CASTIGLIONI, Guarniero

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 22 (1979)

CASTIGLIONI, Guarniero (Guarnerio)

Franca Petrucci

Nato alla fine del XIV secolo nella potente famiglia dei Castiglioni, da Guido e da Antonia Bossi, era studente a Parma nell'anno 1415, quando per ordine del duca di Milano Filippo Maria Visconti lo Studio venne trasferito nella città di Pavia. Egli si laureò in giurisprudenza probabilmente fra il 1417 e il 1418, dopo aver frequentato a Padova la scuola-convitto di Gasparino Barzizza. Nel 1418 fu ascritto al Collegio dei giuristi di Pavia e divenne lettore di diritto civile in quella università, incarico che tenne per dieci anni. Sempre nel 1418 fu eletto tra i trecento deputati alla Fabbrica del duomo di Milano. Nel 1423, come rappresentante di Filippo Maria Visconti, egli indirizzò ai padri conciliari una protesta per la decisione del trasferimento a Siena, a causa della peste serpeggiante in città, del concilio ecumenico, che, secondo quanto deciso a Costanza nel 1418, si era aperto a Pavia. Nell'aprile del 1428 lasciò definitivamente l'insegnamento universitario (suo successore fu Giovanni Grassi), per dedicarsi completamente alla carriera diplomatica, in cui egli era già stato utilizzato da Filippo Maria Visconti. Creato consigliere ducale, nel 1426 aveva compiuto un'importante missione.

Il duca di Milano, che aveva dovuto subire nel marzo di quell'anno, dopo pochi giorni di guerra, la conquista di Brescia da parte di Venezia, coalizzata con Firenze, a cui si sarebbe unita nel luglio anche la Savoia, mirava ad ottenere da Sigismondo di Lussemburgo un appoggio contro gli avversari o almeno un atteggiamento neutrale durante il di lui viaggio in Italia, che si riteneva prossimo. Le trattative, iniziatesi dal gennaio, non si conclusero con il trattato dell'11 maggio, da cui il Visconti aveva ottenuto la promessa di aiuti militari e di interventi diplomatici presso la lega, al fine di propiziare la pace. Dalla fine di maggio all'ottobre un'altra ambasceria milanese, composta da Corrado Del Carretto, dal C. e, in seguito, da Lodovico Sabini, operò presso Sigismondo. Mentre l'insistenza del duca perché Sigismondo gli concedesse aiuti contro Venezia ed esercitasse pressioni nei confronti del duca di Savoia era divenuta sempre più incalzante nelle missive agli oratori, questi il 13 luglio giurarono fedeltà a Sigismondo e presentarono la richiesta, soddisfatta il 25 dello stesso mese, che fossero interrotti i rapporti commerciali fra la Germania e Venezia e che i traffici fossero avviati invece per la via di Milano e di Genova. In quell'occasione fu il C. che pronunciò, alla presenza di Sigismondo, il discorso, per il quale ottenne le congratulazioni di Zanino Riccio e di Francesco Barbavara, oltre che, naturalmente, il ringraziamento del Visconti. Nel 1427 il duca di Milano, come aveva già fatto per tutto l'anno precedente, non desistette, persistendo il cattivo andamento delle operazioni militari, dal ricercare la pace, che non aveva potuto ottenere neanche dopo gli accordi stipulati con la lega nel dicembre del 1426. Il C. ricevette durante l'anno più volte la procura del duca per trattare la ratifica della pace di Venezia: nell'aprile, insieme con Bartolomeo Capra, e nell'ottobre, due giorni dopo la battaglia di Maclodio. Finalmente il Visconti trovò il modo di allentare la morsa che lo stava stritolando, accordandosi con Amedeo VIII. Il 3 novembre il C., insieme con l'arcivescovo di Milano, ricevette il mandato per concludere la pace con il duca di Savoia. L'accordo, firmato il 2 dicembre, se prevedeva condizioni piuttosto pesanti per il duca di Milano, fu tuttavia determinante per la stipulazione a Ferrara, il 18 apr. 1428, della pace con le altre potenze della lega. Il 29 marzo il C. aveva avuto una procura ducale, per trattare insieme con Giovanni d'Arezzo la pace con Venezia e con Firenze, ed un'altra per contrarre con il card. Albergati - sotto il cui patrocinio si svolgevano le trattative nella città estense - qualunque obbligo concernente gli affari del Regno. Il 3 maggio, insieme con Luigi Crotti, ebbe inoltre mandato di ratificare gli accordi raggiunti. Nel 1429 il C. fu inviato a Firenze e, verso la fine dell'anno, a Venezia per protestare contro il marchese del Monferrato, che dopo aver stretto un patto di alleanza con Milano il 6 aprile dell'anno precedente, accettava l'aiuto della Repubblica veneta nel compiere atti di ostilità contro il ducato di Milano.

La meta delle due successive missioni diplomatiche del C. fu Roma. Nel febbraio-marzo 1430 fu inviato, infatti, presso Martino V dal duca di Milano, che intendeva fare da tramite fra il papa e Sigismondo di Lussemburgo nelle controversie che li opponevano. Un anno dopo, mentre la ricostituita lega veneto-fiorentina si accingeva a muovere di nuovo guerra al ducato, fu testimone dell'ascesa al soglio pontificio del veneziano Gabriele Condulmer. Nei mesi immediatamente successivi all'elezione del nuovo pontefice, che aveva assunto il nome di Eugenio IV, il C. fu protagonista di un incidente diplomatico sorto fra il papa ed il duca di Milano. Dovette infatti vibratamente protestare con il papa, poiché erano state intercettate ed aperte lettere cifrate a lui indirizzate provenienti dal ducato. Nello stesso anno Sigismondo si decise a compiere la tanto differita discesa in Italia. Il Visconti, che pure aveva più volte sollecitato Sigismondo ad effettuarla, ne rimase profondamente contrariato e, pieno di diffidenza, si ritirò ad Abbiategrasso. Da lì il 7 nov. scrisse al C., ordinandogli di recarsi presso Sigismondo per convincerlo a non oltrepassare Varese, prima che fossero poste in atto le disposizioni precedentemente concordate. Quando, il 17 dicembre, Sigismondo lasciò Milano ove il 25 novembre era stato incoronato re d'Italia, il C., che il 29 dello stesso mese era stato incaricato dal duca di collaborare con il suo luogotenente generale, Niccolò Piccinino, fu uno dei cortigiani ed illustri personalità milanesi, cui il Visconti ordinò di accompagnare Sigismondo a Piacenza e successivamente a Parma. Il C. funse così da tramite fra il duca e Sigismondo, recandosi più volte dalle città ove questi soggiornava ad Abbiategrasso e viceversa.

Intanto la guerra fra il ducato di Milano ed i Veneto-fiorentini proseguiva, con esito non felice per i Milanesi, ma anche con logorio degli alleati. Nell'aprile del 1432, il C. si recò per incarico del duca presso il papa, che mostrava interesse a fare da intermediario fra le parti per arrivare al ristabilimento della pace e con il quale il Visconti cercava di avviare rapporti meno ostili. Falliti i tentativi compiuti dal pontefice e designato nell'estate arbitro tra i contendenti il marchese d'Este, che si associò il marchese di Saluzzo, il duca di Savoia, con l'intento di inserirsi nelle trattative, inviò a Ferrara delegati, che passarono per Milano alla fine di ottobre. Lì accolsero il C., Francesco Barbavara, Luigi Crotti e Franchino Castiglioni. Firmato il 26 aprile dell'anno successivo il trattato di pace di Ferrara, senza la partecipazione dei delegati savoiardi, il Visconti avvertì la necessità di appoggiarsi ad un alleato per bilanciare la preponderante potenza della Repubblica veneta. Si iniziò così fra la Savoia e Milano una serie di contatti diplomatici, che si fecero sempre più fitti. Il 31 maggio 1434 giunse a Milano un'ambasceria savoiarda. Con essa avrebbe dovuto trattare il C., che almeno dall'anno prima era conte palatino; tuttavia, a causa di una malattia, fu sostituito nei colloqui dal suo parente Franchino Castiglioni, insieme con il quale egli avrebbe accolto di nuovo gli ambasciatori del duca di Savoia quando tornarono a Milano il 7 settembre, dopo essere andati a Thonon a riferire sull'andamento delle trattative. Si giunse in tal modo, il 14 ottobre, alla firma del trattato, di cui il C. fu uno dei garanti. Subito dopo sorse un vivace contrasto fra il principe di Piemonte ed il marchese del Monferrato. Il Visconti, cui piacque l'idea di porsi in una posizione di preminenza fra le parti, riuscì a farsi affidare l'incarico di arbitro. Uno dei tre delegati designati il 17 novembre dal duca di Milano per studiare e dirimere la questione fu il C., che all'inizio del 1435 fu inviato insieme a Guido Torello a Torino. Ricevuti dal principe il 14 gennaio, tornarono nella città piemontese il 21, recando seco il marchese del Monferrato, per il quale avevano ottenuto una tregua di sei giorni. I due ambasciatori riuscirono in circa una settimana ad assolvere pienamente all'incarico, inducendo ad un accordo le parti contendenti. Ricevutine i ringraziamenti e tangibili segni di gratitudine, essi ripartirono il 1º febbraio per il ducato di Milano, dopo aver steso una relazione per Filippo Maria.

Nel frattempo si era riacceso il conflitto che vedeva il Visconti far fronte sia alle truppe pontificie, capeggiate da Francesco Sforza, sia a quelle della coalizione veneto-fiorentina. Nell'agosto del 1435 si decise di cercare di por termine alla guerra, il cui teatro era in Romagna, affidando la composizione delle vertenze fra Eugenio IV, rifugiatosi a Firenze dalla primavera dell'anno precedente, ed il duca di Milano ad una commissione che si doveva riunire a Firenze. Mentre Niccolò III d'Este e Branda da Castiglione rappresentavano il papa, i milanesi inviati alla conferenza furono il C. e Lancellotto Crotti. In quello stesso mese si pervenne ad un accordo, con il quale vennestabilito l'abbandono di Imola e il ritiro delle truppe viscontee dalla Romagna e per contro lo sgombero di Castelbolognese da parte dei Veneziani. Mentre il C. ratificava a Firenze i patti stretti con il pontefice, giunse a Milano la sorprendente notizia della cattura di Alfonso d'Aragona nella battaglia di Ponza. Sono noti gli sviluppi che, per volontà del Visconti, ebbe questo avvenimento. Il C. fu uno dei milanesi che discussero con il re le condizioni della sua liberazione e in seguito fu uno dei procuratori del Visconti nei patti che l'8 ottobre furono stipulati fra le due parti, ricevendo nelle sue mani il giuramento del sovrano.

Poco più di tre anni dopo, il 31 dic. 1438, il C., che il 16 ott. 1436 aveva ricevuto in feudo Garlasco, fu inviato dal duca di Milano presso Francesco Sforza. Nell'intrigo, che la contorta politica del Visconti aveva creato, il condottiero promesso sposo della figlia del duca, si trovava allora negli Abruzzi e lì sosteneva con le armi le pretese di Renato d'Angiò sul Regno, ove un capitano visconteo, Niccolò Piccinino, prestava aiuto all'altro pretendente, Alfonso d'Aragona. Alle proteste di quest'ultimo, cui era legato dai patti del 1435,il duca di Milano si convinse della necessità di far tornare al Nord lo Sforza; fu allora che gli inviò il C. insieme con Franchino Castiglioni per offrirgli (anche se poi si sarebbe sottratto alla promessa) l'immediata consegna di Bianca Maria. Ripresa la guerra fra Milano e la ricostituita lega veneto-fiorentina, dopo anni di scontri armati e diplomatici, nel luglio del 1441 l'esercito visconteo, capeggiato dal Piccinino, fronteggiò a Cavriana quello veneto-fiorentino, guidato dallo Sforza. Qui giunsero il 1º agosto gli ambasciatori viscontei, fra cui il C., che riuscirono a concordare con Francesco Sforza, che otteneva finalmente in isposa Bianca Maria, i termini della tregua, che venne confermata ed ufficialmente riconosciuta il 10 dicembre. Dopo l'entrata trionfale di Alfonso d'Aragona a Napoli nel giugno del 1442, che segnò la sconfitta del pretendente angioino, il Visconti reputò opportuno rinnovare con il nuovo re di Napoli gli accordi del 1435. A questo scopo inviò nel settembre presso il sovrano, a Tocco, il C., Francesco Landriano ed Antonio da Pesaro, i quali il giorno 15 stipularono con lui a nome del duca una lega, che si richiamava ai patti stretti sette anni prima. Nel giugno dell'anno successivo, mentre lo Sforza stava per ridursi a Fano, assediato dalle truppe aragonesi e da quelle del suocero, che aveva provocato una coalizione contro di lui, si verificò la ribellione di Bologna, di cui si insignorì Annibale Bentivoglio. Invano Niccolò Piccinino, il cui figlio Francesco, lasciato a presidiare la città, era stato preso prigioniero, spedì contro di essa Ludovico Dal Verme ed Astorre Manfredi; invano il Visconti vi inviò il C.: Bologna rimase definitivamente perduta per l'uno e per l'altro.

Negli anni immediatamente precedenti alla morte di Filippo Maria Visconti, il C. sembra non essere più utilizzato in missioni diplomatiche di gran rilievo. Nell'aprile del 1444 egli ebbe l'incarico, insieme ad altri ambasciatori milanesi, di recarsi a Ferrara, dove partecipò alle celebrazioni indette per il matrimonio di Maria d'Aragona con Lionello d'Este, presso il quale il C. si era già portato alla fine del 1441 con Pietro Visconti e con Niccolò Arcimboldi, per recargli le condoglianze del duca per la morte del padre, Niccolò III. Nel 1445, ascritto in quell'anno al Collegio dei giureconsulti di Milano, il C. presenziò alla stipulazione dell'accordo fra il Visconti e Lodovico Gonzaga, marchese di Mantova, firmato a Milano il 27 agosto. Nel maggio dell'anno successivo il C., insieme a Lancellotto Crotti, fu inviato a Tortona, dove Giacomo Visconti, nipote del duca, aveva provocato con la sua condotta il risentimento popolare: al Crotti ed al C., il quale nel 1436 aveva promesso in isposa al signore di Tortona una sorella della propria moglie, il duca aveva affidato l'incarico di prendere quei provvedimenti che fossero loro sembrati opportuni per risolvere la situazione. La morte del Visconti (13 ag. 1447) sorprese il C. a Ferrara, dove si trovava, insieme con Pier Candido Decembrio e Giovanni Feruffini, per tentare un accordo con Venezia, in guerra dall'anno precedente con Milano, strettasi in lega con Alfonso d'Aragona, con il papa e con Francesco Sforza. I delegati milanesi, rimasti di colpo privi di direttive, richiesero istruzioni ai capitani e difensori della libertà, già costituitisi in Consiglio il giorno stesso del trapasso del duca. La direzione della repubblica, che allora si costituì a Milano e la cui legittimità il C. ebbe più tardi a difendere davanti a E. S. Piccolomini segretario dell'imperatore, invece di continuare le trattative di Ferrara, preferì concludere con Venezia il 20 di agosto un armistizio di un mese, del quale peraltro Francesco Sforza, che pure militava al servizio della Repubblica ambrosiana, non volle tenere alcun conto. Lo Sforza, direttosi prima verso Lodi, si volse poi con le sue truppe verso Pavia dove fu accolto da signore, intitolandosene conte. Il C., insieme con Oldrado Lampugnani ed Antonio Trivulzio, fu allora inviato a Pavia per esprimere al condottiero lo sdegno e la riprovazione del governo repubblicano di fronte a un siffatto inammissibile modo di procedere. L'inutilità delle recriminazioni contro lo Sforza e lo scadere del termine dell'armistizio convinsero ancor più i capitani a ricercare una pace stabile con Venezia; per questo inviarono nell'autunno nella città lagunare il C. e Lancellotto Crotti, i quali però non poterono addivenire ad un accordo per le eccessive pretese dei Veneziani. Il C., che ebbe una parte attiva nel governo di Milano durante la Repubblica ambrosiana, fu dal marzo 1448 uno dei Dodici della balia della guerra e della pace; alla fine dello stesso mese, insieme ad altri illustri concittadini incaricati dall'ottobre precedente di provvedere alla fondazione dell'università di Milano, inviò ai capitani il rotolo con i nomi dei professori designati; nel 1449 fu nominato supremo magistrato dei capitani e difensori della libertà e, finito il periodo della carica, entrò a far parte del Consiglio generale. Quando il 12 ottobre dello stesso anno fu solennemente pubblicata a Milano la pace finalmente conclusa con Venezia, prima della messa, che venne celebrata per consacrare l'avvenimento e alla quale tutte le autorità della Repubblica assistettero, il C. pronunciò una lunga orazione in lode della pace.

Nel febbraio del 1450 la difficile situazione della repubblica, che era stata costretta a chiedere l'aiuto dei Veneziani per sottrarsi all'assedio di Francesco Sforza, provocò all'interno della città il formarsi di una opposizione organizzata. Il 25 di quello stesso mese, dopo un tumulto che esautorò il governo dei capitani, un'assemblea popolare elesse un comitato di 24 cittadini - quattro per ogni porta -,e nominò sei delegati con l'incarico di presentare allo Sforza i capitoli di resa della città: tra di essi, per il quartiere di Porta Vercellina, fu eletto il C., che, insieme con i colleghi si recò il 26 a Vimercate incontro allo Sforza. Accettate solo in linea di massima le condizioni della capitolazione, il condottiero il giorno stesso entrò, non senza qualche opposizione, in Milano, dove si trattenne brevemente, ricevendo il giuramento di fedeltà dai sei delegati. Il giorno 28 il C., con i cinque colleghi, tornò al campo del conte e gli consegnò nuovamente i capitoli di resa, dandogli piena facoltà di modificarli; inoltre gli rinnovò, insieme agli altri, il giuramento di fedeltà riconoscendolo duca di Milano. Tornati in città e riferito quanto avevano compiuto, il C. e i suoi compagni si dettero ad organizzare l'assemblea popolare, che il C. presiedette e che, riunitasi l'11 marzo, approvò e ratificò il operato dei delegati. Il 22 marzo avvenne il solenne ingresso del nuovo duca nella città. Il C. in questa occasione pronunziò due discorsi, uno dei quali fu poi edito da G. Ripamonti (Historiae patriae libri X, Mediolani s. d., pp. 409-417). Nello stesso giorno il C., che nella sua orazione aveva esaltato lo Sforza, sottolineando la sua parentela con il duca defunto, i suoi meriti militari e politici ed il carattere popolare della sua designazione, fu creato membro del Consiglio segreto ed ebbe la conferma del feudo di Garlasco.

Scoppiata nel maggio del 1452, dopo un periodo di pace utilizzato da Francesco Sforza per riorganizzare le strutture dello Stato e dopo il ritorno in Germania dell'imperatore Federico III, la guerra che oppose Venezia a Milano, alleata al re di Francia e a Firenze, fu pensiero costante di Niccolò V, specie dopo la caduta di Costantinopoli (29 maggio 1453), di riportare alla concordia gli Stati italiani. Tuttavia si arrivò attraverso contatti diretti e segreti solo ad una pace separata fra Venezia e Milano il 9 apr. 1454, dopo il fallimento delle trattative che si erano protratte a Roma dal novembre 1453 al marzo dell'anno successivo. Nel maggio furono inviati a Venezia due ambasciatori milanesi, il C. e Niccolò Arcimboldi; questi, recatisi a Ferrara, vi attesero gli oratori fiorentini, dirigendosi quindi insieme a loro verso la città lagunare. Qui, dopo trattative piuttosto laboriose, si giunse il 30 agosto alla stipulazione dell'importante accordo che va sotto il nome di lega italica.

Fu questa l'ultima missione diplomatica del C., che successivamente troviamo nominato soltanto incidentalmente nell'aprile del 1457 a proposito di una delibera sulle modalità dell'elezione dei deputati degli ospedali. Morto il 14 maggio 1460 nel suo castello di San Martino di Mozzate, il C. fu ricordato in una lapide apposta in suo onore nel 1590 da un suo discendente nella chiesa di S. Francesco in Milano.

Sposato, almeno dal 1436, ad Antonia Carmagnola, primogenita del celebre condottiero, ne aveva avuto sette figli.

Il C., che, come si è visto, ebbe per circa un trentennio un'attività pubblica di primo piano, fu anche in relazione con i maggiori letterati del tempo. Il Panormita lo indicava come uno dei suoi protettori. Francesco Filelfo ne fece uno dei suoi "collocutores" nel suo secondo convivio (Convivia Mediolanensia, [Milano] 1483-84: Indice gen. degli Incunaboli..., n. 3881). Pier Candido Decembrio, che lo teneva informato dei suoi lavori, gli dedicò il suo Grammaticon (in un primo tempo dedicato a Niccolò Arcimboldi), rimasto quasi inedito. Anche Antonio da Rho lo pose fra gli interlocutori dei suoi, peraltro non molto apprezzati, dialoghi De Lactantii erratis. Biondo Flavio gli inviò in visione, alla fine del 1442, undici dei dodici libri in cui aveva compendiato la storia d'Italia dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti. Il C., che fu umanista di un certo valore, possedeva una cospicua biblioteca che è andata perduta. Oltre ai discorsi di cui si è già data notizia, il C. compose un'epistola consolatoria all'abate di S. Ambrogio, Antonio Riccio, per la morte del di lui fratello Zanino, nel 1428, inedita, conservata alle cc. 114v-115v del codice Sussidio H 52 della Biblioteca Ambrosiana; un'orazione funebre per il card. Branda da Castiglione (4 febbr. 1443), inedita nel cod. B 124 sup., cc. 105-111, della stessa biblioteca; ed un'orazione in lode del matrimonio, inedita a c. 8r del cod. 2387 della Bibl. univers. di Bologna.

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