GREGORIO XVI

Enciclopedia dei Papi (2000)

Gregorio XVI

Giacomo Martina

Bartolomeo Alberto Cappellari nacque a Belluno (allora nella Repubblica veneta) il 18 settembre 1765, da Giovan Battista notaio, e Giulia Cesa, anch'essa figlia di un notaio. La sua era una famiglia della piccola nobiltà locale. Anche per influsso della sorella Caterina, entrata in convento nel 1780, il giovane abbracciò la vita religiosa, e, non sappiamo per quali motivi, nonostante l'opposizione dei genitori, optò per i Camaldolesi, entrando nel 1785 nel convento di S. Michele di Murano nella laguna veneta, in cui prese il nome di Mauro. Questo ramo benedettino aveva subito forti perdite, ed era ridotto alla nascita del Cappellari a trecentoquarantacinque membri, per contrarsi ancora nel 1803 a poco meno di duecento. Il giovane ricevette una solida formazione teologica, decisamente antigiansenista, e venne chiamato a Roma a trent'anni (1795), come segretario del procuratore generale dell'Ordine. Quattro anni dopo, proprio durante il trionfo delle armi francesi in Italia, l'effimera giacobina Repubblica Romana e l'agonia di Pio VI in Francia, il monaco con coraggio pubblicò nell'Urbe un'opera non molto ampia ma densa, Il trionfo della S. Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori respinti e confutati dai loro stessi argomenti. L'autore si rifaceva ad una frase di Girolamo: "È più facile spegnere il sole che distruggere la Chiesa". Il volume ribadiva la natura monarchica della Chiesa, il primato, l'infallibilità, l'indefettibilità del potere del papa, e, in chiaro rifiuto del sinodo di Pistoia, la piena indipendenza del papato da ogni autorità temporale nel dogma, nella morale, nella disciplina. L'opera trascura il lento e progressivo divenire, il passaggio anche nel dogma dall'implicito all'esplicito, il cammino da una situazione complessa e con diverse forze in gioco a una concezione chiara e distinta, termine di arrivo di un lungo processo di decantazione. Il libro, l'unico scritto dal Cappellari, forse proprio per questa mentalità generale, pur non esente da limiti, gli attirò una larga stima in Curia. Abate di S. Gregorio al Celio nel 1805, Cappellari dopo il 1814 divenne consultore della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari e del Sant'Uffizio, nel 1823 vicario generale dei Camaldolesi, e nel 1826 cardinale e prefetto di Propaganda, succedendo al Consalvi, morto due anni e mezzo prima (non sono chiari i motivi del lungo ritardo della decisione di Leone XII).

Ambientatosi presto in quest'ufficio per lui del tutto nuovo, Cappellari mostrò una singolare capacità decisionale, e una certa apertura. Così, pur con molte distinzioni sull'obbligatorietà delle leggi statali, raccomandò ai missionari di inculcare ai fedeli cinesi di opporsi al commercio dell'oppio, consigliò di non pubblicare in Cina la legge tridentina sui matrimoni, accettando il male minore, insistette per una netta distinzione fra evangelizzazione e politica, ammise in qualche caso la partecipazione dei fedeli a cerimonie civili con usanze che avevano ormai perso ogni significato religioso. Più importanti furono la nomina di un metropolita cattolico per gli Armeni, che poneva fine a una situazione confusa e dolorosa, e i suoi interventi per un graduale avvio alla sistemazione della gerarchia latinoamericana (raccomandò ed ottenne la nomina di vescovi residenziali, fatta per la semplice autorità del papa, senza nessun beneplacito spagnolo). Come consultore poi degli Affari Straordinari, Cappellari aveva avuto parte attiva nel concordato con i Paesi Bassi, e nella questione dei matrimoni misti in Prussia.

Nel conclave apertosi il 14 dicembre 1830, in una situazione critica per lo Stato della Chiesa, dove si avvertiva l'eco delle rivoluzioni scoppiate in Francia, Belgio, Polonia, emerse netta e ferma l'opposizione fra gli zelanti e i politicanti, per usare un'espressione divenuta comune nella storiografia, ma che si potrebbe meglio chiarire parlando di intransigenti e moderati. I primi puntavano su de Gregorio (1758-1839), cardinale dal 1816, anticonsalviano, attivo nei conclavi del 1823 e del 1829, gli altri su Pacca, stimato ma ritenuto troppo anziano. Dato che nessuno dei due prevaleva, le due correnti si orientarono entrambe su uomini di centro, Macchi (osteggiato a fondo dalla Francia per la sua amicizia con Carlo X) e Giustiniani (contro cui intervenne il veto ufficiale della Spagna, che non perdonava all'ex nunzio la sua linea, favorevole alla nomina di nuovi vescovi nell'America Latina, senza l'intervento di Madrid). Gli intransigenti o zelanti con de Gregorio e Giustiniani appoggiarono allora Cappellari, che ottenne anche l'assenso del Metternich, informato a tempo, mentre le notizie di un'imminente ribellione nelle Romagne convinsero l'Albani, fautore del Pacca, a desistere da altri tentativi. Il 2 febbraio 1831, dopo cinquanta giorni di conclave, venne così eletto con trentadue voti su quarantuno il Cappellari, che prese il nome di Gregorio XVI, a ricordo di Gregorio XV, fondatore di Propaganda, di Gregorio Magno, già abate al Celio, e di Gregorio VII. Il 6 febbraio Cappellari, ancora semplice prete (come lo erano stati nel Settecento fino al papato Clemente XI e Clemente XIV), fu consacrato vescovo dal suo confratello, cardinal Zurla, vicario generale di Roma. La situazione all'interno dello Stato della Chiesa era grave. Il giorno dopo l'elezione del nuovo papa, il 3, scoppiò la rivoluzione a Bologna, che in due settimane si estese ai quattro quinti dello Stato. Fu necessario chiedere l'intervento dell'Austria, che in un mese ebbe ragione delle bande dei ribelli, ma, a parte alcuni ritiri momentanei, rimase di fatto nello Stato della Chiesa fino al 1838, insieme alla Francia, che immediatamente per far da contrappeso all'Austria si era affrettata a sbarcare ad Ancona.

Ma la situazione romana o italiana preoccupava gli Stati europei, e a fine marzo 1831 si riunì proprio a Roma una conferenza internazionale, con la partecipazione di Austria, Francia, Inghilterra, Prussia, Russia. L'umiliazione della Santa Sede e di G. era forte: potenze anche protestanti e scismatiche intervenivano per insegnare al capo della Chiesa cattolica cosa doveva fare. Il 21 maggio i plenipotenziari presentarono a G. un memorandum, redatto dall'inviato prussiano Bunsen in modo piuttosto secco. Le potenze chiedevano varie riforme: una certa laicizzazione dell'amministrazione; modifiche del sistema giudiziario; consigli comunali elettivi largamente autonomi; consulta centrale con efficace controllo sul bilancio statale. G., per evitare la reazione dei liberali e salvare la propria indipendenza di fronte alle potenze estere, pur rifiutando ogni ingerenza straniera nel proprio Stato, dichiarò che avrebbe attuato le riforme già promesse e quelle che avrebbe giudicato opportune. Effettivamente nei mesi seguenti e per tutta la durata del governo del cardinal Bernetti, segretario di Stato fino al 1836, non mancarono innovazioni. Dopo i provvedimenti del 1831 sui consigli municipali e provinciali, sul sistema giudiziario, sulla commissione per le finanze, negli anni seguenti l'attività riformatrice si mosse su due linee diverse. Da una parte il 20 febbraio 1833 la Segreteria di Stato fu divisa in due branche, per gli interni, con a capo il cardinal Gamberini, e per gli esteri, con il segretario di Stato, allora Bernetti. Il piano, studiato con cura, avrebbe dovuto rispondere a due esigenze: ridurre il concentramento di troppi poteri in poche mani, che tanta opposizione aveva sollevato, anche per ragioni personali, e distinguere meglio affari temporali ed ecclesiastici. In concreto questa sistemazione, dovuta forse in larga parte ad ambizioni personali, non raccolse i frutti sperati, e venne abbandonata all'inizio del 1848 quando, proprio in un momento di grandi speranze di novità, si tornò al sistema instaurato nel 1816 e rimasto in vigore anche dopo il 1870. Su un piano diverso, l'editto del 5 luglio 1831 costituì un passo avanti verso una migliore uniformità amministrativa, pur evitando una seria laicizzazione, e lasciando una forte dicotomia fra le province settentrionali e le altre. Più importanti furono, fra il 1831 e il 1834, i nuovi regolamenti nel campo penale e civile. Le misure prese erano più che opportune, necessarie, perché abolivano molte delle giurisdizioni speciali che rendevano la giustizia pontificia un labirinto inestricabile. L'opera fu essenzialmente merito del giurista austriaco Sebregondi, inviato appositamente dal Metternich proprio in quella che un tempo si chiamava patria del diritto. L'aiuto austriaco non fu di grande valore. Non si può parlare di una vera e propria codificazione, analoga a quella attuata negli stessi anni nel Regno di Sardegna, per opera specialmente di Federico Sclopis, perché mancò un chiaro principio organico ispiratore, un serio tentativo di eliminare "d'entro le leggi [...] il troppo e il vano", una convinta accettazione dei nuovi tempi, come era avvenuto col Codice napoleonico. Si trattò di una accurata sistemazione di un materiale preesistente, largamente mantenuto, che portò a un progresso tutto sommato relativo. Dopo l'avvento in Segreteria di Stato del Lambruschini, decisamente conservatore, le modeste riforme si arrestarono.

Rimaneva d'altra parte sempre il pericolo di una crisi che poteva esplodere al primo momento favorevole, e che, dopo la facile repressione austriaca del 1831, si verificò a Perugia nel 1833, nel Lazio nel 1837, nel 1843 e nel 1845 in Romagna: quell'anno i mazziniani si impadronirono con facilità di Rimini, pubblicando il Manifesto delle popolazioni dello Stato romano ai principi e ai popoli d'Europa, con critiche sostanzialmente obiettive all'amministrazione, e richieste nel complesso moderate.

Si capisce come il papa, per garantire in ogni circostanza la sicurezza e la rapidità della successione, moltiplicasse le disposizioni di emergenza per l'elezione del nuovo pontefice, rimaste fino ai nostri giorni praticamente ignote anche agli storici, perché mai applicate, ma chiaro segno di insicurezza e di instabilità. Sembravano proprio vicini gli ultimi giorni di Pio VI. Si ebbero così, il 1° marzo 1831, un mese dopo l'ascesa al trono, la Auctas undequaque; un anno dopo, la Temporum quae nacti sumus; nel 1837, la Teterrimis; nel 1844 la Ad supremam. In sostanza, alla morte del papa, dentro o fuori Roma, i cardinali capi delle tre classi in cui è diviso il Sacro Collegio, insieme al cardinal vicario e al camerlengo, avrebbero dovuto decidere se procedere subito all'elezione, appena raccolti la metà più uno dei porporati, e in tal caso continuare senza interruzione le votazioni: dal terzo scrutinio sarebbe stata sufficiente la metà più uno dei suffragi. Nonostante gli sforzi, il governo dello Stato della Chiesa restava arretrato, pesante, in mano di poche persone, se non sempre interessate, per lo più fortemente chiuse ai segni dei tempi, lontane dalle vedute aperte del Consalvi. Il pontificato gregoriano va rivalutato largamente sul piano propriamente religioso, spirituale, non su quello temporale, in cui, pur con qualche sfumatura e senza l'acre polemica di un tempo, resta valido il giudizio negativo della storiografia tradizionale. Si potrà discutere se le critiche siano sempre fondate, sino a che punto il malcontento fosse artificiosamente montato, se i difetti fossero del sistema o nel sistema: un fatto indiscusso resta l'avversione al governo pontificio, diffusa in tutte le classi sociali. Le testimonianze del tempo sono fin troppo numerose, e provengono dalle parti opposte, da liberali e dagli ecclesiastici più fedeli, come Giovanni Maria Mastai Ferretti, cardinale e arcivescovo di Imola. Si pensi a Giuseppe Gioacchino Belli coi sonetti romaneschi, poesia che coglie obiettivamente lo stato d'animo del popolo, per lasciare "un monumento di quello che è oggi la plebe di Roma, [...] abbandonata senza miglioramento"; alla corrispondenza confidenziale del cardinal de Angelis con il cardinale Amat, duramente critica sul metodo di governo delle Romagne; alle dure osservazioni del Mastai buttate giù nel 1845 (Pensieri relativi all'amministrazione pubblica dello Stato pontificio); alla sofferta sintesi di Giovanni Corboli Bussi, ormai vicino alla fine... E non dimentichiamo Pellegrino Rossi, e il ministro dei Paesi Bassi a Roma (il de Liedekerke), lo stesso Metternich... I lamenti vertono sostanzialmente su questi punti. Tutti sono d'accordo sulla disastrosa situazione finanziaria, fallimentare. Il Tosti, tesoriere generale (praticamente ministro delle Finanze) dal 1834 fin verso il 1846, non si era mostrato all'altezza, aveva mantenuto un rigido e negativo protezionismo, con forti dazi, e aveva assistito inerte all'aumento delle spese (anche per la presenza delle truppe austriache e francesi, la creazione di speciali corpi militari, come quello dei bersaglieri, analoghi ai nostri gendarmi, la formazione di una truppa di linea regolare, il crescente numero di funzionari, specie a livello tecnico, come periti, geometri, ingegneri...), finendo col lasciare un deficit insostenibile. Il disavanzo del bilancio statale aveva raggiunto 850.000 scudi annui, per un totale complessivo di circa 40.000.000 di scudi. Vi si faceva fronte con prestiti contratti all'interno ma anche all'estero, specie con i Rothschild, e con l'aumento di imposte, fra le quali quella immancabile sul macinato.

I rimedi erano peggiori del male, perché finivano per aumentare i prezzi dei beni di consumo, abbassare i salari, rendere più rari i capitali e più difficili gli investimenti. Erano colpiti e dissanguati da un lato la piccola borghesia (commercianti, fittavoli...), dall'altro, in misura più grave, i contadini, i braccianti, gli artigiani. Aumentavano così, inevitabilmente, il contrabbando, che finiva per essere tollerato e quasi protetto, e la delinquenza. Tutto questo non era compensato dallo sviluppo di un certo numero di banche, ora pubbliche, come la Banca romana, nata nel 1834, o private, come le varie Casse di risparmio, di Bologna, Forlì, di altre città, le banche Torlonia e altre, gestite da stranieri e frequentate soprattutto da turisti. La vita economica e finanziaria dello Stato pontificio restava inferiore a quella degli altri Stati, anche italiani, almeno al Nord. Quasi nessuno in quegli anni ha confrontato su un piano scientifico il sistema toscano del libero scambio, e quello romano, retto da un severo e dannoso protezionismo. Eppure quella differenza così viva colpiva i turisti appena passavano dal Granducato allo Stato della Chiesa. Nessuno ha mai osato attaccare il tesoriere Tosti, se non con sarcasmi e frizzi, frequenti nella corrispondenza del Mastai. Mancava poi nello Stato una vera industrializzazione, e lo stesso artigianato restava piuttosto primitivo. Si esportavano tessuti, legname, canapa, riso, seta grezza, ma si importavano per la quasi totalità manufatti, veicoli, oggetti che esigevano impianti recenti. Si è parlato di un'economia di tipo coloniale, che esporta materie prime e importa i prodotti da queste ricavati. La popolazione, ormai sui tre milioni, abbracciava un milione di agricoltori (un terzo di tutti gli abitanti), ora mezzadri (Lazio), ora affittuari (Umbria, Romagna...), ora braccianti. Soprattutto questi ultimi, costretti a spostarsi secondo le stagioni, erano per lo più poveri, coperti di debiti, mal trattati, con vitto scadente e case, se le avevano, fredde e mal tenute. Incontriamo un gruppo notevole di domestici, artigiani, commercianti, che si avvicinavano anch'essi, nel complesso, al milione. Non mancava un buon gruppo di proprietari, un discreto numero di ecclesiastici, che, data la speciale natura dello Stato, si aggirava sui cinquantamila. Faceva parte a sé l'alta borghesia (il "generone"), composta di grandi amministratori, appaltatori, industriali, mentre la nobiltà - con qualche eccezione - non brillava per rigore morale, iniziative, cultura, fedeltà al papato. E proprio l'attiva beneficenza svolta dagli istituti religiosi e dallo Stato aveva aumentato il pauperismo, piaga di tanti paesi, ma presente e gravoso anche a Roma, fonte di molti problemi e di critiche, di accuse e di repliche.

L'ordine pubblico era assicurato dalla polizia, non aliena dalla violenza, e, nelle regioni calde, come la Romagna, da un gruppo di "Centurioni", sostituiti poi dai "Volontari". L'idea di questa milizia, parallela a quella regolare, era partita dal Bernetti fin dal 1828, sotto Leone XII, ma venne realizzata solo nel 1832 dallo stesso cardinale, segretario di Stato, che la mantenne con ostinazione, nonostante tutte le critiche. Bernetti pensava che questa truppa non costava quasi nulla al Tesoro, ma probabilmente era convinto di poter per questa via combattere più efficacemente carbonari e liberali. In realtà questa milizia era composta di elementi troppo facili all'esaltazione, e, armata com'era, anche se in un secondo momento dotata di uniforme e parzialmente retribuita, era portata ai soprusi e alla violenza. Per questo era malvista dagli Austriaci, ma anche dalle autorità locali, e persino da moderati come l'arcivescovo di Imola, che se ne lamentava spesso col suo amico cardinal Falconieri, ricordando "i pettegolezzi e le impertinenze dei cosiddetti papalini", le accuse a lui rivolte di liberalismo, il fanatismo di quei "papalini così detti fanatici fino alla follia, che bramerebbero vedere impiccate quindici persone ogni ora del giorno". "Centurioni" e "Volontari", mai apparsi nel Lazio e vivi essenzialmente in Romagna, scomparvero poi da sé più o meno dopo la caduta del Bernetti. Nel sistema giudiziario si avvertiva la lentezza della procedura, l'accavallarsi delle giurisdizioni, solo parzialmente abolito dai regolamenti degli anni Trenta, la non rara arbitrarietà delle sentenze e delle pene. Un problema fondamentale rimaneva il carattere rigidamente ecclesiastico (non necessariamente sacerdotale) dell'amministrazione: ai laici erano accessibili solo uffici inferiori, nelle poste, nelle dogane, nei registri, nei tribunali di prima istanza.

Anche nel mondo culturale romano si avvertiva una forte chiusura, un declino rispetto alla vivacità mostrata nel Settecento. L'Accademia Lancisiana (medica) era morta da tempo, languiva ormai l'Accademia dei Lincei, l'interesse si era spostato dai problemi civili e sociali a quelli eruditi, archeologici. Belli stesso punge sarcasticamente nel 1828 quest'erudizione lontana dalla vita dell'Accademia Tiberina, e si sente rinato quando trova a Milano ben altro clima, ben altra vivacità e ricchezza intellettuale. È vero che proprio papa G. mostrò un vivo interesse per l'archeologia (apertura nel 1838, 1839, 1844 dei Musei Gregoriano etrusco, Gregoriano egizio, Gregoriano profano). Non mancavano scavi e scoperte nelle catacombe. Il de Rossi, avviato per la sua strada dal suo maestro, il gesuita de Marchi, faceva i primi passi, e non mancavano pubblicazioni scientifiche dalla specola del Collegio Romano. Ma il clima generale restava chiuso e un po' soffocante. Il disagio sostanziale investiva vari aspetti. Si avvertiva nel campo politico: mancanza di libertà di stampa, cultura asfittica, pastorale repressiva, che provoca nel 1834 il sonetto del Belli Lo scummunicato, discriminazioni confessionali, privilegi ecclesiastici... Non mancavano però il disagio sociale già descritto e quello culturale. Il papa si era mostrato contrario all'introduzione delle ferrovie, senza intuirne la futura necessità, ed ai congressi degli scienziati: voleva mantenere il suo Stato isolato e in tal modo difeso. Era una politica non troppo distante da quella di Ferdinando II di Napoli.

G. non parlava nessuna lingua straniera, non aveva mai incontrato uomini politici che non fossero ambasciatori, per i quali non ebbe mai molta stima, non comprendeva molto la politica, e, chiuso in una teologia priva di dimensioni storiche, non coglieva il nucleo positivo delle aspirazioni delle classi liberali, e si schierava per la difesa dell'ordine stabilito, vedeva con orrore le società segrete, incaricando Crétineau-Joly di scriverne la vera storia e i misfatti... Eppure quest'uomo seppe prendere delle decisioni coraggiose. Un po' dovunque, dal Belgio all'Irlanda alla Polonia alla penisola iberica, si affrontavano le due concezioni politiche, assolutista e liberale. Che posizione prendere davanti a liberali ostili alla Chiesa, ad assolutisti ad essa propensi ma in declino? Il 5 agosto 1831, G. intervenne coll'enciclica Sollicitudo ecclesiarum: in caso di cambiamento di governo, i pontefici romani per risolvere le questioni religiose (nomina dei vescovi...) entreranno in rapporto con i nuovi governi di fatto esistenti. L'enciclica precisa che agendo in questo modo la Santa Sede non intende confermare i nuovi venuti nel potere, riconoscere le loro dignità, conferire ad essi nuovi diritti. Si ammettevano i nuovi regimi appena stabiliti, ma "de facto", non "de jure". Come scrive Leflon, senza ammettere in tesi la loro legittimità, se ne accettava la realtà come ipotesi. Secondo alcuni storici, la politica di G. si sarebbe ispirata largamente a questo principio, che gli avrebbe permesso di disapprovare le rivoluzioni e di accettarne i risultati, di adattarsi alle diverse circostanze dei vari Stati. Si potrebbe dire che, come pochi anni dopo Pio IX, G. con la mente guardasse alla tesi, mentre col cuore accettava, sia pure malvolentieri e in mancanza di altre possibilità, l'ipotesi. G. tollerava effettivamente suo malgrado l'adattamento alle circostanze, cercando di limitarlo nella misura del possibile. L'ideale restava la cristianità, con una Chiesa riconosciuta, rispettata come maestra e guida, con gli Stati pronti ad aiutarla. In realtà, la soluzione della Sollicitudo non bastava a risolvere i problemi. Non si trattava solo di distinguere fra questione di diritto e di fatto, ma fra regimi nettamente ostili alla Chiesa e sovrani ad essa favorevoli. Si capisce così come la Santa Sede teoricamente non scegliesse chi era il re legittimo del Portogallo, se Maria da Gloria o don Miguel, ma nel 1834 accogliesse con solennità a Roma l'esule don Miguel, difensore ostinato di una causa persa, ma che in ogni caso rispettava i diritti della Chiesa. E se in Prussia il papa difese ad oltranza la legislazione canonica sui matrimoni, in Ungheria accettò una situazione di estremo compromesso. Soprattutto si comprende come Roma invitasse cautamente i vari Stati latinoamericani a chiedere il riconoscimento da parte della Santa Sede, a passare dalla situazione "de facto" a quella di diritto. L'efficacia della Sollicitudo va dunque ridimensionata. Essa non poteva sciogliere i problemi europei. Tuttavia contribuì a giudicare con maggior prudenza i sovrani saliti al potere in seguito a una rivoluzione: checché fosse di una situazione iniziale, essa finiva spesso per essere legittimata dal tempo e dalle circostanze. Il documento aiutò così a distinguere sempre più nettamente il Vaticano da quel legittimismo, caro anche a vari cardinali, come Lambruschini, incapace di riconoscere Luigi Filippo come re legittimo, e Fornari, che nel 1843 deplorava "l'abbandono del sacro e inviolabile principio della legittimità, [che] implica inevitabilmente la perdita della religione, della morale, della legge, dunque dell'intera società, e il trionfo dell'anarchia [...]". Soprattutto il documento del 5 agosto 1831, superando le contingenze particolari che l'avevano provocato, indicava chiaramente la decisione vaticana di allinearsi definitivamente alla nuova situazione latinoamericana, di chiudere presto un passato ormai superato.

Nel suo pontificato, G. fu successivamente aiutato da due segretari di Stato, Bernetti e Lambruschini. Il primo (1779-1852), segretario di Stato dal 1831 al 1836, era un conservatore, ostile ai governi liberali, in Portogallo come in Spagna, poco sensibile ai problemi strettamente religiosi (solo nel 1839 fu ordinato sacerdote), fautore dei "Volontari" e dei "Centurioni", fiducioso nell'efficacia dell'occupazione austriaca. Rimase sempre più isolato, malvisto dai consalviani e dagli ultraconservatori, non sempre del tutto d'accordo con il suo sovrano, che finì per cedere ai suoi avversari, dentro e fuori la Curia, e ad accettarne le dimissioni. Lambruschini (1776-1854), ligure, barnabita, era stato vescovo di Genova dal 1819, poi, restando teoricamente a capo della diocesi per vari anni, dal 1827 al 1831 fu nunzio a Parigi, da dove venne richiamato per chiari segni di freddezza e diffidenza verso il nuovo re Luigi Filippo. Legittimista, conservatore più del Bernetti, chiuso all'evoluzione delle idee e alla mentalità moderna, si mostrò più sensibile ai problemi religiosi e pastorali. Si dice che, intransigente in teoria, in pratica si adattasse alle circostanze. Non mancarono altri consiglieri autorevoli, più aperti, come monsignor Capaccini (1784-1845), romano, a lungo sostituto della Segreteria di Stato e segretario degli Affari Ecclesiastici Straordinari, con vari incarichi diplomatici nei Paesi Bassi, in Belgio, a Lisbona, a Vienna ed a Colonia. Non sembra però che fra Lambruschini e Capaccini regnasse un buon accordo e il primo fu probabilmente uno dei responsabili dell'immobilismo che si andò accentuando in vari campi dopo il 1836. Uno dei momenti più drammatici del pontificato di G., che ebbe conseguenze piuttosto lunghe, fu lo scontro con Lamennais e i suoi due amici, Lacordaire e Montalembert. La questione è stata oggetto di ampi studi, con Dudon (caratterizzato dallo stile fortemente polemico tipico degli anni del primo Novecento), Maréchal, Derré, Guillou, Simon, Ahrens, Gambaro, Verucci, e altri. Qui ci si limita all'essenziale, fermandosi ampiamente sugli interventi del papa, sulle loro cause, sui loro effetti, non ovviamente sulla dottrina di Lamennais. È noto lo choc prodotto da "L'Avenir", con il suo motto "Dieu et liberté", le vivaci polemiche sostenute in Francia per una vera libertà in tanti campi, l'opposizione al concordato del 1801, che sottoponeva la nomina dei vescovi allo Stato, l'appassionata difesa degli Irlandesi, dei Polacchi, degli Italiani insorti, le pagine piene di entusiasmo, di sdegno, di commozione davanti alla caduta di Varsavia, abbandonata dai governi europei, le coraggiose iniziative per la libertà della scuola a tutti i livelli, a cominciare da quella elementare, per la difesa della libertà di associazione, per l'estensione del diritto di voto, per la libertà di stampa, per l'istituzione dell'"Agence générale pour la défense de la liberté religieuse", la serrata critica alla politica estera francese del Sebastiani. Non mancano gli attacchi contro qualche sacerdote, troppo facile nel concedere gli ultimi sacramenti a personaggi con un passato discusso, come Grégoire... Si avverte, in mezzo a un diffuso conformismo e a una larga indifferenza di fronte a problemi fondamentali, un coraggioso soffio di libertà, di speranza, di novità che si sperano costruttive, insieme a evidenti intemperanze, inesperienze, eccessive dimostrazioni di sicurezza.

Se i governi di Vienna e di Parigi erano in allerta, e mettevano sull'avviso la Curia vaticana, vari vescovi francesi si erano già indirizzati alla Santa Sede. Dopo la partenza per Roma dei tre "pellegrini della libertà", annunziata solennemente con un certo chiasso, il papa esprimeva all'ambasciatore francese le sue forti riserve sui tre viaggiatori per le tesi difese ne "L'Avenir", spiacevoli e dannose per la pace della Chiesa e dei governi. A Roma erano contrari a Lamennais Lambruschini, Ventura, il padre de Rozaven, stretto consigliere del generale dei Gesuiti Roothaan, il cardinale de Rohan. Lamennais e i suoi amici presentarono alla Curia una lunga relazione con le loro tesi. Il Pacca, decano del Sacro Collegio, invitò gli interessati a ritornare in Francia, in attesa di una risposta che poteva tardare a lungo. I tre chiesero almeno un'udienza col papa, che avvenne a metà marzo, alla presenza del cardinal de Rohan, vescovo di Besançon, allora a Roma, notoriamente ostile a "L'Avenir", e si ridusse di fatto a uno scambio di complimenti e a un eloquente silenzio sui problemi di fondo. Roma chiese intanto il parere di alcuni vescovi francesi. Le loro risposte - specialmente la cosiddetta "censura di Tolosa", redatta dal d'Astros, con un lungo elenco di proposizioni lamennesiane considerate erronee - furono accuratamente esaminate a Roma, dove si fu unanimi nel ritenere necessaria una risposta all'insistente interlocutore. I consultori romani, fra cui il conventuale Orioli, il gesuita de Rozaven, monsignor Frezza, segretario degli Affari Straordinari, in sostanza bene informati, criticavano essenzialmente l'atteggiamento de "L'Avenir" sulle libertà moderne, e il favore con cui si vedeva la separazione fra Chiesa e Stato. L'enciclica, preparata a lungo verso il mese di luglio, rivista da parecchie mani, fra cui monsignor Polidori, poi cardinale, accuratamente studiata dal papa, fu datata il 15 agosto 1832, ed è rimasta celebre con il nome delle prime due parole, Mirari vos. Essa venne inviata direttamente ai tre interessati, insieme a una lettera di spiegazioni del cardinal Pacca. Il cardinale informava che per riguardo alle persone l'enciclica ometteva ogni nome e ogni titolo: aggiungeva però che il papa condannava le dottrine de "L'Avenir" sulla libertà civile e politica, di culto e di stampa, la fondazione dell'"Agence"... Il documento pontificio e la lettera del Pacca raggiunsero i tre, ormai partiti da Roma, a Monaco, proprio alla fine di un solenne ricevimento in loro onore. È nota la dura condanna pronunziata dall'enciclica contro la libertà di coscienza, considerata unicamente una conseguenza dell'indifferentismo. Il documento riprovava insieme la libertà illimitata di stampa, la separazione fra Chiesa e Stato, gli attentati al matrimonio e al celibato ecclesiastico, le associazioni interconfessionali, e sottolineava la dovuta fedeltà ai principi. Lo spirito generale dell'enciclica appare chiaro da un passo della Mirari vos: "Dato che, per usare le parole del Tridentino, sappiamo che la Chiesa è stata ammaestrata da Gesù Cristo e dai suoi apostoli, e che lo Spirito Santo le suggerisce di giorno in giorno ogni verità, è del tutto assurdo e sommamente ingiurioso nei suoi confronti suggerire una sua restaurazione ed una sua rigenerazione, come se fosse necessaria per provvedere alla sua incolumità e al suo sviluppo, come se si potesse ritenere che essa fosse soggetta a crisi, periodi di oscuramento ed altri pericoli del genere; con questi sforzi, [...] i riformatori tendono a far sì che un'istituzione divina come la Chiesa, divenga umana [...].

Si ricordino quanti meditano questi piani, che, secondo le testimonianze di S. Leone, al solo Romano Pontefice è affidata la dispensa dalle leggi, e che soltanto a lui, non a un uomo privato, spetta prendere decisioni sull'esecuzione delle norme tradizionali [...]". Se l'enciclica del 1832 è largamente pervasa dalla visione pessimistica tipica dei documenti pontifici del primo Ottocento, qui appare ancora più chiara la mentalità della Restaurazione, pregna almeno apparentemente di un'orgogliosa sicurezza, certa dell'immutabilità di un'istituzione che non conosce crisi e non ha bisogno di riforme e rinnovamenti, che deve dipendere in tutto dalla gerarchia e riconosce nel laicato solo il dovere dell'ubbidienza e dell'attesa. L'autore del Trionfo della Santa Sede si riflette largamente nella Mirari vos. Poche settimane dopo l'enciclica, Rosmini nei pressi di Padova iniziava la stesura delle Cinque Piaghe, che rivendicava un diverso ruolo del laicato, giustificando in esso un certo spirito di critica e di iniziativa, e con una forte sensibilità storica denunziava i mali della Chiesa del suo tempo. E un anno dopo, il 9 settembre 1833, appariva il primo dei Tracts for the Time, lanciato da Newman, in vista di un risveglio della Chiesa anglicana in Gran Bretagna. Rosmini, Newman, con equilibrio, senso storico, profondo amore alla Chiesa; Lamennais, intemperante ed emotivo; G., conservatore e chiuso alle istanze del momento: tre linee diverse nella Chiesa di quegli anni. Se, a distanza di oltre un secolo, storici e teologi distinguono nell'enciclica del 1832 i limiti esatti della condanna dottrinale, più ristretti di quanto appaia a prima vista, e tali da lasciare una certa possibilità di manovra, almeno sul piano della distinzione fra tesi ed ipotesi, allora essa apparve inevitabilmente come una chiara preferenza di G. per i governi assoluti, un distacco dalle aspirazioni di larghe cerchie della borghesia intellettuale, il rifiuto della linea cattolico-liberale (difesa della libertà della Chiesa in nome della libertà generale, rinunzia all'appoggio economico statale). Lamennais in un primo momento (10 settembre 1832) si sottomise, pur con qualche riserva, e l'11 dicembre ribadì la sua completa sottomissione. Mentre soprattutto l'arcivescovo di Tolosa d'Astros continuava le sue manovre antilamennesiane, G. da una parte l'8 maggio 1833 invitava il presule alla calma, dall'altra il 28 dicembre dello stesso anno si rallegrava con Lamennais per la sua piena sottomissione.

Ma l'evoluzione del bretone continuava, e si manifestò nel 1834 con le Paroles d'un croyant, in cui l'autore con tono profetico auspicava una rivoluzione popolare che instaurasse una società del tutto nuova, un Regno di Cristo sostanzialmente terrestre. Ben informato dalla Nunziatura di Parigi, pressato da Vienna, stimolato da Lambruschini, G. intervenne nuovamente con la Singulari nos, 25 giugno 1834; erano condannate la ribellione ai principi, la negazione di ogni potere civile, l'indifferentismo, la libertà assoluta di coscienza. Lamennais si separava ormai nettamente dalla Chiesa. Nel 1836 uscirono Les Affaires de Rome, ricostruzione letterariamente pregevole, storicamente unilaterale e incompleta, dello scontro del 1832-1833. Roma intervenne solo con la condanna all'Indice (1837). Nell'esito finale di Lamennais avevano influito l'insufficiente formazione dell'adolescenza e giovinezza, la sua insicura vocazione sacerdotale, la sua psicologia complessa, con una forte emotività e mancanza di equilibrio, la sua insensibilità per la situazione difficile in cui si trovava G. specie nei primi anni, alle prese con le sommosse del suo Stato, la difficoltà di trovare nella fede cattolica un indirizzo verso la soluzione di tanti problemi. Papa G. e la Curia, con la loro scarsa psicologia, avevano probabilmente costituito solo l'ultimo fattore, erano stati la goccia che aveva fatto traboccare il vaso già pieno. Montalembert e Lacordaire, ugualmente colpiti, avevano conservato la propria fedeltà per Roma, si erano separati dal maestro. Mentre si avviava alla conclusione il caso Lamennais, diveniva sempre più drammatico quello polacco.

La rivoluzione polacca contro il dominio russo, conseguenza lontana della rivoluzione del luglio-agosto 1830 a Parigi e a Bruxelles, scoppiò nel novembre dello stesso anno, e si trascinò sino al novembre 1831, quando fu piegata. Appena eletto, il papa fu quasi assalito dal rappresentante russo a Roma, Gagarin, per un intervento presso il clero polacco. Il papa, sentito Bernetti, il 19 febbraio firmò un breve, Impensa caritas, a due vescovi polacchi, Burzinski, di Sandomir, e Siedlecki, di Belz, greco-unito, raccomandando di non evadere dalla loro missione spirituale e religiosa. Il documento venne subito spedito da Gagarin, ma di esso resta solo la copia in Vaticano. Non è certo che il governo russo l'abbia trasmesso. Spinto ancora una volta dalla Russia ma anche dall'Austria, G. firmò il 9 giugno 1832 un nuovo breve, Superiori anno, ribadendo l'illegittimità di ogni rivoluzione nei confronti di quello che il papa chiamava "Fortissimus imperator vester": "Obedientiam, quam praestare homines tenentur a Deo constitutis potestatibus, absolutum praeceptum esse, cui nemo, praeterquam si forte contingat aliquid imperari, quod Dei et Ecclesiae legibus adversetur, contraire potest". Il papa era mosso dalle sue convinzioni personali, contrarie alle rivoluzioni, dall'atmosfera regnante in Curia, dalla speranza di evitare il peggio alla Polonia e di salvare il salvabile per gli interessi religiosi. G. tuttavia un mese dopo inviò allo zar una lunga relazione, in cui denunziava i soprusi commessi in Polonia contro il cattolicesimo: Nicola I seppellì nel silenzio il documento, rimasto ignoto al pubblico. Ma intanto la Chiesa soffriva in Polonia e in Lituania di una severa repressione da parte russa: soppressione di conventi, violazione della legge canonica per i matrimoni misti, internamento di un migliaio almeno di orfani cattolici in collegi per i cadetti, con un'educazione scismatica, innovazioni nella liturgia... Le reiterate note di Bernetti all'inviato russo solo nel 1837 ottennero una risposta, che negava o minimizzava i fatti. Le lettere scambiate in questi anni fra il papa e lo zar restano su un piano formale: il papa rinnova le sue raccomandazioni per i cattolici, lo zar assicura la sua protezione. Il 1839 è significativo: il metropolita di Lituania e due suoi ausiliari passarono alla Chiesa ortodossa, insieme a oltre un migliaio di preti della Lituania e Russia Bianca. I sacerdoti fedeli a Roma in qualche caso vennero esiliati, e costretti così ad abbandonare le loro famiglie. G., dopo aver protestato in Concistoro nel novembre 1839, si decise a un gesto piuttosto forte, l'allocuzione concistoriale del 22 luglio 1842, Haerentem diu animo. Il discorso era breve ma duro. Si parlava dell'"avita fraus" del governo di Pietroburgo, degli sforzi tenacemente continuati per decenni a difesa di cattolici polacchi, del silenzio russo che finiva per far credere ad un abbandono dei Polacchi al loro destino. Più chiaro ancora era il libro bianco annesso all'allocuzione, preparato dal Lambruschini con l'aiuto dei monsignori Corboli Bussi e Brunelli. I novanta testi mostravano obiettivamente i soprusi compiuti dalla Russia: confisca dei beni, soppressione dei monasteri, nomine arbitrarie degli ordinari locali, arresto di qualche vescovo, appoggio ai prelati passati alla Chiesa ortodossa, sevizie contro i preti fedeli, alcuni martiri, passaggio alla religione ortodossa di migliaia di fedeli greco-ruteni. Il discorso del papa e il libro bianco, passati sotto silenzio in Russia, fecero una grande impressione in Occidente, dove Montalembert sottolineò il silenzio generale dell'Europa, succube dell'influsso moscovita, e il coraggio del vicario di Cristo. Si susseguirono negli anni seguenti altre lettere dei due capi, scambiate per una via diversa da quella consueta, il duca di Leuchtenberg, genero dello zar, in visita a Roma. Il tono dei due corrispondenti è più schietto e talora vivace e un po' amaro. Il papa dichiara il suo dolore nel vedere continuamente deluse le speranze nutrite e le assicurazioni ricevute, lamenta che lo zar non sia ben informato. Nicola I si mostra offeso per le pretese di G. di essere più informato di lui, sovrano di Russia, attribuisce le informazioni giunte a Roma o a corrispondenti clandestini, che egli come sovrano deve respingere, o alla turba di Polacchi che vagano per l'Europa senza una patria, si dichiara luogotenente del papa per gli affari del culto romano nei paesi che Dio gli ha affidati. Il papa replica ricordando la limitata libertà nell'insegnamento e nell'amministrazione dei sacramenti. E senza mezzi termini nel 1843 egli parla di "quei prelati di rito ruteno unito" che "hanno apostatato essi stessi dalla cattolica Chiesa, ma si sono anzi indegnamente adoperati per seco trascinare il gregge ruteno delle rispettive province, e parte ancora del latino".

Nelle note scambiate in questi anni, il punto di vista della Santa Sede rimase costante. Si chiedeva la scarcerazione dei ruteni imprigionati, libertà di corrispondenza con Roma per le questioni religiose, libertà nell'amministrazione dei sacramenti, compreso il matrimonio, restituzione dei beni confiscati, reciprocità nelle rappresentanze diplomatiche (istituzione di un rappresentante romano in Russia). Nel 1845 Nicola I, via Milano-Genova, accompagnò a Palermo la moglie seriamente malata. Al ritorno, via Napoli, lo zar "in trasparente incognito" si fermò a metà dicembre a Roma per pochi giorni, a palazzo Giustiniani, dietro il Senato, sede allora del rappresentante russo a Roma. Fu ricevuto due volte dal papa, alla presenza del cardinal Acton e del ministro russo Butenev. Nei colloqui, molto cordiali e dignitosi, il papa ricordò esplicitamente le leggi russe lesive della libertà religiosa, e lasciò al sovrano un lungo rapporto in proposito (forte controllo sul governo dei vescovi, soppressione di molti conventi, severo esame sulla corrispondenza dei fedeli e del clero con la Santa Sede, divieto di battezzare i bimbi nati da matrimoni misti). L'imperatore nella seconda e ultima udienza lasciò al papa una risposta scritta, molto generica, in cui prometteva che avrebbe fatto il possibile. Dalle due parti non si era fatto alcun cenno al caso dei ruteni della Lituania passati alla Chiesa ortodossa. Pietroburgo considerava la questione risolta in modo definitivo, la Santa Sede forse si rendeva conto che era inutile insistere, non voleva in ogni caso fermarsi su casi particolari, sia pur gravi. L'incontro comunque - l'unico in tutta la storia fra un papa e uno zar - se in Vaticano come a Pietroburgo non illuse nessuno, servì almeno a preparare le basi per delle trattative su un concordato, che cominciarono in modo generico proprio negli ultimi mesi di G., e nelle quali avrebbe avuto una parte decisiva il giovane e intelligente Corboli Bussi. Il concordato, firmato nel 1847, non migliorò molto la situazione dei cattolici in Russia. Dopo il passaggio alla Chiesa russa dei ruteni lituani del 1839 ci sarebbe stato quello dei ruteni di Chel´m nel 1875. La Chiesa, mentre in Russia, nonostante tutti i passi e le proteste di G., restava incerta e soggetta a pesanti controlli, affrontò in Prussia una battaglia diversa, finita con un sostanziale successo, accompagnato però dal sacrificio del prelato che più si era battuto per la causa difesa da Roma. Federico Guglielmo III, nella speranza di fare del luteranesimo il gruppo più forte dello Stato, prevalentemente cattolico in Renania, Slesia, Posnania, in maggioranza luterano in Pomerania, Brandeburgo, Hannover, Prussia orientale, tentò di facilitare al massimo i matrimoni misti e l'educazione luterana della prole nata da essi. La questione covava da anni. Dal 1803 Federico Guglielmo III aveva stabilito che i figli nati da matrimoni misti seguissero in ogni caso la religione del padre. Nel 1825 la legge era stata imposta anche ai paesi renani: la disposizione era nociva per i cattolici, tanto più che mentre raramente essi erano inviati come ufficiali o funzionari nelle zone protestanti, nei paesi cattolici arrivavano in gran numero protestanti. Nella Slesia e in Posnania i cattolici si erano sottomessi senza difficoltà, e i matrimoni misti erano ormai celebrati abitualmente davanti al parroco competente senza le cautele previste dalla legge cattolica. Nella Renania la situazione era diversa.

La vertenza era continuata sotto Pio VIII. Le forti insistenze prussiane, e l'esposizione della situazione nelle lettere collettive di quattro vescovi della Renania e Vestfalia, di Colonia, Treviri, Münster, Paderborn, avevano portato a lunghe discussioni sostenute essenzialmente dal cardinal Cappellari, sempre incline all'intransigenza, a differenza del cardinal Albani, sotto Pio VIII segretario di Stato. Il Bunsen, per lunghi anni rappresentante prussiano a Roma (dopo il Niebuhr), decisamente fautore degli interessi protestanti, notevole studioso dell'antichità romana ma forse discutibile come diplomatico, avrebbe preteso di più, la rinunzia alla promessa dell'educazione cattolica dei figli. Cappellari fece leva sulla malferma salute di Pio VIII e sulla necessità di evitare al papa nuovi dolori, e il Bunsen per il momento si arrese. In un breve del 25 marzo 1830, nel caso di matrimoni misti celebrati senza la promessa di educare i figli nella religione cattolica, Pio VIII autorizzò la presenza del parroco cattolico, che riceveva il consenso degli sposi senza impartire la consueta benedizione. Tecnicamente, si parlava di assistenza passiva. Al breve erano seguite istruzioni ai quattro vescovi sopra citati, giunte loro con molto ritardo da parte del governo, cui per primo erano state comunicate. Roma non era disposta a ulteriori concessioni, e il Bunsen faceva sperare una maggior moderazione della Prussia. In realtà, subito dopo l'avvento di G., si ebbero chiari indizi di un irrigidimento prussiano, che avrebbe preteso nuove concessioni, cioè una revisione del breve di Pio VIII e nuove istruzioni ai vescovi. Gli sposi infatti, pur sapendo che la semplice assistenza passiva del parroco era sufficiente per la validità del loro matrimonio, tenevano molto alla benedizione nuziale del sacerdote. Senza di essa, si aveva l'impressione che la Chiesa cattolica non approvasse quel matrimonio. Il papa, aiutato da valenti canonisti come i due fratelli Vizzardelli (uno dei quali più tardi cardinale) procedette per la strada che aveva già indicata come cardinale: respinse le proposte berlinesi del 1831, per ulteriori concessioni, e nel breve del maggio 1832 ai vescovi bavaresi ribadì la linea già seguita.

Intanto le relazioni fra Berlino e Roma peggioravano, anche per la lunga resistenza vaticana alla nomina del canonico di Breslavia, Sedlnitzki (che poi rinunziò alla sua sede e lasciò la Chiesa), a vescovo della città. Il nunzio Ostini da Vienna informava chiaramente la Santa Sede, e un cosiddetto "libro rosso" largamente diffuso in Germania mostrava esattamente le manovre anticattoliche del governo. Nel giugno 1834, il governo prussiano con l'appoggio dell'arcivescovo di Colonia Spiegel, e con la presenza a Berlino del Bunsen stesso, appositamente chiamato, aveva raggiunto un accordo clandestino coi vescovi della Renania e Vestfalia. Il breve di Pio VIII sarebbe stato comunicato ai parroci insieme ad una pastorale, che ne minimizzava la portata. Una sola promessa generica del coniuge cattolico sull'educazione dei figli ("vigilare sull'ortodossia della loro fede e sull'adempimento del loro dovere") era sufficiente perché fosse concessa la benedizione nuziale. L'assistenza passiva si trasformava effettivamente in presenza attiva. Roma venne presto a conoscenza dell'accordo, e meditò a lungo la risposta, anche per non creare difficoltà alla nomina di Droste zu Vischering all'arcivescovato di Colonia, dove era morto lo Spiegel. Bunsen, interrogato dal Lambruschini, negò impudentemente ogni cosa: poco dopo in Vaticano giunse la ritrattazione alla convenzione del 1834, redatta dal vescovo di Treviri, Hommer, in punto di morte (fine 1836). La Santa Sede non precipitò le cose, e, forse per la malattia del papa e del segretario di Stato Lambruschini, nonostante maldestre note del Bunsen, aspettò ancora, limitandosi a comunicare al sovrano di Prussia la notizia. Sopraggiunse la forte denunzia della convenzione di Berlino da parte del nuovo arcivescovo di Colonia, Droste zu Vischering, che, fino allora, per circa un decennio ausiliare di suo fratello, vescovo di Münster, era stato ritenuto remissivo e alieno da conflitti clamorosi. I giudizi si rivelarono infondati. L'arcivescovo, arrivato all'inizio del 1836, dichiarò subito al governo che lo aveva interpellato in proposito la sua fedeltà al breve di Pio VIII, e, nonostante uno scambio di note minacciose con Berlino, rimase al suo posto, facendo tranquillamente sapere ai fedeli che lo si voleva cacciare dalla sua sede, come avvenne, per ordine di Federico Guglielmo III, alla fine di novembre 1837. Il prelato venne arrestato e condotto alla fortezza di Minden, nella Vestfalia settentrionale. G. reagì immediatamente. Il 10 dicembre un'allocuzione, accuratamente preparata, denunziava la violazione della libertà e della dignità episcopale, i soprusi contro il governo della Chiesa. Il papa, dopo aver dimostrato una pazienza che nel gennaio 1837 aveva destato lo stupore della protestante "Lütticher Zeitschrift", rompeva ogni indugio, attaccava un forte Stato assoluto, dando la maggior pubblicità possibile al suo gesto. L'impressione sull'opinione pubblica, come appare anche solo dall'opuscolo dello studioso cattolico Görres, Athanasius, fu assai forte, e rafforzò la coscienza cattolica e la convinzione della sua indipendenza di fronte allo Stato. Aggravò la questione la condanna dell'arcivescovo di Posen, Dunin, incarcerato per dieci mesi nella fortezza di Kolberg, non troppo lontano da Danzica, ed elogiato dal papa nell'allocuzione dell'8 luglio 1839. I "fatti di Colonia" da allora costituiscono un punto fermo nella storia della Chiesa tedesca. Solo con la morte di Federico Guglielmo III e l'avvento di Federico Guglielmo IV (1840) si arrivò alla conclusione: Droste zu Vischering fu invitato a ritirarsi mantenendo il suo titolo, e al suo posto subentrò come coadiutore con diritto di successione monsignor Geissel, di Spira. I fatti di Colonia ebbero una conseguenza inattesa in altri paesi. I vescovi ungheresi, in un paese dove i cattolici vivevano fianco a fianco con gli acattolici, si erano abituati da tempo a una certa elasticità nelle questioni matrimoniali, derogando dalle leggi canoniche, e supponendo il consenso implicito di Roma. Dopo le lotte in Prussia sorsero dei dubbi, e l'episcopato locale chiese chiarimenti. Il 4 aprile 1841 una seduta della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, alla presenza del papa, discusse la situazione dell'Ungheria e Transilvania.

Ci si rifece alla solenne dichiarazione con cui Benedetto XIV il 4 novembre 1741 aveva dichiarato validi i matrimoni contratti in Olanda fra due eretici o fra un eretico e un cattolico, data la mancata pubblicazione in quel paese del decreto tridentino noto col nome iniziale, Tametsi. Si poteva applicare all'Ungheria la benedettina? Il papa era contrario, ma si fece presente il progetto di legge della Dieta ungherese, che avrebbe imposto la celebrazione del matrimonio davanti al parroco acattolico, e l'educazione di tutta la prole nella religione paterna. Si finì così, pur con le consuete cautele della diplomazia pontificia, per riconoscere validi i matrimoni celebrati davanti a un ministro acattolico, senza dispense e senza cauzioni per l'educazione cattolica della futura prole: "mixta matrimonia ea ratione [...] inita, [...] prudenter dissimulanda, et quantumvis illicita, pro validis habenda". Nella discussione si riconobbe l'opportunità di evitare in tal modo discussioni e rimorsi di coscienza, quando il contraente cattolico doveva contro la sua coscienza presentarsi davanti a un ministro acattolico. Si volle però evitare un "atto solenne e direttamente pontificio", limitandosi ad un'istruzione del Lambruschini, che restava di fatto il semplice portavoce del papa e l'esecutore della sua volontà. L'istruzione, edita fra gli atti del papa, fu promulgata il 30 aprile 1841: essa resta uno degli atti più inattesi, insoliti, di G.; si direbbe che la Santa Sede, vittoriosa in Prussia, in Ungheria tollerasse la situazione di fatto. In sostanza, si estendeva al paese la benedettina del 1741, anche se in teoria ci si limitava ad un'istruzione del segretario di Stato, ad un invito alla tolleranza, alla prudente dissimulazione, accompagnata tuttavia da una lettera del papa dello stesso giorno, identica nella sostanza ma di tono più severo. Forse si potrebbe rievocare la Sollicitudo, con la sua distinzione fra situazione di diritto e di fatto: ma il problema del documento del 1831 non toccava questioni sacramentali. Nella penisola iberica, come si è già accennato, si inasprivano questioni in cui l'opposizione fra liberali e fautori di un regime assoluto si intrecciavano a discussioni sulla legittimità dei sovrani. In Portogallo si contendevano il trono i due figli del defunto sovrano Giovanni I, don Pedro, già imperatore del Brasile, e don Miguel. Il primo si appellava al suo diritto di primogenitura, il secondo alla legge che escludeva dalla successione gli stranieri, come si poteva considerare don Pedro, già imperatore del Brasile. Don Miguel, sconfitto, nel 1834 riparò a Roma, accolto dal papa con grandi onori. Don Pedro si affrettò a porre in atto misure anticlericali: espulsione dei Gesuiti, tornati da poco, limitazione della libertà degli altri religiosi, arresto dei vescovi precedentemente nominati, intromissione di altri vescovi, rottura delle relazioni diplomatiche. Il papa replicò con le due allocuzioni del 30 agosto 1833 e del 1° agosto 1834, che nel tono amaro a lui più volte consueto esprimevano il suo sdegno, ribadivano i suoi diritti, ricordavano la Sollicitudo del 1831, quasi a sottolineare che il Vaticano non si mescolava in questioni politiche e dinastiche, si dichiarava pronto a tutto. Solo dopo l'avvento della figlia di don Pedro, Maria da Gloria, lentamente ci si avviò a un accordo, raggiunto tuttavia dopo la morte del papa camaldolese.

Una situazione analoga incontriamo in Spagna, per la lotta fra i fautori di don Carlos, fratello del defunto Ferdinando VII (i "carlisti", antiliberali) e i sostenitori di Isabella II, figlia del defunto, con la consueta politica antiecclesiastica, che si aggravò dopo la sconfitta dei carlisti nel 1839, e portò alla rottura delle relazioni diplomatiche. Si comprendono così, entro certi limiti, le simpatie della Curia e del papa per i carlisti, rimaste per altro allora allo stato teorico. Si susseguirono comunque l'allocuzione del papa del 1° febbraio 1836, molto severa, quella del 1° marzo 1841, l'enciclica del 22 febbraio 1842, che ebbe una certa eco anche fuori della Spagna, l'avvento di un governo moderato, con Narvaez, l'avvio delle trattative per un concordato, concluso nel 1845 ma non ratificato in Spagna. In Svizzera, si erano aggravati i forti contrasti fra i federalisti, difensori delle autonomie dei Cantoni, e i fautori di uno Stato unitario e centralizzato, che rispondeva alle esigenze dei tempi, ma difendeva un programma religioso radicalmente propenso ad una Chiesa svizzera largamente indipendente dalla Santa Sede, e sotto il largo influsso delle autorità civili (articoli di Baden, 1832). Non erano mancate, specie in alcuni Cantoni, come in Argovia, misure contro i religiosi. G., senza intervenire nelle questioni locali, difese i diritti della Chiesa, e condannò recisamente il 17 maggio 1835 e il 1° aprile 1842 il programma antiromano e la lotta contro i religiosi. Mentre il clima si stava distendendo, il ritorno dei Gesuiti, chiamati a Lucerna alla fine del 1844, provocò un nuovo irrigidimento dei due fronti. Probabilmente G. si lasciò persuadere troppo facilmente, e finì per approvare l'invito fatto ai Gesuiti senza rendersi conto delle conseguenze anche cruente che, dopo la sua morte, sarebbero esplose. Il papa bellunese mostrò più volte il suo interesse e la sua simpatia per il Belgio, nato nel 1830, quasi contemporaneamente alla sua elevazione al pontificato. Ottima fu la scelta del giovane Sterckx come arcivescovo di Malines, che egli resse con coraggio ed energia per trentacinque anni, lasciando un influsso di cui si avvertì a lungo la traccia. Né si può dimenticare l'approvazione, tacita ma chiara, della costituzione belga del 1831, e della linea seguita dai fedeli e dal clero di fronte ad essa: senza entrare in discussioni accademiche, Roma riconobbe fin dal 1832 che la costituzione era alla fin fine accettabile, tollerando il giuramento di fedeltà ad essa. Sin dal 1835, G. decise l'istituzione in Belgio di una rappresentanza diplomatica, con un pronunzio di valore, Gizzi. La rappresentanza divenne regolare Nunziatura nel 1842, e si rivelò efficace strumento per ottenere maggior unione fra i vescovi e realizzare una sincera e discreta collaborazione fra la Corona e la Chiesa. Nel 1838 la promozione al cardinalato dello Sterckx fu un nuovo segno dell'interesse del papa per il giovane Stato, mentre gli anni seguenti G. intervenne più volte tramite il nunzio, invitando i vescovi a desistere dalla domanda di riconoscimento dell'Università di Lovanio come persona civile, che aveva sollevato le perplessità dei liberali, mentre sostenne invece la nuova facoltà di filosofia eretta dai Gesuiti a Namur. G. non sostenne direttamente i cattolici irlandesi nella loro lotta per l'indipendenza, ma nel 1844 tramite il Lambruschini fece sapere al Metternich che avrebbe conservato la consueta prudenza davanti alla condotta del clero dell'isola (rifiuto diplomatico ma chiaro di una condanna). Il papa vide con benevolenza il movimento di Oxford, e, influenzato dal Wiseman, incoraggiò i cattolici tradizionalisti di vecchio stampo a guardare con simpatia le nuove reclute provenienti da Oxford. In Francia l'anticlericalismo, vivo specie durante la monarchia di luglio, le polemiche lezioni universitarie di Michelet e Quinet nel 1843 e L'ebreo errante del Sue avevano provocato una forte opposizione alla Compagnia di Gesù. Guizot inviò a Roma nell'ottobre 1844 Pellegrino Rossi, per ottenere dal papa la dispersione della Compagnia in Francia. G. per evitare mali maggiori cedette parzialmente, e ordinò al padre Roothaan, generale dell'Istituto, di chiudere un certo numero di case. Il generale ubbidì, ma insistette perché i Gesuiti fossero lasciati liberi di difendersi. Il papa acconsentì, e la tempesta per il momento si placò.

Nel pensiero cattolico della prima metà dell'Ottocento si fronteggiavano due correnti: il tradizionalismo (che, in reazione al razionalismo del Settecento, negava alla ragione la capacità di provare le fondamentali verità spirituali, immortalità, esistenza di Dio, premesse della fede), e il semirazionalismo (che rivendicava invece alla ragione il compito di spiegare almeno parzialmente i misteri cristiani). La Santa Sede, da G. in poi, seguì una via equilibrata, condannando tutti e due i sistemi, difendendo la ragione ma sottolineandone i limiti. Nel 1840 e nel 1845 il Bautain, professore a Strasburgo, dovette sottoscrivere alcune tesi contrarie al tradizionalismo. Quella condanna, seguita sotto Pio IX da altri interventi del tutto analoghi, sino al Vaticano I, costituì uno dei primi passi importanti in quella difesa della ragione tipica della Santa Sede dall'Otto al Novecento. Un certo razionalismo appariva invece nelle opere di Hermes (1775-1831). Professore a Bonn, per un influsso kantiano e per reazione ad una certa scolastica deteriore del Settecento, ammetteva il dubbio positivo come fondamento di ogni ricerca teologica, considerava la ragione come unico mezzo per giungere alla conoscenza delle verità soprannaturali, che d'altra parte trovavano una conferma non con l'aiuto della grazia, ma per un'esigenza della volontà. Hermes, prima e dopo la sua morte, aveva trovato largo successo in molti ambienti universitari, specie a Bonn, e persino in alcuni catechismi popolari, era inoltre visto con simpatia dal governo prussiano, nella speranza che la sua concezione potesse avvicinare protestanti e cattolici, ed era difeso dal vescovo di Colonia Spiegel. Ma la polemica contro di lui in Germania era forte da parte del sacerdote Binterim e dei neoscolastici, sotto l'influsso del romanticismo, che rifiutavano una fede frutto di un ragionamento e priva di slancio esistenziale. La pubblicazione postuma della Dogmatik di Hermes affrettò dei passi dei nunzi di Monaco e Vienna. Il 26 settembre 1835, G. non si limitò ad una messa all'Indice, ma con un breve speciale condannò vari punti che riteneva difesi dal teologo di Bonn, colpendo in ogni modo lo spirito dell'hermesianismo, la concezione di una fede più conclusione di un ragionamento che frutto della grazia. Alla condanna seguirono interventi fin troppo severi del Droste zu Vischering contro i professori di Bonn, vari tentativi di difesa di Hermes, con i discepoli Elvenich e Braun, in un lungo soggiorno a Roma: il loro tentativo fallì, soprattutto perché negarono che Hermes avesse insegnato gli errori condannati, attirandosi così il rimprovero di ricorrere alla distinzione giansenistica fra questione di diritto e questione di fatto. L'intervento di G. in una prospettiva storica si rivelò positivo. Accelerò il declino della dottrina di Hermes, che oggi appare frutto di un illuminismo in ritardo, per lo scarso interesse all'elemento soprannaturale, l'accento quanto meno semipelagiano, la noncuranza della tradizione ecclesiastica e dello sviluppo del dogma nella storia. Contemporaneamente, si sviluppava in Italia la polemica fra Gesuiti e Rosmini, dovuta a vari fattori, fra cui la innegabile chiusura al mondo moderno di vari Gesuiti, primo di tutti il generale Roothaan, educato nella Russia di Alessandro I, la loro adesione al probabilismo morale, una maggior fiducia nella natura umana, privata, sì, dopo il peccato originale, dei doni soprannaturali, ma indebolita, non ferita in se stessa. Verso il 1840 si moltiplicarono da parte dei Gesuiti opuscoli molto severi contro Rosmini, fra cui quello anonimo, sulla cui paternità già allora si discusse, Alcune affermazioni del signor Antonio Rosmini, [...] con un saggio di riflessioni scritte da Eusebio Cristiano.

La polemica si aggravò quando in un articolo su "L'Ami de la religion" uno degli stretti collaboratori del Roothaan, il de Rozaven, insinuò come probabile che Rosmini potesse fare la stessa fine di Lamennais. G. aveva più volte manifestato la sua simpatia per Rosmini, approvando nel 1839 l'istituto da lui fondato, prodigandosi in elogi del roveretano nonostante alcune perplessità della Curia. Il papa stimava ugualmente i Gesuiti per la loro opera dentro e fuori d'Europa. Questa volta ritenne di dover intervenire, e il 7 marzo impose alle due parti il silenzio. Rosmini e Roothaan dichiararono subito la loro ubbidienza, ma tutti e due speravano in nuovi provvedimenti, ciascuno secondo le loro prospettive. Roothaan in cuor suo sperava di poter riprendere in futuro la lotta (come fece alla morte di G.), Rosmini pensava che il pericolo per la sopravvivenza dell'Istituto fosse grave e si chiedeva se non fosse il caso di intraprendere qualche passo presso il papa. La questione era sopita, non risolta, e la controversia sarebbe ripresa sotto Pio IX, e avrebbe raggiunto la sua acme nei primi anni del nuovo pontificato, con un altro precetto di silenzio. Fuori d'Europa, il pontificato del papa camaldolese, come hanno dimostrato in questi ultimi cinquant'anni de Leturia e Batllori, ebbe una larga importanza per l'America Latina. Con la sua chiara visione, già manifestata come cardinale e prefetto di Propaganda, G. pose fine alle perduranti incertezze e oscillazioni, a un certo persistente legittimismo, ormai anacronistico e dannoso. Il dominio spagnolo in America Latina era finito per sempre, si apriva una nuova epoca storica, bisognava tenerne conto, riconoscere i nuovi Stati e le loro legittime aspirazioni, pur opponendosi a quel regalismo creolo, non di rado radicale come il giurisdizionalismo europeo, che si pretendeva erede del patronato spagnolo, visto non come una concessione pontificia ma come un diritto innato della sovranità. Poche settimane dopo la sua elezione, G. nominò vari vescovi residenziali in Messico, lo stesso fece nel 1832 in Cile, Argentina, Perù. Era superata così la lunga incertezza continuata sotto Leone XII e Pio VIII.

Si ebbero presto il riconoscimento definitivo della Grande Colombia (1835), del Messico (1836), dell'Ecuador (1838), del Cile (1840), e gradualmente vennero stabilite relazioni diplomatiche con varie Repubbliche, mediante due delegati a Rio de Janeiro e Bogotá, accreditati ciascuno presso un certo gruppo di Stati. Le encicliche legittimiste di Pio VII e Leone XII appartenevano ormai al passato. Si apriva la strada ai passi ulteriori del nuovo papa, Pio IX. L'attività relativa alle missioni dell'antico prefetto di Propaganda, accanto all'appoggio per quelle che si stavano moltiplicando in Asia ed in Africa, ebbe particolare rilievo con la condanna della tratta (1839), l'incoraggiamento alla formazione del clero indigeno (1845), l'intervento energico ma con conseguenze polivalenti sul patronato portoghese in Estremo Oriente (1838). La solenne lettera del 1839, rievocati precedenti interventi dei pontefici, da Paolo III a Pio VII, ribadiva la condanna della schiavitù ma vi aggiungeva esplicitamente quella della tratta. Il fenomeno, già in declino e condannato dal congresso di Vienna, continuava ancora, e, in proporzioni ridotte rispetto al passato, si prolungò anche in seguito. Si discute ancora sull'efficacia pratica del documento gregoriano, probabilmente non molto forte. L'istruzione di Propaganda, Neminem profecto, del 23 novembre 1845, accettando la linea scelta dal sinodo di Pondicherry dell'anno precedente, esplicitamente ricordato, insiste sulla formazione del clero indigeno, anche in vista non di semplici mansioni ausiliarie, ma della progressiva nomina di vescovi indigeni. L'impulso dato su questo punto da G., che esaminò ed approvò personalmente l'istruzione, non venne sempre seguito sotto Pio IX, provocando dei ritardi, superati solo con Leone XIII. Maggior efficacia pratica ebbe la lettera Multa praeclare, del 24 aprile 1838, studiata a fondo dal Metzler negli ultimi decenni. Il patronato portoghese sulle missioni dell'Estremo Oriente aveva assicurato per oltre due secoli la protezione e l'aiuto di Lisbona, ma col tempo l'impero coloniale portoghese si era ristretto a semplici teste di ponte sulle coste, come Goa, mentre l'Inghilterra aveva conquistato gran parte dell'India. I Portoghesi però pretendevano ancora di esercitare la propria giurisdizione su tutto il territorio indiano, sino a Bombay e Calcutta, cioè sull'India ormai inglese, mentre allo zelo apostolico dei tempi del Saverio e del re Giovanni III era subentrato lo spirito illuministico simboleggiato da un nome solo, Pombal. G. non abrogò il patronato, ma lo limitò a Goa, dichiarando che nelle altre regioni avrebbero avuto piena autorità vicari apostolici da lui nominati e soggetti a lui solo. La questione non era però risolta. Nel 1843 G. aveva nominato il nuovo arcivescovo di Goa, il benedettino da Silva Torres, ma nella bolla ufficiale aveva concesso al nuovo pastore i tradizionali diritti del vescovo di Goa sui territori un tempo possedimento portoghese, mentre in una lettera privata gli aveva imposto di considerare la sua giurisdizione limitata al territorio di Goa, e di non immischiarsi nel governo dei vicariati apostolici, eretti di recente. Naturalmente il da Silva Torres di fronte a due documenti quasi contraddittori considerò valida la bolla ufficiale e sostenne quanti si opponevano ai vicari apostolici. Ne seguì una serie di conflitti, non solo personali, che nascondevano in realtà la lotta fra Propaganda e Lisbona, fra i succubi del nazionalismo e del giurisdizionalismo portoghese e i difensori di Roma e dell'indipendenza della Chiesa. Se è eccessivo parlare di scisma di Goa, si deve ammettere una forte tensione fra i due campi. G. ammonì più volte inutilmente il vescovo. La questione si trascinava ancora alla sua morte, e si risolse solo sotto Pio IX, con reiterati interventi del nuovo papa, rinunzia del da Silva Torres, minacce di scomuniche ai suoi fautori, e il concordato del 1857, che intendeva teoricamente ristabilire il patronato, anche nelle Indie inglesi: un passo indietro rispetto a Gregorio XVI.

In questi anni il sistema morale alfonsiano ebbe numerosi riconoscimenti, che, insieme a varie opere in sua difesa edite prima o dopo (J.P. Bouvier, Th. Gousset, J.P. Gury), contribuirono alla sua affermazione, e, in definitiva, alla vittoria della pastorale antigiansenistica, antirigorista, moderata. Essa, vista con diffidenza da alcune correnti storiografiche dell'Otto e Novecento, da Gioberti a Ruffini, è oggi largamente rivalutata, da G. Miccoli a G. De Rosa. Il movimento non si limita a quegli anni, ma ricordiamo almeno la risposta della Penitenzieria del 1831, sollecitata dal vescovo di Besançon, de Rohan-Chabot. Cappellari non sembra fosse personalmente favorevole alla morale alfonsiana, temeva probabilmente che la canonizzazione di Alfonso de' Liguori potesse essere interpretata come un atto favorevole al Lamennais, ma promulgò ugualmente nel 1839 la sua proclamazione a santo, con una bolla che incidentalmente ribadiva l'ortodossia della sua dottrina, e che comunque fu salutata come una vittoria del partito alfonsiano. Fra G. e Pio IX vi è su questo punto piena continuità. Non vi furono in questi anni molte altre canonizzazioni con la stessa eco che ebbe quella del 1839 (con cinque nuovi santi: Alfonso de' Liguori, il gesuita Francesco de Geronimo, grande apostolo di Napoli all'inizio del Settecento, Veronica de Giuliani, Pacifico di San Severino, Giovanni Giuseppe della Croce). Lo stesso si deve dire delle beatificazioni (fra cui quella del domenicano Martino de Porres, latinoamericano, e del sacerdote torinese Sebastiano Valfrè, dell'inizio del Settecento), e della conferma del culto già prestato a vari servi di Dio.

Gli anni 1831-1846 vedono anche ventiquattro promozioni cardinalizie con settantotto nomine, necessarie per colmare i vuoti creati dalla scomparsa di sessantuno cardinali. Il Sacro Collegio venne radicalmente rinnovato. È difficile cogliere una precisa linea in queste scelte: certo le preferenze del papa camaldolese andavano agli intransigenti, o zelanti. Incontriamo fra i promossi grandi pastori, come Sterckx, Schwarzenberg, de la Tour d'Auvergne, Romilli, Monico, Falconieri, Serra Cassano, Caracciolo, Trigonas Parisi, Pignatelli; curiali benemeriti per la riforma dei religiosi, come Antonio Sala; funzionari di Curia, talora non sacerdoti, come Ludovico Gazzoli, preside della Comarca, o discutibili ministri delle finanze, come il Tosti; ex nunzi, Lambruschini, Gizzi, Ostini, Altieri, Giustiniani, Tiberi, Spinola; Costantino Patrizi, vicario generale di Roma dal 1841; grandi dotti, come Mai, Mezzofanti. Non dimentichiamo Mastai, promosso nel 1839. Il Collegio cardinalizio conservava una fisionomia fortemente italiana, addirittura un po' provinciale, con l'assenza di vescovi di varie capitali estere, Parigi, Vienna, Monaco, Madrid, la presenza di pastori quasi confinati in piccole diocesi del Lazio o delle Marche, sia pure dopo una brillante carriera all'estero come nunzi. Il pontificato gregoriano appare a distanza con un triplice aspetto. È il campione della libertà della Chiesa in Svizzera, in Germania, nella penisola iberica, nella stessa Russia, qui almeno dopo iniziali confusioni. È un papa che più volte mostra un'inattesa apertura e una precisa comprensione dei tempi: pensiamo alla svolta impressa alla politica curiale in America Latina, alla comprensione mostrata in Belgio, alla resistenza al patronato portoghese (Multa praeclare, 1838), al superamento del legittimismo (Sollicitudo, 1830), alla tolleranza matrimoniale in Ungheria e Transilvania (1841), all'impulso dato al clero indigeno (Neminem latet, 1845). D'altra parte non possiamo dimenticare i ritardi e le chiusure nell'amministrazione pontificia, e le condanne della Mirari vos (1832), con la sua angusta visione di una Chiesa immutabile, mai soggetta a crisi, e la sua aperta sfiducia nel laicato, la visione di una libertà di coscienza legata all'indifferentismo, quindi vista come errore e follia. Il pontificato gregoriano si chiudeva il 1° giugno 1846 con una morte che, dopo una breve malattia di cui non si capì la gravità, colse di sorpresa anche i suoi stretti aiutanti. Accanto al riconoscimento di innegabili meriti, era diffuso dovunque il voto e la speranza di un autentico rinnovamento.

fonti e bibliografia

Per le fonti inedite fondamentale resta l'A.S.V., con i suoi vari fondi. Qui ricordiamo - per gli anni 1833-1847 - almeno le Epistolae ad Principes, con le due parti, Registra e Positiones et Minutae, entrambe divise per anno; i carteggi d'ufficio della Segr. Stato, Epoca moderna, divisi in rubriche, per l'interno, coi nrr. 1-140, e per l'estero, Nunziature, coi nrr. 141-300 (242, questioni di alta diplomazia; 247, Vienna; 248, Parigi; 249, Madrid; 250, Lisbona; 255, Monaco); Segr. Stato, Spogli di Cardinali e Officiali di Curia (ricordiamo quello del cardinal Sala; cfr. in proposito L. Pásztor, La Segreteria di Stato e il suo archivio, 1814-1833, I, Stuttgart 1984, pp. 337-41). Distinto è l'archivio detto un tempo della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, ora Archivio del Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, con ordinamento a parte, recentemente compiuto, per Stati e per anni. Sull'archivio della Congregazione "de Propaganda Fide", ora Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, cfr. N. Kowalski, Inventario della Congregazione de Propaganda Fide, Schöneck 1961. Per alcune questioni dottrinali (Lamennais, Hermes) cfr. l'Archivio del Sant'Uffizio, aperto agli studiosi dal gennaio 1998.

Per le fonti edite v.: Acta Papae Gregorii XVI, I-IV, a cura di A. Bernasconi, Romae 1901-04; S. Olszamowska-Skowrońska, La correspondance des papes et des empereurs de Russie (1814-1878), ivi 1974, pp. 34-64, 232-74; V. Carcel Ortí, Correspondencia diplomática del nuncio Tiberi (1827-1834), Pamplona 1976.

Th. Gousset, Justification de la théologie morale du bienheureux Alphonse de' Liguori, Besançon 1832.

J.B. Bouvier, Institutiones theologicae ad usum seminariorum, Parisiis 1853.

J.P. Gury, Compendium theologiae moralis, Lyon 1850.

H. Bastgen, Forschungen und Quellen zur Kirchenpolitik Gregors XVI., Paderborn 1929.

J. Schmidlin, Pontificat de Grégoire XVI (1831-1846), in Id., Histoire des papes de l'époque contemporaine, I, 2, Lyon-Paris 1940, pp. 185-247.

Gregorio XVI. Miscellanea commemorativa, I-II, Roma 1948 (con saggi di S. Negro, P. de Leturia, A. Simon, J. Grisar e altri).

J. Leflon, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche-V. Martin, XX, 2, Torino 1984, pp. 783-814, 890-92, 893-1145.

Sui singoli aspetti: per la storia sociale, economica, politica dello Stato della Chiesa: D. De Marco, Il tramonto dello stato pontificio. Il papato di Gregorio XVI, Torino 1948; E. Morelli, La politica estera di Tommaso Bernetti, segretario di Stato di Gregorio XVI, Roma 1953; N. Nada, L'Austria e la questione romana dalla rivoluzione di luglio alla fine della conferenza diplomatica romana, Torino 1953; L. Pásztor-P. Pirri, L'archivio dei governi provvisori di Bologna e delle province unite nel 1831, Città del Vaticano 1956; N. Nada, Metternich e le riforme nello Stato pontificio. La missione Sebregondi a Roma (1832-1836), Torino 1957; L. Pásztor, La riforma della Segreteria di Stato di Gregorio XVI, "La Bibliofilia", 60, 1958, pp. 285-305; G. Pignatelli, Bernetti, Tommaso, in D.B.I., IX, pp. 338-43; E. Tosi, La società romana dalla feudalità al patriziato (1816-1853), Roma 1968; M. Caravale-A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, Torino 1978 (Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, 14), pp. 285-305.

Per gli aspetti economici restano fondamentali, insostituibili, con una massa di dati precisi, che un'ulteriore ricerca permette di sintetizzare, vari lavori guidati da C.M. Cipolla, apparsi nella collana "Archivio Economico dell'Unificazione Italiana", relativi a diversi temi economici sempre di quegli anni, sempre dello Stato pontificio: B. Rossi Ragazzi, Le entrate dello Stato pontificio dal 1827 al 1867, Torino 1956; i tre dettagliati lavori di S. Pinchera, I prezzi di alcuni cereali e dell'olio d'olivo sui mercati dello Stato pontificio (dal 1825 al 1860) e a Roma (dal 1823 al 1890), ivi 1957; Monete e zecche dello Stato pontificio dalla Restaurazione al 1870, ivi 1957; Le spese effettive e il bilancio dello Stato pontificio dal 1827 al 1867, ivi 1961; F. Bonelli, Il commercio estero nello Stato pontificio nel secolo XIX, ivi 1961; M. Gabriele, L'industria delle costruzioni navali nei territori dello Stato pontificio dal 1815 al 1880, Roma 1961; Id., I porti dello Stato pontificio dal 1815 al 1880, ivi 1963; G. Friz, Burocrati e soldati dello Stato pontificio (1800-1870), ivi 1974.

Altri studi analizzano aspetti locali o si riferiscono ad anni posteriori a quelli da noi esaminati. Si riferiscono invece a problemi inerenti al governo della Chiesa di quegli anni, oltre ai lavori su Lamennais, dell'inizio del secolo (Dudon), o recenti (Verucci e altri), già accennati nel testo: P. de Leturia, Relaciones entre S. Sede e Hispano-América, II, Época de Bolívar, 1800-1835, ivi 1959; H.H. Schwedt, Das römische Urteil über Georg Hermes, Ein Beitrag zur Geschichte der Inquisition im 19. Jahrhundert, ivi-Freiburg-Wien 1980; La condamnation de Lamennais, a cura di M.J. e L. Le Guillou, Paris 1982; J. Metzler, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche-V. Martin, XXIV, Cinisello Balsamo 1990, pp. 236-51 (con ulteriori indicazioni bibliografiche).

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