GREGORIO di Arezzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 59 (2002)

GREGORIO di Arezzo

Isabella Droandi

Non sono noti i dati biografici di questo pittore. Si sa per certo che Gregorio e Donato "de Aretio" firmarono, nell'agosto del 1315, un trittico opistografo nella collegiata di S. Stefano a Bracciano, raffigurante da un lato Il Redentore in trono e angeli tra S. Giovanni Battista e S. Nicola negli sportelli laterali e dall'altro La Madonna della Cintola, s. Tommaso d'Aquino, angeli e un monaco tra S. Stefano e S. Lorenzo. In occasione della mostra giottesca di Firenze (Sinibaldi - Brunetti, 1943) l'opera venne messa in relazione per la prima volta con la pala con S. Caterina d'Alessandria e storie della collezione Hearst di New York, ipotizzando che ne fosse autore un pittore aretino attivo parallelamente al Maestro della S. Cecilia. Fu R. Longhi (1963) a riprendere questa traccia e a costituire il primo gruppo di opere per i due soci aretini con il trittico di Bracciano, la pala Hearst e una Madonna col Bambino di collezione privata, dando avvio a un periodo di vera fortuna critica per la pittura aretina del Trecento, che indagando radici locali per Spinello Aretino ha consentito il riaffiorare di una cultura artistica dimenticata nel tempo, soverchiata dai dominanti sviluppi senesi e fiorentini.

Con il contributo di P.P. Donati (1968) è stato possibile delineare una più vasta attività dei due aretini nell'alto Lazio, dove avrebbero introdotto il primo giottismo assisiate appreso in un'inevitabile sosta di aggiornamento durante il viaggio che li allontanava, in cerca di lavoro, da una Arezzo ancora provata dagli effetti della battaglia di Campaldino. Oltre al trittico di Bracciano, Donati individuava la loro mano in una serie di affreschi della zona: a Tuscania, nel Giudizio universale in S. Maria Maggiore, nei Ss. Secondiano, Veranio e Marcelliano nella cripta di S. Pietro e nell'Albero della vita in S. Silvestro; a Montefiascone, nella Crocifissione e nelle Storie di s. Nicola in S. Flaviano; nella Madonna in tronocol Bambino di S. Martino al Cimino e in quella della Ss. Trinità a Viterbo; e, infine, in Umbria, nel Cristo benedicente in gloria di S. Lorenzo in Arari a Orvieto. Proprio la Madonna di Viterbo, alla quale le memorie locali attribuiscono un intervento miracoloso in occasione di un nubifragio abbattutosi sulla città la sera del lunedì dell'Angelo del 1320, viene dichiarata finita in quei giorni nelle cronache quattrocentesche e ricordata come opera di un pittore di nome Donato. Essa sarebbe perciò, secondo Donati, una delle ultime opere eseguite prima del rientro ad Arezzo, che doveva essere avvenuto proprio intorno a quella data. Qui i due pittori avrebbero continuato la loro opera producendo la pala Hearst, gli affreschi con la Madonna in trono e storie di s. Anna e Gioacchino nella cappella Ubertini in duomo oltre all'Adorazione dei magi e alla Disputa coi dottori in S. Domenico. G., forse più anziano visto che il suo nome è il primo nel marchio impresso dal sodalizio a Bracciano, potrebbe essere, dei due, l'interprete più legato al primo giottismo assisiate e Donato quello più aggiornato sulla lezione di Padova, che introduce elementi più vivaci, corsivi e popolareschi. Tuttavia l'operazione di discernimento di una mano dall'altra non sembra essere facilmente operabile, come per tempo sottolineato da A.M. Maetzke (1974, pp. 44-48).

Già Longhi aveva identificato G. e Donato in due pittori aretini ricordati nei documenti d'archivio pubblicati nei primi decenni del Novecento: Goro di Manno e Donato di Rigo. Di Goro, diminutivo di Gregorio, si sa soltanto che nel 1321 era ad Arezzo, testimone a un atto notarile (Degli Azzi, 1931, pp. 51 s.), e da documenti inerenti a suo figlio Angelo (anche lui pittore benestante, documentato ad Arezzo e a Perugia, del quale non si conoscono opere: Droandi, 2000-01, pp. 356 s., 389-391) che morì tra maggio e dicembre del 1340 (Del Vita, 1916).

Di Donato d'Arezzo, figlio di Rigo e padre di Luca, entrambi pittori senza opere note, si hanno notizie dal 1324. Nel 1328 abitava "in contrada inter muros veteres", in una via probabilmente scomparsa che doveva trovarsi tra piazza Grande e S. Niccolò, ed era già morto nel 1350 quando il figlio pagò un debito in sua vece (Pasqui, 1917).

Non era stata sottolineata finora la parentela tra Donato e Andrea di Nerio, il più noto dei pittori aretini riscoperti negli ultimi decenni, attestata da un documento del 30 sett. 1333 (Degli Azzi, 1931, p. 56), in cui Donato dichiara di aver ricevuto da Andrea la restituzione di metà della dote della sua defunta figlia Gemma, moglie del fu Nerio. Dal documento si evince inoltre che Andrea, liberato da ogni altra pendenza verso Donato circa la dote di Gemma, trattenne l'altra metà "secundum formam statutorum"; ma non è affatto chiaro se Gemma fosse sua madre o la sua matrigna (Droandi, 2000-01, pp. 368 s., 385).

Le date dei documenti collimano sostanzialmente con la cronologia proposta da Donati per il corpus dei due pittori; ma sono di fatto troppo inoltrate per permettere di ritenere questi ultimi i pionieri del giottismo nell'alto Lazio. Più di recente è stata riesaminata la questione della loro attività nella zona e soprattutto del peso da loro esercitato sulla cultura artistica locale; ed è stato riconosciuto che si sviluppa in quell'area geografica un linguaggio peculiare, fondato su una solida base di tradizione romana legata a I. Torriti e a P. Cavallini sulla quale si innestano incisivamente correnti tosco-umbre, in un reciproco scambio avvenuto in importanti cantieri con maestranze miste, come in S. Flaviano a Montefiascone, in S. Maria Maggiore e in S. Pietro a Tuscania, luoghi in cui furono attivi anche G. e Donato (Romano, 1992, pp. 197-275).

I risultati di questa indagine sottolineano la scarsità di informazioni ancora oggi disponibili sul periodo che precede il governo di Guido Tarlati e sulla cultura artistica aretina che formò G. e Donato; ma tolgono anche ogni dubbio sulla necessità di approfondire la qualità dei rapporti con l'arte toscana. Resta, infatti, da individuare, tra le altre cose, il motivo del viaggio degli aretini in alto Lazio. Effettivamente la loro condizione economica e sociale nella città d'origine appare mediamente elevata e la situazione di Arezzo dopo Campaldino si considera oggi meno disastrosa di quanto si sia fatto in passato. Difficilmente perciò il loro viaggio si dovrà interpretare come emigrazione in cerca di lavoro, ma dovrà piuttosto trovare ragione in possibili rapporti tra famiglie dominanti ghibelline aretine e la signoria ghibellina di Viterbo, compromessa di lì a poco, non meno di Arezzo al tempo del vescovo Guido, con Ludovico il Bavaro e il suo personale antipapa Niccolò V (Droandi, 2000-01, pp. 357-359).

Altre due opere sono state aggiunte al corpus di G. e Donato da Boskovits (1984). Si tratta di due tavolette, probabilmente parti di una stessa predella: una di collezione privata fiorentina con Il viaggio di s. Maria Maddalena a Marsiglia, prima attribuita al Maestro delle Ss. Flora e Lucilla (Donati, II, 1968, p. 13 fig. 16), cioè all'altra bottega giottesca aretina attiva contemporaneamente (individuata a partire dal cosiddetto trittico Loeser-Griggs-Hutton); l'altra, ora in collezione privata francese, raffigurante Il battesimo di Gesù, proveniente dalla raccolta Benedict e poi presso Giovanni Sarti a Parigi (Todini, 1999). Di recente è stata rivista la proposta di datazione di Todini che le colloca in un tempo precedente al trittico di Bracciano, a favore invece del periodo successivo per l'evidente maturità stilistica e per la presenza di stilemi, ricorrenti nelle fisionomie, evolutisi in senso più naturalistico di quanto si veda nel trittico (Droandi, 2000-01, pp. 359 s.).

A conferma comunque della provenienza aretina del Battesimo sembrerebbe aggiungersi anche la nuova interpretazione della presenza nel dipinto della figura del giovane s. Giovanni Evangelista che, stringendo nella mano sinistra un rotolo di pergamena e alzando la destra col palmo aperto verso chi guarda, assiste alla celebrazione del sacramento da parte del Battista. La sua presenza dovrebbe potersi riferire alla simbologia medievale cristiana, che, con intento antigiudaico, contrapponeva la Sinagoga e il Vecchio Testamento alla Chiesa e al Vangelo, come si vede anche nella rara iconografia della grande croce duecentesca della basilica di S. Francesco ad Arezzo che ne costituirebbe un autorevole precedente (ibid., pp. 361 s.).

Si tratta, dunque, di opere sempre piuttosto complesse, per contenuto simbolico o per struttura narrativa, come nel caso della pala Hearst, dove si raffigura la vita di s. Caterina in dodici scene disposte simmetricamente ai lati della sua immagine, o, ancora, di notevole complessità strutturale come nel caso del cosiddetto trittico di Bracciano, una macchina devozionale, che ancora nel Novecento inoltrato si portava in processione, chiudibile da due parti come un doppio tabernacolo, dipinta su dieci facce lignee (frammenti di altre figure di santi, tra i quali s. Giovanni Evangelista, sono visibili anche sulle facce esterne degli sportelli), che sarebbe stata commissionata da un Marco Antonio de Notilibus (Faldi - Mortari, 1954).

Un'opera ancora da considerare in relazione a G. e Donato e al loro ambiente è la Madonna col Bambino di ubicazione sconosciuta pubblicata come di un "Associate of Pacino di Bonaguida" (Offner - Boskovits, 1987) e venduta all'asta a Londra nel 1971, che Boskovits ha attribuito al Maestro delle Ss. Flora e Lucilla e collocata in data precedente al trittico di Bracciano. Nonostante le ridipinture da lui segnalate e la condivisibile attribuzione, il dipinto è comunque la dimostrazione della vicinanza culturale e tecnica tra le due principali botteghe aretine giottesche individuate finora, come emerge chiaramente dal confronto con altri lavori che si ritengono pertinenti a G. e Donato, come la Madonna della Ss. Trinità di Viterbo, dove il volto e le mani sembrano quasi sovrapponibili, e anche la Madonna col Bambino segnalata da Longhi. Dopo il restauro, che dovrebbe aver rimosso le falsificanti ridipinture pregresse senza proporne di nuove, è da escludere invece che si possa loro riferire il tabernacolo portatile Albrighi, passato poi all'antiquario Moretti a Firenze, prima attribuito a G. e Donato da Bellosi (Tamassia, 1995) e ora al Maestro del Polittico della cappella Medici (Tartuferi, 1999).

Meriterebbe forse un ripensamento anche l'attribuzione della Madonna col Bambino di S. Lorenzo a Montegufoni presso Montespertoli (rubata e ritrovata nel 1985, divisa in due parti) a Lippo di Benivieni (Bietti Favi, 1990), piuttosto che all'ambito di G. e Donato, anche dubitativamente, come proposto a suo tempo da Bologna (1969) specialmente per il clipeo cuspidale con il Redentore. Va infine ricordata la tavoletta presso Altomani a Pesaro, raffigurante un Santo vescovo e due oranti, a loro attribuita su parere di F. Zeri. Sono opera d'altra competenza le due Storie di s. Giuliano (disegni su intonaco) sottostanti le Storie dei ss. Anna e Gioacchino della cappella Ubertini nel duomo di Arezzo (Droandi, 2000-01, p. 360 n., fig. 1).

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Notarile antecosimiano, Protocolli del notaio Astoldo di Baldinuccio, n. 991 (1331-33), 30 sett. 1333, c. 153v; A. Del Vita, Documenti su pittori aretini dei secoli XIV-XVI, in Rivista d'arte, IX (1916), pp. 4 s.; U. Pasqui, Pittori aretini vissuti dalla metà del sec. XII al 1527, ibid., X (1917), pp. 11 s.; G. Degli Azzi, Documenti su artisti aretini e non aretini lavoranti in Arezzo, in Il Vasari, IV (1931), 1-2, pp. 51 s., 56; G. Sinibaldi - G. Brunetti, Pittura italiana del Duecento e Trecento (catal. della mostra giottesca, 1937), Firenze 1943, p. 395, scheda 121; I. Faldi - L. Mortari, La pittura viterbese dal XIV al XVI secolo, Viterbo 1954, p. 26 tav. 14; R. Longhi, In traccia di alcuni anonimi trecentisti, in Paragone, XIV (1963), 167, pp. 13-16; P.P. Donati, Per la pittura aretina del Trecento, I, in Paragone, XIX (1968), 215, pp. 22-39; II, ibid., 221, p. 13 fig. 16; F. Bologna, Novità su Giotto, Torino 1969, pp. 25 n. 1, 84 n. 2, fig. 37; A.M. Maetzke, Arte nell'Aretino. Recuperi e restauri dal 1968 al 1974 (catal., Arezzo), Firenze 1974, pp. 44-48; M. Boskovits, A corpus of Florentine painting, sez. 3, IX, The painters of the miniaturist tendency, Firenze 1984, p. 21 n. 41; R. Offner - M. Boskovits, A corpus of Florentine painting. Elder contemporaries of Bernardo Daddi, sez. 3, II, Firenze 1987, pp. 11, 554; M. Bietti Favi, Indizi documentari su Lippo di Benivieni, in Studi di storia dell'arte, 1 (1990), p. 245 n. 34, fig. 3; S. Romano, Eclissi di Roma. Pittura murale a Roma e nel Lazio da Bonifacio VIII a Martino V(1295-1431), Roma 1992, pp. 197-275; M. Tamassia, Collezioni d'arte tra Ottocento e Novecento. Jacquier fotografi a Firenze 1870-1935, Napoli 1995, p. 21; A. Tartuferi, in Da Bernardo Daddi a Giorgio Vasari (catal., a cura di M.P. Mannini, Galleria Moretti), Firenze 1999, pp. 18-23; F. Todini, in Trente-trois primitifs italiens de 1310 à 1500: du sacré au profane (catal., Coll. privata G. Sarti), Paris [1998], pp. 16-18; I. Droandi, Questioni di pittura aretina del Trecento, in Annali aretini, VIII-IX (2000-01), pp. 356-362, 368 s., 385, 389-391, figg. 1-4.

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