fortezze protezionistiche quanti sono gli accordi regionali.

A favore della prima tesi si sostiene che l'abbattimento delle barriere non tariffarie può ottenersi più facilmente nel quadro di aree regionali organizzate che non nel quadro del GATT: grazie all'ampliamento del sistema delle preferenze commerciali è stato possibile stabilire rapporti più stretti tra i paesi dell'Unione Europea e quelli aderenti all'Associazione europea di libero scambio (EFTA, European Free Trade Association), ponendo così le premesse per la costituzione dell'Area Economica Europea (1992) e per l'estensione a essa di molte disposizioni del mercato comune. A ciò si può obiettare, a sostegno della seconda tesi, che i giochi non sono ancora fatti e che non vi sono oggi su scala mondiale casi di egemonia assoluta. Ciò che è chiamata pax triadica è piuttosto l'espressione di un equilibrio precario dovuto al raggrupparsi della maggior parte delle economie nazionali intorno a tre poli: l'Europa occidentale, il Nordamerica e il Pacifico occidentale. Ciascuno di essi presenta uno o più paesi-guida in grado di scegliere in modo pressoché autonomo le proprie strutture e i propri programmi, e la cui area d'influenza non coincide con quella degli accordi regionali in cui sono integrati. La Germania tende così a diventare il paese-guida di un'area che si estende, soprattutto a est, oltre le frontiere dell'Unione Europea; il Giappone è al centro di un sistema produttivo di ambizioni mondiali; e il predominio degli Stati Uniti si esercita molto al di là delle frontiere dell'Accordo nordamericano di libero scambio (NAFTA, North America Free Trade Agreement). Nell'ambito di ciascun polo si manifestano rivalità e resistenze sia tra paesi-guida d'importanza diversa, sia tra questi e i paesi satelliti. Dev'essere quindi la politica, e non l'economia, a costituire la base per la formazione delle varie aree regionali e per la regolazione dei rapporti che ciascuna di esse ha con le altre.

4. La globalizzazione crea ordine o disordine?

Stando all'ideologia del libero scambio, il benessere mondiale cresce necessariamente quando, in condizioni di concorrenza perfetta, tutti i paesi si aprono agli scambi internazionali e si specializzano nelle produzioni in cui godono di un vantaggio comparato. Ma la realtà è ben diversa: la globalizzazione non è il risultato finale di un'internazionalizzazione che procede senza traumi e che per mantenere il suo ritmo ha bisogno solo di attuare le disposizioni contenute nel documento finale dell'Uruguay Round (ossia che i governi favoriscano una maggiore apertura delle economie nazionali e il libero gioco dei meccanismi della concorrenza). La globalizzazione in atto non è conforme a questo modello: essa non rappresenta l'‛ordine' e la pace, ma piuttosto sostituisce alla ‛guerra fredda' del recente passato una ‛guerra calda' economica, fatta di strategie competitive, di aggressività imprenditoriale, di sicurezza da garantire di fronte alle ‛pratiche sleali' degli altri. Si tratta di uno scontro senza precedenti, finanziario e monetario ma anche economico e sociale, e naturalmente politico, connesso con un indebolimento delle compagini nazionali e con una destrutturazione delle società umane.

a) Rischi di collasso del sistema finanziario e ostacoli alla politica economica degli Stati

In un certo senso la globalizzazione è dovuta anzitutto alla mondializzazione della finanza e dell'informazione, i cui effetti vengono amplificati dai provvedimenti di deregolamentazione. La rivoluzione in corso nella sfera finanziaria - con l'introduzione di nuovi prodotti, mercati e meccanismi, la quasi completa smaterializzazione dei capitali, lo sviluppo dell'informatizzazione e la comparsa della ‛moneta informatica' - permette agli attori economici di compiere sui mercati monetari e finanziari operazioni, al limite, prive di ogni substrato concreto, provocando così una forte tendenza alla sconnessione tra finanza ed economia reale.

Il capitalismo finanziario globalizzato è in qualche modo prigioniero dell'organizzazione che esso stesso si è dato. L'ampliamento del campo di sostituzione e l'aumento del grado di sostituibilità tra gli attivi finanziari suscitano vasti movimenti di ridistribuzione dei portafogli e contribuiscono a rendere instabile la domanda di moneta, tutte le valute essendo ridotte al livello di attivi il cui valore dipende dalla loro circolazione (acquisto e vendita, richiesta e concessione di prestiti); l'accresciuta volatilità dei capitali e delle valute provoca brusche variazioni dei tassi e dei prezzi; aumentano, a livello sia nazionale che internazionale, i rischi di collasso del sistema finanziario.

L'ultramonetarismo e l'ultraliberismo dei paesi capitalistici industrializzati rischiano di portarli sull'orlo della catastrofe. Ormai il denaro produce denaro senza passare attraverso la produzione: si può comprare senza pagare e vendere senza possedere. Tra risparmio e moneta regna la confusione: gli investimenti a lungo termine sono finanziati mediante fondi presi in prestito a breve, vengono remunerati depositi esigibili immediatamente, e gli arbitraggi sono guidati da indici puramente monetari e finanziari. In borsa si ottengono plusvalenze nominali che non hanno alcun rapporto con i profitti realizzati nella produzione e col valore reale delle imprese. Le motivazioni sempre più speculative degli operatori, il successo da essi decretato ai finanziamenti a breve rinnovabili e ai mercati secondari, i continui aggiornamenti delle loro previsioni fanno sì che i titoli si trasformino in supporti di plusvalenze a breve, scarsamente legate all'effettiva situazione di chi li ha emessi. Le banche e gli istituti finanziari si assumono rischi che - in presenza di eventi traumatici di vaste dimensioni (deficit di bilancio, sospensioni dei pagamenti tra istituti finanziari nazionali e internazionali, fallimenti a catena di istituti di vario tipo, ecc.) o in caso di improvvisi mutamenti della congiuntura (settore immobiliare) - riescono a coprire (quando vi riescono) solo in modo molto imperfetto. Ne conseguono delle disfunzioni: operazioni non regolate su valori mobiliari, insufficiente assunzione di rischi, errori nella previsione dei guadagni e delle perdite, reticenze su una situazione reale d'insuccesso, in attesa di un'evoluzione dei mercati che si spera favorevole, soprassalti del mercato obbligazionario e arbitraggi incerti tra questo e il mercato azionario, con conseguenti manifestazioni di febbre o di debolezza nelle borse. Il sopraggiungere di queste disfunzioni aggrava i rischi sistemici dovuti alla latente o cronica instabilità dei mercati internazionali derivante dalla globalizzazione.

La più importante e più redditizia tra le attività finanziarie dei gruppi industriali e degli istituti finanziari è quella che si svolge sui mercati dei cambi. Essa viene giustificata con la necessità di coprire le operazioni eseguite sui prodotti e con gli indispensabili arbitraggi che ogni istituto finanziario internazionale deve compiere su mercati a termine flessibili; ma la principale motivazione è data dagli enormi profitti ottenibili con la mobilitazione a fini speculativi delle ingenti liquidità di cui i suddetti gruppi e istituti dispongono. Si formano così delle ‛bolle speculative' che provocano crisi monetarie, dimostrando come nell'era della globalizzazione i mercati abbiano il potere di far precipitare o di salvare qualsiasi valuta. È ben difficile resistere alla speculazione quando i movimenti internazionali di capitali superano ogni giorno - come avvenne durante la tempesta monetaria dell'estate 1993 - l'intero ammontare delle riserve valutarie mondiali, pari al triplo di quelle delle banche centrali dei paesi della Comunità Europea.

In seguito all'accresciuta mobilità dei capitali e alla finanziarizzazione dei determinatori del cambio, le politiche dei tassi d'interesse possono esercitare un rapido e forte influsso sui tassi di cambio: i governi tendono quindi a considerare la correlazione fra tassi d'interesse e tassi di cambio come uno strumento privilegiato per reagire alle riallocazioni di portafoglio su scala internazionale mediante i cambiamenti che le variazioni dei due tassi inducono nei prezzi e nei margini di profitto dei settori dell'economia nazionale aperti alla concorrenza estera.

Ma la globalizzazione rende assai incerti i risultati di queste politiche. In seguito alla deregolamentazione, le banche centrali hanno un minore controllo sui tassi d'interesse: la loro capacità d'intervento è limitata a una parte della curva dei tassi (in particolare dei tassi del mercato monetario), essendo la determinazione della gamma affidata alle previsioni degli operatori finanziari e al gioco dei premi di rischio. Oggi i rendimenti finanziari della maggior parte delle attività economiche dipendono dai tassi di mercato, i mercati esteri costituiscono fonti di finanziamento supplementari sottratte all'influsso delle autorità nazionali, e insieme con la ‛moneta informatica' circolano, attraverso le interpretazioni degli operatori finanziari, anche i movimenti politici e sociali: tutto ciò fa sì che la politica economica degli Stati sia soggetta a vincoli molto pesanti. La manifestazione più evidente di questa situazione è data dalle difficoltà che incontra, quando non sia coordinata su scala internazionale, ogni politica di riduzione dei tassi d'interesse per favorire l'espansione: una simile politica provoca, fra l'altro, un trasferimento dei capitali verso piazze più remunerative. È chiaro dunque il messaggio che i mercati inviano ai governi: essi si oppongono a ogni tentativo di ridurre le rendite parassitarie consentite dal mantenimento di tassi d'interesse reali elevati, e chiedono che sia legittimato lo sfruttamento a fini di lucro di tutte le possibilità offerte dai differenziali tra i tassi. Il sistema finanziario mondiale, globalizzato e tendente a rendersi autonomo dalle economie nazionali, obbedisce a una ‛razionalità' di corte vedute, propria di speculatori incuranti della deontologia e delle conseguenze dannose che le turbolenze monetarie da cui essi traggono profitto possono avere per i popoli. Lo Stato nazionale, in seguito all'erosione del suo potere economico e alla sua dipendenza da fattori esterni legati ai processi di globalizzazione, perde in gran parte il controllo dell'economia del paese, che vede indebolirsi i suoi sistemi di difesa immunitaria.

b) Costi sociali e pericoli di regresso sociale

Partendo dal principio, caro alla tradizione liberista, che i benefici sociali dell'economia sono massimizzati dal libero gioco delle forze di mercato, alcuni autori non hanno esitato a definire questo gioco ‛una politica sociale internazionale per difetto'. Ciò significa però dimenticare che la globalizzazione comporta già oggi dei costi sociali elevati, i quali rischiano di aggravarsi se ci si accontenta di affermare che sono temporanei e che a lungo termine tutta l'umanità risulterà avvantaggiata.

All'inizio degli anni settanta non vi era ancora un problema di ‛competitività tra poveri', ma la ridistribuzione dei flussi commerciali mondiali negli anni ottanta, la formidabile crescita di potenza dei paesi asiatici nei primi anni novanta e il manifestarsi degli effetti attuali e potenziali della delocalizzazione e del subappalto della produzione di beni e di servizi suscitano ormai serie preoccupazioni e mettono in luce, accanto a quelli positivi, gli effetti sociali negativi della globalizzazione.

Effetti negativi si hanno nei paesi industrializzati, dove i lavoratori non qualificati, già colpiti più duramente degli altri dalla disoccupazione, dalla diminuzione dei salari relativi (e talvolta anche di quelli assoluti) e dalla minore offerta di lavoro, subiscono in pieno gli effetti della concorrenza dei paesi con manodopera a buon mercato. Ciò avviene specialmente nei settori ad alta intensità di lavoro, che producono in grande serie manufatti standardizzati e ordinati con molto anticipo (vestiario, calzature, componenti elettronici): in questi settori, grazie all'evoluzione tecnologica, le maggiori imprese segmentano il processo produttivo in più stadi, mantenendo nel paese d'origine la progettazione e la fase iniziale della lavorazione (ad esempio il taglio del vestiario), delocalizzando o subappaltando l'assemblaggio e conservando il controllo del marketing e dei circuiti di distribuzione. Alle perdite di occupazione che questa strategia determina occorre aggiungere quelle provocate dal diffondersi nel sistema produttivo di innovazioni di tipo offensivo e difensivo intese ad accrescere la produttività, come pure quelle derivanti dalla non istantaneità della compensazione tra i nuovi posti di lavoro e quelli soppressi (disoccupazione, difficoltà di adattamento ‛strutturali').

Si hanno invece effetti positivi nei paesi in via di sviluppo, nella misura in cui il mercato mondiale affranca i lavoratori dalle limitazioni imposte dalla scarsità di domanda interna: nelle economie del Sudest asiatico le industrie manifatturiere a forte coefficiente di manodopera non hanno decollato immettendo la loro produzione sul mercato interno, ancora essenzialmente agricolo, ma accedendo ai mercati internazionali. Occorre tuttavia sfumare quest'affermazione. I paesi in via di sviluppo costretti a ricorrere a politiche di stabilizzazione e di riduzione del debito non possono metterle in atto senza danneggiare la produzione e l'occupazione, perché in tempi di rigore finanziario si ha una contrazione della spesa pubblica per le infrastrutture e gli investimenti privati sono scarsi, a causa delle incertezze e degli effetti negativi derivanti da tale contrazione. D'altra parte, i paesi in cui l'industria si è sviluppata al riparo di solide barriere protezionistiche non possono diventare competitivi senza incorrere a breve e a medio termine in gravi difficoltà, che provocano una riduzione dell'occupazione nei settori più deboli. Nascono in ogni caso dei problemi di arbitraggio nel tempo, la cui soluzione è complicata dal fatto che l'attrazione esercitata dai nuovi posti di lavoro fa affluire nelle città masse di poveri non qualificati, destinati alla disoccupazione, al sottoimpiego, al precariato o tutt'al più al settore ‛sommerso'.

La globalizzazione, inoltre, mette in forse le istituzioni di base del ‛patto sociale' che è all'origine del Welfare State. I ‛leaders globali' di ogni livello, per i quali il mondo non è altro che un mercato su cui dislocare produzioni e capitali, si preoccupano solo delle ‛rigidità' del lavoro che vorrebbero fossero eliminate: salari troppo alti, minimi di legge, regolamentazione del lavoro che ostacola l'adattamento alle condizioni macroeconomiche generali e settoriali, oneri sociali eccessivi, entità e durata dei sussidi di disoccupazione, sicurezza del posto di lavoro, gravosità del sistema di sicurezza sociale - di tipo sia bismarckiano (copertura dei rischi di perdita del reddito legati alla degradazione del capitale umano), sia beveridgiano (assistenza ridistributiva e politica di piena occupazione) - e conseguente crescita incontrollata dei costi sociali relativi soprattutto alla sanità e alle pensioni.

Il capitale è connesso con l'insieme delle relazioni economiche e sociali interne alle nazioni, e in primo luogo col rapporto di lavoro salariato; pertanto la sua espansione su scala mondiale richiede, oltre all'apertura di uno spazio economico il più possibile ampio e omogeneo, la normalizzazione dei rapporti di forza mediante dispositivi istituzionali. Storicamente quest'esigenza si è tradotta nello sviluppo del diritto del lavoro e della sicurezza sociale e quindi nell'avanzata verso il Welfare State, vista da Myrdal come un processo graduale ma inarrestabile; sembrava lecito pensare che il Welfare State fosse divenuto una caratteristica stabile dei paesi industrializzati, e, al tempo stesso, una meta importante per i paesi in via di sviluppo. Peraltro, allorché prevale l'obiettivo dell'adattamento concorrenziale, appartiene alla logica della globalizzazione il reclamare, in nome della flessibilità, l'attenuazione generalizzata delle normative e la riorganizzazione delle forme istituzionali in materia di regolamentazione del lavoro e di sicurezza sociale. Si profilano allora gravi rischi: aumento delle discriminazioni e della segmentazione del mercato del lavoro a danno delle categorie più vulnerabili (donne, giovani, immigrati non qualificati); accentuazione delle disuguaglianze e delle divisioni sociali; formazione di una categoria di salariati meno tutelata per quanto riguarda l'osservanza del diritto del lavoro e l'accesso alla previdenza sociale; tentazione di ricorrere, anziché all'innovazione, a uno sfruttamento del lavoro che sembrava appartenere ormai al passato; prevalenza del regresso sociale sulla capacità di adattamento. Si potrebbero così compromettere sia la ridefinizione del rapporto di lavoro salariato e della socialità, assolutamente necessaria in una società che vive profonde lacerazioni, sia l'indispensabile coordinamento tra politica sociale e politica economica generale nel quadro di un progetto collettivo.

c) I problemi posti da una civiltà e una cultura mondiali

L'avvento di un'unica civiltà mondiale - cui contribuiscono scienza e tecnica, economia e finanza - e la contemporanea universalizzazione dei valori, con la presa di coscienza di un'umanità comune e del diritto incondizionato di ogni uomo a essere rispettato in quanto tale, rappresentano potenti fattori di progresso dell'umanità; ma la globalizzazione che ne è alla base implica gravi rischi di deriva incontrollata.

I ‛valori' omogenei di cui la globalizzazione è portatrice sono quelli del consumo di massa. Nonostante le spettacolari esibizioni di solidarietà, alle nuove generazioni viene trasmesso un messaggio perverso secondo cui il denaro e il potere sono più importanti della vita. Le industrie dei mass media, operanti su un immenso mercato mondiale, producono e diffondono dappertutto una sottocultura (o piuttosto una ‛non cultura'), procedendo a un condizionamento ‛morbido' dei popoli che mira a una mercificazione totale delle attività umane e a un'omologazione della domanda. La cultura che così sta nascendo è stata da R. J. Barnet e J. Cavanagh (v., 1994) assimilata a un ‟centro commerciale mondializzato" (global shopping mall); secondo P. Ricoeur, l'affermarsi in tutto il mondo di una civiltà dei consumi uniforme e integralmente anonima corrisponderà, al limite, al ‟grado zero della cultura creativa", al ‟nichilismo assoluto nel trionfo del benessere". L'imposizione di vincoli alla creatività non avviene più soltanto negli Stati totalitari, ma anche negli Stati cosiddetti ‛liberi', attraverso le costrizioni messe in atto dal potere del denaro e dei gruppi di pressione e dalla logica del mercato.

In realtà non esiste una cultura ‛universale', ma una cultura ‛dell'universalità', avente come postulati il rispetto della diversità delle culture e il dialogo tra esse. La globalizzazione tende a generalizzare uno stile di vita, ritenuto il migliore, e un'ideologia, quella della modernità: l'uno e l'altra portatori di un ordine mondiale il cui avvento presuppone l'assimilazione da parte di tutti i popoli delle usanze e dei valori così proposti. Si pone allora il problema dell'erosione e dell'eliminazione delle differenze culturali che già si sono espresse o che attendono di esprimersi e, a un livello ancora più profondo, delle personalità individuali. Vengono colpiti modi di vivere che rappresentano una moralità di fatto, e istituzioni che riflettono il pensiero dei vari gruppi umani in un dato momento della loro storia, come pure immagini, simboli e valori da essi accettati. Si mette in moto un processo internazionale la cui penetrazione, nel migliore dei casi, consente il mantenimento di una precaria autonomia, oppure comporta la colonizzazione e l'assoggettamento integrale; esso dà origine a giustificati risentimenti delle coscienze umiliate e a ripiegamenti sulla propria identità, ma anche a spinte nazionalistiche, integralistiche o razziste che mettono in pericolo la pace.

L'avvento di un'unica civiltà mondiale può rappresentare un progresso solo se essa, animata da uno slancio di umanità, permette a un numero crescente di uomini, grazie all'universalizzazione degli strumenti che continuamente essi inventano, di acquistare la consapevolezza di poter costruire la propria storia e di appartenere a un'unica comunità. Perché ciò avvenga è necessario che le ragioni di vita siano condivise e che emerga gradualmente, nel rispetto delle diversità, un fondo comune di valori.

Si può ritenere che non vi sarà una guerra tra civiltà, anche se alcuni temono che essa possa sostituire la guerra tra le ideologie, al di là della guerra tra gli Stati. C'è piuttosto da temere che, in mancanza di un progetto economico e politico capace di sfruttare le possibilità di maggior benessere insite nella globalizzazione, le tensioni e i conflitti derivanti dal rifiuto dell'alterità si associno a quelli suscitati dalla logica della lotta di mercato, dando come risultato un ordine mondiale poliziesco, in assetto di guerra permanente, al servizio dei ricchi, delle oligarchie o delle potenze egemoniche.

5. Globalizzazione, governo e governabilità

Ciò che diventa globale dev'essere ‛governato'. Già molto tempo prima di diventare, da J. Watt a J. C. Maxwell, un termine tecnico equivalente a ‛regolazione', il vocabolo ‛governo' (in francese gouvernance, in inglese governance) indicava il controllo permanente dell'universo da parte del Creatore, fonte suprema di un ordine cosmico in cui ciascun evento era riconducibile alla totalità. Lo stesso termine è usato oggi per designare la necessità di una ‛regolazione' dell'‛universo economico' che non è più affidata né a Dio né a un determinismo generale, bensì ad azioni che attuano procedure e programmi tesi a dominare il funzionamento e lo sviluppo dell'economia e a organizzarne le interdipendenze.

Il dramma sta nel fatto che mentre tutti gli abitanti del globo hanno ormai un destino comune, le strutture di gestione e di governo dell'economia-mondo non sono all'altezza della situazione. Le politiche sono sempre più sfasate rispetto alla realtà di un mondo economico e finanziario che sfugge alla loro presa: i loro sforzi, troppo spesso costretti entro le frontiere degli Stati nazionali, sono inadeguati alla nuova dimensione globale. La necessità urgente è di arrivare a un consenso minimo su un ordine internazionale da edificare: e nessuno Stato, neanche il più potente, è in grado di soddisfarla. Perché ciò avvenga, ‛governo' e ‛governabilità', capacità e possibilità di ‛governare', vanno considerati insieme su due livelli indissociabili, quello globale (il mondo) e quello locale (gli Stati nazionali).

a) Governo e governabilità a livello globale

Già nel 1962 Jan Tinbergen, premio Nobel per l'economia, sosteneva la necessità di aprire gli occhi sulle catastrofi prevedibili e di affidare a un organismo mondiale alcune decisioni di vitale importanza, come quelle riguardanti gli aiuti internazionali. Nel 1976 il tema fu ripreso nel rapporto del Club di Roma intitolato Reshaping the international order, coordinato dallo stesso Tinbergen: in esso si evidenziavano le azioni concrete da intraprendere e si insisteva sul progressivo trasferimento di almeno una parte dei poteri economici dal livello nazionale a quello internazionale, mediante la creazione di un certo numero di ‛autorità', veri strumenti di pianificazione globale e di gestione delle principali risorse disponibili nel mondo.

Nel corso degli anni ottanta e novanta, attraverso una serie di rapporti coordinati da W. Brandt (1980), O. Palme (1982), G. H. Brundtlandt (1987) e J. Nyerere (1990), si è gradualmente imposta nelle organizzazioni internazionali l'idea di un ‛governo globale', e con essa la riflessione collettiva su uno sviluppo umano durevole e sulla sicurezza della vita quotidiana in un mondo interdipendente in cui è facile smarrire i propri punti di riferimento. La Banca Mondiale si rifà a quest'idea, definendo il governo globale come ‟il modo di gestire le risorse economiche e sociali di un paese per sostenerne lo sviluppo"; sulla base della sua cinquantennale esperienza di cooperazione con quasi tutti i paesi in via di sviluppo, la Banca lancia nuove iniziative per aiutare i paesi debitori a rafforzare la governabilità della loro economia. Al governo e alla governabilità dell'economia-mondo fanno riferimento esplicito o implicito anche le istituzioni specializzate delle Nazioni Unite e gli organismi autonomi con esse collegati: sia quelli aventi come finalità la tutela degli esseri umani (lavoro, sanità, istruzione, lotta contro la povertà), la salvaguardia del patrimonio comune dell'umanità (sostegno biofisico alla sopravvivenza del sistema-mondo) e la cooperazione scientifica internazionale, sia quelli operanti in alcuni settori tecnici specifici (comunicazioni, agricoltura, finanziamenti). Gli stessi concetti sono argomento dei dibattiti che si svolgono durante le conferenze e i vertici a livello mondiale.

Le organizzazioni che fanno capo alle Nazioni Unite hanno avuto spesso occasione di collaborare tra loro e con gli organismi non governativi per realizzare vasti programmi (azione sociale, inquinamento, fondali marini, lotta contro l'AIDS, ecc.) e per mobilitare e gestire i fondi occorrenti. Queste organizzazioni continuano tuttavia a presentare gravi insufficienze, come dimostra la pretesa, più volte avanzata, di discutere della regolazione mediante il mercato e i meccanismi della libera concorrenza senza prenderne in esame i costi umani e ambientali. Non sorprende quindi che proprio nell'ambito delle suddette organizzazioni sia stato proposto, per ovviare alla mancanza di collegamenti a livello tecnico e politico tra esse e con i governi, di promuovere e realizzare un duplice meccanismo: le organizzazioni internazionali prepareranno ogni anno un complesso di raccomandazioni per migliorare il funzionamento dell'economia mondiale in una prospettiva di benessere comune, e questo complesso verrà sottoposto per l'attuazione a una riunione di ministri rappresentanti i governi.

Nello stesso spirito, durante la preparazione del vertice mondiale sullo sviluppo sociale di Copenaghen (marzo 1995), è stato proposto di formulare in termini chiari e precisi, mediante una Carta sociale mondiale, il nuovo concetto di ‛sicurezza umana', di istituire un Consiglio di sicurezza economica che analizzi i rischi esistenti in questo campo su scala mondiale e definisca le azioni da intraprendere per evitarli, e di predisporre, a cura del Segretario generale dell'ONU, un'agenda per lo sviluppo. Al termine del vertice è stata approvata una dichiarazione in cui si annunciava la promozione di una campagna mondiale per il progresso e lo sviluppo sociale e di un programma d'azione la cui peculiarità e la cui importanza consistono nell'approccio integrato agli impegni, ai principî e alle raccomandazioni risultanti dalle conferenze sui problemi globali (occupazione, inquinamento, povertà, ecc.), così che i provvedimenti presi si compongano in strategie nazionali e internazionali coerenti. Le istituzioni nate dagli accordi di Bretton Woods e le altre organizzazioni delle Nazioni Unite sono state inoltre invitate a intensificare e a coordinare le loro attività e i loro programmi e a collaborare maggiormente con i paesi interessati, dovendo gli interventi ispirarsi non solo a politiche macro- e microeconomiche, ma anche a politiche sociali.

Le difficoltà, quindi, non dipendono solo dai contenuti delle politiche di governo e dai criteri con cui essi vengono scelti, ma anche dal fatto che nessuno spazio internazionale organizzato può nascere spontaneamente dal mercato libero e che la globalizzazione colpisce, con i rischi che essa implica, gli interessi nazionali che gli Stati devono tutelare. Nel 1945 la Carta dell'Avana assegnava alle Nazioni Unite, ‟luogo di armonizzazione degli sforzi delle nazioni" (art. 1, § 4), finalità così ampie da poter essere assimilate a quelle di un vero e proprio governo mondiale, e concepiva l'ONU come un'associazione di Stati a carattere universale. La tutela delle sovranità statali ha permesso di salvaguardare l'universalità dell'ONU, e il fatto che ai rapporti bilaterali si sia sovrapposta una rete di relazioni istituzionalizzate ha contribuito in misura non trascurabile alla cooperazione internazionale. Tuttavia gli Stati non hanno finora rinunziato alla loro sovranità e, malgrado l'attività di legittimazione politica ed economica svolta dalle istituzioni sopranazionali, non sono ancora pronti tutti gli strumenti indispensabili per un governo e una governabilità a livello globale.

Il mondo è diventato sede di un pluralismo giuridico ordinato che combina entro spazi a geometria variabile tecniche giuridiche differenti, di subordinazione e unificazione in alcuni settori e di coordinamento e armonizzazione in altri. Ogni Stato è preso in un intreccio di risoluzioni, raccomandazioni, convenzioni e accordi, ma in molti paesi - che pure hanno recepito quelle raccomandazioni e ratificato quei patti - continua a essere grande il divario fra la tutela prevista dalle norme sovranazionali e la prassi imposta a popolazioni le cui condizioni di vita e di lavoro rimangono miserabili; così come rimangono notevoli le disuguaglianze tra i vari paesi, alcuni dei quali sono vittime di un'emarginazione generalizzata.

Oggi tutti gli interventi su scala mondiale, e non solo quelli ‛umanitari', si ispirano al ‛diritto d'ingerenza', che costituisce un nuovo capitolo, ancora da scrivere, del diritto internazionale, e un elemento portante, ancora da costruire, dell'ordine internazionale. È necessario che esso sia definito e disposto in modo da non poter servire come pretesto per manovre imperialistiche (anche le grandi potenze vanno disciplinate quando la loro politica o quella delle loro imprese danneggia il resto del mondo), e da opporsi, grazie alla definizione di una base di diritti che nessuno Stato abbia il potere di limitare, agli effetti perversi delle disuguaglianze in materia di sicurezza sociale e di sviluppo.

In politica e in economia non c'è molto spazio per i miracoli. Le molteplici forme che l'ingerenza assume già oggi nei settori in cui è giudicata necessaria tendono a delineare una forma di cittadinanza che oltrepassa le frontiere statali. Se finora è prevalsa la regola dell'uguaglianza tra le sovranità, è tempo che prevalga l'obbligo di rispettare i principî fondamentali su cui poggia la nascente società internazionale. Al termine dell'Uruguay Round è stato attribuito all'Organizzazione Mondiale del Commercio il potere di applicare sanzioni commerciali ai paesi che non si attengono alle norme di libero scambio stabilite dal GATT. Sarebbe giusto che nei vari campi interessati dal nascente diritto d'ingerenza (sanità, lavoro, ambiente, sviluppo durevole) un apposito tribunale internazionale o una sezione speciale della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia avessero il potere di emanare sentenze vincolanti contro i violatori di quelle norme. Per quanto riguarda il lavoro, il trattato istitutivo del NAFTA indica una strada: una procedura per ristabilire barriere doganali qualora in un paese non venga osservata la vigente legislazione del lavoro, e una disposizione per cui le norme internazionali non possano essere modificate in senso restrittivo.

b) Governo e governabilità a livello locale

Secondo R. O'Brien, nel campo dell'economia e della finanza il concetto di Stato nazionale è superato ed è destinato a scomparire molto prima che i politici e i popoli rinunzino alle loro idee di sovranità e d'indipendenza. R. Reich difende invece una visione positiva del nazionalismo economico: ogni nazione dovrebbe considerare suo dovere primario migliorare la capacità dei propri cittadini di contribuire all'economia mondiale, rinunziando sia al liberismo cosmopolita, sia al nazionalismo negatore degli altri popoli, e gli Stati dovrebbero aprire all'universalità le nazioni di cui hanno la tutela.

Il governo dell'economia mondiale rimanda a quello delle economie nazionali e non è attuabile senza o contro le nazioni e gli Stati: questi ultimi continuano a essere la fonte legittima del potere, anche se nell'ambito mondiale le regole del gioco che essi dovrebbero definire vengono anticipate dalle grandi imprese. Spetta agli Stati, e non a organismi internazionali lontani e spesso tecno-burocratici, far emergere una ‛razionalità' capace di esprimere una ‛convenienza collettiva'; ed è per il loro tramite che devono essere attuate le azioni deliberate al termine dei negoziati internazionali, ai quali, a giudizio delle stesse organizzazioni che li conducono, vanno associati anche gli Stati.

Da qui l'importanza della governabilità delle economie nazionali, anche quando la globalizzazione tende a ridurla; e da qui la coerenza della posizione assunta dall'Ufficio Internazionale del Lavoro quando, ritenendo che la disoccupazione, il sottoimpiego e i bassi salari non siano conseguenze inevitabili della globalizzazione e che esistano delle soluzioni, si schiera a favore di nuove forme di cooperazione tra Stato e mercato. È importante, infatti, che il primo regoli il funzionamento del secondo, ne corregga gli effetti perversi e ne valuti gli influssi potenziali; ed è necessario che una politica volontaristica intervenga per promuovere la giustizia sociale allorché il mercato non la garantisca o addirittura vi si opponga. Vi sono due possibilità. La prima è accettare, in conformità con l'ideologia neoliberista (o di un marxismo volgare), che lo sviluppo tecnico-economico prevalga su ogni altra forma di sviluppo e che le forze economiche agiscano in modo incontrollato, non essendovi nessuna possibilità di arrestarne o invertirne il corso. Poiché, come si è detto, nessuno spazio internazionale organizzato può nascere spontaneamente dal mercato libero, c'è da temere che, al manifestarsi di tendenze positive nell'economia mondiale, i paesi industrializzati, per far fronte all'accresciuta concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione e dei paesi meno sviluppati, alla perdita della propria libertà d'azione e ai propri conflitti interni, ricorrano a provvedimenti protezionistici difensivi e offensivi. In tal caso non ci si avvierebbe verso un ordine internazionale pacificato, ma verso un mondo diviso, in cui le grandi potenze lotterebbero per l'egemonia, mentre si moltiplicherebbero le aree d'instabilità economica e politica e i conflitti locali autodistruttivi.

L'altra possibilità è che gli Stati si rendano conto che le reazioni di tipo protezionistico non sono adeguate ai processi di globalizzazione, con le opportunità e i rischi che essi implicano, e preferiscano seguire una politica di cooperazione. In tal caso, per adattarsi senza eccessivi costi alla rapida evoluzione dell'economia mondiale, essi dovranno definire alcuni principî comuni, prendere in esame i problemi sociali, economici e politici più importanti e adottare i provvedimenti istituzionali necessari affinché tali problemi possano essere trattati con continuità. Non si può peraltro escludere l'ipotesi che gli Stati, non riuscendo a mettersi d'accordo sugli obiettivi prioritari comuni e sul modo di coordinare le proprie politiche per conseguirli, blocchino il processo d'integrazione mondiale.

Gli Stati nazionali possono dunque contribuire all'integrazione nel sistema mondiale, oppure essere luoghi privilegiati di ricerca di autonomia e d'indipendenza. La necessaria articolazione del governo e della governabilità tra il livello globale e quello locale potrebbe essere attuata con la costruzione di un ordine mondiale a più livelli, avente il suo fulcro nel livello intermedio, quello regionale. L'Unione Europea - nonostante tutte le sue difficoltà e incertezze - e il NAFTA stanno a testimoniare una ripresa dell'interesse per i dispositivi d'integrazione regionale, ancorati alla realtà di spazi reticolari in cui gli scambi intraregionali si sviluppano senza soffocare quelli interregionali. Da questo punto di vista, costituire l'Area Economica Europea significa andare decisamente al di là dei rapporti interni tra i paesi dell'Unione per puntare sulle loro relazioni con l'Europa centrale e orientale, i paesi del Mediterraneo meridionale, l'Africa e il resto del mondo.

Le grandi aree regionali, a cominciare dall'Europa, sono spazi d'intenso scambio tra nazioni che presentano numerose affinità nei confronti della concorrenza mondiale e che hanno sistemi sociali originati da vicende storiche e politiche parallele; sono spazi composti da reti interconnesse, con margini fluidi soggetti a una dialettica di aperture e di ripiegamenti; sono infine spazi simbolici, oltre che materiali. Queste aree consentono ai governi e ai popoli di sperimentare, al di là dei comuni interessi economici, una vita politica a più livelli (di cui uno sopranazionale) e di allenarsi così ad affrontare la dimensione mondiale.

L'ambito ottimale per il governo e per la governabilità nel campo dell'economia internazionale è certamente il mondo. Ma è anche evidente che, almeno per un lungo periodo di tempo, la raccolta e l'elaborazione dei dati, la riflessione collettiva e il dibattito che essa implica, la ricerca dell'armonizzazione delle politiche micro- e macroeconomiche e delle logiche di competizione e di cooperazione, saranno realizzabili solo nel quadro di ampi spazi regionali. È significativa a questo proposito la sorte toccata ai ‛libri', decisa nel 1993 dalla Commissione delle Comunità Europee per promuovere la riflessione e il dibattito sulle sfide del XXI secolo e sui modi per affrontarle: questi documenti sono stati accolti favorevolmente dalle organizzazioni europee, ma le proposte in essi contenute sono state ridotte ai minimi termini. Al di là di una volontà di cooperazione economica ancora fragile, mancano la coesione e la coerenza, e la logica federalista - l'unica in grado di conciliare l'autonomia delle parti con l'unità dell'insieme - non si è ancora presentata all'appuntamento con la storia.

Il mondo, scriveva J. M. Keynes nella General theory, ‟ha oggi un estremo e ansioso bisogno di una diagnosi meglio fondata [...] ed è pronto ad accettarla e desideroso di verificarla, anche se è solo plausibile". Il mondo è tuttora così: pieno di sfide globali e terribilmente privo di un progetto di civiltà. Il vero problema posto dalla globalizzazione è in fondo quello del senso: ancora una volta l'umanità è chiamata a cercare di ricondurre le cose, le organizzazioni e le coscienze nel vasto moto che costituisce la trama della storia, e a cercare di raggiungere, per liberarla, la corrente totale della vita.

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