Governo tecnico

Il Libro dell'anno del Diritto 2016

Governo tecnico

Fabrizio Politi

La formazione dell’esecutivo guidato da Mario Monti ha riproposto all’attenzione il fenomeno del “governo tecnico”, quale governo “non politico”, distaccato dai partiti politici e chiamato ad adottare decisioni “tecniche” per far fronte a situazioni di emergenza. Il fenomeno del “governo tecnico” è espressione della elasticità della forma di governo parlamentare ed incide anche sul ruolo del Presidente della Repubblica. L’analisi svolta dimostra che ogni esecutivo è sempre portatore di una propria politicità e che gli schieramenti politici tendono a dissimulare dietro il governo tecnico la responsabilità delle proprie scelte ponendo in essere procedimenti opachi e non rispettosi del principio di trasparenza. Le vicende del governo tecnico evidenziano inoltre l’attuale crisi del sistema partitico e, più in generale, della rappresentanza politica quale canale sia di legittimazione del potere che di selezione della classe dirigente. Operano in tale direzione anche i processi di integrazione europea.

La ricognizione. Gli episodi di “governo tecnico” nell’esperienza italiana

L’espressione “governo tecnico” (o “governo dei tecnici”) è tornata di attualità nel dibattito politico-istituzionale italiano nell’estate 2011 quando, di fronte alla crisi dei mercati finanziari, il governo allora in carica (politicamente già indebolito da precedenti defezioni parlamentari) non è parso in grado di fornire risposte adeguate, determinando l’avvio dell’iter che ha portato (nel novembre successivo) alla formazione dell’esecutivo presieduto da Mario Monti.

Quella di “governo tecnico” è un’espressione non giuridica ove l’aggettivo intende indicare la qualità dei membri del governo, prescelti in ragione del possesso di specifiche competenze (“tecniche” appunto) e caratterizzati anche dalla non appartenenza diretta a schieramenti politici. Il ricorso ai “tecnici”, da parte delle forze politiche, è giustificato dalla peculiare situazione venutasi a creare (impossibilità di realizzare una maggioranza “politica” in Parlamento e contemporanea necessità di affrontare situazioni di particolare difficoltà o emergenza che sconsigliano il ricorso alle urne). Il governo tecnico viene così a prospettarsi come governo “separato” dai partiti politici, avente compiti determinati e temporalmente delimitati e composto da personalità non riferibili direttamente ai partiti. L’espressione “governo tecnico” è dunque utilizzata in contrapposizione a quella di “governo politico” (o “governo” tout court) sicché le due espressioni sembrano presupporre contenuti concettualmente antitetici1.

L’aggettivo “tecnico” nel nostro Paese era già stato riferito al governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi (allora Governatore della Banca d’Italia), composto da personalità di elevato livello professionale, sostenuto da un ampio schieramento politico e nominato nel 1993 dal Presidente della Repubblica in seguito alla grave crisi istituzionale conseguente alla delegittimazione dell’intera classe politica, coinvolta in vicende di corruzione e di finanziamento illecito ai partiti politici. In quell’occasione si registrava la necessità di un esecutivo chiamato a guidare il Paese attraverso una grave crisi economico-finanziaria (aggravata dall’elevato debito pubblico e che aveva determinato la fuoriuscita della lira dal sistema monetario europeo) e a fronteggiare attacchi della mafia aventi modalità stragistiche.

La maggioranza vincitrice delle successive elezioni politiche (primavera 1994) già a fine anno si era sfaldata e nella conseguente crisi di governo (la prima dopo il passaggio al sistema elettorale maggioritario) si iniziò – da vari settori – a sostenere la tesi (riaffermata negli anni successivi, fino ad essere ripetuta anche nei confronti del governo Monti) secondo cui, a differenza che nel previgente sistema proporzionale, i partiti non avrebbero potuto dar vita a coalizioni politiche diverse da quelle presentatesi in occasione delle elezioni (pena il fenomeno del cd. “ribaltone”)2. Il Presidente della Repubblica, una volta riscontrata – secondo il disposto costituzionale – la sussistenza di una maggioranza parlamentare capace di sostenere un esecutivo, ritenne invece di conferire l’incarico di formare il nuovo governo a Lamberto Dini (anch’egli proveniente dai vertici della Banca d’Italia e che nell’esecutivo precedente aveva rivestito la carica di Ministro del tesoro) allo scopo di dar vita ad un esecutivo “gradito” (o “vicino”) al centro-destra che però decise di non sostenere tale governo e che infatti si reggerà sui voti del centro-sinistra e della Lega Nord. Il richiamo di tali eventi dimostra le differenze intercorrenti fra l’esperienza del governo Dini e quella del governo Ciampi (anche se permanevano nel 1995 i problemi posti dall’instabilità della lira sui mercati finanziari conseguente alle elevate dimensioni del debito pubblico).

Ma, prima di analizzare le vicende legate alla formazione e all’esperienza del governo Monti ed anticipando alcune considerazioni che saranno sviluppate in sede conclusiva, deve rimarcarsi come la nozione di “governo tecnico” tenda a porsi quale concetto antitetico a quello di “governo politico” ed a svolgere una funzione di dissimulazione della “politicità” di un esecutivo (che, in quanto tale, è sempre portatore di determinate opzioni valoriali).

La focalizzazione. L’esperienza del governo Monti

La nascita del governo guidato da Mario Monti costituisce il precipitato di un insieme di avvenimenti di livello internazionale e nazionale: dall’aggravarsi della crisi economica mondiale all’instabilità dei mercati finanziari determinata dall’alto debito pubblico di alcuni Paesi aderenti all’area Euro (fra cui anche l’Italia), dalla progressiva riduzione del sostegno parlamentare del governo (colpito da una crisi interna che già nell’anno precedente aveva assottigliato l’ampia maggioranza parlamentare uscita vittoriosa dalle elezioni del 2008, la quale, dopo aver smarrito l’originaria unità, aveva anche dovuto far ricorso al sostegno di deputati eletti nelle liste dell’opposizione) alla peculiare figura del Presidente del Consiglio uscente (che ha caratterizzato la vita – e non solo politico-costituzionale – del Paese nell’ultimo ventennio).

In questo quadro, pregnante si è rivelato il ruolo giocato dal Presidente della Repubblica che, di fronte all’instabilità politica interna, si è adoperato affinché i due maggiori partiti accettassero l’opzione di un esecutivo composto da figure “tecniche” e non direttamente riferibili a nessuno degli esistenti schieramenti politici ed incaricato di adottare le (scomode) decisioni di politica economica necessarie per evitare il fallimento economico-finanziario del Paese.

L’esperienza storica e di diritto comparato dimostra che episodi di “grande coalizione” (o di “unità nazionale”) sono tutt’altro che infrequenti anche in altri ordinamenti giuridici, ma (a differenza, ad es., di quanto avvenuto in Germania in occasione della grosse Koalition) è mancata in tale occasione nel nostro Paese una pubblica assunzione di impegni (e dunque di responsabilità) da parte delle singole forze politiche, nonché un’esplicitazione dei termini dell’accordo politico posto alla base della nascita del governo Monti. L’opzione prescelta (in cui le forze politiche hanno semplicemente manifestato un generico sostegno al nuovo governo) si è invece rivelata funzionale a lasciare ai partiti e allo stesso esecutivo le “mani libere” sui singoli problemi o provvedimenti, ma determinando anche, come inevitabile conseguenza, un elevato tasso di irresponsabilità delle forze politiche nonché di opacità sia dei procedimenti decisionali che nell’individuazione degli attori dei procedimenti medesimi. Sicuramente ha pesato nel comportamento delle maggiori forze politiche anche l’astiosa delegittimazione che i due schieramenti hanno sempre rivolto l’uno all’altro, ma evidente è anche l’intenzione dei medesimi di tenersi in qualche modo “distaccati” dalle decisioni impopolari che il governo Monti era chiamato ad assumere.

Il procedimento di formazione del governo Monti si rivela molto rapido: il Presidente della Repubblica riceve le dimissioni del Presidente del Consiglio uscente nella serata del 12 novembre, il giorno successivo si svolgono le consultazioni e già nel tardo pomeriggio del 13 novembre è conferito l’incarico di formare il nuovo governo a Monti che il 16 novembre scioglierà la riserva e, sempre in tale giorno, il Capo dello Stato nomina il nuovo governo che il giorno successivo esporrà al Senato le “dichiarazioni programmatiche” sulle quali otterrà un’ampia fiducia parlamentare (solo la Lega Nord inizialmente vota contro).

Se apparentemente il governo Monti si presenta in Parlamento senza una “propria” maggioranza parlamentare, e chiedendo invece il sostegno di quanti ritenevano condivisibile il programma esposto (nel quale Monti definisce il proprio governo “di impegno nazionale” e che si articola in “Rigore e risanamento dei conti pubblici” e in “Politiche per la crescita”), l’esperienza dei mesi successivi, che ha visto la riduzione dell’ampio sostegno parlamentare registrato inizialmente, ha reso chiaro quali siano le forze politiche sostenitrici del governo Monti ed in base a quali accordi (ad es. con riguardo sia alle materie possibili oggetto di intervento del governo che a quelle destinate a rimanere escluse dall’azione dell’esecutivo, quali il conflitto di interessi, il settore radiotelevisivo, ecc., e fra cui anche l’impegno a non rimettere in discussione scelte della maggioranza uscente che, pur osteggiate dall’allora opposizione, non vengono minimamente “riaperte” e di cui anzi si accelera l’attuazione: dalla delega relativa alla cd. geografia giudiziaria, alla riforma delle province, fino ai provvedimenti attuativi della riforma dell’università). Risulta dunque confermata la non completa trasparenza dell’operato dei partiti politici che tendono a mantenersi “distaccati” dal governo tecnico, che appare “svincolato” dai partiti ai quali invece è sempre legato sia con riguardo alla composizione che al programma. E se costituisce una condizione “ovvia” per l’esistenza di ogni governo la presenza in Parlamento di una maggioranza che lo sostenga, l’aspetto di mistificazione implicito nella definizione di governo tecnico viene ad essere rappresentato dall’idea presupposta di una “lontananza” o di “separatezza” dell’esecutivo dalle forze politiche che lo sostengono. Ed infatti, anche dal punto di vista dei rapporti con il Parlamento, il governo Monti non si discosta dal solco tracciato dagli esecutivi che l’hanno preceduto: alto è il ricorso alla decretazione d’urgenza, alla presentazione di maxiemendamenti e alla questione di fiducia.

Anche con riguardo al governo Monti centrale è il ruolo giocato dal Presidente della Repubblica sia nella fase di formazione di tale esecutivo che nei mesi successivi di attività dello stesso (e così ad es. nei confronti del frequente ricorso alla decretazione d’urgenza e alla questione di fiducia, il Presidente Napolitano, spesso critico verso identici comportamenti del governo precedente, ha avuto parole di comprensione nei confronti dell’esecutivo tecnico). La Costituzione assegna al Capo dello Stato (quale “garante dell’unità nazionale”) la funzione di intervento nei momenti di crisi a tutela dei valori costituzionali. Pertanto, di fronte all’impasse del Parlamento, non può non spettare al Presidente della Repubblica l’onere di intervenire, ma in tali casi il ruolo del Presidente vede aumentare il proprio tasso di politicità sicché il perdurante coinvolgimento del medesimo nelle dinamiche politiche può finire per incrinare o compromettere proprio quel ruolo super partes assegnatogli dalla Costituzione e che ne garantisce l’autonomia e indipendenza3.

I profili problematici. L’elasticità della forma di governo parlamentare e la crisi della rappresentanza politica

L’esperienza del governo tecnico conferma l’elasticità della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, una elasticità che si riflette anche sul ruolo del Capo dello Stato. Tale elasticità è da preservare e valorizzare, ma meno apprezzabile è ogni tentativo delle forze politiche di riduzione della trasparenza del proprio operato al fine di sfuggire dalle proprie responsabilità. La riaffermazione dei principi di trasparenza e di responsabilità4 passa attraverso il recupero di un ruolo “forte” del Parlamento. L’attuale debolezza dei partiti politici si riflette sul Parlamento ed anche le vicende del governo tecnico ripropongono la problematica della rappresentanza politica. Molteplici sono le ragioni della crisi della rappresentanza politica, ma per quanto riguarda il nostro Paese vanno ricordate in particolare la tendenza alla personalizzazione della politica e la vigente pessima legge elettorale (a sua volta prodotto dell’attuale configurazione del sistema dei partiti politici).

Ricorrente è la contrapposizione fra chi ritiene che l’introduzione nel nostro ordinamento del sistema elettorale maggioritario, pur a Costituzione invariata, abbia instaurato una sorta di “vincolo elettorale” o di “mandato imperativo” (che impedirebbe ai deputati eletti in un determinato schieramento di sostenere un diverso esecutivo o, più in generale, alle singole forze politiche di mutare coalizione o schieramento) e quanti invece, sia pure con tonalità differenti, continuano a sostenere che il principio del divieto del mandato imperativo e, più in generale, la forma di governo delineata in Costituzione non consentono di assegnare al sistema elettorale la valenza di elemento conformativo dell’intero sistema costituzionale (senza tralasciare la facile osservazione che, diversamente opinando, si finisce per assegnare ad una legge ordinaria la capacità di mutare l’intero quadro costituzionale!).

Molti osservatori individuano nella cd. “semplificazione del quadro politico” un obiettivo da raggiungere e da valutare positivamente. Ma deve ricordarsi che il “quadro politico” è sempre espressione delle sottostanti dinamiche sociali e delle Weltanschauungen proprie di una determinata epoca e pertanto l’ambizione di “semplificare” il quadro politico prescindendo dalla realtà sottostante si rivela come un’artificiale riduzione del grado di problematicità del reale che, da un lato, conduce ad una (pericolosa) riduzione del livello di pluralismo dell’ordinamento giuridico e, dall’altro lato, si rivela inutile se non controproducente perché i problemi concreti finiscono sempre per riacquistare una centralità nell’agenda politica (per non parlare del rischio – tutt’altro che teorico – di aprire il fianco a derive demagogiche ed antidemocratiche).

Se con il termine “semplificazione” si intende invece far riferimento alla riduzione del potere di veto di forze politiche “minori”, bisogna innanzitutto interrogarsi su cosa si intenda per “minori” ma soprattutto prendere atto che, nonostante la tanto sbandierata “semplificazione” del quadro politico italiano, la forza di veto di gruppi minori non è affatto venuta meno. E proprio questa constatazione dimostra quanto sia illusoria l’idea secondo cui l’adozione di un sistema elettorale volto a determinare – coattivamente – una maggioranza di governo possa automaticamente determinare una stabilità del sistema politico (prescindendo cioè dai motivi – sociali, economici, storici, culturali – che determinano il pluralismo del quadro politico).

Anche da questo punto di vista riemerge una visione di fondo del rapporto fra tecnica e politica, secondo cui la (asserita) “neutralità” della tecnica dovrebbe fornire “garanzie” maggiori rispetto alla politica ed in cui anche la scelta del sistema elettorale risponderebbe non a visioni politiche ma ad opzioni (meramente) tecniche (come dimostra il grande successo di espressioni quali “ingegneria costituzionale” e “ingegneria politica”). Deve invece ribadirsi che la scelta “tecnica” non è affatto neutrale perché sempre conseguente a precedenti opzioni valoriali (e dunque “politiche”).

Alcuni hanno posto il problema della legittimazione democratica del governo tecnico (nella specie del governo Monti in quanto privo – a differenza di quello che lo ha preceduto – di una diretta legittimazione elettorale): posto in questi termini il problema è insussistente giacché nell’ordinamento costituzionale repubblicano il governo non deve affatto avere una diretta legittimazione democratica (anzi, in Assemblea Costituente venne respinta la proposta del governo presidenziale). Nel caso dell’esecutivo Monti, il Parlamento (democraticamente eletto) ha conferito la fiducia al un governo nominato dal Presidente della Repubblica e dunque non appare rinvenibile alcuna violazione costituzionale giacché l’esecutivo nell’ordinamento italiano trova la propria legittimazione nel conferimento della fiducia da parte del Parlamento.

L’obiezione da porre al fenomeno del “governo tecnico” è invece da esplicare ad un livello diverso e riguarda l’effettivo rispetto di altri principi costituzionali, quali il principio di responsabilità e il principio di trasparenza. Con riguardo al primo, le decisioni assunte vengono ammantate (nel caso del governo tecnico) da una “neutralità tecnica” per cui né l’esecutivo né le forze politiche che lo sostengono si sentono chiamate a risponderne direttamente. Con riguardo al principio di trasparenza, l’asserita “tecnicità” del governo rende opaco il quadro all’interno del quale vengono elaborate ed assunte le singole decisioni con crescita di peso dei gabinetti ministeriali (o di “centri studi” o “fondazioni”), in assenza di un aperto dibattito pubblico sui concreti progetti e su reali effetti e conseguenze.

Deve infine aggiungersi che la crescita del ruolo dell’esecutivo è dipesa anche dall’influenza dell’ordinamento comunitario (in ragione della centralità dell’esecutivo nei rapporti con l’UE) e, a questo proposito, va ricordato che la scelta della figura di Mario Monti è avvenuta come elemento di “riqualificazione” (se non di “rilegittimazione”) del nostro Paese nei rapporti internazionali ed europei in particolare. Ma anche quest’ultima considerazione ripropone il problema del rispetto dei principi di responsabilità e di trasparenza giacché la trasposizione a livello europeo dei relativi processi decisionali determina un ulteriore indebolimento dell’effettività di tali principi5.

Note

1 In dottrina, sul ruolo dell’esecutivo nell’ordinamento costituzionale italiano, v. AA.VV., Il Governo, Atti del XVI Convegno annuale Aic, Padova, 2002, e, da ultimo, Merlini, S.-Tarli Barbieri, G., Il governo parlamentare in Italia, Torino, 2011.

2 Su tali problematiche v. Ridola, P., Democrazia rappresentativa e parlamentarismo, Torino, 2011.

3 Sul ruolo del Presidente della Repubblica v. Baldassarre, A.-Mezzanotte, C., Gli uomini del Quirinale, Bari-Roma, 1985; Luciani, M.-Volpi, M., Il Presidente della Repubblica, Bologna, 1997; Tebaldi, M., Il Presidente della Repubblica, Bologna, 2005.

4 Al riguardo v. Rescigno, G.U., Responsabilità (diritto costituzionale), in Enc. dir., Milano, 1988, 1341 ss.

5 Al riguardo v. già Politi, F., Principio di responsabilità, in Mangiameli, S., a cura di, L’ordinamento europeo, vol. II, Milano, 2006, 297 ss.; Id., Principio di trasparenza, ibidem, 275 ss.; e per ulteriori approfondimenti Id., Temi di diritto dell’Unione Europea, Torino, 2005.

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