Grandezza e miseria della nobiltà veneziana

Storia di Venezia (1997)

Grandezza e miseria della nobiltà veneziana

Laura Megna

Ricchi e poveri

Tra Sei e Settecento la nobiltà veneziana presenta un quadro complesso di realtà economiche e sociali, politiche e culturali assai differenziate. Sfumato con la crisi dei traffici il tradizionale canale di arricchimento e di ascesa delle fasce più deboli del patriziato, le divisioni interne alla nobiltà si fecero più rigide e marcate. L’estendersi della proprietà nobiliare in Terraferma e la rendita che ne derivava costituirono lungo la crisi del Seicento (1) la stabile fortuna delle famiglie ricche ma restarono per altre un felice miraggio. Nella corsa alla terra occorrevano grandi capitali e chi non ne disponeva, non riuscendo ad accaparrarsi le terre più fertili né a reinvestire nella loro valorizzazione, risultò spesso perdente (2).

In un «mondo mudado» (3), in cui i Veneziani avevano smarrito ogni primato commerciale, l’investimento fondiario e la logica della stabilità che lo sottendeva consentirono tuttavia al patriziato di mantenere una notevole concentrazione di ricchezze (4). Nel 1661 erano ancora nelle sue mani il 70 per cento delle proprietà veneziane in Terraferma e oltre la metà degli immobili situati nella Dominante (5). Il secolare processo di riconversione degli investimenti non segnò dunque un impoverimento della nobiltà tout court, piuttosto innescò al suo interno un fenomeno di concentrazione delle ricchezze accentuato dall’uso allargato di fedecommessi e, sia pure parziali, primogeniture atti ad evitare la dispersione di patrimoni in larga parte immobiliari e meno facilmente reintegrabili che ai tempi del fiorente commercio. La dinamica di questo processo è chiara e apparve evidente agli stessi contemporanei che nel Seicento, e con maggior risonanza nel secolo successivo, ne denunciarono i più vistosi effetti: fortune ingentissime ristrette in un numero sempre più esiguo di famiglie da un lato, proliferare dall’altro dei nobili poveri, di quella «plebe» nobile che negli ultimi secoli della Repubblica divenne l’emblema della crisi del patriziato e dell’inevitabile deriva oligarchica del sistema aristocratico (6).

Difficile, invece, cogliere il ritmo di questo fenomeno di concentrazione delle ricchezze e le sue dimensioni in termini quantitativi. Le fonti fiscali documentano ampiamente il lievitare della rendita immobiliare patrizia. I nobili veneziani, infatti, non godevano dei privilegi fiscali propri delle altre aristocrazie, che fondavano sull’esercizio delle armi il loro servizio al principe, e su case e terreni pagavano le decime come il terzo stato (7). Nelle polizze presentate alla magistratura dei dieci savi alle decime essi descrivevano talvolta di loro pugno ma sempre con minuzia — case e terreni, la loro ubicazione e la relativa rendita sia «a contanti», sia «a biave», ovvero in dettagliate quantità di derrate (cereali, vino, legumi, uova e pollame, legna...), che i calcoli effettuati dai magistrati traducevano, in calce al documento stesso, in ducati sonanti. Pur tenendo conto del lungo periodo d’inflazione — particolarmente pesante dal 1570 al 1620 —, il confronto tra le polizze presentate ai dieci savi alle decime nel 1582 e quelle compilate per la successiva redecima del 1661 appare assai significativo. Tra i nobili residenti nel sestiere di Dorsoduro — al quale è per ora limitato il mio campione — il patrimonio immobiliare più rilevante apparteneva ai Contarini di San Trovaso, proprietari tra l’altro della palladiana villa di Piazzola sul Brenta, teatro di feste, regate, spettacoli teatrali la cui grandiosa coreografia nel 1685 fu favolosamente descritta e illustrata in un’operetta significativamente intitolata Orologio del piacere e pubblicata dalla tipografia presente nella villa stessa (8). Nel 1582 i fortunati Contarini — certamente una delle famiglie di maggior rilievo, per prestigio e ricchezza, di tutto il patriziato — godevano di una cospicua rendita annua di 5.974 ducati salita nel 1661 alla bellezza di 9.174 ducati (9). Nello stesso periodo i Giustinian di San Pantalon riuscirono quasi a raddoppiare le loro rendite, che salirono dai 4.946 ducati (1.164 provenienti da stabili situati nella Dominante, 2.267 da «possessioni a contanti» e 1.515 da «possessioni a biave») del 1582 ai complessivi 8.576 ducati del 1661 (10). Così i da Mula residenti nella contrada di San Vio, che passarono dai 1.189 ducati del 1582 ai 2.411 denunciati nella redecima successiva (11). La stessa ascesa registrarono le entrate immobiliari dichiarate dai Civran di San Trovaso, che salirono dagli 834 ducati del 1582 ai 1.695 del 1661 (12). Anche per molti altri patrizi il trend era positivo. Rispetto all’estimo del 1582, il numero dei nobili che godeva di una rendita superiore ai 1.000 ducati l’anno era triplicato, passando da poco meno del 10 al 30 per cento circa dei patrizi residenti a Dorsoduro. Pure alcune famiglie più modeste moltiplicarono le proprie entrate, come fecero i Barbaro di San Pantalon, la cui rendita immobiliare avanzava dai 187 ducati del 1582 ai 714 del 1661 (13), o i Balbi residenti a San Trovaso, che nel 1582 dichiararono introiti per 233 ducati e nel 1661 per oltre 650 (14), o i Malipiero di San Pantalon, 138 ducati nel 1582 e 531 con l’estimo seguente (15).

Ma ancorate ai 100/200 ducati e spesso a meno, le entrate immobiliari di molti altri patrizi non conobbero un simile decollo. Tali posizioni di rendita, già modeste nel 1582, sotto il peso dell’inflazione risultavano nel secolo seguente vieppiù ristrette. È del resto vero che i dati offerti dalle polizze sono frammentari e richiedono verifiche qualitative assai attente. L’apporto della proprietà femminile, ad esempio, veniva spesso a temperare anche le economie meno fiorenti. Il nobile Giambattista Zorzi qm. Giulio, residente all’Angelo Raffaele, nel 1661 dichiarava a nome suo e dei suoi fratelli una rendita annua di appena 32 ducati provenienti dall’esigua eredità paterna, ma le case e le terre portate in dote dalla moglie Cecilia Paruta, che fruttavano per l’esattezza 198 ducati l’anno, costituivano davvero un utile correttivo (16).

Nonostante queste variabili, rendite modeste come quelle dichiarate da Benedetto Pisani qm. Marin, residente a San Barnaba con 64 ducati d’entrate l’anno (17), Gerolamo Barozzi qm. Giacomo, residente a Sant’Agnese con 49 ducati (18), Giulio e Carlo Contarini qm. Marcantonio, residenti a Santa Margherita con 45 (19), Battista Loredan qm. Camillo, residente a San Vio con circa 40 (20), Gerolamo Ferro qm. Nicolò con 21 (21) delimitavano un’area nobiliare di povertà più che relativa. Impoveriti, ad esempio, i Briani. Gli avi di Ludovico Briani qm. Stefano godevano nel 1582 di una rendita annua superiore ai 120 ducati (22). Ma Ludovico, che nel 1661 era impegnato nel reggimento di Sebenico e ricoprì in seguito la carica di provveditore straordinario a Spalato e Traù, poteva contare solo su un’entrata di 52 ducati l’anno per beni in buona parte di provenienza dotale (23). Ciò che il nobile Briani aveva acquistato con «fatiche e cimento» in una vita «per mare» era valso a dotare del suo «proprio» le sorelle, ma non aveva risollevato le sorti di una casa in evidente declino (24). Stesso discorso per gli Zorzi di San Barnaba. Nel 1582 Gabriele Zorzi qm. Gabriele disponeva di una rendita personale di 122 ducati per «beni acquistadi» che si aggiungeva ai beni aviti di cui godeva in regime di fraterna con i fratelli Alvise e Giovanni, case e terreni per un importo annuo di 144 ducati (25). Nel 1661 le rendite immobiliari di suo figlio Gerolamo, che proprio quell’anno serviva la Repubblica in qualità di podestà a Caorle, erano ben più ristrette: 32 ducati provenienti dall’affitto di una casa e tre campi situati «nella villa di Brusaporco sotto Castelfranco», mentre un’altra proprietà — «casa con cortivo, horto, brolo seratto e pochi campi» — che lo Zorzi teneva per suo «uso et commodo» non rendeva «cosa alcuna» (26).

Se una valutazione in termini comparativi dei patrimoni medio bassi — individuabili, tenuto conto dell’inflazione intercorsa tra il 1582 e il 1661, tra i 100 e i 500 ducati — risulta piuttosto complessa, la presenza dei nobili poveri, che non raggiungono la soglia dei 10o ducati annui, appare nel Seicento assai visibile, interessando circa un quarto dei patrizi residenti nel sestiere di Dorsoduro. Difficile tuttavia seguire attraverso questa fonte fiscale la vicenda delle famiglie povere che spesso si dividevano, vivevano in affitto e cambiavano sestiere. Senza parlare poi di chi beni in decima non ne aveva punto, come la maggioranza dei patrizi i cui figli furono educati nell’Accademia della Giudecca, istituita nel 1619 per fronteggiare il problema dell’incalzante pauperismo nobiliare (27).

Strategie familiari e conservazione della ricchezza

Nel Cinquecento furono soprattutto le grandi famiglie ad adottare la pratica del matrimonio limitato ad un solo erede che neutralizzava gli effetti dispersivi del sistema successorio veneziano, basato, anche dopo l’adozione costante dei fedecommessi, sulla divisione in parti eguali del patrimonio tra gli eredi maschi (28). Era dunque un ferreo gioco di squadra piuttosto che l’uso altrove generalizzato di maggiorascati e primogeniture a regolare la successione nelle ricche famiglie veneziane (29). Nel testamento redatto nel 1551 da Giovanni Corner qm. Giorgio, nipote della regina di Cipro e capostipite del ramo dei Corner residenti nella contrada di San Polo, nessun riferimento a fede-commessi, primogeniture o maggioraschi (30). Nella ricchissima famiglia che tra Sei e Settecento collezionò tre corni ducali — Giovanni I qm. Marcantonio doge dal 1625 al 1629, suo figlio Francesco eletto nel 1656 e il nipote di quest’ultimo, Giovanni II, eletto nel 1709 — e un numero ben più cospicuo di cappelli cardinalizi — da Andrea qm. Giacomo, promosso al cardinalato da Paolo III nel 1544, al nipote Alvise qm. Giovanni, insignito della stessa dignità nel 1551, al fratello di quest’ultimo Federico, cardinale grazie a Sisto V nel 1585, indi al nipote Francesco qm. Marcantonio (1598) e, nella generazione successiva, a Federico, figlio del doge Giovanni I cardinale per mano di Urbano VIII nel 1626, e infine, nel 1697, a Giorgio, l’ultimo porporato dei Corner di San Polo (31) — la suddivisione dei compiti era una tradizione che non richiedeva ulteriori perfezionamenti. Tanta disciplina non si riscontra solo nelle famiglie in cui l’alta concentrazione di pingui benefici ecclesiastici risolveva le sorti di un buon numero di maschi. Fedecommessi e primogeniture non furono necessari neppure in casa del procuratore di San Marco Giovanni Soranzo qm. Francesco (32). Ben accomodati «de robba et de danari» e in tutto partecipi dell’eredità paterna Giacomo, Gerolamo e Benedetto seguirono «il consiglio» di «non si maritar», lasciando al solo secondogenito i doveri di un matrimonio fecondo (33). Talvolta era un legato a incentivare il rispetto della volontà paterna. Un lascito di 8.000 ducati valse a favorire i piani di Marin Bernardo qm. Bernardo, che desiderava che uno solo dei tre figli maschi prendesse moglie (34). L’eventuale disobbediente sarebbe infatti stato privato «per il suo terzo» del cospicuo legato, ferma restando la divisione egualitaria del rimanente asse. Fu un deterrente più che sufficiente per i tre giovani Bernardo, assai poco ansiosi di accasarsi. Solo nel 1688 il terzogenito Giovanni Battista sposò la nobile Marina Miani qm. Antonio qm. Angelo. Non nacquero figli maschi da tale unione e sei anni dopo, per evitare l’estinzione, il primogenito — l’ormai cinquantenne Bernardo — sposò la nobile Laura Michiel di Nicolò qm. Angelo, che assicurò alla casa la sospirata discendenza (35).

Per puro spirito «di famiglia» aveva rinunciato al matrimonio anche il procuratore di San Marco Giulio Contarini, che tenne con sé, nel palazzo di Santa Maria Zobenigo, gli illegittimi Ottaviano e Giulia. Padre affettuosissimo e generoso, Giulio dotò la figlia che sposò un nobile di ca’ Molin e fornì il maschio di un’entrata annua di oltre 360 ducati senza tuttavia privare del suo grosso patrimonio la discendenza legittima «da Chà Contarini» (36). Male minore, disordine inevitabile in una logica della stabilità che privilegiava innanzitutto l’unità del patrimonio, la presenza dei figli naturali era ampiamente tollerata all’interno delle mura domestiche. «Il rispetto de miei nepoti è stato causa, che non mi son maridà», ricordava ai fratelli Benedetto Soranzo qm. Francesco, che col testamento scritto di suo pugno il 29 novembre 1575 lasciava all’illegittimo Lazzaro — «sij o non sij mio fiol, che per fiol carissimo l’ho accettato nell’istesso punto che nacque, et per mio fiol l’ho arlevato con grandissimo amore» — un vitalizio di 400 ducati l’anno (37). Non si opponessero dunque fratelli e nipoti ad un legato che non privava «la dessendentia legitima» delle sue prerogative. Non era anche merito di Lazzaro se il testatore non si era sposato? «Che forsi se non l’havesse havuto lui [scriveva Benedetto] per parlar ciaro forsij laveria fatto» (38). Sentimenti e risentimenti che nei testamenti dei nobili veneziani appaiono largamente condivisi. «Io antepongo l’interesse de mio fratello et de suoi figlioli al servitio et commodità del mio proprio figliolo», asseriva nel 1604 un altro patrizio, Marco Cappello del qm. Andrea, che destinava all’illegittimo Gerolamo una rendita fissa di 200 ducati l’anno (39). Piena libertà al «povero figliolo» di spenderli — «come più gli par et piace» — senza doverne render «conto alcuno», tanto più che tutti i «beni mobeli come stabeli» restavano al fratello del testatore Giovanni e alla «linea descendente» dei suoi «legittimi eredi» (40). Libertà e rigida disciplina cercavano e forse trovavano anche in questo modo un pur difficile punto di equilibrio.

Omessi dagli alberi genealogici che raffigurano esclusivamente la discendenza «nobile» delle famiglie, gli illegittimi che avevan perso il «carattere patrizio» costellano i margini dei lignaggi che si snodano di generazione in generazione intorno ad un unico asse. Figli naturali in casa dei Tiepolo residenti ai Santi Apostoli, grande famiglia che grazie alla pratica del matrimonio limitato aveva contenuto i danni della conversione dalla tradizione marittima alle nuove rendite campestri (41). Dei tre figli di Paolo Tiepolo, capitano a fine Quattrocento delle galere di Fiandra, solo Stefano — ambasciatore per la Repubblica a Costantinopoli e procuratore di San Marco dal 1553 — aveva contratto legittimo matrimonio. Anche dei suoi cinque figli maschi solo tre convolarono a giuste nozze. Privo di discendenza mascolina il primogenito Paolo, che nel 1576 ottenne come il padre la carica onorifica di procuratore di San Marco, l’onere del matrimonio era toccato in seguito e con più fortuna — cinque addirittura gli eredi maschi — all’ultimogenito Almorò, già capitano delle fuste al tempo della guerra di Cipro e in seguito capitano generale da mar contro gli Uscocchi. Illegittima invece la prole del terzogenito di Stefano, Bernardo, che preferì al servizio sul mare la vita politica dei consigli e delle magistrature cittadine. Nel 1607 egli lasciò una rendita di oltre 500 ducati l’anno ai «figli naturali» Stefano e Paolo, che avevano studiato all’Università di Padova e ora vivevano «honoratamente» insieme a lui a Venezia. Fermo restando, ovviamente, che alla loro morte ogni cespite ad essi assegnato sarebbe riconfluito «nella discendentia» dei figli di Almorò, «nobeli veneti da ca’ Thiepolo» (42). Ricchissimi, allo scoppio della guerra di Candia questi ultimi sostennero la Repubblica acquistando per oltre 20.000 ducati contanti quella carica di procuratore di San Marco che i loro avi avevano conseguito «per merito». Esclusi dai Libri d’oro, gli illegittimi di Bernardo ottennero, come molti altri rampolli patrizi dalla nascita «imperfetta», il privilegio della «cittadinanza originaria», che apriva la via degli uffici nella burocrazia statale (43).

I processetti istruiti dagli avogadori di comun in tali occasioni offrono una solida testimonianza dell’integrazione — sia pure in posizione subalterna — dei naturali nella famiglia nobile veneziana. Istruiti nelle «bone virtù, bone littere, e honesti costumi», essi godevano di riflesso delle fortune familiari. Allevato come «un gentil’huomo nato legitimamente», Francesco Cicogna, figlio naturale del nobile Gabriele, nel 1590 fu nominato priore dell’Ospedaletto di San Marco dal doge Pasquale Cicogna, suo cugino in secondo grado (44). Altri illegittimi trovavano tra le pareti domestiche la prima occupazione: tenere i conti, amministrare i beni, sia pure come fattori e non padroni. Il già citato procuratore Giulio Contarini si fidava ciecamente del figlio naturale Ottaviano. «Tiene la scrittura et scode et maniza tutto il mio [affermava Giulio nel testamento olografo del 21 novembre 1578] per esser molto pratico, et intendente del tutto, et havendo nelle sue mani tutti li miei libri, acquisti et ogni mia raggione» (45). Non era un caso isolato. In un testamento che è una lunga confessione il 20 luglio 1574 il nobile Filippo Garzoni qm. Francesco, residente a San Geremia, non nascondeva di avere molta più fiducia nell’amministrazione del «fidel et amorevole» figlio naturale Antonio che nel genero Nicolò Bernardo qm. Girolamo. Un elemento che al momento della divisione dei beni tra il naturale e la figlia legittima Franceschina — avvertiva il testatore — andava in qualche modo a favore del primo (46). «Sia mio fratello o non sia [...] in amor sempre tenutto come se fossimo di uno ventre natti», scriveva del fratello naturale Marco il patrizio Francesco Bernardo qm. Benedetto. A lui e non ad altri parenti avrebbe affidato il «governo» dei suoi figlioli in «pupilar età» (47). Lo gratificava perciò di un lascito di 150 ducati l’anno. La consapevolezza che «la facoltà» una volta divisa sarebbe «presto» venuta «in niente» (48) certo contribuiva a dettare al patriziato un atteggiamento comprensivo verso quegli illegittimi che altrove non si esitava invece a definire bastardi (49).

Comportamenti successori diversi

Comportamenti successori ben più dispersivi caratterizzano nella seconda metà del Cinquecento altre famiglie patrizie. Forti preoccupazioni egualitarie prive di ogni altra restrizione manifestava ad esempio il nobile Filippo Foscari qm. Francesco, residente nella contrada di San Provolo. Gravati da fedecommesso, gli immobili di maggior prestigio erano divisi in parti eguali tra i figli maschi, mentre altri immobili erano destinati a uscire dalla casa per dotare le femmine (50). Anche a Venezia esistevano diversi livelli di proprietà più o meno vincolati: i beni aviti o le proprietà più redditizie restavano tendenzialmente alla casa, altre proprietà confluivano — specie in assenza di grandi capitali liquidi, titoli di stato, livelli, partite di banco, dadie... — nel mercato delle doti (51).

Negli strati più bassi del patriziato il perentorio divieto di vendere, alienare e ipotecaré il nucleo antico del patrimonio — il palazzo o l’accorpamento di beni urbani o rurali — si coniugava con un estremo egualitarismo di stampo ancora tutto mercantile. Così Andrea da Molin qm. Pietro, residente nella contrada di San Zulian, che lasciava il suo modesto patrimonio — «mobeli e stabeli, zogie, argenti, crediti et ogni altra cosa» — «tanto a uno quanto all’altro egualmente» ai quattro figli maschi che sperava proseguissero «su la strada dela mercantia», ma vietava risolutamente loro di «vender né impegnar né alienar» lo stabile di San Zulian e le proprietà di Gorgo, nel Trevigiano, da «tanto tempo» in possesso di «cha Molin» (52). L’insistente richiamo dei padri di famiglia patrizi a che i figli restassero insieme sotto lo stesso tetto coesisteva col pragmatico atteggiamento di dividere il patrimonio tra i vari eredi «in parti eguali». Senza esitazioni il nobile Pietro Calbo qm. Antonio, residente nella contrada di San Giminiano, nel 1572 divise il suo patrimonio — modesto ma articolato: la «casa granda» dove viveva la famiglia con le case e casette adiacenti costituivano insieme a uno stabile situato nella contrada di San Pantalon il grosso dei beni urbani, cui si aggiungevano una settantina di campi e la villa di Asigliano, nel Vicentino, un’altra proprietà nel Basso Padovano e qualche campo sparso verso Montagnana, orti e vigne nelle isole della laguna nord di Sant’Erasmo e San Francesco del Deserto — in lotti «eguali» che alla sua morte sarebbero stati «imbossolati e sorteggiati» tra i cinque figli maschi e con lo stesso sistema delimitò i beni immobili spettanti, sia pure in minor misura, alle femmine (53). Scrupoli egualitari che nulla toglievano alla forza dei vincoli fedecommissari che gravavano sulla proprietà maschile, inalienabile e destinata a seguire una linea strettamente agnatizia nella successione. Onde evitare ogni postuma discussione, col testamento redatto di suo pugno il 4 marzo 1608 Lucrezia Trevisan, vedova del nobile Lorenzo Dolfin, decideva di spartire lei stessa case e terreni tra i suoi eredi maschi, i tre figli Gerolamo, Bernardo e Lorenzo, e i due nipoti Bernardo e Lorenzo, orfani del figlio Giovanni. Solo dopo essersi applicata all’arduo compito di circoscrivere proprietà cospicue e peraltro difficili da dividere, la nobildonna passò al sistematico inventario di arredi e «biancarie», riposte con ordine nelle sue «casse d’oro» e «di noghera» (54). Anche Giovanni Moro qm. Leonardo nel 1621 fece «un calculo assai accurato, et diligente» del valore di «mobeli e suppellettili» che andavano ai quattro figli maschi. La preoccupazione paterna di «egualizar» le parti si arenò tuttavia di fronte alle mura del palazzo avito. Per il nobile Moro dividere il palazzo di San Geremia — «compreso in essa anco l’orto grande, et casa d’ortolan, piante che sono nella corte, et orto picciolo, mappamondi, che sono nel portico, et faro, quadri, che sono nella camera grande» — sarebbe stato «un guastar, et rovinar ogni cosa». Perciò la proprietà restò divisa in parti eguali tra i quattro figli maschi, ma l’uso delle mura domestiche fu privilegio del primogenito che avrebbe dovuto corrispondere ai fratelli un’adeguata ricompensa (55).

L’integrità del palazzo avito era un assillo comune a molti gentiluomini. Nel 1573 Marcantonio Barbarigo qm. Francesco lasciava ai figli Francesco, Giovanni, Agostino e Piero lo stabile di campo San Vio prospiciente il Canal Grande a patto che non fosse «diviso alterato né separato in niun modo» (56). Gerolamo Venier qm. Giovan Francesco, residente nella stessa contrada, aborriva a tal punto l’idea che la struttura del palazzo delle Torreselle dove lui e i suoi avi erano vissuti fosse alterata da preferire, al confronto, soluzioni come l’affitto o addirittura la vendita, a patto ovviamente che i nuovi proprietari non lo potessero «mai divider» (57). È su questi immobili, i più prestigiosi e rappresentativi dell’identità familiare, che tra Sei e Settecento andarono a cadere con maggior frequenza quei titoli di «prelegato e primogenitura» che soddisfacevano la duplice esigenza di evitare il materiale smembramento di ville e palazzi offrendo nel contempo un punto di vantaggio agli eredi cui toccava l’avanzamento del lignaggio. Fu così che il nobile Lazzaro Ferro nel 1690 decise di lasciare ad uno solo dei nipoti la villa di Merlengo, «con tutti li mobili in essa casa, e luoco [...] carrozze, cavalli, fornimenti per quelli, arnesi, e bottami in ciascuna caneva e parimenti tutti li cortivi, possessioni, e campi in essa villa [...] e vicine» (58). La consapevolezza che «la divisione» — «facile a succedere» quando vi erano «più interessati» — avrebbe «deformato» la villa da lui stesso «con molta spesa» ampliata di «fabbriche e ornamenti» corroborava l’intenzione di offrire una ulteriore «prerogativa» all’erede che avrebbe sostenuto «il gravoso peso del matrimonio e della filiazione» (59). Analoghe motivazioni avevano indotto nel 1646 il procuratore di San Marco Antonio Canal a scorporare dal ricco asse ereditario — diviso in parti eguali tra i quattro figli maschi — il palazzo di San Barnaba e la villa di Campoverardo, assegnati rispettivamente al «figliolo più piccolo nominato Piero» e al secondogenito Francesco Maria (60). Tra gli eredi non era più l’eguaglianza assoluta, anche se grazie al largo patrimonio dei Canal gli esclusi avrebbero potuto rifarsi «di qualche cosa nelli altri campi» (61). Ma agli occhi del vecchio procuratore era tuttavia preferibile — per dirla con le parole sue — «che uno habbi qualche comodità più che gl’altri, più presto che tutti stiano mal, et quello ch’è peggio, che corrano pericolo di qualche travaglio per lo disparere, che corrono qualche volta tra li vicini confinanti» (62). Negli strati più elevati della piramide patrizia lo spettro della litigiosità finiva dunque per far cadere ogni residuo scrupolo egualitario.

Famiglie in via d’estinzione

La complessa strategia fatta di matrimoni limitati, fedecommessi e parziali primogeniture funzionava in presenza di un patrimonio cospicuo e interessava anche le case «di moderate fortune», le «più facili per tanti riguardi a andar di male» — come affermava nel testamento redatto nel 1706 il nobile Leonardo Emo qm. Giovanni (63). Ma a mano a mano che si scende nella scala nobiliare tale rigidità di comportamenti appare meno nitida. L’istinto aristocratico, il desiderio d’eternità della «casa», cedeva spazio alle ragioni quotidiane del nucleo domestico, alla logica del ménage. Entità indissolubilmente legate, patrimonio e famiglia. Senza l’urgenza del primo, i legami familiari si allentano, i rapporti col casato sfumano. Nel testamento autografo redatto nel 1614, Alvise Zorzi qm. Gerolamo, un nobile di modeste fortune residente nella periferica contrada di San Martino, neppure menzionava i figli del fratello Francesco, scomparso alcuni anni prima, né i più lontani parenti di ca’ Zorzi (64). I suoi effetti personali — la «vesta» e la «stolla», la «romana di felpa» e il «mantello» —,  i beni di casa — dai «rotami» agli arredi di qualità come la «bella tavola grande de nogara» e le «careghe de Bulgara» —, i numerosi quadri di un qualche pregio — la madonna dei Carmini, i tre magi, le dodici sibille, un ritratto del generale Priuli e di «capitani da mar» — e gli altri oggetti di valore e gioielli — la saliera e qualche coltello d’argento, un paio d’anelli e poche quisquilie — andavano tutti alla convivente Lucietta — «mia qui de casa» — e all’amico «spizier», suo esecutore testamentario (65). Anche gli orizzonti del nobile Andrea Falier qm. Francesco non superavano i confini di una minimale comunità domestica: nel testamento dettato il 18 giugno 1681, pochi mesi prima di morire, erano menzionati solo la moglie Chiara e il figlio Francesco, cui Andrea lasciava i suoi pochissimi beni (66). La storia della sua famiglia, i Falier di San Tomà (67), era ormai tutta alle sue spalle: anzi a dire il vero si chiudeva proprio con lui, poiché il figlio Francesco, per difetto di «civiltà» della madre, non aveva diritto al titolo patrizio. I fratelli di Andrea — Nicolò, Marco e Ottaviano — avevano scelto il celibato ed eran deceduti senza lasciare alcuna discendenza. Come i cugini primi Lorenzo, Angelo e Vitale, che pure avevano servito la Repubblica in vari reggimenti sia in Terraferma sia nello stato da mar. L’asse patrimoniale dei Falier mal si conciliava col peso del matrimonio e della nobile prole. I beni aviti erano davvero poca cosa: pochi stabili in città, terre nessuna (68).

Paralizzante, la strettezza economica ignorava le ragioni del lignaggio. Nel Seicento molte famiglie di modeste fortune si estinsero con più maschi adulti senza che uno solo tra essi prendesse moglie. Nel 1604 uscirono così di scena i Premarin (69). Forniti di un patrimonio limitato con la casa in cui vivevano, nella contrada di San Pantalon, e una residenza estiva nel Padovano, la voce più consistente era la proprietà di Montagnana, proveniente dalla dote materna: alcuni campi che fruttavano circa 150 ducati (70) — i cinque figli del nobile Tommaso finirono per non sposarsi. Invano nel 1591 Alessandro Premarin consigliava al fratello maggiore, il quarantacinquenne Francesco, di «maritarsi» (71). Tredici anni dopo, alla morte di quest’ultimo, dell’antica famiglia restava solo il ramo da secoli insediato a Candia (72). Anche Priamo, Filippo, Giacomo, Pietro, Nicolò, Gerolamo e Giovanni Tron del qm. Vincenzo rinunciarono al piacere di una nobile discendenza (73). Orfani giovanissimi, i sette fratelli disponevano di un patrimonio che nel 1582 — a pochi anni dalla morte del padre — rendeva loro circa 170 ducati l’anno: un paio di immobili in città, una settantina di campi nel Trevigiano e nel Padovano e la villa di Fiesso d’Artico, sulle rive del Brenta, cui la famiglia aveva rinunciato per affittarla al nobile Giacomo Dolfin, che pagava un canone annuo di soli 25 ducati ma ne aveva anticipati 300 «a galder» (74). Anche i beni personali che la madre, Lucrezia Contarini, aveva a sua volta recuperato dall’eredità materna, erano gravati da ipoteche: fruttavano ancora un centinaio di ducati l’anno ma ne avrebbero garantiti di più se fossero stati liberi (75). Incapaci di rialzare le sorti della casa, i sette fratelli finirono per non sposarsi e nel 1644 con la morte dell’ultimogenito, l’ormai settantenne Giovanni, la famiglia si estinse. Non era un caso limite. Un ramo impoverito dei Priuli residenti nella contrada di San Giovanni Decollato si chiuse con ben otto figli maschi (76), un ramo dei Donà di San Polo con cinque (77), una linea dei Gradenigo con quattro (78). Pure i sei fratelli Giacomo, Giuseppe, Giovanni, Marco, Francesco e Giorgio Loredan qm. Bernardo ignorarono i doveri del lignaggio che si chiuse nel 1684 alla morte del sessantaquattrenne Giorgio. L’eredità paterna, consistente ma gravata dai debiti, non fu un vantaggioso punto di partenza per i Loredan, che come molti altri nobili di modeste condizioni optarono per il celibato (79). Si estinsero così anche i Duodo di Santa Maria del Giglio (80), i Bragadin di San Severo (81), i Battaglia residenti all’Angelo Raffaele (82) e vari rami dei Marcello (83), dei Garzoni (84), dei Giustinian (85), dei Pisani (86) e di altre famiglie ancora.

«Mésalliances» e disordini familiari

Come spiegare, nell’ansia di nobiltà del secolo, tanta stanchezza? La logorante difficoltà di conservare il decoro senza una cornice economica adeguata sbiadiva le prerogative del sangue. «Far fiolli» con «pocho aver» — argomentava nel 1557 il nobile Domenico Mocenigo qm. Piero — non significava forse «viver sempre cum pene e lassar la [...] progenie in povertà» (87)? Al momento essenziale della riproduzione di se stessa e della costruzione della parentela la coscienza aristocratica s’incrinava. La memoria del passato non dettava le scelte del presente. L’ultimo dei Malipiero di Santa Fosca nel 1630 lasciava tutti i suoi beni alle figlie naturali Laura e Cecilia, compresa la villa di Carrara Santo Stefano, nel Padovano, con l’unica «condicione» che «mai in tempo alcuno», né loro né «suoi heredi», levassero «via l’arma del palazzo da ca’ Malipiero né meterne d’altra» (88). L’opzione consapevole del declassamento era lo strappo più netto con un passato aristocratico del quale restavano pochi segni. L’arma in pietra, lo stemma di famiglia, che i padri/patrizi speravano i figli/borghesi non rimuovessero. Matrimoni con donne di bassa condizione e inabili secondo le leggi veneziane, vieppiù restrittive a partire dal Quattrocento, a procreare «prole nobile» (89), convivenze di fatto con «massere» — donne «de casa» o «di governo» e comunque «plebee» — e figli naturali erano disordini costanti che segnarono la scomparsa di un patriziato terminale che dalla seconda metà del Cinquecento non sfuggiva al pericolo del declassamento. Anche nella Repubblica aristocratica in cui per secoli «nobili si nasce, non si diventa», la povertà emarginava ed escludeva in modo definitivo.

Difficile quantificare la latitudine di un fenomeno che pure appare larghissimo se si indugia ai margini degli alberi genealogici, se si cerca un seguito a queste storie spezzate. Omessa dalle genealogie, la sola discendenza del nobile Angelo Malipiero qm. Piero era il figlio naturale Giovanni — «mio charissimo fiol sia o non sia mio fiol ma da mi nutritto arlevato et sempre come fiol amato», scriveva il padre nel testamento autografo del 17 aprile 1572 (90). Anche la discendenza dei cugini primi Angelo, Marco, Giovanni, Gerolamo e Stefano era limitata al figlio naturale di quest’ultimo, Nicolò, che in seguito per sostenere il peso di una numerosa e ormai non più nobile famiglia si rivolse al maggior consiglio supplicando le rendite di qualche «officietto» (91). Privo di eredi legittimi, nel 1612 un altro Malipiero, Gerolamo del qm. Nicolò, ultimo rappresentante di un ceppo dei Malipiero che aveva dal Trecento una propria discendenza, lasciò ciò che restava delle sue proprietà in Terraferma, fortemente gravate dai debiti, al figlio naturale Piero. Lo scapestrato diciottenne, che era fuggito a Candia dove s’era arruolato «in una compagnia» pur di non prendere i voti come voleva il padre, era di fatto quanto restava dell’antico lignaggio (92). Tutt’altro che eccezionale il caso dei Malipiero. Gabriele Contarini qm. Andrea — nobiluomo di modeste fortune che aveva servito la Repubblica nei piccoli reggimenti di Piove di Sacco e Murano — nel 1597 lasciò tutti i suoi beni all’illegittimo «Anzoletto» e ai suoi futuri «heredi, se ne haverà» (93). L’unico discendente di un ramo povero dei Michiel, forse spazzato dalla peste del 1630, era l’illegittimo Stefano, frutto della duratura convivenza del padre, il nobile Camillo qm. Stefano, con una popolana d’origine vercellese (94). Vissuto «honoratamente» nella casa paterna, il giovane Michiel aveva ottenuto come altri illegittimi di nobili veneziani la cittadinanza originaria: l’11 settembre 1615 era stato infatti approvato «civem originarium huius civitatis venetiarum per antiquam consuetudinem» (95).

Illegittima ma numerosa, la discendenza del nobile Pietro Grimani qm. Giovan Francesco e della figlia di uno «specier» contava ben quattro figli maschi e una femmina (96). Ancor più numerosa quella di Benedetto Moro qm. Bartolomeo — con cui nel 1661 si chiude il ramo da generazioni residente alla Giudecca dell’illustre prosapia — era costituita dal figlio naturale Giacomo e dalle sue sei sorelle (97). Sopravvissuto ai due fratelli che morirono nella peste del 1630, Alessandro Diedo del qm. Lorenzo non si preoccupò di difendere la tradizione. Visse con una certa «donna Lugretia» e nel 1656 lasciò tutti i suoi beni — «mobeli come stabeli [...] niuna cosa eccettuata» — al «figlio naturale Piero» e ai «suoi descendenti [...] in perpetuo». Nessuno li avrebbe reclamati, tanto più che i sei cugini primi di Alessandro erano morti senza eredi (98). Il matrimonio con una «massera» aveva cassato dai Libri d’oro del patriziato anche la discendenza del nobile Michele Salamon, ultimo superstite di una famiglia che non si era mai distinta per cariche ed onori (99). Poveri da lunga pezza, anche altri rami dei Salamon si estinsero nello stesso modo.

Una criminalità da declassamento

Se si seguono a ritroso le vicende di queste famiglie, nel riproporsi dei casi singoli, si delinea un modello discendente della famiglia nobile veneziana costituito da matrimoni multipli ad ogni generazione che decompongono il patrimonio, prima, mésalliances e disordini familiari, poi. I laconici testamenti degli interessati che spesso lasciavano le loro «poche robbe, et di poco valor» a una massera o le risicate proprietà ad una discendenza priva del titolo costituivano l’epilogo di una lunga discesa e solo in qualche caso l’ultimo atto di una repentina disfatta. Debiti col «Pubblico» e con i privati segnavano l’ordito delle successive vendite e cessioni di immobili e livelli. L’assenza per generazioni e generazioni di cariche di prestigio conferma il basso profilo politico di queste famiglie, la cui caduta era spesso accelerata dall’alta incidenza di quella che si può definire una vera e propria criminalità da declassamento. Era un nobile povero e indebitato Andrea Foscarini qm. Marcantonio, che nel 1617 aveva aggredito nell’ufficio del dazio del vino il funzionario che aveva scoperto i suoi contrabbandi (100). L’asse paterno, certificato dalla condizione di decima del 1582, risultava composto da qualche immobile in città, una casa a Padova tenuta per proprio uso, fabbriche rustiche e un centinaio di campi nel Polesine — per lo più terre basse e soggette alle rotte dell’Adige, dalle quali talvolta «non si cava[va] né bezzo, né quattrino» —, per una rendita complessiva che comunque non raggiungeva i 350 ducati annui (101). Questo ramo dei Foscarini residente a San Pantalon non si era mai distinto per cariche di lustro. Per il padre di Andrea, che aveva servito la Repubblica nei piccoli reggimenti della Terraferma, era stato tuttavia un successo ottenere la carica di podestà e capitano a Belluno. Ma Andrea aveva dovuto accontentarsi di sedere nei banchi dei tribunali delle quarantie. Egli non aveva certo risollevato la domestica economia se alla sua morte, nel 1641, nella casa di Pontecchio «da lui habitata» — una fabbrica rustica più che una villa —, si ritrovavano «alquanti bolletini di pegni dalli Ebrei» (102). Quando si trattava di pagarli, i debiti rendevano aggressivi. Impotenza e sprezzo innescavano un’inusuale violenza. Probabilmente perché inferocito contro un creditore che a ragione rivendicava il suo, Marco Malipiero qm. Leonardo non aveva esitato ad aggredirlo nell’ufficio stesso dell’avogaria di comun (103). Per la stessa ragione Paolo Zorzi qm. Antonio aveva ingiuriato l’avvocato della parte avversa Agostino Manolesso — cognome nobile ma in questo caso si trattava di un cittadino — che voleva costringerlo alla dovuta composizione (104). Famiglie marginali sia questo ramo degli Zorzi di San Moisè, sia i suddetti Malipiero che da tempo collezionavano più debiti che onori (105).

Poveri e poverissimi risultano altri patrizi coinvolti nel 1620 in un ampio giro di broglio. Come Giovanni Donà qm. Andrea (106), che aveva «preparato e accomodato in una casa un capello di legno simile a quelli del Mazor Consiglio». Con «balle de creda» i suoi complici si allenavano «a cavar fuori maggior numero de balle» in maggior consiglio, dove pure «spalleggiavano quei che andavano a capello con questa fraudolente maniera» (107). Accusati di aver «esercitato la distributiva al fine de indegno et illecito guadagno» con il Donà furono condannati alla pena del bando perpetuo Alessandro e Nicolò Minio qm. Bartolomeo (108), Michele Memmo di Silvestro, Federico Loredan qm. Giorgio, Pompeo Avogadro qm. Piero, Marco Venier qm. Gerolamo, Nicolò Pizzamano qm. Domenico, Piero Basadonna qm. Alvise, Giovanni Orio qm. Francesco, Gian Francesco Molin qm. Marino, Marco Lippomanno di Antonio, Antonio Malipiero di Francesco Maria e Giorgio Pasqualigo qm. Giacomo (109). L’indagine si arenò solo quando «voci diverse» e secondo i dieci «seditiose» avevano tentato di «addossar la colpa a soggetti grandi» che del mercato del voto erano i grandi manovratori (110). Il «broglio disonesto» non era certo cosa nuova. La sollecitazione di favori da parte di parenti ed amici era una pratica costante (111). E dallo scambio delle nomine allo scambio di denaro per le stesse il passo era breve. Già ai tempi del diarista Marin Sanudo i nobili poveri che vendevano il proprio voto erano sprezzantemente definiti gli «sguizari», dal nome dei mercenari elvetici. Nelle difficili congiunture tra Cinque e Seicento il fenomeno ebbe una evidente recrudescenza. L’arma del voto che consentiva al patriziato povero di far sentire la propria voce in maggior consiglio, paralizzando nei momenti di maggiore tensione le elezioni o penalizzando di volta in volta i candidati sgraditi, costituiva nel contempo un cespite di reddito sussidiario ai magri salari delle cariche, alle pur tenui rendite diverse. Probabile che gli stessi soggetti se ne servissero — a seconda delle situazioni e delle occorrenze — nell’uno come nell’altro modo. Né solo rivoltosi né solo «sguizari», i nobili poveri eran certo consapevoli che unicamente al momento del conto di bossoli e ballotte la propria eguaglianza con i grandi era ancora un fatto concreto.

Pauperismo nobiliare e corruzione viaggiavano di conserva. Più che il broglio disonesto fu una gamma notevole di reati di concussione a portare un numero crescente di patrizi davanti al tribunale dei dieci. In un lavoro recente Gaetano Cozzi ha sapientemente ricostruito la vicenda dei giudici delle quarantie accusati nel 1635 di vender le «intromissioni» e il «pender» delle cause assegnate alla loro corte per 50-60 ducati l’una (112). L’episodio aveva sollevato un notevole scalpore perché il germe dell’illecito si era insinuato in una magistratura della Dominante. Ma erano abusi che a partire dalla seconda metà del Cinquecento erano divenuti assai diffusi nei piccoli centri della Terraferma. Qui — sostenevano i sindaci e inquisitori nel Dominio, magistrati itineranti che periodicamente controllavano l’operato dei rettori veneziani — disordini inveterati rientravano ormai spesso nella norma. Come scardinare quegli illeciti — si domandavano nel 1621 gli inquisitori in Terraferma — che erano la pur necessaria integrazione di salari da decenni e decenni fermi ai 5-10 ducati al mese, cifre capaci di supplire «al bisogno di otto giorni al più» (113)? Nel 1601 due patrizi che in momenti distinti erano stati podestà a Serravalle vennero processati per i medesimi reati: a Zaccaria Giustinian qm. Marcantonio i dieci addebitavano «molte estorsioni, et operationi ingiuriose, cattive, indebite, et indegne a doversi fare da Rappresentanti publici», a Filippo Diedo qm. Gerolamo altrettanti «illeciti et ingiusti civanzi» e «diverse ingiustitie» a carico dei «poveri sudditi» (114). Il servizio nei piccoli reggimenti della Terraferma era una tradizione di famiglia per il Giustinian. Suo padre aveva percorso in lungo e in largo le province con tali incarichi. Zaccaria stesso non era nato a Venezia, ma a Monselice, dove il padre era podestà nel 1556. Nel 1595 Zaccaria, che si trovava in servizio a Monfalcone, aveva avuto dalla moglie, la nobile Chiara Zane, il suo secondogenito maschio, Orsatto (115). L’episodio del processo del 1601 — che pure si concluse con la pena del bando per Zaccaria — interruppe solo per qualche anno il servizio alla Repubblica prestato dai Giustinian detti di Negroponte. Nel 1619 Orsatto era di stanza a Rovigo quando la moglie Caterina diede alla luce il primogenito Giustiniano (116). La vicenda di questo ramo dei Giustinian illustra bene come tali impieghi — magari esercitati proprio col correttivo dei più o meno usuali «ingiusti civanzi» — consentissero al patriziato povero di tirare avanti. Dopo la peste del 1631 e soprattutto ai tempi delle guerre di Candia e Morea il turnover degli impieghi divenne così fitto che alcuni patrizi, in vista di contener le spese o in attesa di trovare una conveniente sistemazione, rinunciarono — sia pure per brevi periodi — a tener casa a Venezia.

Tragico epilogo ebbe invece la storia di Alessandro Michiel qm. Giovanni, sottoposto a tortura e morto nei camerotti dei dieci nel 1597 (117). Mentre era podestà e capitano a Este il Michiel aveva fatto «mercantia della giustitia». «A’ forza di molta quantità de danari» e con la complicità di diversi «mezani» — elementi borghesi di diversa provenienza: Francesco Zoia «Dottor in Este», Camillo da Lion «Padoan» e il friulano Giacomo Persico — che avevano di volta in volta contattato le parti in causa, il Michiel aveva «liberato rei», «commutato et mitigato» pene, «maneggiando anco li processi segreti». Le sue «ingiustissime, et monstruosissime sententie» ed «atti così civili, come criminali» erano stati «tagliati, et annullati, come se mai fossero fatti». Inusuale la durezza dei dieci con il Michiel e i suoi complici. La stessa vedova del patrizio — Giulia Ascarelli, una cittadina — fu condannata, sia pure in contumacia, a «due anni di preggion serrata» (118). Nel giudizio dei dieci su tali reati entravano com’è logico sfumature diverse: dalla concussione alla vera e propria estorsione il passo era breve ma non erano la stessa cosa; sul delitto individuale e almeno apparentemente occasionale si poteva chiudere un occhio, ma col ladrocinio organizzato, quando la rete delle corruttele comprendeva tutta la corte pretoria o elementi ad essa estranei, la mano dei giudici si faceva più pesante.

E d’altra parte erano reati assai comuni. Tra Cinque e Seicento i nobili attivi nel governo dei centri minori della Terraferma commettevano ogni sorta di abusi. Giovanni Battista Michiel qm. Gerolamo, podestà a Caorle nel 1620, aveva coperto la fuga di due ladri in cambio di una parte del bottino — «monili, perle, ori, et altre robbe di molto valore» (119). Quando gli «intervenienti» della parte lesa gli avevano consegnato le «lettere dell’Officio dell’Avogaria che li commettevano dover tenir li rei sotto bona custodia, et di fare diligente inventario delle robbe, et danari asportadi, et inviarlo all’officio dell’Avogaria sudetto» il Michiel aveva fatto «serrar il palazzo» con evidente insubordinazione agli stessi magistrati della Serenissima (120). Lo «spirito di avaritia» del patrizio, punito dai dieci con la pena del bando, aveva alle spalle una discesa esemplare.

Una politica familiare caratterizzata da numerosi matrimoni ad ogni generazione nel giro di alcuni decenni aveva reso quasi inesistente l’asse paterno: dei beni aviti, situati appunto «in corte da ca’ Michiel», nel 1582 restava solo un magazzino, cui si aggiungevano una trentina di campi situati a Montagnana, per un’entrata annua di una sessantina di ducati, che oltretutto il padre del Michiel doveva dividere con i suoi due fratelli (121). Pur sguarnito di beni, il Michiel padre aveva comunque sposato una nobildonna, le cui rendite — un paio di stabili a Venezia, vigne e campi per un gettito annuo dichiarato di circa 130 ducati — paiono più che rilevanti nel modesto bilancio familiare (122). Giovanni Battista — il reo per intenderci — si accontentò invece di una cittadina, «provata abile» quanto alla discendenza (123). Con Francesco, l’unico frutto di quest’unione, si estingueva il ramo dei Michiel di San Cassiano, tanto più che il cugino Antonio qm. Bernardino non era «capace del Maggior Consiglio» — suo padre, infatti, aveva sposato una ferrarese prima «sua concubina». Il crimine e le sue conseguenze — bandi, ritenzioni, uccisioni — non facevano che accelerare una parabola già discendente.

Vittime ed epigoni di una giustizia di per sé discriminatoria — basti pensare alla possibilità di sottrarsi alla pena del bando acquistando una voce di «liberar bandito» —, i nobili poveri pagavano il prezzo del rigore dei dieci e, insieme, erano protagonisti dei crimini più immediatamente odiosi. Vere e proprie estorsioni perpetrate a danno dei governati, come quelle ascritte al provveditore di Lonato, che nel 1599 di «proposito» condannò al carcere e al bando dei sudditi innocenti per poi liberarli dalla pena in cambio di «buona summa di denaro» (124). I casi più clamorosi di peculato interessavano figure di ben altro calibro, come Girolamo Barbarigo che nel 1585 fu accusato dell’intacco di 16.000 ducati effettuato sedici anni prima mentre ricopriva la carica importante di sindaco e inquisitore in Terraferma (125). Ma la corruzione dei patrizi poveri era la più frequente e la più evidente perché si collocava alla base della piramide amministrativa. Sul libro d’estimo della comunità di Castelfranco redatto nel 1581 è scritto, a guisa di titolo, «chiuso avanti tempo per l’avidità del podestà». Per percepire subito l’utile di sua spettanza, il rettore veneziano aveva anticipato la chiusura dell’estimo, o ne aveva accelerato l’apertura, come convenne fare qualche anno dopo a un altro podestà della cittadina trevigiana (126). Al di là dei veri e propri ladrocini, la cifra politica del patriziato povero era la pratica quotidiana del malgoverno. «Donativi et presenti» (127) erano la norma, illecita ricompensa per incarichi di ben poca soddisfazione. «La pocha et niuna stima, che fano questi discoretti suditti delli Publici rapresentanti caggiona, che non può prestare quel pontualle servitio che dovrebbe venendo vilipesi e maltratatti con offesa et pocco decoro della Maestà publica» — scriveva il 21 agosto 1645 da Martinengo, dove occupava la carica di podestà e provveditore, il nobile Vincenzo Zane (128). «Impotenti» si dicevano i rettori dei piccoli centri della Terraferma a gestire la giustizia senza mezzi adeguati, con pochi «cavalieri» alle proprie dipendenze, spesso apertamente disubbidienti «verso il publico Rappresentante» (129), talvolta conniventi con quei malviventi che avrebbero dovuto inseguire. Dalle lettere scritte dai nobili impiegati nei piccoli reggimenti della Terraferma ai capi del consiglio dei dieci affiora un quadro desolante: non si tratta di singoli episodi, né di fenomeni circoscritti ad un solo paese, ad una sola cittadina, ma di fenomeni diffusi con particolare evidenza dalla fine del Cinquecento in poi. Perdenti i rettori dei piccoli centri anche nelle costanti frizioni con i rappresentanti veneziani dei reggimenti «capo di provincia». Frustrante per il podestà di Marostica cedere il proprio posto — «il posto dove siede il Rappresentante del Principe» — al «console» — e quindi ad un cittadino e non ad un nobile veneziano — che amministrava la giustizia in «sua vece», «sotto la Pubblica Loggia», ogni qual volta il podestà di Vicenza decideva di avocare a sé una causa (130). Non ne scapitavano solo le tasche del rettore del piccolo centro del Vicentino — che perdeva il «gius» di sua spettanza — ma altresì l’immagine. Lo scontro tra patriziato ricco e patriziato povero proseguiva anche in periferia. I reggimenti delle città «capo di provincia» — cariche tanto prestigiose quanto dispendiose — costituivano infatti una tappa pressoché obbligata nel cursus honorum dei nobili ricchi, mentre il pur continuo servizio che conduceva gli altri nei centri minori della Terraferma non preludeva ad alcuna carriera (131).

I «grandi»

Nella «sproporzionata diseguaglianza di ricchezze» (132) si accentuava la distanza tra i «grandi» e la nobiltà «minuta», tra i ricchissimi e le fila sempre più fitte dei nobili poveri. La «grandezza» — una qualità che riassumeva in sé la chiarezza dei natali, i meriti degli antenati e la ricchezza della casa — prevaleva sulla «parità coetanea alla nascita» (133), carattere precipuo della nobiltà marciana. L’identità collettiva del ceto dirigente s’incrinava, marginale a fronte di un’identità individuale e familiare vieppiù orgogliosa. La cifra dei «grandi» nel Seicento era il trionfo dell’autocelebrazione, la pompa dell’autorappresentazione. Genealogie, elogi in vita e in morte, in prosa o in versi, col corollario sempre verboso di meriti e rimeriti, virtù e onori, e ancora monumenti funebri, palazzi e un numero infinito di feste pubbliche e private ne erano le palesi manifestazioni. Beninteso, la ricchezza non risolveva da sola — come ricordava sin dal titolo l’orazione scritta in lode di Pietro Foscarini, «nel suo solenne ingresso alla Procuratia di San Marco» — le «difficoltà del viver grande, ne’ doveri particolari di se medesimo, nelle esiggenze d’illustre Prosapia, ne’ vantaggi del comun bene» (134). Il motore della deontologia patrizia era pur sempre quell’«eroica virtù», che si nutriva «delle azioni famose degl’Avi» per applicarsi al «saggio governo» della Repubblica marciana (135). Erede di una tradizione politica secolare, di una vocazione al governo esclusiva, il nobile veneziano doveva essere «vero ritratto» di «Prudenza, Fortezza, Generosità, Sapienza» (136). Si esercitasse «nelle fatiche di Marte» o si applicasse, nella lunga neutralità del dopo Passarowitz, ai «talenti utili e cittadineschi», alla pratica quotidiana del «felice governo» di una Repubblica che nel vocabolario dei Lumi era divenuta «Nazione» (137), egli era «nato più alla Patria e allo Stato che a se medesimo» (138). Il «genio patrizio» alle «eroiche virtù» era un genio politico (139). Mai incrinata, neppure nei secoli del declino, la presunzione repubblicana della superiorità del carattere patrizio. «La Patricia Nobiltà di Venetia, ad altri non sottoposta che alle leggi, non mercenaria nelle cariche» era una vera aristocrazia (140). «Fra tutti i governi d’Europa e molto più di altre parti della terra», era «la sola dominante e non suddita ad altri che alle proprie leggi, fatte da sé a sé medesima» (141). Parole e immagini non confinate nell’enfasi della prosa celebrativa, ma sedimentate e consolidate nell’identità collettiva di una classe dirigente da sempre impegnata nella direzione dello stato. Progressivamente, e più marcatamente dalla seconda metà del Seicento, la scrittura e la lettura del mito della perfezione politica della Repubblica veneziana si traduce — e in qualche modo riduce — nella scrittura e lettura delle virtù patrizie. Una ridda di elogi ad personam  — in vita e in morte di dogi e procuratori di San Marco, nell’entrata e nell’uscita dei soggetti più distinti dalle cariche prestigiose nei principali centri della Terraferma — celebra nelle doti del singolo il patriziato tutto. Di questo virtuoso operare le ricchezze erano cornice essenziale. Perniciosi laddove ridotti in un «ozio molle» alla mera contemplazione di se stessi, i «doni della Fortuna» erano per i nobili veneziani «Istrumenti del bene» (142). «Per vie rettissime» acquistati, essi valevano «di appoggi [...] e di sostegno» alle tradizionali «occupazioni del mondo civile» (143). Positiva la «profusione» di ricchezze quando s’incanalava nel servizio dello stato, nelle «pubbliche rappresentanze» (144). «La giustizia e la splendidezza [ricorda l’autore del succitato elogio di Pietro Foscarini] sono il carattere degl’uomini di comando» (145). Inutile ripetere che «l’aggravio di gran fortuna» richiede «dalla virtù la fermezza insieme, e la moderazione» quando si tratti dell’«esiggenze di persona non già privata, ma pubblica» (146). Se non trovava sfogo solo «ne’ privati commodi» la «splendidezza» non era mai eccessiva (147). Nicolò Corner «vive alla grande, sopra ogni altro della sua condizione» e «però non eccede» — annota a metà Seicento l’anonimo estensore di una relazione che tratteggia il profilo dei patrizi più illustri del suo tempo (148). Il suo palazzo sul Canal Grande, a San Maurizio, era «il più maestoso di quanti ne mostra Venezia» e un altro ne possedeva a Murano, che era «il primo di quell’isola». Il Corner, che sembra avesse ereditato dal padre «un effettivo millione di contanti», era uno degli uomini più ricchi della città, «il più ricco tra’ nobili delle case vecchie [...], havendo sopra 40 mila ducati di annua rendita». Ma non vi era «Senatore» che più di lui potesse o volesse «gettar l’oro [...] in occasione del publico servizio»: «quando l’Imperatore capitò a Trieste, egli fu eletto ambasciatore straordinario. Vinezia non vide mai pompa eguale alla sua. Prese quattrocento servitori e in poche giornate spese del suo ventimila ducati; nel partirsi fu accompagnato da tante gondole e peotte, oltre due galee, con quanto nel giorno dell’Ascenza va il bucintoro a i Lidi» (149).

Gli «eccessi d’immoderata pompa, & estraordinaria spesa», che pur finivano per escludere dall’ambito delle cariche più prestigiose come i reggimenti nelle grandi città della Terraferma «soggetti pari di nascita, & eguali di condizione, ma di fortune inferiori», divenivano quando si parlava dei «grandi» argomento di merito (150). La «moderata splendidezza» — pur «commendata in ogni stato di persone» (151) — non si addiceva loro. Riguardava semmai figure più modeste, che grazie alle capacità personali riuscivano ad emergere anche senza un pingue patrimonio. Come Angelo Correr qm. Gerolamo, il quale a dispetto della «povertà della sua azienda, che non gli rendeva tremila scudi annui», nel 1660 ottenne la porpora procuratoria. A «fatica» il Correr aveva sostenuto il peso finanziario delle ambascerie in Inghilterra, in Francia e a Roma, nelle quali era riuscito a spiccare nonostante il «poco lustro» grazie ai suoi «soprafini talenti», messi alla prova nelle «più ardue faccende» (152). Benché «di angusto parentado e di più anguste facoltà», Andrea Valier qm. Giulio — prode soldato e magistrato integerrimo nei vari uffici di avogadore, savio di Terraferma e savio del consiglio, oltre che storico della guerra di Candia, alla quale aveva preso parte nel 1646 come governatore di nave — era uno dei «principali soggetti del governo pubblico». «Zelante del pubblico interesse, e intendente delle materie più intricate e difficili», il Valier trascurava «ogni altro trattenimento»: «applicato [...] alla serietà della sua incumbenza» e «con parsimonia», a cui l’obbligava «la sua strettissima azienda», viveva «moderatissimo senza genio di conquistare fortune» (153). L’austerità era virtù necessaria ai nobili poveri. Questi era bene osservassero un’«economia guardinga», come faceva Francesco Molino qm. Giovanni, avogadore di comun che in questo modo si manteneva «in concetto» di magistrato «onorato, e netto di mano, mestiero difficile agli Avvogadori di borsa secca» (154). Pur «angustiato dalla scarsezza di fortune», Francesco Querini era senatore integerrimo. «Viveva con moderazione dicevole alla sua povertà», non allevando «fini interessati, ma contento dell’umile sua positura» (155). Esemplari anche i fratelli Zusto che erano «poveri» ma vivevano «come tali», senza ambire «cose oltre la loro sfera» (156). Sfera che a ben vedere si riduceva di regola ai pregadi. Ma per chi voleva imporsi nell’agone politico e ambiva alle cariche di prestigio vivere «troppo parcamente» era un difetto e non un merito. «Homo nobilissimo ed acuto ingegno, versato nelli affari di Europa, capace d’ogni più duro maneggio; destro, prudente, letterato giudizioso e di savia antiveduta», Giovanni Sagredo qm. Agostino era stato eletto ambasciatore a Parigi e a Vienna. Il suo poco fiorente patrimonio l’aveva tuttavia costretto ad essere «sottile economo», cosa che non gli aveva risparmiato critiche. Si malignava che a Parigi facesse «spogliare le livree a staffieri» quando rientrava dall’udienza regia, che a Vienna visitasse «la cantina e la cucina ogni giorno» (157).

Contenere le spese di rappresentanza senza essere accusati di «avaritia» era difficile, così come lo era coniugare le imprescindibili ragioni della privata economia con le esigenze pubbliche, con quell’esclusivo diritto-dovere al governo che connotava da sempre l’aristocrazia marciana. Oneroso il fardello dell’egemonia politica per un patriziato le cui fila già nel Seicento si andavan diradando. Nonostante la fuga massiccia delle classi abbienti nelle ville della pianura, oltre duecento nobili furono uccisi nel contagio del 1630-1631, che operò tra la popolazione veneziana «una falcidia superiore in valori sia assoluti che relativi a quelli del 1575-1577» (158). Ma il declino demografico del patriziato veneziano aveva cause strutturali ben più remote. Secondo il nobile Giovanni Antonio Muazzo, che ne scriveva intorno al 1670, tale crisi era diretta conseguenza della cinquecentesca conversione degli investimenti:

Dal 1550 veramente in quà parve scemarsi a poco a poco il detto numero, e la causa si può attribuire allo stile intrapreso intorno quei tempi di non s’ammogliare se non uno per casa per conservar ricche le Famiglie, perché cominciando a mancar il negozio per la navigazione introdotta nell’Oriente verso il 1490 dalle Nazioni Settentrionali [...] si diede la nobiltà ad acquistar in Terraferma vedendo difficile l’arricchirsi nel Mare, e perche i Fondi più sicuri sono sempre di minor frutto compensandosi la sicurezza con la quantità, di qui nasceva, che non potendo accrescere le Fortune, si restringevano le Famiglie, e così il non maritarsi più d’uno per casa per conservarle unite, diede in gran diminuzione alla Nobiltà (159).

Le strategie familiari atte alla salvaguardia del patrimonio esponevano le famiglie più ricche al rischio dell’estinzione, mentre lo spostamento dei capitali mercantili verso gli investimenti fondiari emarginava di fatto i settori economicamente più fragili del patriziato e li rendeva inabili a sostenere il peso finanziario delle cariche politiche più dispendiose. Tendenzialmente dunque meno numerosi i ricchi — alcuni dei quali tuttavia sempre più ricchi — e via via più numerosi i poveri. L’ultima stagione della plurisecolare aristocrazia veneta si consumava tra questi due estremi, «nocevoli», scriveva nel 1725 Pietro Garzoni, pubblico storiografo e autore del B¥sanoj cioè Paragone usato [...] sù la Repubblica di Venezia per fare pruova della sua qualità, in cui tentava «un pronostico della durabilità» della Serenissima, «alla simmetria, e buona regola del governo» (160). Inceppato lo stesso esercizio della «distributiva», che ripartiva «tra i Cittadini dell’Aristocrazia, gli onori, li carichi, e le civili mansioni» (161). Difficile reperire patrizi disposti a sostenere il peso economico dei reggimenti più importanti della Terraferma — Padova e Brescia le principali con Udine, Crema, Bergamo, Verona, Vicenza, Belluno, Treviso e Rovigo —, impieghi di grande prestigio e indispensabili ad una carriera politica di primo piano ma economicamente gravosi. Rifiuti e richieste di dispensa — sporadici ed eccezionali fino all’inizio del Seicento — erano divenuti nel periodo delle guerre col Turco così frequenti e facili da consolidare man mano una norma negativa ereditata in pieno dal secolo successivo. Tra il 1697 e il 1717 solo un terzo degli eletti si rassegnava senza indugio alla designazione del maggior consiglio (162). Vacillante lo spirito di servizio dei nobili veneziani di fronte ad un impegno pubblico vieppiù pressante. Mentre l’assottigliarsi delle fila patrizie rendeva il turnover degli impieghi meno diluito e alternato, lo spettro dell’impoverimento raffreddava l’ansia di onori e di prestigio della nobiltà più ricca. Il cursus honorum aveva perduto il suo originario significato di dovere reso e dovuto allo stato. Col processo di ridefinizione degli zentilhuomini cittadini in signori affiorava anche nella parte economicamente più sana dell’aristocrazia una sensibilità privatistica. Le ragioni della «domestica economia» finivano per imporsi sull’ambizione politica, che corredata dagli esteriori attributi che colpivano l’immaginazione dei sudditi costava nel secolo del lusso sempre più cara. La riuscita nell’agone politico si inseriva nelle strategie familiari a guisa d’investimento, e come tale soggiaceva alla logica della convenienza piuttosto che a quella tradizionale del dovere. Non una fuga dalla politica, quanto piuttosto il suo ridimensionamento, la sua declinazione col tono generale di una vita nobiliare più morbida, giocata tra la Dominante e la villa, tra i consigli cittadini e le proprie terre.

La fioritura di ville che aveva accompagnato la corsa all’investimento fondiario in Terraferma era il segno tangibile non solo di nuove dimensioni di ricchezza ma di nuovi stili di vita. I nobili veneziani non si erano limitati ad acquistare «possessioni et campi», ma sin dall’inizio del Cinquecento — lo osservava il diarista Girolamo Priuli, ostile alle nuove tendenze dell’economia e della società lagunare — avevano profuso «danari assai» in «palazi, chaxamentti [...] adornamenti et mobelle di caxa [...] cavali excelenti cum li fornimenti» per «andar a solazo» nelle proprie tenute campestri «et vivere honoratamente» (163). Le delizie della vita in villa — «la via di viver felici», nelle pagine della fortunata opera di Agostino Gallo — e soprattutto gli utili più sicuri della proprietà fondiaria avevano progressivamente conquistato anche i nobili veneziani (164). Nel corso del Cinquecento — sull’onda del trend di lungo periodo caratterizzato in tutta Europa dalla crescente difficoltà di soddisfare il fabbisogno alimentare e dal conseguente aumento dei prezzi agricoli (165) —, i loro investimenti in Terraferma si moltiplicarono. La grande stagione delle bonifiche vide molti esponenti del patriziato in primo piano. Con la crisi degli anni Venti del Seicento tale spinta si esaurì, ma l’acquisizione di nuove terre e la febbre della pietra non si arrestarono (166). Le denunce dei redditi presentate dai Veneziani nel 1537 e nel 1661 rivelano un incremento della superficie interessata del 150 per cento e un aumento delle aree edificate del 360 per cento circa (167). Secondo Georgelin, le ville erette nella Terraferma veneta tra la fine della guerra di Candia e la caduta della Repubblica furono oltre 570 (168). Un tempo concentrate nelle zone più propinque alla Dominante, sulla riviera del Brenta e nel Trevigiano, grandi palazzi e modeste dimore punteggiavano ora il Vicentino, il Veronese, i margini settentrionali della provincia di Rovigo. Piacere e dovere portavano i nobili veneziani più volte l’anno nelle loro terre. Le gioie della villeggiatura non escludevano infatti le cure della proprietà. Il soggiorno in villa era un’occasione preziosa per il riordino di quell’intrico di rendite che costituivano buona parte delle entrate patrizie. Come ricordava al figlio il nobile veneziano Giust’Antonio Erizzo di Battista, l’occhio del padrone era insostituibile al buon andamento della proprietà. Per non trascurare i propri «interessi» era opportuno rivedere «le spese», visitare «spesso i luoghi di campagna» e controllare la «vendita de’ [...] prodotti», senza indulgere in quei divertimenti «di visite e di danze» che costituivano in definitiva un «inutile» dispendio (169). La preoccupazione del «civanzo» non svaniva presso l’aristocrazia marciana neppure nel Settecento, quando la corsa verso lo sfarzo e il lusso proseguiva anche in campagna. Certo il tono della villeggiatura era generalmente più mondano che in passato: «giuochi d’ogni spezie, e caccie, e corse di cavalli e di cocchj, e feste a ballo, e merende, pranzi, cene, accademie, teatrini, burle, bizzarie, vicendevoli trattamenti ospitali, viaggietti, spettacoli d’ogni spezie: e insomma tuttociò che potea dilettare, e colla variazione continua dilettare ancor più, tutto si praticava» (170). Se piaceri più semplici come la caccia e il galoppo scandivano la giornata, le notti si spendevano spesso ai tavoli da gioco. Altrove concentrati in un unico locale, nella villa Farsetti di Santa Maria di Sala i tavolini da gioco eran collocati un po’ dovunque, dai corridoi alle camere da letto (171).

«Vero riposo del corpo, e quiete dell’animo» (172) o sfrenata prosecuzione di frequentazioni e svaghi cittadini, la vita in villa rappresentava tra Sei e Settecento una dimensione di libertà e disimpegno largamente apprezzata dai nobili veneziani. Una dimensione che certo non esauriva le loro ambizioni ma che nel perenne conflitto tra interesse pubblico e privato finiva inevitabilmente per ridimensionarle. Dietro la superficie della mondanità c’era il prestigio della proprietà. Aperta la soddisfazione del patrizio veneziano — ritratto da Pietro Longhi su committenza dei nobili Barbarigo — mentre indica la valle in cui si accinge alla caccia col gesto di chi mostra una cosa sua. Deciso il suo incedere — in un’altra tela dello stesso ciclo sulla caccia in valle — al momento dell’arrivo in villa, quando riceve con sussiego l’omaggio dei villani. Senza riserve d’altronde il suo potere su questi ultimi, specie laddove alla proprietà erano accluse quelle giurisdizioni feudali che molte grandi famiglie veneziane avevano acquisito nel tempo a vario titolo (173). Nel 1422 ad esempio un ramo degli Zorzi aveva ottenuto dalla Repubblica il feudo di Zumelle — un contado tra Feltrino e Bellunese — quale compenso per la rinuncia di analoghi diritti in Levante effettuata dai suoi avi nel 1358, al momento della pace tra Venezia e il re d’Ungheria. I più erano tuttavia entrati nei ranghi della feudalità per via d’acquisto: così nella seconda metà del Quattrocento i Pisani «Moretta» avevano conseguito nel Padovano il grosso feudo di Solesino, Stanghella, Vescovana e Boara ed i potenti Vendramin quello friulano di Latisana. Nel 1509 i Morosini si erano assicurati il feudo di Sant’Anna presso Cittadella e nel 1523 i Pisani dal Banco avevano sborsato ben 13.000 ducati per quello di Bagnolo, confiscato dopo Agnadello dalla Repubblica ai nobili vicentini Nogarola (174). L’esercizio di giurisdizioni dotate di poteri pressoché assoluti faceva sentire alcune casate patrizie famiglie «regie». Ma al di là delle prerogative signorili che erano privilegio comunque di una minoranza, la proprietà fondiaria aveva sviluppato nel patriziato il senso di un potere individuale ed esclusivo estraneo alla tradizione repubblicana e mercantile delle sue origini. Come i piaceri della vita in villa, il «sentimento avido della proprietà terriera» era diffuso, ma creava frustrazione in quanti non riuscivano a soddisfarlo (175).

Lontani i tempi dello «sparagno», virtù di una nobiltà che aveva costruito la sua fortuna nei fondaci mediterranei, l’ideale imperante di opulenza e potere si sfogava in un’ansia di protagonismo che contagiava larghi settori del patriziato e non solo e non sempre i più doviziosi. Non era un nobile ricco quell’Antonio Barbaro qm. Carlo che fece della facciata della chiesa di Santa Maria del Giglio un ritratto di famiglia. La sua statua grandeggia nel comparto centrale dell’ordine superiore «al naturale Intiera, con habito Generalitio, et tutto armato con beretton in testa, baston e spada» (176). Le quattro statue dei fratelli, anch’esse, secondo le disposizioni dettate dallo stesso Barbaro, in grandezza «loro naturale», completano il prospetto, insieme all’«arma con corona» della casa, trofei guerrieri «Maritimi, et Terrestri», galere, navi e perfino i rilievi delle città teatro delle imprese politiche e militari di Antonio. Esempio estremo di glorificazione gentilizia la facciata di Santa Maria del Giglio (177). «Un arco di trionfo per l’eroe [ha osservato Gino Benzoni], più che un edificio sacro; un eroismo allucinato nella sua solitudine, irriconducibile alle coordinate delle benemerenze pubbliche» (178). Quasi un tardivo riscatto per il Barbaro che distintosi a Candia nella lotta contro il Turco — «governator di nave» nel 1650-1651, quattro anni dopo era capitano in Golfo e come tale partecipò all’eroico scontro dei Dardanelli del 26 giugno 1655 e alla vittoria di Scio sulle navi barbaresche del maggio 1657, provveditor d’armata subito dopo, provveditore generale dell’armi a Candia nel 1666 — non riuscì tuttavia a contendere a Francesco Morosini la carica suprema di capitano generale da mar cui pure molto ambiva (179). I 30.000 ducati devoluti da Antonio per la facciata della chiesa di Santa Maria del Giglio erano il prezzo della memoria di una casa che con lui si estingueva. Di segno opposto la scelta del doge Alvise II Mocenigo, grazie al cui cospicuo lascito all’inizio del Settecento venne completata la facciata della chiesa di San Stae, sua contrada di origine (180). Il ricco e potente Mocenigo volle infatti per la sua spoglia una nuda lastra tombale con inciso soltanto il corno dogale e la scritta «Nomen et cineres una cum vanitate sepulta».

Nel Seicento la ricchezza non bastava a fare la «grandezza» di una casa. Questa si fondava sull’intreccio di cariche politiche e cariche religiose. Dogi e procuratori di San Marco e cardinali nelle grandi famiglie come i Corner, i Contarini, i Dolfin, i Priuli. Invisibili da queste vette i nobili poveri, quasi incomprensibili le loro rivendicazioni. Nel Seicento la nobiltà veneziana sembra composta da mondi, da settori sempre meno comunicanti. Principesca la spocchia dei Corner, dei Contarini della Porta di Ferro. In queste case si era introdotto l’odioso «costume de’ Prencipi di non dare, o ricevere donne, che dello stesso lor sangue» (181). I Corner della ca’ Grande San Maurizio verso la metà del Seicento sposarono tre figlie «una al Procurator Contarini dalli Scrigni del solaro di sopra suo parente molto congionto, un’altra nel Cornaro di San Polo, la terza nel Cornaro di Calle della Regina» (182). Il Contarini, da parte sua, maritò una sorella in un altro Contarini «detto Porta di Ferro». Atteggiamenti e comportamenti «proverbiati e detestati dagli altri Nobili d’altra fortuna», la cui «bile» contro i «Principali» finiva per sfogarsi in maggior consiglio solo col voto, al momento dell’elezione alle diverse cariche e magistrature e, soprattutto, dell’annuale riconferma al senato. In tali occasioni più di qualche arrogante fu «castigato dalla moltitudine», che — secondo la testimonianza di un contemporaneo — «ama[va] alle volte nelle ballottazioni far superiore uno di quelli, che saranno nel numero della Plebe, e stare adietro quell’altro, che si pretende Prencipe del sangue» (183). Esaurita la spinta eversiva che negli anni Venti del Seicento aveva visto contrapposti il partito dei «Ricchi» e quello dei «Poveri», «di più potenti, e di più inferiori» (184), invidia e disprezzo continuarono a regolare ed inquinare i rapporti interni al patriziato.

I nobili nuovi

Pressato dall’onere finanziario della guerra scatenata dall’assalto turco all’isola di Candia — ultimo baluardo dei domini veneziani «da mar» — il patriziato veneziano riaprì dopo oltre tre secoli le sue porte. Tra diffidenze e incertezze nel febbraio del 1646 il senato approvò un decreto che concedeva «grazia e privilegio» d’essere aggregate alla nobiltà — partecipando «in perpetuo» delle medesime «dignità, prerogative et onori» di quella — alle cinque famiglie di cittadini o sudditi che avessero versato nelle casse dello stato la somma di 60.000 ducati, utile al mantenimento di circa mille soldati per un anno (185). Il disegno infrangeva una tradizione secolare. Dai tempi lontani della Serrata (1297) il patriziato era una casta chiusa che aveva avocato a sé la vita politica repubblicana. A determinare il rango nobiliare era l’appartenenza ereditaria al maggior consiglio. La linea di distinzione tra un’aristocrazia di diritto alla quale era aperta la partecipazione alla vita pubblica e il resto della popolazione non era mai sfumata. Aggregate nel 1382 trenta famiglie di populares che avevano sostenuto la Repubblica nei momenti più difficili della guerra di Chioggia, la chiusura verso il mondo popolare e cittadinesco era stata definitiva. Fenomeni sporadici, le successive cooptazioni avevano interessato poche famiglie nobili e filoveneziane della Terraferma: dopo i Savorgnan che avevano favorito l’estensione del dominio veneto in Friuli (1385), i bresciani Avogadro (1437) e Martinengo (1448), i cremonesi Benzon (1407), Meli (1499) e Battagia (1500), i milanesi Rossi (1482).

Nell’inverno del 1646 la discussione in maggior consiglio fu dunque assai accesa. Da un lato il pragmatismo di chi sosteneva la proposta, ricordando all’assemblea dei nobili la priorità della vittoria contro il Turco e l’assoluta necessità di conservare il proprio dominio. Dall’altro chi pensava che la nobiltà veneziana mai avrebbe potuto e dovuto esser conferita «per denaro». «Se amiamo che i titoli più insigni freggino la Repubblica [asserivano i primi per bocca del consigliere della signoria Giacomo Marcello] e che la nostra aristocrazia non sia nome vano ed ombra nuda dell’antica gloria dei nostri maggiori, ci convien difender gli Stati ed i sudditi, assoldar milizie, rinforzar l’armata, pagar la vita ed il sangue a’ guerrieri, il fiato ed il sudore alle ciurme» (186). L’«accrescimento» del maggior consiglio avrebbe inoltre facilitato e ottimizzato l’assegnazione delle cariche, che nell’attuale flessione demografica del patriziato appariva meno agile e sicura. Altrettanto decisa, l’opposizione mossa dall’avogadore di comun Angelo Michiel faceva leva sullo smisurato orgoglio aristocratico dei nobili veneziani. Gli ingredienti dell’ideologia nobiliare delle classi dominanti del tempo — disprezzo delle arti meccaniche, importanza dell’educazione, della predisposizione naturale, del sangue — costituivano la trama del risoluto rifiuto all’aggregazione. «Una nobiltà comprada con denari da chi da tutto è avvezzo a cavar vantaggi [si chiedeva Michiel], con quali arti sarà esercitada?» (187). Dietro gli opposti schieramenti riemergevano le divisioni socio-economiche interne al patriziato. Insopportabile per i nobili poveri l’idea di vendere «per denaro» quella che era rimasta la loro unica ricchezza: la purezza del sangue, le prerogative della nascita. Problema marginale, quest’ultimo, per i «grandi» il cui primato non temeva concorrenza alcuna, la cui autorità si collocava ad un livello superiore rispetto a quello dell’«università» dei nobili che sedevano in maggior consiglio. A vincere la partita in maggior consiglio furono i primi. Il 4 marzo 1646 l’assemblea patrizia respinse a larga maggioranza la proposta.

Ma contraddittoriamente ciò che restava così precluso per via di legge, passò di lì a pochi mesi per via di «grazia». Nel luglio del 1646 il maggior consiglio approvò a pieni voti la concessione della nobiltà alla famiglia Labia. Con «atto spontaneo» e «volontaria esibitione» Giovan Francesco Labia aveva chiesto «di poter offerire centomila ducati» alla patria senza peraltro accennare ad alcuna ricompensa futura (188). Con «atto non meno riguardevole e proprio della pubblica grandezza» la Repubblica premiava il «Merito estraordinario» del Labia col conferimento della nobiltà. Sbarazzato il campo da ogni impegno generalizzante, da ogni odiosa «forma di contratto», la discrezionalità della concessione e la mancanza di un’esplicita connessione tra l’offerta in denaro e la nobilitazione divennero la via maestra che tra il 1645 e il 1718 portò all’inserimento di ben centoventotto famiglie nei Libri d’oro del patriziato veneziano. Sull’esempio dei Labia, per acquistare il titolo nobiliare ogni famiglia sborsò 100.000 ducati, 60.000 versati in «libero dono» e 40.000 investiti nei «depositi» della Zecca. Nelle casse dello stato affluirono così oltre 10.000.000 di ducati.

Ma chi erano i nuovi venuti? Nobili di Terraferma — antiche casate come le vicentine Arnaldi, Angaran, Feramosca, Piovene, Scroffa, Valmarana, le trevigiane Brandolin, Brescia, Ravagnini, e padovane Conti, Dondi-Orologio, Lion, Manzoni, Papafava, le bresciane Martinengo e quella dei già «nobilissimi» Gambara — e cittadini originari della Serenissima attivi da secoli nella cancelleria ducale — come gli Antelmi, i Cavazza, i Condulmer, i Dolce, i Donini, i Franceschi, i Rubini, i Soderini, i Surian e gli Ottoboni, la cui vicenda è stata illuminata dalla scavata ricerca di Antonio Menniti Ippolito (189) — divisero questo privilegio con ricchi borghesi, più spesso «foresti» che veneziani di origine, con mercanti in qualche caso arricchiti nel giro di poche generazioni come gli Zolio o i Minelli, «gente grossa e senza alcuna polizia di vivere» contro la quale si accanì la cronachistica aristocratica comunque impietosa con le «case novissime». Velenosamente accusati di «sparagno» i Fonte e i Castelli, mercanti di seta di origine bergamasca che dopo l’aggregazione non chiusero il «negozio», di «scialacqui» i già nobili padovani Santasoffia e i milanesi Lombria, d’ignoranza in «ogni altra cosa che della loro mercanzia» i Martinelli, i Bonfadini e molti altri, «uomini semplici, e goffi» poco adatti all’abito patrizio (190). Giudizi talvolta iniqui e comunque affrettati, che ignoravano il salto qualitativo compiuto da alcune delle famiglie nuove nel giro di poche generazioni. Descritti come uomini di «botega» i Gozzi, bergamaschi di origine ma insediati a Rialto sin dall’inizio del Cinquecento, veri magnati della seta con un ampio raggio di investimenti assai diversificati sia nel commercio sia nella terra (191). Ma Alberto Gozzi, con cui si estinse la famiglia, era un grande mecenate: nel palazzo dei Santi Apostoli, che suo nonno aveva acquistato dai Contarini prima di accedere al patriziato, una ricca collezione di dipinti — duecentoventotto tele — e un’eccezionale serie di strumenti musicali — una sessantina di pezzi tra viole e violini, clavicembali e organi, lire e chitarre, trombe e flauti, liuti (192). Ricchi e più noti mecenati e collezionisti i Rezzonico, i Farsetti, i della Nave, gli Zenobio, i Labia e in seguito gli stessi Manin, come documenta il bel lavoro appena edito da Martina Frank sulla fortunata e ambiziosa famiglia friulana (193).

L’inserimento nelle fila del patriziato delle famiglie «nuove» rallentò la crisi dell’aristocrazia. Le vantaggiose alleanze matrimoniali con i nobili nuovi favorirono infatti la tenuta del patriziato di mediocri fortune, inizialmente più ostile all’aggregazione (194). Il movimento delle doti fu infatti ampiamente favorevole alle «case vecchie». A titolo d’esempio sette giovani Albrizzi — famiglia nuova passata dalla mercatura alle professioni liberali e nobilitata nel 1667 — sposarono altrettanti nobili veneziani di antica prosapia (Cappello, Diedo, Condulmer, Contarini, Bembo, Morosini, Marcello); cinque donzelle Angaran — già nobili vicentini iscritti nei Libri d’oro nel 1655 — contrassero matrimonio con altrettanti patrizi di ca’ Grimani, Balbi, Malipiero, Contarini; quattro ragazze Baglioni — «mercanti di libri», nobili dal 1716 — si maritarono con dei Dolfin, Bembo, Antelmi, Magno (195). Pochissime, per converso, le nobili d’antica schiatta che contrassero matrimonio con i figli delle case nuove. Delle cinquantacinque giovani Badoer che tra il 1650 e la caduta della Repubblica evitarono il chiostro e convolarono a giuste nozze con dei patrizi veneziani solo tre sposarono un nobile nuovo: Francesca Badoer di Marino che nel 1742 sposò Giovanni Andrea Catti di Giovan Gottardo; Anna Caterina Badoer qm. Giovanni Antonio che nel 1762 sposò Domenico Rumieri; Bianca Badoer qm. Francesco Maria che nel 1788 si accasò in secondo voto con un nobile Cassetti (196). Anche tra i Balbi, una delle grandi stirpi veneziane nella quale nel Settecento proliferavano i nobili poveri, tali unioni non furono numerose: delle circa cento nobildonne di questo cognome che sposarono tra il 1650 e il 1797 dei patrizi veneziani solo una decina scelse un nobile di casa nuova (197). Aperto alle famiglie nuove quando si trattava di incamerare una dote cospicua, al momento di metter mano alla borsa per dotare una figlia il patriziato lagunare non superava la tradizionale endogamia. I legami con le antiche famiglie erano certo più utili ai «brogli» e politicamente significativi.

Non fu solo il mercato delle doti a rimpinguare sangue e sostanze del vecchio patriziato. Talvolta fu l’intero patrimonio delle famiglie nuove a confluire nelle antiche case veneziane. I beni dei Surian finirono ai Contarini dal Bovolo e ai Querini di San Lunardo grazie ai matrimoni contratti dalle due ultime eredi femmine della famiglia di origine cittadinesca che aveva dato alla Repubblica cancellieri grandi e segretari del consiglio dei dieci e del senato (198). Così i beni dei Bergonzi, «mercanti di panni di seta d’oro» che avevano bottega «all’insegna della Rosa d’oro» nella merceria di San Salvador, finirono ai Grimani (199); quelli dei della Nave, «casaruoli» e mercanti nobilitati nel 1653, passarono ad Angelo Querini di Tommaso (200). Sia pure in minor misura successe anche il contrario e alcune ereditiere patrizie portarono il proprio patrimonio nelle case nuove, come accadde col matrimonio di Pesarina Pesaro, l’ultima del ramo di Santa Caterina, coniugata al padovano Bonifacio Papafava (201).

È altresì vero che l’esborso dei 100.000 ducati versati alla Repubblica per conseguire il titolo e il mutamento nello stile di vita che accompagnò la nobilitazione incrinarono il patrimonio di diverse famiglie e causarono il precipizio di altre. Nel 1680 il nobile Giovanni Battista Vanaxel ricordava come lontano lo «stato di felici fortune nel quale era costituita e godeva tempi andati» la sua famiglia, che grazie alla «prosperità di non pochi, e considerabilissimi Negotij» solo quindici anni prima aveva potuto iscriversi alla veneta nobiltà (202). Pochi anni dopo i colpi dell’avversa fortuna non avevano risparmiato «il giro» del suo «Negotio, che correva sotto il nome di Daniel Breul». Invasi tutti i suoi beni «da creditori», Vanaxel chiedeva una revisione delle sue condizioni di decima che tenesse conto della recente bancarotta. Anche l’ascesa degli Ottoboni — la nomina di Marco a cancellier grande nel 1639, l’ingresso nel patriziato nel 1646, la porpora cardinalizia di Pietro e la sua assunzione al papato nel 1689 — fu seguita da un declino inopinatamente rapido. Debiti e sperperi in una cornice familiare solidale ma litigiosa non erano estranei al salto sociale che aveva visto la vecchia famiglia cittadinesca acquistare la nobiltà veneziana prima e salire alla ribalta romana delle grandi famiglie italiane poi (203). Poco accomunava lo stile di vita del vecchio cancelliere e quello dei suoi ambiziosi ed irrequieti figli. Per altre famiglie, meno solide degli Ottoboni o dei Vanaxel, tale mutamento di rotta comportò una caduta ben più repentina. Donde il «precipizio» dei Catti, dei Morelli, dei Semenzi, dei Rubini, dei Bonlini, dei Franceschi. Alcune famiglie nuove pagarono con l’estinzione il prezzo dell’ascesa, come gli Zon «cittadini originari da più secoli, e secretari del Senato» (204) e i Macarelli, estinti poco dopo aver conseguito la nobiltà (205). Altrove d’altronde il tasso d’estinzione delle famiglie nuove appare sin più elevato. Delle duecentosettantadue famiglie aggregate tra il 1560 e il 1760 alla nobiltà senese solo ventuno risultano sopravvissute nel 1764 (206). Nel caso veneziano, se non valse a bloccare il deperimento demografico del patriziato, l’ingresso delle famiglie nuove ne ridusse almeno la portata. Anche dal punto di vista «pubblico» l’apporto dei nuovi arrivati fu significativo soprattutto nel sostenere quegli incarichi «di spesa» come i reggimenti delle principali città della Terraferma che le estenuate famiglie del vecchio patriziato spesso rifiutavano. Mentre con la perdita di Candia e il rientro in patria della nobiltà veneziana da secoli trapiantata nell’isola gli squilibri interni al patriziato si facevano più pesanti, la presenza della nobiltà aggregata costituì un utile correttivo. Tra Sei e Settecento il patriziato era un corpo sociale in movimento che ai contemporanei appariva «disordinato».

1. Sulla crisi che la storiografia economica tende a far iniziare nel 1619-1622 cf. Ruggiero Romano, L’Italia nella crisi del secolo XVII, «Studi Storici», 9, 1968, pp. 723-741, ora in Id., Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, Torino 1971, pp. 187-206; Id., Tra XVI e XVII secolo. Una crisi economica: 1619-1622, «Rivista Storica Italiana», 74, 1962, nr. 3, pp. 480-531 e Encore la crise de 1619-22, «Annales E.S.C.», 19, 1964, nr. 1, pp. 31-37, entrambi ripubblicati in Id., L’Europa tra due crisi, Torino 1980, pp. 76-156. Per l’area mediterranea le osservazioni di Fernand Braudel, Note sull’economia del Mediterraneo nel XVII secolo, «Economia e Storia», 2, 1955, nr. 2, pp. 117-142. Il tema controverso e sin «usurato» della crisi è oggetto dell’ampia rassegna di Francesco Benigno, Ripensare la crisi del Seicento, «Storica», 2, 1996, nr. 5, pp. 7-52.

2. La stagione delle grandi bonifiche, il fervore imprenditoriale e la febbre speculativa che l’accompagnarono sono stati illustrati dal lavoro di Angelo Ventura, Considerazioni sull’agricoltura veneta e sulla accumulazione originaria del capitale nei secoli XVI e XVII, «Studi Storici», 9, 1968, pp. 684-711 (pp. 674-722).

3. Marino Sanuto, I diarii, a cura di Rinaldo Fulin et al., I-LVIII, Venezia 1879-1903: XXVII, col. 457.

4. Processo lento e discontinuo, il passaggio dal mare alla terra accelerò nei successivi momenti di ristagno degli affari e raggiunse la massima intensità tra il 1580 e il 1630. Cf. Stuart J. Woolf, Venice and the Terraferma. Problems of the Change from Commercial to Landed Activities, in Crisis and Change in the Venetian Economy in the Sixteenth and Seventeenth Centurg, a cura di Brian Pullan, London 1968, pp. 175-203, e Giuseppe Gullino, I patrizi veneziani e la mercatura negli ultimi tre secoli della Repubblica, in Mercanti e vita economica nella Repubblica veneta (secoli XIII XVIII) a cura di Giorgio Borelli, II, Verona 1985, pp. 401-451. Le complesse implicazioni ideologiche di tale transizione sono state finemente analizzate da Ugo Tucci, La psicologia del mercante veneziano nel Cinquecento, in Id., Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, pp. 43-94.

5. Il primato nobiliare nell’incalzante penetrazione veneziana in Terraferma è stato documentato da Daniele Beltrami, Forze di lavoro e proprietà fondiarie nelle campagne venete dei secoli XVII e XVIII, Venezia-Roma 1961, pp. 97-99 e dal recente contributo di Giuseppe Gullino, Quando il mercante costruì la villa: le proprietà dei Veneziani nella Terraferma, in Storia di Venezia, VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di Gaetano Cozzi-Paolo Prodi, Roma 1994, pp. 875-924. Il problema della rendita urbana del patriziato è stato affrontato da Ennio Concina, Venezia nell’età moderna. Struttura e funzioni, Venezia 1989, pp. 19 ss. I dati sul Seicento, frutto di una ricerca finanziata dall’UNESCO e coordinata dallo stesso Concina, non mi risulta siano stati pubblicati. Vi fa tuttavia riferimento Laura Megna, Comportamenti abitativi del patriziato veneziano (1582-1740), «Studi Veneziani», n. ser., 22, 1991, p. 271 (pp. 253-323).

6. Temi e motivi della letteratura dell’antimito, «rassegna delle imperfezioni della Repubblica veneta e delle contraddizioni interne al patriziato», sono oggetto degli studi di Piero Del Negro, Forme e istituzioni del discorso politico veneziano e Proposte illuminate e conservazione nel dibattito sulla teoria e la prassi dello stato, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 407-436, e 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 123-145.

7. Sul sistema fiscale veneziano cf. Luciano Pezzolo, L’oro dello Stato. Società, finanza e fisco nella Repubblica veneta del secondo 500, Venezia 1990.

8. A dispetto del dilettantismo dell’impresa, voluta dall’eclettico Marco Contarini per assecondare «la propria passione per le libertà gallicane ed il melodramma», nel 1680 la stamperia disponeva di ben sei torchi, «tre tipografici e tre calcografici». Erano dimensioni «pari a quelle delle maggiori stamperie veneziane del tempo», anche se la produzione fu di fatto limitata ad una dozzina di libretti d’opera e a qualche edizione delle opere del filogallicano Louis Maimbourg, autore particolarmente caro al Contarini. Cf. Tiziana Pesenti, Stampatori e letterati nell’industria editoriale a Venezia e in Terraferma, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, p. 128 (pp. 93-129). Sui Contarini di San Trovaso cf. Marco Barbaro, Arbori de’ patritii veneti ricopiati con aggiunte da Antonio Maria Tasca nel 1743, Il, c. 455, in A.S.V., Miscellanea codici, ser. I, Storia veneta.

9. Nel 1661, la sola proprietà di Piazzola constava di oltre 1.800 campi, circa 900 ettari che costituivano quasi i due terzi del patrimonio fondiario della famiglia in Terraferma: A.S.V., Dieci savi alle decime, Redecima del 1582, b. 169, nr. 301 e b. 171, nr. 838; Redecima del 1661, b. 226, nr. 394. Nel secolo seguente le proprietà dei Contarini erano ancora più estese: la polizza presentata per la redecima del 1740 descrive oltre 4.000 campi variamente distribuiti tra il Padovano, il Dogado, il Trevigiano e il Vicentino: ibid., Redecima del 1740, b. 607, nr. 267. Nell’Ottocento il latifondo di Piazzola diverrà il «centro gravitazionale» dell’impero agrario dei nuovi proprietari, i Camerini. Fautori di imponenti opere di irrigazione e canalizzazione e della meccanizzazione delle colture, al volgere del secolo essi crearono a Piazzola un complesso industriale con fornaci, filatoi, fabbriche di concimi e di acido solforico, opifici per la lavorazione della juta, mulini per la macinazione dei cereali... Sull’«autarchico feudo industriale» dei Camerini cf. Carlo Fumian, Proprietari, imprenditori, agronomi, in Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, pp. 142-162 (pp. 99-162).

10. A.S.V., Dieci savi alle decime, Redecima del 1582, b. 169, nr. 145; Redecima del 1661, b. 226, nr. 249.

11. Ibid., Redecima del 1582, b. 170, nrr. 527 e 546; Redecima del 1661, b. 226, nrr. 162 e 214.

12. Ibid., Redecima del 1582, b. 171, nr. 1099; Redecima del 1661, b. 227, nr. 472.

13. Ibid., Redecima del 1582, b. 169, nr. 321 e b. 170, nr. 665; Redecima del 1661, b. 226, nr. 333.

14. Ibid., Redecima del 1582, b. 169, nr. 53; Redecima del 1661, b. 226, nr. 291.

15. Ibid., Redecima del 1582, b. 170, nr. 762; Redecima del 1661, b. 226, nr. 65.

16. Ibid., Redecima del 1661, b. 227, nrr. 489-490.

17. Ibid., b. 226, nr. 25.

18. Ibid., nr. 352.

19. Ibid., nr. 223.

20. Ibid., nr. 213.

21. Ibid., nr. 171.

22. Ibid., Redecima del 1582, b. 170, nrr. 628 e 862.

23. Ibid., Redecima del 1661, b. 226, nr. 103.

24. Ivi, Notarile, Testamenti, b. 1268, nr. 230, 13 giugno 1679, testamento di Ludovico Briani qm. Stefano. Una dettagliata descrizione della residenza del Briani e della moglie Elena Salamon qm. Filippo nell’inventario dei beni redatto nel febbraio del 1679 m.v. (= 1680), dopo la morte di Ludovico: ivi, Giudici di Petizion, Inventari, b. 382/47, nrr. 63-64.

25. Ivi, Dieci savi alle decime, Redecima del 1582, b. 170, nr. 466 e b. 171, nr. 1147.

26. Ibid., Redecima del 1661, b. 226, nr. 238.

27. L’ingresso all’Accademia era comunque precluso ai giovani patrizi i cui genitori, padri e madri insieme, «fossero in decima più de ducati vinti»: Antonio Fabris, Aspetti di assistenza al patriziato povero nella Venezia del XVIII secolo: l’Accademia dei nobili alla Giudecca, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1982-1983, p. 171. Sul collegio dei nobili poveri cf. inoltre Luigi Zenoni, Per la storia della cultura in Venezia dal 1500 al 1797. L’accademia dei nobili, 1619-1797, «Miscellanea di Storia Veneta della Deputazione di Storia Patria», ser. III, 9, 1916, pp. 1-272 e il contributo di Gaetano Cozzi, Federico Contarini: un antiquario veneziano tra Rinascimento e Controriforma, «Bollettino dell’Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano», 3, 1961, pp. 13-15 (pp. 1-31).

28. Il convergere dell’eredità dei celibi in un’unica discendenza — e talvolta «in una sola testa» — manteneva integro l’asse ereditario: James C. Davis, Una famiglia veneziana e la conservazione della ricchezza. I Donà dal ’500 al ’900, Roma 1981, pp. 123-126. Marco Ferro, Dizionario del diritto comune e veneto, I-II, Venezia 1845-1847: II, p. 760.

29. La trasmissione dei beni — tra «differenze di sesso, ordine di nascita e stato civile» in opposizione e insieme in relazione alle vicissitudini, scelte e strategie del gruppo familiare nel suo complesso — è oggetto degli studi proposti e discussi da Renata Ago, Diritti di proprietà, «Quaderni Storici», 88, 1995, nr. 1, p. 4 (pp. 3-9). Il caso veneziano assume in questo contesto particolare interesse: il matrimonio limitato costituisce infatti una pratica alternativa alla primogenitura utile ad ottemperare il principio statutario dell’eguaglianza ereditaria tra i fratelli con la conservazione della famiglia e del patrimonio.

30. A.S.V., Archivio privato Corner di San Polo, b. 1, fasc. 10, 10 novembre 1551, testamento di Giovanni Corner qm. Giorgio.

31. Sulla concentrazione di benefici ecclesiastici in casa Corner cf. Antonio Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche nel secolo XVII. I vescovi veneti fra Roma e Venezia, Bologna 1993, pp. 112 ss.

32. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1244, nr. 382, 5 settembre 1606, testamento di Giovanni Soranzo qm. Francesco.

33. Marco Barbaro, Arbori de’ patritii veneti ricopiati con aggiunte da Antonio Maria Tasca nel 1743, VII, c. 53, in A.S.V., Miscellanea codici, ser. I, Storia veneta.

34. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 65, nr. 214, 20 maggio 1652, testamento di Marin Bernardo qm. Bernardo.

35. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, II, c. 15.

36. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1258, nr. 450, 21 novembre 1578 e ibid., b. 1264, XI, cc. 28-34, 22 ottobre 1579, testamento e codicillo di Giulio Contarini qm. Giorgio. Anche dopo la morte del padre l’illegittimo Ottaviano continuò a vivere nel palazzo di Santa Maria Zobenigo: ibid., b. 37, nr. 234, 9 febbraio 1586 m.v. (= 1587), testamento di Ottaviano Contarini qm. Giulio.

37. Ibid., b. 1263, VI, cc. 44-46, 8 maggio 1570, testamento di Benedetto Soranzo qm. Francesco.

38. Ibid.

39. Andavano all’illegittimo del testatore anche tutti i suoi «danari, ori, et argenti»: ibid., b. 1202, nr. 92, 18 febbraio 1603 m.v. (= 1604), testamento di Marco Cappello qm. Andrea.

40. Ibid.

41. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, VII, c. 84.

42. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1202, I, cc. 74v-77, 20 dicembre 1604, testamento di Bernardo Tiepolo qm. Stefano.

43. Ivi, Avogaria di Comun, Processetti, b. 367, fasc. 16, 22 giugno 1609. Potevano accedere al privilegio della cittadinanza originaria solo i cittadini veneziani che erano in grado di «comprovare la civiltà et honorevolezza» dei propri avi. Le arti meccaniche erano infatti bandite anche da quest’ordine, che pure era formato da famiglie arricchite di recente attraverso i traffici e la mercatura: Andrea Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna: i cittadini originari (sec. XVI-XVIII), Venezia 1993, pp. 108 ss.

44. A.S.V., Avogaria di Comun, Processetti, b. 366, fasc. 100 bis; ivi, Notarile, Testamenti, bb. 1224-1225, nr. 59, 2 marzo 1591, testamento di Gian Domenico Cicogna qm. Gerolamo, zio dell’illegittimo Francesco; M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, II, cc. 337-338.

45. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1264, XI, cc. 28-34, 22 ottobre 1579, codicillo di Giulio Contarini qm. Giorgio.

46. Ibid., b. 1263, VI, cc. 86-95v, 20 luglio 1574, testamento di Filippo Garzoni qm. Francesco.

47. Ibid., b. 942, cc. 750 ss., 14 novembre 1553, testamento di Francesco Bernardo qm. Benedetto.

48. Ibid., b. 1244, nr. 382, 5 settembre 1606, testamento del già citato Giovanni Soranzo qm. Francesco.

49. Ad esempio a Bologna: Adanella Bianchi, Padri e madri naturali o genitori ignoti? Filiazione illegittima e registrazioni battesimali a Bologna nell’età moderna, relazione presentata nella IV sessione («Donne sole») del Convegno internazionale sui «Mutamenti della famiglia nei paesi occidentali», Bologna, 6-8 ottobre 1994. «Bastardi over persone nasude di innobel sangue», scriveva senza mezzi termini Lorenzo Dandolo qm. Pietro nel testamento del 29 aprile 1564, vietando risolutamente ai suoi eredi quelle mésalliances che pregiudicavano il carattere patrizio della discendenza: A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1263, V, cc. 29-30v. È una delle poche volte in cui ho visto questo termine ricorrere nei testamenti dei nobili veneziani. Nella cedola olografa del 15 luglio 1660 a Lucrezia Cappello qm. Alvise era sfuggito un «fiastra» a proposito della figlia naturale del fratello Marino, cui aveva deciso di lasciare «un stramazzo, una coltra, uno paro lenzuoli buoni, et Camise sei delle più tonde, et sei Traverse delle più tonde, et Ducatti dodeci all’Anno per sino che la viverà». Un lapsus, cui aveva rimediato subito scrivendo sopra, di suo pugno, «fia natural»: ibid., b. 9, nr. 143. Era frequente che fratelli, sorelle e altri parenti ricordassero nei loro testamenti i «naturali». Nel 1576 la vedova di Zaccaria Michiel lasciava «in segno d’amor» 200 ducati alla «fia natural» del primogenito Bernardino: ibid., b. 1263, VII, cc. 31v-32. Nel testamento redatto il 21 ottobre 1597, la nobile Cecilia Donà qm. Marco Antonio, consorte di Filippo Correr qm. Polo, non dimenticava il «fratelo natural» Ortensio, cui lasciava 20 ducati «per una sol volta»: ibid., b. 1202, nr. 31. Giovanni Alvise Zancaruol qm. Zorzi, un nobile veneziano che si divideva tra la Dominante e Candia, nel 1593 lasciò al nipote Antonio, illegittimo del fratello Luca, «una casa puosta ne la città della Canea dentro del castello» e alcune vigne fuori porta: ibid., b. 1204, cc. 55v-58, 12 maggio 1593. Non erano solo i nobili ad essere così generosi con gli illegittimi. Molti popolani e cittadini si comportavano nello stesso modo. Anche il titolare della chiesa veneziana di Sant’Apollinare, «Prè Alvise di Mazi», lasciò buona parte dei suoi beni al nipote Giovanni, «fioleto» di un suo «fratelo natural»: ibid., b. 1263, cc. 60v-61v, 18 aprile 1573.

50. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 209, nr. 235, 8 luglio 1558, testamento di Filippo Foscari qm. Francesco.

51. Il fatto che le doti spesso consistessero in case e terreni indurrebbe a considerarle una trasmissione pur differenziata e anticipata dei beni paterni, l’equivalente femminile dell’eredità. Nella lettera della legge le donne veneziane avrebbero dovuto ottenere in conto di dote mobili e stabili proporzionati «per quanto si può alla legittima» (M. Ferro, Dizionario del diritto comune e veneto, I, p. 642). Ma questa relazione tra dote e porzione d’eredità paterna era più stretta negli strati sociali medio-bassi. Nel contesto nobiliare le variabili che agivano in simili alleanze erano talvolta più rilevanti. Come ha osservato acutamente Claudio Povolo «poiché lo status delle Case sembrava dipendere dall’ammontare delle doti, queste finirono per divenire esse stesse status più che costituire parte del sistema ereditario»: cf. Claudio Povolo, Eredità anticipata o esclusione per causa di dote?, in Padre e figlia, a cura di Luisa Accati-Marina Cattaruzza-Monica Verzar Bass, Torino 1994, p. 56 (pp. 41-73). Sul mercato delle doti nella Venezia del primo Rinascimento cf. Stanley Chojnacki, Dowries and Kinsmen in Early Renaissance Venice, «Journal of Interdisciplinary History», 5, 1975, pp. 571-600; Id., Marriage Legislation and Patrician Society in Fifteenth-Century Venice, in Law, Custom, and the Social Fabric in Medieval Europe: Essays in Honor of Bryce Lyon, a cura di Bernard Bachrach-David Nicholas, Kalamazoo (Mich.) 1990, pp. 163-184; Id., «The Most Serious Duty»: Motherhood, Gender, and Patrician Culture in Renaissance Venice, in Refiguring Woman. Perspectives on Gender and the Italian Renaissance, a cura di Marilyn Migiel-Juliana Schiesari, Ithaca (N.Y.) 1991, pp. 134-153.

52. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1263, VI, cc. 55v-57v, 8 novembre 1575, testamento di Andrea da Molin qm. Pietro qrn. Maria.

53. Ibid., b. 1263, V, cc. 91-96v, 16 maggio 1572, testamento di Pietro Calbo qm. Antonio.

54. Ibid., b. 1202, II, cc. 19-23, 20 febbraio 1610 m.v. (= 1611), testamento di Lucrezia Trevisan.

55. Ibid., b. 1279, I, cc. 39-42, 8 novembre 1621, testamento di Giovanni Moro qm. Leonardo.

56. Ibid., b. 532, cc. 12-13, 29 dicembre 1573, testamento di Marcantonio Barbarigo qm. Francesco.

57. Ibid., b. 1265, XIII, c. 30r-v, 22 settembre 1583, testamento di Gerolamo Venier qm. Giovan Francesco.

58. Ibid., b. 1197, nr. 191, 18 marzo 1690, testamento di Lazzaro Ferro qm. Alvise.

59. Ibid.

60. Ibid., b. 1147, II, cc. 61 ss., 30 ottobre 1650, testamento di Antonio Canal qm. Giovanni.

61. Ibid.

62. Ibid.

63. Ibid., b. 1197, nr. 182, 20 febbraio 1706 m.v. (= 1707), testamento di Leonardo Emo qm. Giovanni.

64. Ibid., b. 263, nr. 43, 19 dicembre 1614, testamento di Alvise Zorzi qm. Gerolamo. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, VII, c. 423.

65. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 263, nr. 43.

66. Gli unici menzionati nel testamento di poche righe redatto dal Falier il 18 giugno 1681: ibid., b. 991, nr. 12.

67. Marco Barbaro, Arbori de’ patritii veneti ricopiati con aggiunte da Antonio Maria Tasca nel 1743, III, c. 453, in A.S.V., Miscellanea codici, ser. I, Storia veneta.

68. Le rendite immobiliari dell’avo Marco qm. Luca, che nel 1582 superavano a stento i 100 ducati l’anno, erano state in seguito frazionate tra gli eredi con impoverimento evidente dell’ultima generazione: A.S.V., Dieci savi alle decime, Redecima del 1582, b. 166, nr. 500.

69. Marco Barbaro, Arbori de’ patritii veneti ricopiati con aggiunte da Antonio Maria Tasca nel 1743, VI, c. 213, in A.S.V., Miscellanea codici, ser. I, Storia veneta.

70. A.S.V., Dieci savi alle decime, Redecima del 1582, b. 172, nr. 1318.

71. Ivi, Notarile, Testamenti, b. 532, nr. 135, 25 aprile 1591, testamento di Alessandro Premarin qm. Tommaso.

72. Oltre che dalle genealogie di Marco Barbaro, la notizia dell’estinzione della famiglia Premarin è riportata alla data suddetta dalla Cronaca di Gerolamo Priuli, ms. conservato presso Wien, Österreichische National Bibliothek, cod. 6228.

73. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, VII, c. 145.

74. A.S.V., Dieci savi alle decime, Redecima del 1582, b. 172, nr. 1576.

75. Ibid., nr. 1575.

76. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, VI, c. 266. Le polizze compilate nel 1582 da Francesco e da Roberto qm. Vincenzo — padre e zio paterno dei suddetti fratelli Priuli — descrivono un patrimonio immobiliare in relativo stato di degrado. Anche uno stabile situato nella centralissima contrada di San Salvator, «antiquissimo e mal condicionado», risultava affittato solo in parte «per la vechiezza come per la incomodità delle scale». Cf. A.S.V., Dieci savi alle decime, Redecima del 1582, b. 163, nr. 790 e b. 168, nr. 573.

77. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, III, c. 324. Nonostante «la poca facoltà della casa», alla sua morte l’epigono dei cinque fratelli Donà riuscì a lasciare agli ospedali degli Incurabili, dei Mendicanti e della Pietà un legato di «cinquecento ducati per cadauno»: A.S.V., Ospedali e luoghi pii diversi, b. 626, fasc. 3; ivi, Giudici di petizion, Inventari, b. 358/23, fascc. 83, 90 e 91, 19 agosto-19 settembre 1643, inventario dei beni di Marco Donà qm. Francesco. Cf. inoltre i testamenti del padre Francesco Donà e dell’avo Ottaviano: ivi, Notarile, Testamenti, b. 6, nr. 42, 19 agosto 1615, testamento di Francesco Donà qm. Ottaviano; ibid., b. 1260, nr. 782, 2 marzo 1585, testamento di Ottaviano Donà qm. Francesco.

78. Marco Barbaro, Arbori de’ patritii veneti ricopiati con aggiunte da Antonio Maria Tasca nel 1743, IV, c. 72, in A.S.V., Miscellanea codici, ser. I, Storia veneta.

79. Ibid. c. 355. Nel 1582 le rendite immobiliari della famiglia garantivano un gettito annuo di circa 300 ducati, provenienti dalla locazione di un palazzo nella contrada di San Pantalon e varie proprietà in Terraferma, la più estesa delle quali, situata nel Trevigiano, sfiorava i duecento campi, solo in parte «magri e giarosi»: A.S.V., Dieci savi alle decime, Redecima del 1582, b. 160, nr. 705.

80. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, III, c. 381.

81. Ibid., II, c. 149.

82. Marco Barbaro, Arbori de’ patritii veneti ricopiati con aggiunte da Antonio Maria Tasca nel 1743, I, c. 289, in A.S.V., Miscellanea codici, ser. I, Storia veneta. Sull’esiguo asse patrimoniale, che tuttavia includeva «una casa con orto et brolo» per la villeggiatura, cf. A.S.V., Dieci savi alle decime, Redecima del 1582, b. 170, nr. 636 e Redecima del 1661, b. 227, nr. 559.

83. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, IV, c. 480.

84. Ibid., c. 19.

85. Ibid., VII, c. 459.

86. Ibid., VI, c. 137.

87. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 942, cc. 791-803, 3 ottobre 1557, testamento di Domenico Mocenigo qm. Piero.

88. Terre e stabili sarebbero andati al lontano cugino Domenico Malipiero qm. Benedetto solo in assenza di eredi legittimi delle figlie — «illegittime» — Laura e Caterina: ivi, Notarile, Testamenti, b. 264, nr. 147, 25 aprile 1630, testamento di Perazzo Malipiero qm. Pierfrancesco. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, IV, c. 177.

89. Particolarmente restrittive le leggi del 1589 e 1590 che escludevano le donne nate «di padre, et avo che havesse esercitato arte meccanica e manuale». Perdevano il carattere patrizio e la possibilità di sedere in maggior consiglio non solo i nati da relazioni adulterine o prematrimoniali ma anche i frutti di queste mésalliances. Una sintetica raccolta di leggi in materia è in A.S.V., Avogaria di Comun, b. 16, cc. 39 ss.

90. Ivi, Notarile, Testamenti, b. 1263, V, cc. 21v-22, 15 aprile 1572, testamento di Angelo Malipiero qm. Piero. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, IV, c. 419.

91. A.S.V., Cassier della bolla ducale, Grazie del Maggior Consiglio, b. 8, 24 marzo 1567.

92. Ivi, Notarile, Testamenti, b. 1250, III, cc. 89-90, 6 dicembre 1612, testamento di Gerolamo Malipiero qm. Nicolò. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, IV, c. 389.

93. M. Barbaro, Arbori de’patritii veneti, II, c. 404. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1224, nr. 70, 16 dicembre 1597, testamento di Gabriele Contarini qm. Andrea; ivi, Cassier della bolla ducale, b. 28, 18 agosto 1599. Sul patrimonio immobiliare di Andrea che nel 1582 garantiva un’entrata annua dichiarata di circa un centinaio di ducati cf. ivi, Savi alle decime, Redecima del 1582, b. 167, nr. 212.

94. Marco Barbaro, Arbori de’ patritii veneti ricopiati con aggiunte da Antonio Maria Tasca nel 1743, V, c. 116, in A.S.V., Miscellanea codici, ser. I, Storia veneta. A.S.V., Notarile, Testamenti chiusi, bb. 227-230, nr. 237, 14 marzo 1630, testamento di Camillo Michiel qm. Stefano.

95. Ivi, Avogaria di Comun, Processetti, b. 375, fasc. 23.

96. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, IV, c. 153. A.S.V., Notarile, Testamenti chiusi, bb. 56-58, nr. 131, 18 settembre 1621, testamento di Pietro Grimani qm. Giovan Francesco. Il primogenito Pietro nel 1615 ottenne la cittadinanza originaria: ivi, Avogaria di Comun, b. 375, fasc. 22.

97. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, V, c. 267; A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1196, nr. 48, 13 giugno 1661, testamento di Benedetto Moro qm. Bartolomeo.

98. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, III, c. 233. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1145, nr. 22, 8 novembre 1656, testamento di Alessandro Diedo qm. Lorenzo.

99. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, VI, c. 527. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 2026, nr. 192, 16 marzo 1630, testamento di Michele Salamon qm. Giovan Francesco.

100. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Criminali, reg. 37, cc. 109v-110. Su questo ramo dei Foscarini residenti nella contrada di San Pantalon cf. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, III, c. 557.

101. A.S.V., Dieci savi alle decime, Redecima del 1582, b. 168, nr. 608.

102. Vecchi mobili dismessi, nessun rivestimento alle pareti, né addobbi, tendaggi o «fornimenti» vari. Pochissimi e malridotti anche gli utensili di cucina. Argenteria zero. Unico lusso «tre quadri de retratti» e «quadro uno con Christo». Nell’inventario, peraltro dettagliato, figurano anche «un branco di pecore n. 53». Ma — particolare inquietante — non si parla di stalle o edifici distinti. La registrazione notarile le colloca direttamente «nella caneva», dopo «undese bote tra grandi e picole» e vari attrezzi: A.S.V., Giudici di Petizion, Inventari, b. 357, nr. 63. Come molti nobili poveri Foscarini probabilmente non fece testamento.

103. Ivi, Consiglio dei Dieci, Criminali, reg. 57, c. 81, 2 aprile 1640 e ivi, Esecutori contro la bestemmia, Processi delegati dal Consiglio dei Dieci, b. 68, c. 65r-v.

104. Ivi, Esecutori contro la bestemmia, Processi delegati dal Consiglio dei Dieci, b. 68, c. 67, 9 luglio 1642.

105. Il padre dell’indebitato Marco era stato podestà a Pordenone, suo fratello Leonardo era andato a Cittadella. Un accenno al ramo dei Malipiero in M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, IV, c. 417. Nel 1659 un nipote dello Zorzi — Gian Antonio qm. Gerolamo — fu ucciso a Mestre dopo essere stato bandito per essersi già macchiato dello stesso reato di omicidio: ibid., VII, c. 418.

106. Ibid., III, c. 323. Con l’unico figlio maschio dell’imputato — Andrea — si esaurì questo ramo povero della pur celebre famiglia. I «tanti debiti» di quest’ultimo non erano ancora estinti nel 1694. Dal testamento della vedova Cassandra Bardellini risulta ad esempio che Andrea aveva avuto in prestito dal genero, il nobile nuovo Francesco Crotta, 1.000 ducati, somma che non aveva mai restituito: A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 232, nr. 101, 26 agosto 1694.

107. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Criminali, b. 37, c. 109r-v. Una buona descrizione dei complessi meccanismi elettorali veneziani è in Robert Finlay, La vita politica nella Venezia del Rinascimento, Milano 1982, pp. 252 ss.

108. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, V, c. 153. Ridotte a pochi ducati le rendite immobiliari dei due fratelli. L’asse paterno era già stato diviso nel 1582 tra numerosi consorti: A.S.V., Dieci savi alle decime, Redecima del 1582, b. 163, nrr. 421 e 758, b. 164, nrr. 1077, 1092.

109. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Criminali, reg. 37, cc. 99r-v, 105r-v, 109r-v.

110. Ibid., cc. 113v- 114.

111. Le lettere di ringraziamento conservate nei carteggi delle grandi famiglie veneziane sono piena testimonianza di un appoggio concesso «dall’alto» a clienti e parenti. Il corrispettivo scambio «dal basso all’alto», pur intuibile, resta ovviamente in ombra. Un sondaggio tra le lettere scritte all’inizio del Seicento da molti patrizi a vari esponenti della potente famiglia dei Grimani ai Servi mette tuttavia in risalto le relazioni tra «nobili mezzani» e «grandi» piuttosto che tra questi e i patrizi impiegati nelle cariche di minore importanza: Venezia, Museo Correr, Archivio Morosini Grimani, b. 565.

112. Gaetano Cozzi, Giustizia «contaminata». Vicende giudiziarie di nobili ed ebrei nella Venezia del Seicento, Venezia 1996.

113. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 54, 9 agosto 1621.

114. Ivi, Consiglio dei Dieci, Criminali, reg. 20, cc. 2v-3, 9 marzo 1601.

115. Zaccaria non notificò immediatamente la nascita del figlio all’avogaria di comun che provvedeva alla registrazione dei maschi nei Libri d’oro del patriziato. Gli avogadori istruirono pertanto su tale nascita regolare processo: A.S.V., Avogaria di Comun, Processi per nobiltà, b. 37, fasc. 3. Su questo ramo dei Giustinian: M. Barbaro, Arbori de’patritii veneti, VII, c. 474.

116. A.S.V., Avogaria di Comun, Processi per nobiltà, b. 37, fasc. 9.

117. Ivi, Consiglio dei Dieci, Criminali, reg. 17, c. 72v; ibid., filza 29, 23 luglio 1597.

118. Ibid., c. 116r-v, 6 maggio 1598.

119. Ibid., reg. 38.

120. Ibid.

121. Ivi, Dieci savi alle decime, Redecima del 1582, bb. 170, nr. 577 e 171, nr. 966.

122. Ibid., b. 172, nr. 1427. Cf. M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, V, c. 116.

123. A.S.V., Avogaria di Comun, Processi per nobiltà, b. 68.

124. Ivi, Consiglio dei Dieci, Criminali, reg. 18, cc. 207v-208v.

125. Angelo Ventura, Barbarigo, Girolamo, in Dizionario Biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, pp. 68-69. Per una discussione del fenomeno e un utile confronto con il contesto fiorentino cf. Jean-Claude Waquet, La corruzione. Morale e potere a Firenze nei secoli XVII e XVIII, Milano 1986.

126. Ringrazio per la gentile segnalazione Elena Marchionni che ha recentemente riordinato l’Archivio Storico di Castelfranco.

127. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Criminali, filza 47, 20 marzo 1620.

128. Ivi, Capi del Consiglio dei Dieci, Lettere, b. 18, alla data.

129. Ibid., b. 254, Lonigo, 14 luglio 1677.

130. Ibid., Marostica, 10 ottobre 1665. Un pur rapido cenno alle controversie «trà Magistrati di Venezia, e Reggimenti; trà Reggimento, e Reggimento; e tal volta trà Rettore, e Rettore d’una medesima Città à causa di turbata giurisdizione» in Gaspare Morari, Prattica de’ reggimenti in terraferma, Padova 1708, p. 124.

131. Mi sia consentito rinviare a Laura Megna, Ricchi e poveri al servizio dello stato. L’esercizio della «distributiva» nella Venezia del ’700, in I ceti dirigenti in Italia in età moderna e contemporanea, a cura di Amelio Tagliaferri, Udine 1984, pp. 372-373 (pp. 365-380).

132. Traiano Boccalini, I ragguagli di Parnaso, con la pietra del paragone politico, a cura di Giuseppe Rua-Luigi Firpo, Bari 1948, p. 141.

133. Marco Foscarini, a cura di Erasmo Leso, in Dal Muratori al Cesarotti, V, Politici ed economisti del primo Settecento, a cura di Raffaele Ajello et al., Milano-Napoli 1979, p. 309.

134. Le difficoltà del viver grande, ne’ doveri particolari di se medesimo, nelle esiggenze d’illustre Prosapia, ne’ vantaggi del comun bene. Orazione in lode di Sua Eccellenza il Signor Pietro Foscarini nel suo solenne ingresso alla Procuratia di S. Marco, Venezia 1716.

135. Ibid., p. 28.

136. Ibid., p. 22.

137. Al volgere del Settecento è il linguaggio consueto di questo tipo di scritture, ma in particolare cf. Elogio di Andrea Memmo Cavalier e Procurator di San Marco, Venezia 1793, pp. 14 ss.; La luna d’agosto. Apologo postumo pubblicato nell’ingresso alla dignità di Procurator di S. Marco di S. E. Andrea Memmo, Bassano 1787, p. 4.; Girolamo da Ponte, Elogio di Sua Eccellenza Giorgio Pisani Procuratore di San Marco, Venezia 1780, pp. 8 ss.

138. Anntonio Solari, Elogio storico di Francesco Foscari senatore veneto, Venezia 1791, p. 7.

139. L’uguaglianza con gli ottimi argomento di merito, e di gloria singolare. Orazione all’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Niccolò Foscarini, nel suo solenne ingresso alla Procuratoria di S. Marco e presentata all’Illustrissimo, ed Eccellentissimo Signor Carlo Ruzzini K. Proc. Zio Degnissimo di S.E., Padova 1717, p.10.

140. Marco Antonio Molino, Discorso funebre mamotretto onero aio di virtù in morte dell’Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Marco da Molino qm. Marco prestantissimo senatore veneto, e gloriosissimo guerriero, Venezia 1683, p. 2v.

141. Vettor Sandi, Estratti della Storia veneziana del sig. abate Laugier ed osservazioni sopra li stessi, Venezia 1769, p. 101.

142. Le difficoltà del viver grande, p. 16; L’uguaglianza con gli ottimi, p. 14.

143. L’uguaglianza con gli ottimi, p. 15.

144. Ibid.

145. Le difficoltà del viver grande, p. 31.

146. Ibid., pp. 19, 25.

147. Ibid., p. 16 e L’uguaglianza con gli ottimi, p. 15.

148. Della Repubblica Veneta, in Pompeo G. Molmenti, Curiosità di storia veneziana, Bologna 1919, p. 400 (pp. 359-456). Della Repubblica Veneta è stato edito da Molmenti sotto il titolo di Relazione dell’anonimo. Sulla datazione dell’opera (1664) e sulla sua nuova denominazione cf. Piero Del Negro, Il patriziato veneziano al calcolatore. Appunti in margine a «Venise au siècle des lumières» di Jean Georgelin, «Rivista Storica Italiana», 93, 1981, p. 839 (pp. 838-848).

149. Della Repubblica Veneta, pp. 399-400.

150. G. Morari, Prattica de’ reggimenti in terraferma, p. 37.

151. Ibid., p. 36.

152. Della Repubblica Veneta, pp. 381-382.

153. Ibid., pp. 382-384.

154. Ibid., p. 410.

155. Ibid., pp. 378-379.

156. Ibid., p. 402.

157. Ibid., pp. 412-414.

158. Paolo Preto, Peste e demografia. L’età moderna: le due pesti del 1575-77 e 1630-31 e Le grandi pesti dell’età moderna: 1575-1577 e 1630-1631, in AA.VV., Venezia e la peste. 1348/1797, Venezia 1979, pp. 97 e 125 (pp. 97-98 e 123-126). Cf. inoltre Paolo Ulvioni, Il castigo di Dio. Carestie ed epidemie a Venezia e nella Terraferma 1628-1632, Milano 1989, p. 14; Maria Teresa Todesco, L’andamento demografico della nobiltà veneziana allo specchio delle votazioni nel Maggior Consiglio (1297-1797), «Ateneo Veneto», 176, 1989, p. 140 (pp. 119-164); Andrea Zannini, Un censimento inedito del primo Seicento e la crisi demografica ed economica di Venezia, «Studi Veneziani», n. ser., 26, 1993, pp. 87-116.

159. Giannantonio Muazzo, Del governo antico della Repubblica veneta, delle alterazioni e regolazioni d’esso e delle cause e tempi che sono successe fino a nostri giorni. Discorso storico politico di G. Muazzo, nobile veneto (1670), in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2080, cc. 120-121.

160. Pietro Garzoni, B¥sanoj cioè Paragone usato [...] sù la Repubblica di Venezia per fare pruova della sua qualità (1725-27), in Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, cl. IV, 316, c. 104. Sul lavoro del Garzoni cf. Piero Del Negro, Venezia allo specchio: la crisi delle istituzioni repubblicane negli scritti del patriziato (1670-1797), «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», 191, 1980, pp. 920-926 e Id., Proposte illuminate e conservazione, pp. 129-132.

161. Vettor Sandi, Principii di storia civile della Repubblica di Venezia scritti da Vettor Sandi Nobile Veneto dall’anno 1767, I, Venezia 1772, p. 47.

162. Mi sia consentito rinviare a Laura Megna, Riflessi pubblici della crisi del patriziato veneziano nel XVIII secolo: il problema delle elezioni ai reggimenti, in Stato, società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, II, Roma 1985, in partic. pp. 295 ss. (pp. 244-299), e Ead., Ricchi e poveri al servizio dello stato, pp. 368-371. Più in generale su quest’aspetto della crisi della nobiltà veneziana, cf. James C. Davis, The Decline of the Venetian Nobility as a Ruling Class, Baltimore 1962, pp. 75-105.

163. Girolamo Priuli, I diarii, in R.I.S.2, XXIV, 3, vol. IV, a cura di Roberto Cessi, 1938-1941, p. 50. Sul mutare degli orizzonti economici e culturali del patriziato cf. Gaetano Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto. Governanti e governati nel dominio al di qua del Mincio nei secoli XV-XVIII, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 508-512 (pp. 495-539).

164. Gino Benzoni, La fortuna dialogo, in Agostino Gallo nella cultura del Cinquecento, a cura di Maurizio Pegrari, Brescia 1987, p. 317 (pp. 315-359). Sull’interesse per l’agricoltura e la fortuna dei libri su di essa cf. inoltre Paola Lanaro Sartori, Gli scrittori veneti d’agraria del Cinquecento e del primo Seicento tra realtà e utopia, in Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori, a cura di Amelio Tagliaferri, Milano 1981, pp. 261-310.

165. Bernard H. Slicher van Bath, The Agrarian History of Western Europe, London 1966, pp. 102-131, 144, 195-206.

166. Il ristagno dei prezzi del grano fu accentuato dalla peste del 1629-1631, che falcidiando le popolazioni rurali e urbane fece crollare la richiesta dei prodotti agricoli in generale. Venuti meno gli incentivi più efficaci al progresso dell’agricoltura, le opere di bonifica si fermarono per oltre un secolo. Cf. A. Ventura, Considerazioni sull’agricoltura, p. 712.

167. G. Gullino, Quando il mercante costruì la villa, p. 922.

168. Jean Georgelin, Venise au siècle des lumières, Paris-La Haye 1978, p. 482.

169. Giuseppe Gullino, «Una eredità di consigli e di salutari avvertimenti»: l’istruzione morale, politica ed economica di un patrizio veneziano al figlio (1734-1738?), in I ceti dirigenti in Italia in età moderna e contemporanea, a cura di Amelio Tagliaferri, Udine 1984, pp. 358-359 (pp. 339-363).

170. Giovanni Rossi, Storia de’ costumi e leggi de’ Veneziani, manoscritto, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1397 (= 9288), c. 82.

171. Piergiovanni Mometto, La vita in villa, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, p. 626 (pp. 607-629).

172. Giacomo Agostinetti, Cento e dieci ricordi, che formano il buon fattor di villa, Venezia 1749, p. 1.

173. Sulle ambizioni signorili del patriziato veneziano e£ Sergio Zamperetti, I piccoli principi. Signorie locali, feudi e comunità soggette nello Stato regionale veneto dall’espansione territoriale ai primi decenni del ’600, Venezia 1991; Giuseppe Gullino, I patrizi veneziani di fronte alla proprietà feudale (secoli XVI-XVIII). Materiale per una ricerca, «Quaderni Storici», 43, 1980, pp. 162-193, e Id., Un problema aperto: Venezia e il tardo feudalesimo, «Studi Veneziani», n. ser., 7, 1983, pp. 183-196.

174. S. Zamperetti, I piccoli principi, passim.

175. G. Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto, p. 510.

176. Così nella descrizione della facciata allegata al disegno sottoscritto dallo stesso Antonio Barbaro: A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 487, nr. 48, 13 ottobre 1678.

177. Martina Frank, Spazio pubblico, prospetti di chiese e glorificazione gentilizia nella Venezia del Seicento. Riflessioni su una tipologia, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 144, 1985-1986, pp. 109-126.

178. Gino Benzoni, Introduzione a Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di Id.-Tiziano Zanato, Napoli 1982, p. XCII.

179. Gino Benzoni, Antonio Barbaro o l’esasperazione individualistica, in AA.VV., Una famiglia veneziana nella storia: i Barbaro, Venezia 1996, pp. 469-479 (pp. 461-511).

180. Ennio Concina, Le chiese di Venezia. L’arte e la storia, Venezia 1985, pp. 358-361.

181. Distintioni secrete che corrono tra le casate nobili di Venezia, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2226 (= 9205), c. 34v.

182. Ibid., c. 35.

183. Ibid., cc. 35, 40.

184. Zuan Antonio Venier, Storia delle rivoluzioni seguite nel governo della Repubblica di Venezia et della instituzione dell’Eccelso Consiglio di Dieci sino alla sua regolazione, 1628, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 3762, c. 114. Sul movimento cf. Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, pp. 229-283.

185. Cf. Roberto Sabbadini, L’acquisto della tradizione. Tradizione aristocratica e nuova nobiltà a Venezia (sec. XVII-XVIII), Udine 1995, pp. 14 ss., e Dorit Raines, Pouvoir ou privilèges nobiliaires: le dilemme du patriciat vénitien face aux agrégations du XVIIe siècle, «Annales E.S.C.», 46, 1991, nr. 4, pp. 827-847.

186. Le divisioni interne al patriziato in merito all’aggregazione sono state evidenziate da Gaetano Cozzi, Venezia, una Repubblica di Principi?, «Studi Veneziani», n. ser., 11, 1986, p. 152 (pp. 139-157).

187. R. Sabbadini, L’acquisto della tradizione, p. 17. Il discorso del Michiel non è mai stato pubblicato: Venezia, Museo Correr, ms. P.D. 96/c. Quello del Marcello è riportato dallo storiografo Battista Nani, Istoria della Republica Veneta, in Degli Istorici delle cose veneziane i quali hanno scritto per pubblico decreto, t. IX, Venezia 1720, pp. 89-91. Sulla storiografia dell’aggregazione cf. D. Raines, Pouvoir ou privilèges nobiliaires, pp. 839-844.

188. R. Sabbadini, L’acquisto della tradizione, p. 19.

189. Antonio Menniti Ippolito, Fortuna e sfortune di una famiglia veneziana nel Seicento. Gli Ottoboni al tempo dell’aggregazione al patriziato, Venezia 1996.

190. Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo 32.

191. Ibid. Sulle molteplici e fortunate attività dei Gozzi, cf. Richard Tilden Rapp, Industria e decadenza economica a Venezia nel XVII secolo, Roma 1986, pp. 190-195.

192. L’inventario dei beni di Alberto Gozzi — usufruttuaria la moglie Adriana Donado — fu compilato il 20 febbraio 1725 m.v. (= 1726): A.S.V., Ospedali e luoghi pii diversi, b. 892, fasc. 5. Il suo testamento ivi, Notarile, Testamenti, b. 175, nr. 25.

193. Martina Frank, Virtù e fortuna. Il mecenatismo e le committenze artistiche della famiglia Manin tra Friuli e Venezia nel XVII e XVIII secolo, Venezia 1996.

194. Alexander Cowan, New Families in the Venetian Patriciate, 1646-1718, «Ateneo Veneto», 23, 1985, nrr. 1-2, pp. 70-71 (pp. 55-75).

195. Giovanni Giomo, Indice per nome di donna dei matrimoni dei Patrizi veneti, in A.S.V., Avogaria di Comun, indice 86, passim.

196. Ibid.

197. Ibid.

198. Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo 32, c. 15.

199. Ibid.

200. Ibid.

201. Giuseppe Tassini, Alcuni palazzi ed antichi edifici di Venezia storicamente illustrati, Venezia 1879, p. 274. Nel 1740 il palazzo apparteneva ad Umbertino Papafava, che vi risiedeva: A.S.V., Dieci savi alle decime, Redecima del 1740, b. 436.

202. A.S.V., Commesse di dentro, filza 93.

203. A. Menniti Ippolito, Fortuna e sfortune di una famiglia veneziana nel Seicento, p. 168.

204. Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo 32, c. 18.

205. Ibid., c. 16.

206. George R.F. Baker, Nobiltà in declino: il caso di Siena sotto i Medici e gli Asburgo-Lorena, «Rivista Storica Italiana», 84, 1972, p. 594 (pp. 584-616).

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