GREGORIO IX

Federiciana (2005)

GREGORIO IX

OOvidio Capitani

Nato in Anagni intorno al 1170, Ugolino dei conti di Segni ricevette la prima formazione culturale nella scuola vescovile della città natale. Le fonti letterarie (Niccolò Roselli, Bernard Guy, Platina) sono di scarso ausilio per la ricostruzione di un profilo biografico; più sicure ‒ ma per un periodo posteriore alla prima giovinezza ‒ le fonti documentarie; rimane tuttavia non del tutto certo che egli si addottorasse a Bologna in utroque, mentre maggiore credibilità può avere la notizia di una sua permanenza a Parigi per conseguire il titolo dottorale in teologia.

Con la nomina a papa di Innocenzo III, a lui congiunto da legami di parentela, Ugolino fu nominato cappellano papale e cardinale diacono di S. Eustachio. Prese parte, nel 1199, alla legazione inviata presso Marcovaldo di Annweiler, nel periodo immediatamente successivo alla morte di Enrico VI di Svevia, nel tentativo di mediare tra le fazioni costituitesi per la reggenza del Regno di Sicilia e per l'educazione di Federico, fazioni capeggiate dallo stesso Marcovaldo e da Gualtiero di Palearia, che alla fine riuscì a trattenere presso di sé il giovane svevo. Creato cardinale vescovo di Ostia nel 1206, Ugolino fu in Germania per seguire le trattative destinate a portare sul trono imperiale Ottone IV di Brunswick, previa rinunzia al Regno di Sicilia. Quando Onorio III ascese al soglio pontificio (1216), Ugolino mantenne la sua posizione di primo piano per la trattazione della politica della Sede Apostolica, soprattutto per la conduzione, nel 1221, delle trattative miranti a pacificare i comuni dell'Italia settentrionale, le cui lotte parevano d'ostacolo a che Federico II, divenuto imperatore nel 1220, potesse intraprendere la crociata cui s'era impegnato solennemente con Onorio III prima e dopo l'incoronazione stessa. La questione della crociata, che sarebbe divenuta il parametro più sicuro per misurare lo stato dei rapporti tra papato e Impero al tempo del pontificato di G., come lo era stato già durante il pontificato di Onorio III, si era complicata ulteriormente dopo che una flotta inviata da Federico II in soccorso ai crociati che avevano occupato Damietta nel 1219, e che poi erano finiti sotto assedio, arrivò quando la città era già ricaduta in mano ai musulmani.

Formalmente, l'adesione di Federico II alle iniziative che, attraverso Ugolino, Onorio III aveva assunto per promuovere la crociata, era sicura: lo stesso sovrano svevo gli aveva scritto il 10 febbraio 1221, allorché il papa lo aveva nominato legato ad hoc per la spedizione in Terrasanta: una lettera in cui si congratulava e ripeteva che, in quel compito, il suo impegno sarebbe stato il massimo, in quanto "magis humeris nostre maiestatis incumbit". A bilanciare però il peso eccessivo che Federico II poteva chiedere che gli venisse riconosciuto e ad evitare che le diuturne lotte tra i comuni dell'Italia settentrionale e centrale potessero assumere l'aspetto di un vero ostacolo per la spedizione e fornire un pretesto per rinviare la medesima, Ugolino, su mandato del papa, svolse tra primavera e autunno un'azione politica in cui si possono distinguere tre momenti.

Un primo (fine marzo-fine luglio), con soste in varie città, nelle quali ottenne l'impegno delle autorità comunali per armati e per contributi in denaro. Nel corso della seconda fase (agosto 1221), Ugolino, insediatosi a Bologna, riuscì ad avviare trattative per la composizione di dissidi sorti fra Milano, Ferrara, Treviso e Belluno, il patriarca di Aquileia e il vescovo di Feltre e Belluno. Ottenne impegni in denari e uomini per la crociata dal podestà di Modena e dalla stessa Bologna. E tuttavia i preparativi dell'impresa continuarono ad andare a rilento: il comandante designato dell'esercito crociato, Guglielmo di Monferrato, chiese un impegno finanziario notevolissimo (Onorio III aveva promesso 15.000 marche d'argento) e si poté esaudire tale richiesta solo attraverso abili giochi finanziari e contabili (dilazioni di pagamenti, anticipi sulle collette di Germania, ricorso a prestatori italiani, ecc.), con coinvolgimenti sempre più complessi della Curia nelle transazioni finanziarie. La terza fase (settembre-ottobre 1221) vide Ugolino ancora impegnato per la crociata: Milano e Vercelli si offrirono di finanziare l'invio di crociati a condizione che essi partissero insieme; nel Veneto, affidata la colletta al vescovo di Padova, si riuscì a compilare una lista di offerte ammontanti a 216 libbre, 7 solidi, 6 denari, che tuttavia non si riuscì a raccogliere subito. Alla fine di ottobre, Ugolino rientrò a Bologna, dove si tirarono le somme della legazione e dove venne depositato il ricavato della colletta (per una disamina dettagliata delle missioni è indispensabile il lavoro di Ch. Thouzellier, La légation enLombardie du cardinal Hugolin[1221]. Un épisode de la cinquième croisade, "Revue d'Histoire Ecclésiastique", 65, 1950, nrr. 3-4, pp. 508-542).

Per un calcolo politico probabilmente errato, l'avvio della crociata, che pure non era l'unico problema in discussione tra Sede Apostolica ed Impero ‒ sussistendo quelli, certamente altrettanto preoccupanti per Roma, dell'Unio Regni ad Imperium, della paventata contiguità tra Regno d'Italia e Regno di Sicilia (da realizzarsi a danno dei diritti che la Chiesa vantava sulle Marche e sul ducato di Spoleto) e della minaccia gravante sull'autonomia dei comuni centrosettentrionali ‒ continuò a essere avvertito da Ugolino, anche dopo la sua ascesa al pontificato (19 marzo 1227), come il problema principale. Il mantenimento da parte di Federico dell'impegno per la crociata costituiva infatti ai suoi occhi il riscontro oggettivo più attendibile della sua intenzione di mantenere fede al complesso di impegni assunti al momento dell'elezione romana del 1220. In altri termini, il nuovo pontefice aveva stabilito una gerarchia di priorità che era tale solo dal suo particolare punto di vista.

Lo spostamento della crociata al 1227 era stato concesso proprio da parte di Onorio III già da tempo, su pressione di Ermanno di Salza, Gran Maestro dell'Ordine teutonico. Poteva indubbiamente giocare a favore di un ulteriore rinvio anche l'attesa di un chiarimento circa l'effettiva volontà dell'imperatore di astenersi da eventuali colpi di mano del tipo di quello tentato dallo scalco imperiale Gunzelino di Wolfenbüttel nell'ambito del Patrimonio di S. Pietro, in spregio delle professioni solenni di riconoscimento della sovranità papale nei territori del ducato e delle Marche: Federico aveva sconfessato l'operato di Gunzelino e Onorio III aveva comunque accolto la dichiarazione di sconfessione dello Svevo. Su di un piano di cautela diplomatica, tutto suggeriva di non compiere passi azzardati da parte del papato. Così non fu. Federico partì, ma fu costretto a rientrare ad Otranto (agosto 1227) per l'insorgere di una pestilenza a bordo della flotta crociata. G. non prestò fede a questa notizia e scomunicò (29 settembre 1227) l'imperatore, informandone l'8 ottobre tutti i principi di Germania e il 10 i vescovi d'Abruzzo e altri.

La lettura di questi documenti e di un altro inviato a Federico II alla fine dello stesso anno 1227 induce a riflettere sullo stato d'animo e sulle riserve e ripensamenti che G. all'atto stesso di scomunicarlo poteva avere avuto. Intanto sia nella lettera ai principi di Germania, sia in quella ai vescovi, sia nella stessa lettera a Federico della fine del 1227, lo Svevo è sempre ricordato come Romanorum imperator; in secondo luogo la scomunica assume tutte le caratteristiche di un passo non ultimativo (M.G.H., Epistolae saec. XIII e regestis pontificum Romanorum selectae, I, a cura di C. Rodenberg, 1883, pp. 281, 286). Sempre nella lettera a Federico, l'allusione all'ingente penale che l'imperatore s'era obbligato a versare in caso di inadempienza (100.000 once d'oro!), ha la sola funzione di sottolineare la circostanza che la minaccia di scomunica era stata approvata dallo stesso Federico II nel 1225 nell'incontro di San Germano con Onorio III. Nella lettera ai vescovi, G. ripercorre tutta la vicenda della promessa mai adempiuta da parte di Federico II, cui a un certo punto si addebita anche la caduta di Damietta, un'accusa che non ricorre né nel documento ai principi di Germania, né nella lettera a Federico II. Purtuttavia, G. non chiude del tutto la porta a possibili ravvedimenti, a patto che l'impresa si compisse: della pestilenza, che G. non nega, il responsabile è comunque indicato in Federico, colpevole di aver riunito l'esercito crociato e di essersi affrettato verso Brindisi nel culmine della stagione estiva, nel timore della scomunica, in condizioni climatiche e ambientali tali da favorire il diffondersi della pestilenza stessa fra i crociati.

Tutto ciò presupponeva, a parte ogni questione relativa allo scontro fra due ideologie universali, una forza militare che il papa non aveva: e proprio la tensione, riapertasi tra papa e imperatore dopo la sconfessione da parte di G. della sperimentazione di una nuova collaborazione fra papato e Impero intrapresa da Onorio III, condannò all'insuccesso la missione nelle Marche del legato pontificio Alatrino, perché spinse molte delle più importanti città a riprendere l'abituale politica di equidistanza dai due contendenti e a svolgere la trama, anch'essa tradizionale, delle alleanze fra gruppi di comuni contro altri gruppi, come avvenne il 2 ottobre 1228, quando Osimo, Recanati, Numana, Castelfidardo, Cingoli, Fano e Senigallia, di orientamento piuttosto filoimperiale, si coalizzarono contro Pesaro, Ancona e Iesi, e a poco valse il ricorso di G. ad Azzo VII d'Este che era stato investito sin da Onorio III del feudo della Marca. Va anche notato che solo quando apparve chiaro che la situazione nella regione stava degenerando verso il collasso di ogni forma di controllo da parte della Chiesa intervenne il legato imperiale Rainaldo di Spoleto: ma probabilmente non per rimettere in discussione la questione della sovranità sul territorio marchigiano. Sembra infatti doversi accettare il giudizio di W. Hagemann quando sostiene l'improbabilità che Federico II, "animato com'era dall'unico desiderio di condurre felicemente in porto la sua crociata", ritenesse opportuno riproporre la questione dello "Stato della Chiesa", per affrontare poi le complicazioni dall'esito imprevedibile che sarebbero scaturite da ciò. Ma questo non significava che la politica di G. avesse dato un buon esito: essa consentì a Federico II di potersi presentare agli occhi dei comuni delle Marche come il solo garante della pace nella regione per il manifesto fallimento dell'azione svolta dal papa, la cui responsabilità nel precipitare della situazione veniva ricordata in una sorta di manifesto politico dell'imperatore inviato al comune di Civitanova il 21 giugno 1228, alla vigilia della partenza di Federico per la crociata.

Il piccolo esercito crociato, che partì da Brindisi dopo essere stato preceduto da cinquecento cavalieri e raggiunse S. Giovanni d'Acri il 7 settembre 1228, non ebbe l'assistenza preziosa degli Ordini cavallereschi e degli Ordini religiosi in seguito all'iterazione, alla fine del marzo 1228, della scomunica di Federico II da parte di G., che colpiva d'interdetto tutte le terre in cui fosse giunto (ibid., nr. 371, pp. 288-289). Incurante di ciò, egli stipulò con il sultano d'Egitto al-Kāmil un patto decennale (18 febbraio 1229), in virtù del quale Gerusalemme, Betlemme e Nazareth, con una fascia costiera della Palestina, venivano restituite ai cristiani e Federico II stesso poteva cingere la corona di re di Gerusalemme (17-18 marzo 1229), in quanto marito, dal 1225, di Isabella di Brienne, dandone immediato annunzio a Gregorio IX. Il 18 febbraio 1229 il patriarca di Gerusalemme Geroldo inviava al pontefice un commento ad alcuni articoli del trattato stipulato da Federico II con al-Kāmil (ibid., pp. 296-297), nel quale sottolineava il fatto che il trattato presentava vantaggi esclusivamente per Federico II, senza menzionare esplicitamente alcun diritto della Chiesa e di Roma; e limitando la libertà di accesso dei cristiani a determinati luoghi, con esclusione di ingresso nella zona della moschea di al-Aqṣā (Tempio di Salomone), affidata alla custodia dei saraceni, che avrebbero potuto compiervi liberamente i loro riti religiosi. Plausibile appare anche la preoccupazione del patriarca di Gerusalemme che, nel lasciare nello statu quo la condizione dei musulmani, certamente più numerosi dei cristiani, vedeva inevitabile uno scontro tra le parti opposte nel corso del periodo di tregua, stabilito in dieci anni. Meno convincente, fra le altre, anche se realistica sul piano fattuale, l'argomentazione secondo la quale Federico non avrebbe potuto mantenere fede a uno dei due impegni assunti: uno con G. di mantenere nel Regno di Gerusalemme una consistente milizia, l'altro con al-Kāmil di non alterare i rapporti di forza esistenti.

G., nonostante le assicurazioni di Ermanno di Salza, che, tra l'altro, asseriva che i luoghi restituiti ai cristiani potevano essere fortificati, sciolse dal giuramento di fedeltà i sudditi dell'imperatore e, volendo rispondere agli attacchi portati nelle Marche e nel ducato di Spoleto da Rainaldo, reggente del Regno di Sicilia, invase quest'ultimo, con un esercito costituito da milizie pontificie e fuorusciti siciliani. Sul piano militare, la spedizione di G. e dei suoi non numerosi alleati fu un insuccesso. Fu ottenuta qualche vittoria iniziale, anche perché s'era diffusa la voce, forse sparsa ad arte, della morte di Federico II. Questi invece nel giugno del 1229 sbarcò a Brindisi e riprese in pugno la situazione sia politica sia militare, riconquistò le città ribelli, punì chi gli si era rivoltato contro, convincendo G., dopo lunghe trattative condotte attraverso Ermanno di Salza e il cardinale prete di S. Sabina Tommaso di Capua, a riconoscere e ad accettare la pace di San Germano (v.; luglio-agosto 1230), di cui conosciamo i contenuti grazie a diciotto lettere inviate ad alcuni dei personaggi più importanti dell'Europa occidentale (ibid., pp. 333-335).

Federico II si impegnava a togliere dal bando le città dell'Italia settentrionale e restituire alla sovranità pontificia le terre del ducato di Spoleto e delle Marche, che erano state occupate dalle truppe imperiali; rinunciava a ogni forma di rivalsa nei riguardi di coloro che gli si erano rivoltati contro, schierandosi con la Chiesa; ammetteva l'attendibilità della ricostruzione dei fatti che avevano preceduto la scomunica del 1227 (senza fare menzione della pestilenza); affidava a Ermanno di Salza, a titolo di fideiussione cautelare, per otto mesi, una serie di territori e luoghi fortificati; si obbligava a non imporre taglie e imposte agli ecclesiastici; accoglieva l'ordine dei due legati papali (Giovanni vescovo di Sabina e Tommaso, già ricordato) di non impedire in alcun modo lo svolgimento libero dell'attività ecclesiastica nel territorio del Regno, fatti salvi i diritti feudali; si impegnava inoltre a non convenire in giudizio penale nessun membro del clero.

Le clausole del trattato erano tutte apparentemente a favore di G., ma a riflettere sui loro contenuti ci si accorge che, nel ristabilire sostanzialmente la situazione al punto in cui era al momento della partenza di Federico II, G. non aveva ottenuto quello che sembrava dovesse essere lo scopo maggiore, cioè l'eliminazione dell'avversario. Non si parlava delle motivazioni dello scioglimento del legame di fedeltà dei sudditi; non si dichiarava il carattere fittizio del patto per la restituzione ai cristiani di Gerusalemme, Betlemme e Nazareth, un evento che aveva indubbiamente contribuito al prestigio di Federico II; non si risollevava la questione dell'unione del Regno all'Impero. Militarmente G. aveva sperimentato la propria debolezza e avrebbe dovuto cercare, come infatti cercò, un più efficace collegamento con i comuni, soprattutto dopo che, con le Costituzioni melfitane del 1231, con le quali riordinò drasticamente l'amministrazione del Regno di Sicilia, lo Svevo mise mano anche alla materia degli introiti della Chiesa cui, per impegno preso dai normanni, spettava la decima delle entrate dello stato, che venivano a costituire la parte più cospicua delle entrate sue proprie.

Nel contempo, Federico II continuava a favorire i suoi alleati nel clero siculo, ma agevolando solo coloro che entravano a far parte dell'apparato burocratico-amministrativo del Regno. Così, di lì a pochi anni, quando G. denunciò le vessazioni compiute ai danni delle chiese siciliane da parte dei funzionari imperiali, il clero, per lo meno quello che più contava, non parteggiò per il pontefice romano, ma per il re.

Connessa con la questione dei rapporti tra comuni e Impero (ma anche tra comuni e Sede Apostolica, specie per quanto concerneva le città che s'erano acquistate una larga autonomia approfittando delle lotte tra gli Svevi ed il papato), era quella delle eresie, dove formalmente imperatore e papa erano da tempo impegnati in una lotta comune, pur se muovendo da diversi presupposti. Sin dal 1220, infatti, anche prima dell'incoronazione imperiale, Federico II aveva esplicitamente affermato di voler difendere i diritti della Chiesa romana da eventuali soprusi perpetrati dalle autorità comunali che venivano spesso connessi con l'eresia. Questo suo allineamento con l'autorità ecclesiastica su un punto che le stava molto a cuore, obbligava G. a schierarsi dalla parte dell'imperatore nel punire le città, a lui ribelli, che venissero incolpate di favorire gli eretici.

A portare un ulteriore elemento di complicazione nel rapporto tripolare Impero-comuni-Chiesa sopraggiunse la ribellione del figlio di Federico II, Enrico (VII), destinato a succedergli nell'Impero, avvenuta quando questi prese apertamente posizione contro i principi del Regno, a favore delle città e dei ministeriales. Con l'appoggio di Federico, i principi obbligarono Enrico a mutare atteggiamento, ottenendo di vedere equiparata la propria sovranità territoriale indipendentemente dal fatto di essere laici o ecclesiastici, mentre le rivendicazioni delle città ricevevano un netto rifiuto o subivano un forte ridimensionamento.

Se da un lato G. non poté sottrarsi all'incombenza di una mediazione tra Federico II e il figlio Enrico (che, dopo un incontro con il padre avvenuto ad Aquileia nella Pasqua del 1232 in cui aveva accettato, in obbedienza all'imperatore, di adottare una politica non ostile ai principi tedeschi, era ritornato ad assumere l'atteggiamento precedente), da un altro rimase su posizioni di cauto attendismo, fino a quando l'atteggiamento di Enrico si discostò dalla linea di Federico II di netta ostilità all'eresia. A questo punto G. si trovò prigioniero delle sue pregiudiziali antiereticali e scomunicò, su esplicita richiesta di Federico, lo stesso Enrico (luglio 1234), senza peraltro ottenere nessun atto di clemenza da parte dell'imperatore verso il figlio, che, catturato, dopo aver rinunziato al titolo regale e ai possessi in Germania, fu deportato in Calabria dove morì, forse suicida, nel 1242. Vista la presa di posizione 'obbligata' di G. nei confronti di chi aveva pur preso le parti delle città contro il proprio padre, quello dei comuni dell'Italia settentrionale diventava, ben più di quanto lo fosse stata la crociata, il nodo della politica di G. nei riguardi di Federico II.

Molto, certamente, influirono nell'alleanza 'forzata' le preoccupazioni della lotta decisa da G. ‒ e da Federico II, si badi bene ‒ contro gli eretici, che proprio nelle città lombarde potevano allogare. Nel conflitto tra le varie fazioni dei comuni cittadini dell'Italia centrosettentrionale, la lotta alle eresie era un indubbio elemento di disturbo e di complicazione, soprattutto per il papa, che doveva anche fronteggiare moti di ribellione in Roma: qui, nel 1232, si ebbe una vera e propria rivolta contro il pontefice, non si può dire con quale reale e consapevole coinvolgimento dell'imperatore. Ma appare credibile immaginare un progressivo deterioramento dei rapporti tra papa e imperatore proprio a cagione della continua opera di mediazione tra la Lega e Federico II, che si svolse tra il 1231 e il 1235 e successivamente tra il 1236 e il 1237, con particolare intensità. Nel giro di poco più di un anno e mezzo contiamo ben dodici documenti indirizzati ai comuni settentrionali e ai legati papali che tentavano di ristabilire un minimo di tregua tra comuni e Impero; sei furono le lettere indirizzate a Federico II. Da una di esse apprendiamo che G. respingeva l'accusa di aver favorito la ricostituzione della Lega lombarda e di aver consentito che in Tuscia o nel Veronese si fosse tramato contro Federico II e ricordava che non poteva essere ascritta a colpa della stessa Chiesa la circostanza che i veronesi, per timore della forza dell'imperatore, avessero falsamente sostenuto di avere l'appoggio di Roma, i cui legati, vescovi di Treviso e di Reggio Emilia, avevano indotto proprio i veronesi a osservare la tregua. Ma nella stessa lettera G. insisteva sulle vessazioni imposte al clero del Regno di Sicilia e sulle accuse contro l'imperatore, che riferivano dell'estrema durezza delle condizioni ingiunte ai nobili del Regno che si erano ribellati a Federico II per aver aderito alla Chiesa: "Si verius loquimur, iam pro maiori parte ista non credimus", soggiungeva diplomaticamente il papa, che tuttavia, con riferimento ai condannati, aveva detto: "id tanto magis Deo displicere putamus, quanto fortius ipsos credimus innocentes!" (M.G.H., Epistolae saec. XIII, p. 575).

La lettera di G. era del 29 febbraio 1236: il 17 agosto dello stesso anno, in una missiva al cardinale vescovo prenestino Giacomo, G. inviava una serie di doléances della Chiesa di Roma nei riguardi dell'imperatore con la raccomandazione di mostrargliele e chiederne ragione o, ove non gli fosse stato possibile, di affidarle al vescovo di Brescia, Guala, già legato in Lombardia per la repressione antiereticale, insieme con una replica alle varie accuse che da parte di Federico si muovevano alla Chiesa romana. Le reciproche accuse (ibid., pp. 596-598 e 598-599), ancor ammantate da una naturale prudenza e dal formulario delle lettere ufficiali, si ripeterono: ma la valenza ideologica che esse nascondevano ‒ da parte di G., almeno ‒ si dichiarò appieno allorché, il 23 ottobre 1236, il papa si impegnò, in una lettera che ci sembra debba essere intesa come ultimo avvertimento a Federico II, circa gli aspetti complessivamente ideologici che potevano (o non potevano) militare a favore dei rapporti fra papato e Impero. Faceva ciò anche alla luce della storia più antica dei rapporti fra le due potestà.

Non è solo il ricordo del tradizionale collegamento tra papato e Impero (anche se Gelasio non è mai ricordato), ma, nella contestazione delle voci menzognere riferite a Federico circa un coinvolgimento del papa nella resistenza opposta all'imperatore dai comuni della seconda Lega lombarda, l'occasione per ricordare che la Chiesa romana non può essere giudicata da nessuno se non da Dio: "nec non Dominus sedem apostolicam, cuius iudicio orbem terrarum subi-cit, in occultis et manifestis a nemine iudicandam, solo suo iudicio reservavit" (ibid., pp. 602-603): e qui l'allusione abbastanza trasparente è al contenuto del famoso Constitutum Silvestri, il più efficace per la bisogna. Può lasciare perplessi la circostanza che, nei mesi immediatamente precedenti l'invio di questa lettera, G. si sia ancora attivamente adoperato per giungere a una composizione tra l'imperatore e i comuni dell'Italia settentrionale. Anche non potendosi in questa sede prendere in esame tutta la documentazione dei contatti intercorsi tra G. e i comuni, basterà rammentare alcuni passi significativi di quella fittissima corrispondenza.

Il 10 giugno 1236 G. scriveva a Federico per comunicargli di avere inviato presso i comuni un proprio legato nella persona del cardinale vescovo di Palestrina Giacomo, invitandolo a non dar credito alle voci malevoli circa un'attività papale ostile all'Impero e assicurandogli che Giacomo avrebbe operato nel senso di tutelare l'onore sia della Chiesa che dell'Impero. Nella stessa data, G. comunicava anche ai presuli della Lombardia, della Marca trevigiana e della Romagna di aver inviato Giacomo al fine di chiarire e comporre tutti gli elementi di attrito che potessero esserci tra i comuni e tra questi e l'Impero, relativamente all'impresa crociata e ai fenomeni ereticali. Anche in questa lettera G. prospettava il mandato di pacificazione affidato al vescovo di Palestrina, senza fare riferimenti polemici nei confronti dell'imperatore, ma anche senza espressioni che svelassero una qualche forma di adesione alle tesi dello Svevo, a meno che (caso degli eretici) non coincidessero con quelle della Sede Apostolica. E sostanzialmente dello stesso tenore era la lettera inviata a Giacomo di Palestrina il 17 agosto 1236, per confortarlo nelle direttive generali impartite all'inizio della missione.

L'insistenza con la quale, pur nei modi diversi suggeriti dal gioco diplomatico, G. tiene a sottolineare il più vivo desiderio di compiere comunque la sua funzione mediatrice non risponde unicamente all'impegno topico del papa portatore di pace. G. sa benissimo che un eventuale conflitto armato tra comuni e Impero, anche al di là dei risultati prevedibilmente favorevoli al secondo, avrebbe avuto come conseguenza l'eliminazione pratica di quella sponda politica, alternativa a scelte di collaborazione tradizionale con l'Impero. Il controllo molto stretto delle città, col conseguente vanificarsi di ogni effettiva influenza della Chiesa attraverso il clero episcopale e gli Ordini religiosi, avrebbe reso in ogni caso estremamente improbabile il ripetersi di scelte opportunistiche di campo delle fazioni guelfe e ghibelline, avrebbe limitato gli spazi di manovra di elementi esterni al governo comunale, al di fuori di ogni fittizia ed effimera 'ideologia'. Non ha, in questo contesto, molta importanza indagare sulla effettiva sincerità delle proclamazioni di Gregorio IX. Rimane comunque alquanto sconcertante la circostanza che quasi contemporaneamente (settembre 1236) a queste lettere venisse steso un documento, inviato al legato papale, contenente l'elenco dei motivi di rammarico e di tensione determinati dall'atteggiamento dell'imperatore nei riguardi del papa, specialmente per quanto concerneva l'intervento del re di Sicilia nelle questioni interne del Regno meridionale, documento del quale si doleva Federico II, osservando che mentre al papa era richiesto di ricorrere alla censura contro le città lombarde, il cappellano di G. riceveva un cahier de doléances relativo alle interferenze dell'amministrazione regia nelle questioni ecclesiastiche siciliane (v. scambio di accuse ibid., nrr. 700-702, pp. 596 ss.). Tutto questo può spiegare parzialmente la lettera di G. a Federico II del 23 ottobre 1236, non l'improvviso accelerarsi da un lato delle pressioni sull'imperatore per le questioni delle chiese di Sicilia e per la non obliata promessa della spedizione crociata, che mai come in questa circostanza, con un conflitto tutt'altro che chiuso tra Federico II e i comuni, tornava come argomento strumentale nelle richieste del papa; e, da un altro, le numerose sollecitazioni dello stesso G. nei riguardi delle città italiane perché giungessero a una pace con l'imperatore.

Federico II, che era in Germania, aveva ottenuto tra il 1235 e il 1237 notevoli successi nei confronti della feudalità tedesca. S'era rappacificato con la famiglia di Ottone IV di Brunswick, elevando il nipote dello stesso al titolo di duca di Brunswick-Lüneburg, aveva riacquistato alcuni diritti (battere moneta, imporre pedaggi doganali, ecc.) già ceduti ai principi e ottenuto che il figlio Corrado di nove anni, rimasto unico aspirante al titolo di re dei Romani e futuro imperatore, fosse come tale riconosciuto dalla feudalità germanica (febbraio 1237), che aveva anche stabilito un intervento contro le città dell'Italia settentrionale. Fallito ogni estremo tentativo di pacificazione compiuto da G., Federico scese in Italia e nel novembre 1237, a Cortenuova, a sud di Bergamo, sconfisse e travolse l'esercito milanese. G., convintosi dell'ineluttabilità del conflitto armato, anche perché l'imperatore non riuscì a sfruttare pienamente la vittoria di Cortenuova, indusse Genova e Venezia ad allearsi contro l'imperatore (1238), con lo scopo di invadere il Regno di Sicilia. Il 20 marzo 1239 G. lanciò la seconda scomunica contro Federico II, spiegandone ragioni e tenore a tutta la Christianitas. Che il piano di G. si sviluppasse da qualche tempo prima della scomunica lo provano le trattative svoltesi a Roma il 30 novembre 1238 con i rappresentanti delle due città affinché, tra altri impegni, non stabilissero "aliquam pactionem cum imperatore". Di lì a poco, Genova e Venezia vennero prese sotto la protezione della Sede Apostolica per aver sempre mostrato "reverentiam, devotionem et fidem" nei riguardi della Chiesa di Roma (5 dicembre 1238).

Nella lettera di scomunica trasmessa all'arcivescovo di Rouen e ai suoi suffraganei il 7 aprile 1239 si rifà la storia dell'ingratitudine di Federico, paragonato ad Adamo, che aveva disobbedito a Dio che pur lo aveva colmato di doni. Si ripeteva l'accusa di aver sobillato i romani contro G., di essersi Federico ingerito nelle questioni amministrative delle chiese del Regno, che aveva ricevuto dalla Chiesa e che per la stessa costituivano "speciale patrimonium", secondo un'espressione già usata da Innocenzo III. Federico veniva definito "dictus imperator", come si legge anche in una lettera all'arcivescovo di Reims Enrico, e tutti coloro che avessero preso la croce e, comunque, prestato aiuto allo Svevo, erano scomunicati. Alla scomunica Federico rispose con una enciclica assai diffusa (1239; M.G.H., Leges, Legum sectio IV, II, 1896, nr. 215, pp. 290-299), in cui ripercorreva la storia dei rapporti con il papa, fin dai tempi in cui questi era cardinale, si rivolgeva ai cardinali per la convocazione di un concilio che dovesse esaminare sia il papa sia lo stesso imperatore e metteva sull'avviso gli altri sovrani d'Europa contro l'invadenza della Sede Apostolica.

Apocalittica e violentissima fu la risposta di G. al manifesto imperiale. Federico era indicato come la Bestia: "Et vidi de mari bestiam ascendentem [...] et bestiam quam vidi similis erat pardo et pedes eius sicut ursi et os eius sicut os leonis" (Apocalisse, XIII, 1-2); e ancora: "et datum est ei os loquens magna et blasphemiae et aperuit os suum in blasphemia ad Deum blasphemare nomen eius" (ibid., XIII, 5-6). Con l'utilizzazione quasi letterale delle parole dell'Apocalisse, G. riconosce in Federico II l'Anticristo (v.), aggiungendo l'accusa di negare credibilità a Cristo, Mosè e Maometto, di negare la verginità della Madonna, di negare ogni atto di fede e di fare professione di esclusivo razionalismo. Molti i sentimenti e le motivazioni, non certamente solo politiche, che si condensavano in questa che è probabilmente la più violenta lettera che sia mai stata redatta da un papa contro un imperatore.

La crociata era inevitabile, dati i termini in cui ormai veniva posta la questione, stante il rischio di un'azione comune dei Regni europei contro Gregorio IX. Ma non avvenne praticamente nulla. C'è piuttosto da osservare che G., nel periodo 1239-1241, non ottenne che delusioni e scacchi. La Germania fu compatta, sia nei principi ecclesiastici che nei principi laici; l'Impero latino d'Oriente fu favorevole o per lo meno non contrario a Federico II di Svevia. In Italia, pur dopo il successo federiciano di Cortenuova, i comuni riuscirono a mantenere una posizione di relativo equilibrio di forze con l'imperatore: se infatti nel 1239 le cose sembrarono volgersi in favore dei comuni lombardi e della Marca trevigiana, nel 1240, invece, Federico II occupò tutto il ducato di Spoleto, dopo aver riconquistato la Marca anconetana. La convocazione di un concilio da parte di G. con l'enciclica del 9 agosto 1240 era l'ultima carta rimasta al papa, che richiese l'appoggio delle navi di Genova per il trasporto dei vescovi, in vista della partecipazione al concilio medesimo. Anche questo fu un errore, poiché i pisani ‒ a parte il tradizionale filoghibellinismo ‒ il 4 maggio 1241 presso l'isola del Giglio attaccarono e sconfissero la flotta genovese che trasportava i prelati. Furono catturati cento vescovi e tre legati pontifici; Federico II si mosse vittoriosamente verso Roma. Ai primi di agosto era a Tivoli. G. commise l'ultimo errore: cercò di intavolare trattative con l'imperatore il quale però rifiutò. Morì il 22 agosto 1241.

Tralasciando il rapporto che G. instaurò con le più note università del tempo (per cui si rinvia a Capitani, 2000, pp. 376-378), conviene soffermarsi sull'opera svolta da G. per la promozione del diritto canonico in vista di un riordinamento amministrativo delle terre rivendicate alla Chiesa romana in quasi contemporaneità con l'attività legislativa di Federico II, senza volere con ciò stabilire un nesso di causa-effetto tra quell'attività imperiale e regia e quella canonistica di Gregorio IX.

Il 5 settembre 1234, con la bolla Rex pacificus inviata ai dottori e agli scolari di Parigi, Bologna e Padova, G. comunicava che "ad communem et maxime studentium utilitatem per dilectum filium Raymundum […] in unum volumen, resecatis superfluis, providimus redigendas diversas constitutiones et decretales epistolas praedecessorum nostrorum in diversas dispersa volumina" (v. RegestaPontificum Romanorum, a cura di A. Potthast, I, Berolini 1874, nrr. 9693, 9694). Si è solitamente interpretata la decisione di G. come una risposta politica alla promulgazione delle Costituzioni di Melfi del 1231 di Federico II, miranti a redigere uno statuto normativo coerente dello stato federiciano: ciò è possibile, anche se si deve constatare che la risposta di G. sarebbe giunta tardiva, se tale fosse stato lo scopo preminente. È più probabile ritenere che la decisione di G. si inserisse in quello che poco prima della metà del XIII sec. fu un diffuso processo di codificazione coerente di una normativa caotica, ripetitiva, contraddittoria che, nonostante lo sforzo unitario, ma non ufficiale, compiuto da Graziano a metà del XII sec., costituiva, a XIII sec. inoltrato, il campo del diritto canonico. Non si dimentichi infatti che dopo Graziano s'erano aggiunte al Decretum altre raccolte di decretali, le più celebri delle quali ‒ le Quinque Compilationes Antiquae ‒ avevano accumulato materiale canonistico dal periodo che andava dal 1140 (Graziano) al 1216 (Onorio III).

Proprio nel senso di comprovare una tendenza della cultura giuridico-politica, comune alla monarchia di ispirazione laica come a quella di ispirazione ecclesiastica, si deve avvertire che l'indicazione generica di decretali pontificie può trarre in inganno. Le decretali sono, propriamente, le risposte a quesiti posti alla massima autorità del pontefice, che, quindi, assumevano carattere normativo. Le costituzioni (o decreta) sono invece decisioni autonome del pontefice, nella sua assoluta discrezionalità giurisdizionale.

Il rapporto tra costituzioni e decretali, aumentando a favore delle prime, è anch'esso indizio di un consapevole accentramento della gestione giurisdizionale del papa. Il Liber Extra contiene 1.771 capitoli tratti dalla Compilatio I di Bernardo di Pavia, "191 dai registri dei primi sei anni del pontificato di Gregorio IX, [...] 9 da altra provenienza" (A. Paravicini Bagliani, Il trono di Pietro, Roma 1996, p. 100; il LiberExtra, così è intitolata la raccolta di G., con riferimento al materiale canonistico extra il Decretum Gratiani, è solitamente citato con "X", seguito dall'indicazione del libro, del titolo e del capitolo, nell'edizione correntemente usata curata da E. Friedberg, Corpus Iuris Canonici, II, Leipzig 1879 [riprod. anast. Graz 1959]). La raccolta del materiale canonistico segue un ordinamento sistematico (per argomento), confermando in ciò lo scopo dichiarato della bolla Rex pacificus di dover essere di utilità per gli studenti e i docenti di diritto canonico. La sua ufficialità dichiarata per la prima volta da un pontefice romano ne costituì un attributo di esclusiva autorevolezza, facendo di essa la prima codificazione ufficiale della Chiesa romana.

Circa la fruizione dei nuovi Ordini religiosi mendicanti (Francescani e Domenicani, in particolare) si dovranno avanzare alcune precisazioni. Il pontificato di G. fu, com'è noto, di importanza notevole per la prima fase di attuazione della difficile eredità di Francesco d'Assisi, sulla via della clericalizzazione dell'Ordine stesso. Ugolino era stato vicino a Francesco e ne aveva ottenuta, se non la convinzione, una perplessa adesione. Ma di una concreta strumentalizzazione dei Mendicanti contro l'imperatore non è, propriamente, il caso di parlare, almeno fino al momento della sua seconda scomunica da parte di G. (1239), quando, per la deposizione di frate Elia, che era indicato come fautore dell'imperatore presso il quale la sua presenza in quello stesso anno è accertata, i Minori si sentirono in dovere di schierarsi, in larga maggioranza, con estrema decisione a fianco di G., anche perché la lotta tra papato e Impero si svolse in Italia, dove la comunità e poi l'Ordine erano sorti e perché i generali susseguitisi erano italiani, con l'eccezione dell'inglese Aimone di Faversham (1241-1244).

Per i Predicatori il discorso poté essere diverso sia per la maggiore caratterizzazione europea dell'Ordine, sia per l'atteggiamento di equidistanza che i Domenicani seppero mantenere nei momenti di maggior tensione dei rapporti tra Chiesa e Impero, ai tempi del successore Innocenzo IV. La stessa rappresentazione dell'imperatore come Anticristo (Federico II come dragone o bestia apocalittica della Ascendit de mari) apparirà esplicitamente riconosciuta solo nel 1239. Ci si può chiedere se in quest'azione di propaganda possa esservi stata la collaborazione dei Mendicanti in genere e dei Domenicani in specie: ma non si può dimenticare che, nella forte dimensione culturale gioachimitica che contraddistingue tutta la prima parte del sec. XIII ed oltre, l'utilizzazione di figure apocalittiche ‒ anche da propagandisti di parte imperiale ‒ può farsi risalire a un clima culturale abbastanza generalizzato, per la diffusa credenza di essere prossimi alla fine dei tempi o all'avvento della terza età.

In ogni modo l'intervento massiccio degli Ordini mendicanti contro Federico II avvenne soprattutto durante il pontificato di Innocenzo IV. G., in qualche modo, intervenendo anche in questioni interne all'Ordine francescano (ad esempio con la bolla Quo elongati per la retta interpretazione del Testamentum di Francesco), contribuì a rendere l'Ordine sempre più istituzionalizzato all'interno della Chiesa, preparandolo così a una sua futura utilizzazione per la politica di costruzione della monarchia papale.

Fonti e Bibl.: v. l'ampia e recente bibliografia nella voce di O. Capitani, Gregorio IX, in Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 379-380 (pp. 363-380) e, tra le bibliografie generali, v. i volumi dell'"Archivum Historiae Pontificiae", dopo il 2000, e "Medioevo Latino", sempre dopo il 2000.

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