GOFFREDO

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GOFFREDO (Gotefredo, Gotofredo da Castiglione)

Anna Maria Rapetti

Arcivescovo eletto di Milano, secondo una tradizione d'incerto fondamento appartenne alla famiglia Castiglione; non sono noti altri dati riguardanti G. prima della sua designazione nel 1068.

La sua vicenda s'inserisce nel clima di accesa contrapposizione, creatosi nella diocesi di Milano, tra patarini e schieramento filoimperiale, nel pieno della lotta per la riforma della Chiesa sostenuta dai pontefici romani. Suddiacono del clero ordinario di Milano e stretto collaboratore del suo predecessore, l'arcivescovo Guido da Velate, G. fu designato nel 1068 - ancora vivente Guido, che aveva rinunciato quell'anno alla carica - a succedergli sulla cattedra ambrosiana dall'imperatore Enrico IV. È probabile che la nomina avvenisse in seguito a un accordo intercorso tra lo stesso imperatore e l'arcivescovo Guido che, durante il suo governo, si era dimostrato fedele sostenitore delle posizioni imperiali. I cronisti Landolfo Seniore e Bonizone sostengono concordemente l'origine aristocratica di G. ("ex nobili et magna prosapia oriundus", Landolfo, p. 87; "nobili quidem progenie ort[us]", Bonizone, p. 598); Bonizone ritiene che il nuovo vescovo si recasse presso l'imperatore, per convincerlo con ricchi doni a concedergli l'investitura, dietro consiglio "symoniacorum et Mediolanensium capitaneorum" (p. 598), ceto cui forse egli stesso apparteneva.

L'ipotesi che G. fosse un membro della stirpe dei Castiglione fu avanzata dal Giulini, in base a un'affermazione - invero non probante - dello stesso Bonizone, che definisce la fortezza di Castiglione Olona, presso la quale G., incalzato dai patarini, si rifugiò, sostenendovi quindi un lungo assedio, "suum hereditarium castrum" (p. 598). Inoltre, non riuscendo a entrare in Milano, una volta consacrato arcivescovo, G. avrebbe soggiornato a lungo nella località di Brebbia, sul lago Maggiore, dove diverse famiglie capitaneali detenevano beni loro attribuiti dal vescovo di Milano (Barni, p. 188).

La situazione della Chiesa milanese al momento della nomina di G. era estremamente complessa. In città si fronteggiavano il movimento patarinico, che godeva di un largo, sebbene non sempre stabile, seguito tra la popolazione, rafforzato dall'appoggio proveniente dalla Chiesa romana, e un variegato schieramento antipatarinico, tendenzialmente filoimperiale, che si coagulava intorno a motivi e interessi diversi, non soltanto religiosi, tra i quali aveva grande rilievo la difesa dell'autonomia della Chiesa ambrosiana sia da Roma, sia dalle ingerenze imperiali. L'elezione degli arcivescovi milanesi era tradizionalmente considerata prerogativa della città, rappresentata in quella circostanza dall'insieme del clero e dei fedeli, e percepita come forte elemento di autoidentificazione municipale. La scelta del vescovo era infatti un momento importante della vita politica e sociale della città, nel quale i ceti eminenti urbani esercitavano un ruolo di preminenza. Dall'aristocrazia maggiore, di estrazione capitaneale, provenivano tanto gli arcivescovi quanto i membri del clero ordinario della cattedrale, tra i quali erano di solito scelti i candidati da inviare all'imperatore, per riceverne la nomina vescovile. Anche la piccola aristocrazia feudale, i valvassori, i proprietari del contado inurbati, rivendicavano con forza crescente la partecipazione all'atto politico rappresentato dalla scelta dei presuli cittadini, trovando in questo, in diverse occasioni, punti d'incontro con il gruppo capitaneale. Infatti, già nella prima metà dell'XI secolo, durante l'episcopato di Ariberto da Intimiano (1018-45), vi erano stati momenti in cui si era saldata un'alleanza tra capitanei e valvassori che aveva creato serie difficoltà tanto al vescovo quanto all'imperatore. Il pericolo creato da questo fronte comune aveva indotto gli imperatori ad avocare a sé l'elezione episcopale e a nominare, dopo di allora, arcivescovi di propria scelta, escludendo i candidati presentati dai Milanesi. Anche Guido da Velate infatti, come poi G., era stato nominato autonomamente dall'imperatore, nel suo caso da Enrico III, che lo preferì a ben quattro candidati propostigli, secondo l'usanza, dai maggiorenti della città. In entrambe le occasioni, la scelta imperiale si configurava come un tentativo di ridimensionare la sfera d'azione del ceto capitaneale e di comprimere il tradizionale diritto di controllo sull'elezione esercitato dai più influenti ceti urbani.

In tale quadro s'inseriva, come elemento decisivo, l'azione politica dei patarini, che avevano i loro più influenti esponenti nel diacono Arialdo e, dopo la morte di questo (1066), in Erlembaldo. Partendo dal presupposto della necessità, per i religiosi, di una stretta conformità dello stile di vita al messaggio evangelico annunciato, la predicazione patarinica, avviatasi a Milano verso il 1056-57, si era dapprima sviluppata intorno al tema della lotta al nicolaismo, poi anche alla lotta contro la simonia, considerata eresia. Larghi settori della popolazione appartenenti a diversi ambienti sociali aderirono entusiasticamente al programma di radicale riforma dei costumi del clero. L'azione dei patarini ebbe manifestazioni violente e incise profondamente nel tessuto sociale ed ecclesiastico della città, estendendosi anche alle campagne circostanti, suscitando ovunque forti reazioni, spesso di segno contrastante. La lotta alla simonia metteva in pericolo antiche consuetudini e consolidati equilibri nelle istituzioni religiose urbane. Per questo i ceti aristocratici, sui quali si fondava la struttura organizzativa della Chiesa milanese, si raccolsero in uno schieramento avverso ai patarini, nel quale l'arcivescovo e gli ordinari della cattedrale furono in prima fila.

La Chiesa romana manteneva una posizione prudente di fronte allo zelo radicale dei patarini, che minacciava di sovvertire e travolgere l'assetto gerarchico della Chiesa. Sebbene sensibile alle diffuse aspirazioni di riforma dei costumi e di riordino delle situazioni di abuso e di confusione, l'adesione pontificia al movimento patarinico fu indirizzata a un contenimento delle istanze più pericolose per l'ordine costituito. Dietro sollecitazione dell'una o dell'altra parte, i papi indirizzarono diverse legazioni a Milano, nel decennio 1057-67, cercando di ripristinare l'ordine facendo leva sui vertici della Chiesa locale, ma affermando contemporaneamente il primato di Roma come elemento di regolamentazione della Chiesa universale.

In questo contesto s'inserisce, nel 1068, la nomina di Goffredo. Il predecessore Guido da Velate, vecchio e incapace di tener testa alle pressioni esercitate su di lui dal movimento patarinico, che lo accusava di essere simoniaco e concubinario, aveva quell'anno restituito all'imperatore le insegne episcopali. La decisione imperiale di nominare G. ignorando le indicazioni dei gruppi dirigenti milanesi suscitò l'immediata reazione della cittadinanza, concordemente ostile al nuovo presule perché nella sua investitura vedeva rinnovarsi l'affronto già inflitto all'autonomia della Chiesa ambrosiana da Enrico III, con la nomina di Guido da Velate. A testimoniare l'universale riprovazione, il cronista Arnolfo narra che il nuovo eletto non riuscì a trovare accoglienza non soltanto in città, ma neppure nel contado, "ipsis etiam factus invisus agricolis" (p. 24). Da Roma giunse, l'anno successivo, la condanna, secondo il diritto canonico, di Goffredo. I patarini, che contestavano il carattere simoniaco dell'atto imperiale, alimentarono e si fecero interpreti del diffuso malcontento, tanto da riuscire a radunare un certo numero di armati per occupare i beni episcopali e impedire l'insediamento del nuovo presule. In effetti G., di ritorno dalla Germania, fu incalzato manu militari e dovette ritirarsi prima nel castello di S. Maria di Velate, presso Varese, poi in quello già menzionato di Castiglione Olona, dove subì l'assedio dei patarini. La situazione di stallo si protrasse sino al 1071, anno della morte di Guido da Velate (21 agosto).

Considerando a quel punto vacante la cattedra episcopale, Erlembaldo, che guidava le forze assedianti, rientrò a Milano per procedere, l'anno seguente, all'elezione di un nuovo arcivescovo, togliendo così a G. ogni residua possibilità di insediarsi sulla cattedra. Sotto la forte pressione di Erlembaldo, la scelta cadde su un candidato che, se poteva sperare di ottenere l'approvazione del pontefice, era però inviso a larga parte della cittadinanza più influente, che ancora una volta si vedeva tagliata fuori dall'esercizio delle sue prerogative nell'elezione episcopale. Il nuovo arcivescovo, Attone, fu consacrato il 6 genn. 1072 alla presenza di un cardinale romano ma, scoppiato un tumulto durante la cerimonia, fu immediatamente costretto a rinunciare a tutti i suoi diritti sulla cattedra da una folla di rivoltosi, che contestava la procedura seguita da Erlembaldo, ritenendo che ne fosse leso l'onore della Chiesa ambrosiana. Papa Alessandro II, appartenente alla famiglia milanese dei capitanei da Baggio e quindi buon conoscitore della situazione locale, convocò un sinodo a Roma, nel corso del quale Attone venne proclamato unico, legittimo titolare della cattedra milanese e nulla la sua rinuncia alla dignità episcopale, mentre G. fu scomunicato come eretico simoniaco e nuovamente condannato. La Chiesa milanese continuava però a rimanere di fatto priva di vescovo: neppure Attone, come già G., poté infatti prendere possesso della cattedra e dovette risiedere presso il pontefice.

La corte imperiale conservava il suo appoggio al proprio eletto, che all'inizio del 1073 fu consacrato, dietro richiesta di Enrico IV, a Novara da un gruppo di vescovi suffraganei filoimperiali. Poiché, nonostante la consacrazione, continuava a essergli precluso il rientro in città, G. si ritirò nei possedimenti episcopali situati sul lago Maggiore, nei pressi di Angera. Da lì tentò, inutilmente, un assalto verso Lecco. Nell'occupazione di queste località (Castiglione Olona, Brebbia, Lecco) si possono intravedere motivazioni non solo economiche, ma anche militari, legate alla necessità di assicurare all'imperatore e alle sue truppe il controllo di passaggi strategici lungo le strade che dal Nord portavano verso la pianura Padana. Il nuovo papa Gregorio VII, eletto quello stesso anno, ansioso di risolvere la difficile situazione milanese e di comporre la frattura con Enrico - apertasi intorno a questo e ad altri importanti motivi di dissidio -, intervenne invece fin dall'inizio del suo pontificato in favore di Attone, chiedendo all'imperatore e a tutti i soggetti coinvolti nella vertenza - i vescovi suffraganei, le contesse Beatrice e Matilde di Canossa, i fedeli lombardi - di riconoscerne l'elezione. Gregorio cercava infatti l'aiuto dei gruppi aristocratici locali e anche dei semplici fedeli per imporre il proprio obiettivo riformatore, allorché l'appoggio dei vescovi si dimostrava insufficiente o incerto. Enrico, impegnato in una difficile guerra contro i Sassoni, mantenne tra l'estate del 1073 e i primi mesi del 1074 una tattica dilatoria, mostrando di voler accogliere le richieste del pontefice riguardo alla situazione milanese. Tuttavia, di fronte agli indugi e alle ambiguità della condotta imperiale, nel 1074 Gregorio VII, convocati i vescovi suffraganei della diocesi, scomunicò nuovamente G. come eretico simoniaco. Dietro all'ormai aperta contrapposizione di Gregorio ed Enrico sulla questione milanese si stava profilando il gravissimo scontro sulle investiture.

Nella diocesi ambrosiana andava intanto estendendosi l'opposizione alla politica religiosa dei patarini e all'intransigenza di Erlembaldo, considerata eccessivamente filoromana e lesiva delle prerogative della Chiesa locale. Tra il 1074 e il 1075 tale opposizione divenne aperta e provocò l'accordo tra tutte le forze antipatarine, alle quali si unì anche Enrico IV, desideroso di spezzare il legame tra la sede romana e il movimento milanese. Il 15 apr. 1075 Erlembaldo fu ucciso nel corso di un violento tumulto, in seguito al quale la maggior parte degli ormai pochi sostenitori della pataria dovette lasciare la città. L'imperatore seppe sfruttare il nuovo clima e dopo aver tolto il proprio sostegno all'arcivescovo G., da lui stesso nominato e fatto consacrare, investì come nuovo presule il milanese Tedaldo, chierico della sua cappella, ancora una volta preferito ai quattro candidati propostigli dai sudditi ambrosiani. La consacrazione del nuovo arcivescovo fu fatta dagli stessi vescovi suffraganei che, due anni prima, avevano consacrato Goffredo. La cattedra milanese aveva a quel punto tre titolari; la nuova nomina non faceva che aggravare il conflitto con Gregorio VII, per il quale l'unico arcivescovo legittimo era Attone. Nel dicembre di quell'anno il pontefice accusò apertamente Enrico di aver mancato a tutte le promesse di riconciliazione e di ravvedimento, espresse in passato per lettera e attraverso suoi legati e ricorrendo anche alla mediazione della madre, l'imperatrice Agnese. Lo scontro era ormai inevitabile.

Non vi sono ulteriori notizie su G., che era forse già morto nell'ottobre 1076. Così sembra potersi interpretare la frase contenuta in una lettera di Gregorio VII ai Milanesi, con la quale il pontefice invitava i fedeli a confidare nella prossima rimozione dell'arcivescovo eletto Tedaldo, che sarebbe stato estromesso dalla carica così come "Petr[us] duos illos priores, Widonem et Gotefredum, contra Romanam ecclesiam calcitrantes, ab episcopali sede deiecit" (Das Register Gregors VII., p. 305).

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