GUERRA MONDIALE

Enciclopedia Italiana (1933)

GUERRA MONDIALE

Augusto TORRE
Alberto BALDINI
Adriano ALBERTI
Francesco CUTRY
Romeo BERNOTTI
Gino LUZZATTO
Rodolfo BENINI

MONDIALE La grande conflagrazione 1914-18.

Sommario. - Storia politico-diplomatica: Il sistema bismarckiano (p. 95); La Duplice (p. 95); Trattative anglo-tedesche (p. 95); Accordi Italia-Francia e intesa anglo-francese (p. 96); Crisi di Algeciras (p. 96); Intesa anglo-russa (p. 97); Crisi della Bosnia-Erzegovina (p. 97); Rivalità navale anglo-tedesca e seconda crisi marocchina (p. 98); Guerre balcaniche (p. 99); Sarajevo (p. 99); L'ultimatum austriaco e l'Intesa (p. 100); Mobilitazioni e dichiarazioni di guerra (p. 101); Alla ricerca di alleati (p. 102); L'intervento dell'Italia (p. 102); L'intervento della Bulgaria, della Grecia e della Romania (p. 103); Neutri (p. 104); Scopi di guerra e prime proposte di pace (p. 104); Crollo della Russia e intervento americano (p. 105); Tentativi di pace del 1917 (p. 105); Gli armistizî (p. 105); La conferenza di Parigi (p. 106). - Sguardo generale delle operazioni militari: Piani di guerra (p. 106); Le vicende della guerra nel 1914 (p. 107); Le vicende della guerra nel 1915 (p. 108); Le vicende della guerra nel 1916 (p. 109); Le vicende della guerra nel 1917 (p. 110); Le vicende della guerra nel 1918 (p. 111); La guerra nelle colonie (p. 112); Le dichiarazioni di guerra. - Le operazioni militari sulle fronti francese, russa, balcanica e in Asia Minore: Gli eserciti belligeranti (p. 112); I piani d'operazione (p. 113); La conquista di Liegi (p. 116); L'avanzata tedesca (p. 116); Offensiva francese in Alsazia (p. 117); Offensiva francese in Lorena (p. 117); Battaglia delle Ardenne (p. 117); Battaglia di Charleroi (p. 117); L'invasione della Francia (p. 118); Battaglia della Marna (p. 118); Battaglia dell'Aisne (p. 119); Le operazioni nella Prussia orientale (p. 119); Le operazioni contro la Serbia (p. 120); Le prime operazioni austro-russe (p. 121); La fronte occidentale sino alla fine del 1914 (p. 121); La campagna d'autunno alla fronte russa (p. 122); Risultato delle lotte del 1914 (p. 123); 1915: l'offensiva russa contro l'Austria (p. 123); Battaglia d'inverno in Masuria (p. 123); La guerra di trincea sulla fronte occidentale (p. 123); La spedizione dei Dardanelli (p. 124); Lo sviluppo degli eserciti belligeranti (p. 124); L'offensiva austro-tedesca sulla fronte orientale (p. 124); Le operazioni in Francia nella primavera-autunno (p. 126); Campagna contro la Serbia (p. 126); Le operazioni nel 1916 (p. 127); Verdun (p. 128); L'offensiva di Brusilov (p. 129); Battaglia della Somma (p. 130); La campagna di Romania (p. 131); Situazione politico-militare alla fine del 1916 e piani per il 1917 (p. 132); Le operazioni del 1917: l'attacco Nivelle (p. 132); La battaglia delle Fiandre (p. 134); La fronte russo-romena nel 1917 (p. 134); Situazione militare all'inizio del 1918 (p. 136); L'offensiva del marzo (p. 137); Seconda offensiva tedesca (p. 137); La terza offensiva tedesca (p. 137); La seconda battaglia della Marna (p. 139); Contrattacco degli Alleati (p. 140); L'offensiva degli Alleati (p. 140); Il crollo bulgaro (p. 141); Le operazioni in Asia nel 1917-18 e la resa della Turchia (p. 141); L'offensiva generale degli Alleati dal 26 settembre al 16 ottobre 1918 (p. 142); Guerra aerea (p. 143). - Le operazioni militari alla fronte italiana: Le forze contrapposte (p. 144); Il teatro d'azione (p. 145); I piani d'operazione (p. 146); Il primo sbalzo (p. 147); La prima battaglia dell'Isonzo (p. 148); Seconda battaglia dell'Isonzo (p. 149); Terza e quarta battaglia dell'Isonzo (p. 149); Nella zona montana (p. 151); L'inverno del 1915 (p. 152); La primavera del 1916 (p. 152); L'offensiva austriaca in Trentino (p. 153); La battaglia di Gorizia (p. 155); Settima, ottava e nona battaglia dell'Isonzo (p. 156); Il secondo inverno di guerra (p. 158); La situazione politico-militare alla fine del 1916 (p. 158); La decima battaglia dell'Isonzo (p. 159); La battaglia dell'Ortigara (p. 160); L'undicesima battaglia dell'Isonzo (p. 160); L'attacco sul San Gabriele (p. 163); La dodicesima battaglia dell'Isonzo (p. 164); La battaglia d'arresto sugli Altipiani, sul Grappa e sul Piave (p. 166); La ricostruzione (p. 168); La battaglia del Piave (p. 169); La battaglia di Vittorio Veneto (p. 171); Da Villa Giusti a Saint-Germain (p. 175); Guerra aerea (p. 176). - La guerra mondiale sul mare: a) Mare del Nord: La situazione anglo-tedesca all'inizio del conflitto (p. 178); Le prime settimane di guerra (p. 179); Dall'autunno del 1914 al principio del 1916 (p. 180); Le grandi operazioni del 1916 (p. 181); Dal 1917 alla fine della guerra (p. 182); b) Mar Baltico: La situazione russo-tedesca all'inizio del conflitto (p. 183); La guerra fino al 1916 (p. 184); Durante la rivoluzione russa (p. 185); c) Oceani: La situazione all'inizio del conflitto (p. 185); La squadra tedesca di crociera (p. 185); Gl'incrociatori corsari (p. 186); Il dominio degli oceani (p. 186); d) Mediterraneo: Situazione all'inizio del conflitto (p. 186); Le prime ostilità (p. 187); Operazioni nel Mediterraneo orientale (p. 187); e) Adriatico: Durante la neutralità italiana (p. 189); Situazione marittima italo-austriaca (p. 190); Dall'intervento dell'Italia (p. 191); f) Mar Nero: Situazione marittima turco-russa (p. 196); Le prime ostilità (p. 196); La guerra nel 1915 (p. 196); Durante la rivoluzione russa (p. 197); g) Guerra sottomarina: Origini della guerra sottomarina al traffico (p. 197); La guerra limitata: 1915-16 (p. 198); La guerra senza restrizioni: 1917-18 (p. 199); Cooperazione aereo-marittima (p. 200). - La guerra nei rapporti economico-finanziarî: La guerra e la popolazione (p. 201); Il costo e le finanze di guerra (p. 201); La guerra e l'agricoltura (p. 202); La guerra e l'industria (p. 203); La guerra e il commercio internazionale (p. 204); La politica dei consumi e in generale la politica economica di guerra (p. 205). - I danni di guerra (p. 205). - Bibliografia (p. 207).

I nomi di luogo sono dati, in linea generale, nella forma usata nelle pubbicazioni ufficiali dell'epoca. Si sono aggiunti fra parentesi, nei casi in cui era utile farlo, i nomi odierni.

Storia politico-diplomatica.

Il sistema bismarckiano. - La politica europea, nel periodo che va dal trattato di Francoforte (10 maggio 1871) fino al 1890, è, in certo senso, dominata dall'impero tedesco o, meglio, dal suo cancelliere, il principe di Bismarck, tutto intento a rafforzare all'interno e a difendere da pericoli esterni la Germania. Era necessario, a tale scopo, che la Germania non venisse coinvolta in un conflitto. E poiché il pericolo immediato poteva venire dalla Francia, Bismarck cercò d'isolarla, contraendo amicizie e alleanze con le grandi e piccole potenze europee, Austria, Italia, Russia, Romania, Inghilterra, Serbia e Spagna. Cercò anche ravvicinarsi ad essa, favorendone e incoraggiandone le conquiste coloniali. Ma la Francia non aveva dimenticato l'Alsazia e la Lorena, e, nell'aspirazione alle perdute provincie, si esprimeva il desiderio di riacquistare l'antica supremazia. All'invito di Bismarck di "perdonare Sedan, come aveva perdonato Waterloo", la Francia contrappose il suo programma di "pacificare il presente e riservare l'avvenire", e l'ambasciatore francese a Berlino, barone de Courcel, nel momento delle massime cortesie franco-tedesche dichiarò che tra Francia e Germania "non si sarebbe mai potuto discutere né dell'Alsazia né della Lorena", dominio riservato per gli uni e per gli altri, non suscettibile mai di accordo amichevole.

La repubblica si volse perciò a cercare alleati. E pose gli occhi sopra la Russia, con la quale Bismarck, scaduto nel 1887 il trattato di alleanza del 1881 fra i tre imperatori a causa delle discordie balcaniche tra Vienna e Pietroburgo, si era dovuto accontentare di un semplice trattato di contrassicurazione: che fu come aprire una breccia nel suo sistema di relazioni internazionali; poiché con una Germania così strettamente collegata all'Austria e amica dell'Inghilterra, la Russia cominciò a sentirsi isolata e a vagheggiare un ravvicinamento con la Francia. Per allora, nulla si conchiuse, se non un prestito francese alla Russia (1888). Ma, presentendo il pericolo, Bismarck, nel gennaio del 1889, propose all'Inghilterra un'alleanza per la mutua assistenza in caso di un attacco della Francia: alleanza che avrebbe assicurato la pace, perché "né la Francia né la Russia l'avrebbero rotta, qualora avessero saputo con certezza di aver contro l'Inghilterra". Salisbury non disse né sì né no; e l'alleanza sfumò. In fondo, Bismarck non voleva che l'accordo fosse contro la Russia, né che la Germania diventasse l'avamposto dell'Inghilterra sul continente; mentre, a Londra, proprio questo si attendeva dall'accordo.

La duplice. - Viceversa, caduto Bismarck (18 marzo 1890), non rinnovato il trattato di contrassicurazione della Germania con la Russia, Russia e Francia conchiusero esse, nell'agosto 1891, una intesa politica; nell'agosto dell'anno successivo, una convenzione militare, diretta soprattutto contro la Germania; e finalmente, tra il dicembre del 1893 e l'inizio del 1894, una vera e propria alleanza. Alla fase dell'egemonia della Germania succedeva, in tal modo, una fase di maggiore equilibrio. E tuttavia la Triplice alleanza sempre prevaleva. Essa poteva contare sulla simpatia dell'Inghilterra. La Germania riuscì poi a conchiudere un trattato commerciale con la Russia, e la morte di Alessandro III e la nomina di Hohenlohe a cancelliere germanico, valsero a ristabilire relazioni cordiali fra i due paesi. S'aggiunga che la Russia, datasi in quel tempo alla politica di espansione in Estremo Oriente, dimenticava un poco la Penisola Balcanica, gli attriti con la Germania e le rivendicazioni francesi. Viceversa, s'inasprirono, in conseguenza della Duplice, i contrasti coloniali della Francia e della Russia con l'Inghilterra. Questa, con il suo vasto impero, sparso in tutto il mondo, presentava vaste e numerose superficie di attrito: se resisteva in un punto, doveva cedere in un altro, e poteva andare incontro a spiacevoli sconfitte diplomatiche, ogni volta che si fossero trovate coalizzate due potenze continentali. Aveva già fatto diverse esperienze in proposito, specialmente nella questione dell'Egitto. Solo che maturava, intanto, un mutamento di direttive nella politica inglese. Non vi erano solo le controversie con la Russia e la Francia; ma anche la "Weltpolitik" della Germania cominciava a produrre i primi attriti con l'Inghilterra, la quale sempre più avvertiva gl'inconvenienti del suo "splendido isolamento". Ciò fu specialmente verso il 1898, quando si acuì il contrasto dell'Inghilterra con le repubbliche sudafricane; quando la Germania occupò Kiao-chow, possibile preludio a una spartizione della Cina; quando la Russia si impadronì di Port-Arthur, minacciando Pechino sfidando gl'interessi inglesi in Cina; quando la Francia si preparava a creare nuove difficoltà sull'Alto Niger e nel Sudan. Perciò fra gl'Inglesi si cominciò a pensare se non fosse meglio abbandonare lo "splendido isolamento". Ma questo pensiero era ancora di pochi: ciò che spiega come l'iniziativa non partisse dall'intero governo inglese e come i primi passi fossero lenti e incerti.

Trattative anglo-tedesche. - Fallita un'intesa anglo-russa sui problemi cinese e turco, si hanno le trattative con la Germania, svoltesi in varie riprese, dal 1898 al 1901. In un primo tempo furono condotte da Joe Chamberlain, ministro delle Colonie, e perciò più degli altri sensibile ai pericoli che le minacciavano; mentre la maggioranza dei ministri era riluttante a un'intesa con la Germania. Nel 1901 le trattative vennero condotte proprio dal ministro degli Esteri, con l'approvazione della maggioranza dei ministri; e vennero perfino preparati dei progetti. Un'alleanza con la Germania, nelle intenzioni inglesi, doveva servire soprattutto a contenere l'avanzata russa in Asia. Per raggiungere questo scopo, probabilmente non era necessario arrivare fino alla guerra, perché Russia e Francia non avrebbero sfidato un blocco così formidabile. Da parte dell'Inghilterra si manifestò chiara l'intenzione di arrivare a un accordo con l'uno o con l'altro gruppo. In Germania gli uomini che dirigevano la politica estera - Guglielmo II, Bülow, Holstein - non erano neanche essi alieni da un'alleanza con l'Inghilterra; e l'iniziativa, infatti, venne più volte da essi. Molte considerazioni, è vero, li rendevano esitanti. L'alleanza con l'Inghilterra avrebbe messo automaticamente la Germania contro la Duplice, e specialmente contro la Russia; avrebbe arrestato l'azione della Russia in Asia e richiamato la sua attenzione alle questioni europee, cioè gli Stretti e la Penisola Balcanica, avrebbe riattizzato il conflitto russo-austriaco. E tutto ciò non era nell'interesse della Germania. D'altra parte, in caso di guerra, la Germania avrebbe dovuto sostenere quasi da sola, su due fronti, l'urto dei due eserciti, mentre i vantaggi della vittoria sarebbero andati quasi tutti all'Inghilterra. Non si può negare che queste considerazioni contrarie all'alleanza fossero giuste. Dove i Tedeschi errarono fu nella valutazione dei motivi a favore dell'accordo. Essi non credevano alla possibilità di un'intesa dell'Inghilterra con la Russia e la Francia. Si ritenevano sicuri, anzi, che l'opposizione Inghilterra-Duplice sarebbe con il tempo cresciuta, e che l'Inghilterra sarebbe stata costretta a fare più larghe offerte. Allora la Germania avrebbe potuto dettare le sue condizioni. In tal modo, conchiusero che per il momento la più saggia politica fosse quella di mantenersi neutrali fra i due gruppi e non disgustare la Russia. In altre parole, la Germania sceglieva la via dell'isolamento: quella via che l'Inghilterra stava per abbandonare. In questa imperfetta ed erronea valutazione della situazione e dei suoi possibili sviluppi, sta appunto l'errore dei politici tedeschi. Inoltre, trascurarono un altro fattore: l'Italia. Questa, per la sua speciale posizione nel Mediterraneo, non avrebbe mai potuto schierarsi contro quel gruppo al quale appartenesse l'Inghilterra. Lo aveva espressamente dichiarato nel 1896, quando chiese che nel patto della Triplice fosse inclusa una clausola di salvaguardia: cioè, nessun obbligo d'intervenire contro l'Inghilterra. La clausola non fu accolta nel patto, ma non per ciò il problema era risolto. Voleva dire che, in caso di conflitto con l'Inghilterra, la Germania non avrebbe potuto contare più sull'Italia.

L'errore tedesco lo si vide subito. Infatti, sfumate le possibilità di un accordo con la Germania, l'Inghilterra accolse con favore gli approcci del Giappone, preoccupato per l'avanzata russa verso il Mar Giallo; e fu conclusa l'alleanza del 30 gennaio 1902, che permise al Giappone di battere la Russia e arrestarla nella sua marcia verso l'est, ricacciandola verso l'Europa e la sua politica. L'Inghilterra fu così libera da ogni preoccupazione per l'Estremo Oriente: e questo, senza il concorso della Germania della quale non aveva più bisogno. Poteva con calma mettersi a tessere gli accordi futuri: innanzi tutto con la Francia.

Accordi Italia-Francia e intesa anglo-francese. - E in questo senso Inghilterra e Francia si misero al lavoro. Prima, tuttavia, che maturasse questo accordo, la Francia poté in più diretto modo indebolire la posizione della Triplice: ravvicinandosi all'Italia. Le prime basi si erano gettate dopo la caduta di Crispi. Nel 1896, convenzione per Tunisi; nel 1898, conclusione di un trattato commerciale che chiudeva una lunga guerra di tariffe; nel dicembre 1900, accordo segreto, con il riconoscimento italiano delle aspirazioni francesi sul Marocco e con il riconoscimento francese delle aspirazioni italiane su Tripoli; novembre 1902, accordo con cui l'Italia s'impegnava alla neutralità in caso che la Francia fosse attaccata da una o più potenze, oppure costretta a rispondere con la guerra a una provocazione. Nessun contrasto giuridico fra questi accordi e quelli della Triplice; ma era chiaro che l'Italia non sarebbe stata con la Triplice in ogni caso. Intanto, per opera precipua di Delcassé, secondato da Edoardo VII e Lansdowne, venne conclusa e pubblicata l'intesa cordiale tra Francia e Inghilterra dell'8 aprile 1904, proprio quando in Oriente gli alleati dell'una e dell'altra, cioè Russia e Giappone, erano alle prese (v. francia: Storia). Con questo accordo, si regolavano le varie questioni che avevano sempre mantenuto l'attrito e qualche volta le ostilità fra le due potenze, e cioè Egitto, Marocco, Siam, Nuove Ebridi, Madagascar, pesca di Terranova, confini nell'Africa Occidentale, ecc.; si dava libertà d'azione all'Inghilterra in Egitto, grande punto di attrito anglo-francese, e libertà alla Francia nel Marocco, preda ambitissima, che ora fu posto sotto il protettorato francese, mentre l'Inghilterra si assicurava che quel tratto di costa marocchina che era di fronte a Gibilterra e perciò interessava la via marittima delle Indie, fosse assegnato alla Spagna, nazione debole e perciò poco pericolosa. L'importanza dell'accordo - come dichiarò Lansdowne - non era tanto nelle clausole particolari, quanto e soprattutto nella circostanza che "essi facevano parte di uno schema sintetico, diretto al miglioramento delle relazioni internazionali fra le due grandi nazioni"; e nella coscienza diffusa che, ormai, le "antipatie e i sospetti del passato fossero completamente superati". Era un risultato che cambiava la situazione europea, e poiché l'intesa cordiale, già nelle intenzioni di quelli che la stipularono, doveva avere il suo complemento nel comprendere anche la Russia, ne risultava che i vecchi avversarî venivano a formare un gruppo solo. La Germania non poteva più contare sulle loro rivalità.

Di fronte a questi avvenimenti non pare che gli uomini politici tedeschi, salvo, un poco, Guglielmo II, si allarmassero. Essi ritennero, anzi, che l'Intesa, non potendosi colmare l'abisso fra Russia e Inghilterra, avrebbe piuttosto indebolito che rafforzata l'alleanza franco-russa; e d'altra parte, l'Inghilterra, raggiunti i suoi scopi, non si sarebbe mai mossa per la Francia. E certo, in quel momento, la guerra russo-giapponese non era fatta per pronosticare il riavvicinamento della Russia all'alleata del suo nemico. Anche dalla Francia non vennero aiuti alla Russia, mentre la Germania mise a disposizione della flotta russa i suoi porti e le sue stazioni carbonifere. Quindi la Germania pensò che fosse facile attrarre la Russia nella sua orbita, e, per mezzo della Russia, anche la Francia; dando vita così a una lega, in cui essa avrebbe avuto la preponderanza. Questo progetto, accarezzato soprattutto dall'imperatore, sembrò vicino a realizzarsi quando gli riuscì di concludere con lo zar il trattato di Björkö, del 24-25 luglio 1905. Ma ben presto fu evidente che un'alleanza fra la Germania e la Francia era impossibile, e che la Russia non voleva abbandonare la Francia, specialmente dopo che, sconfitta nell'Estremo Oriente, la Russia fu risospinta verso i suoi fini europei, per i quali aveva più che mai bisogno dell'appoggio francese e magari di quello inglese.

Crisi di Algeciras. - Frattanto, l'accordo dell'8 aprile provocò la prima crisi marocchina. Il Marocco, ultimo territorio africano ancora libero, poteva offrire ampie possibilità all'espansione tedesca. Ma la "penetrazione pacifica" della Francia e le riforme che essa avrebbe imposto al sultano escludevano praticamente ogni nazione dalle concessioni statali (miniere, strade, ferrovie, porti, ecc.). La Germania, da principio, approfittando della circostanza che non le era stato comunicato l'accordo marocchino, mantenne un atteggiamento "da sfinge". Ma quando la Francia passò all'azione, inviando una missione a Fez, allora Bülow persuase l'imperatore, riluttante, a sbarcare a Tangeri, durante il viaggio nel Mediterraneo. E l'imperatore, nella visita del 31 marzo 1905, dichiarò all'inviato del sultano e ai diplomatici stranieri che egli considerava quel principe come completamente indipendente. Era nelle intenzioni tedesche, che ciò potesse indurre la Francia a entrare in quella lega continentale che Guglielmo II si proponeva. Ma né Francia, né Inghilterra vollero sottostare a una tale intimazione. L'Inghilterra sospettò che la Germania mirasse a un porto marocchino, con pericolo delle sue comunicazioni marittime. Pensò, anche, con la Francia, che la Germania volesse approfittare della momentanea impotenza della Russia per provocare una guerra con la Francia e schiacciarla completamente. Infatti, Rouvier non riuscì a indurre il governo tedesco ad accordi, né offrendo un regolamento definitivo di tutte le questioni coloniali, con adeguati compensi alla Germania, né sacrificando il ministro degli Esteri, autore dell'Intesa, Delcassé. La Germania insistette perché la questione marocchina fosse regolata da una conferenza internazionale.

I risultati pratici di questa inabile condotta furono il rafforzamento dell'Intesa anglo-francese. Nell'aprile 1905 il governo inglese propose a quello francese di "concertare le misure da prendersi per opporsi a una tale eventualità": misure non solo diplomatiche, ma suscettibili di condurre a "complicazioni internazionali". Alla fine di maggio, temendo che la Francia comprasse l'acquiescenza tedesca con concessioni dannose agl'interessi inglesi, cercò di rafforzare la resistenza francese con il proporre, fra i due governi, la massima confidenza e, se possibile, una discussione, in precedenza, "di tutte le possibilità, di fronte alle quali potessero trovarsi nel corso degli avvenimenti". Con queste proposte l'Inghilterra dimostrava chiaramente la sua intenzione di non arretrare neppure di fronte alla guerra. All'avvicinarsi della conferenza di Algeciras, le prospettive erano ancora oscure. Che cosa sarebbe successo, se falliva? Perciò il governo francese chiese all'Inghilterra se "era disposta a dare il suo aiuto militare in caso di aggressione tedesca contro la Francia". Il governo inglese si rifiutò di prendere un impegno così preciso, ma non trascurò di prepararsi a tale eventualità. Già sotto Lansdowne vi erano state dirette conversazioni fra le autorità navali dei due paesi. Ora Grey autorizzò anche le autorità militari inglesi a prendere contatto con quelle francesi, per una cooperazione dei due eserciti in caso di guerra. Si studiò accuramente, anche con le autorità belghe, la questione di uno sbarco e dell'impiego di un corpo spedizionario inglese di 80 mila uomini.

Da allora Haldane si dedicò tutto alla riorganizzazione dell'esercito inglese, uomini e materiale; da allora gli studî dello Stato Maggiore inglese partirono dal presupposto che le forze britanniche avrebbero combattuto a fianco di quelle francesi e contro quelle tedesche. Fu espressamente convenuto - è vero - che queste "conversazioni" militari non impegnavano affatto i governi e che servivano solo a evitare perdite di tempo in caso di bisogno. Ma il loro pericolo consisteva nel fatto che "incoraggiavano" la Francia a contare sull'aiuto inglese, e a preparare i suoi piani basandosi su quella supposizione: così poi riconobbero Asquith e Grey. In ogni modo, Grey, che da ora guiderà la politica estera inglese fino al 1916, pur avverso, come i suoi colleghi, a impegni precisi, che avrebbero potuto trascinare in un conflitto contrario o non conforme agl'interessi inglesi, tuttavia era convinto che l'Inghilterra sarebbe stata costretta in caso di guerra franco-tedesca a intervenire. Così, in seguito alla crisi marocchina, l'Inghilterra sempre più si avvicinò ai nemici della Germania e tutta l'Intesa fu rafforzata. Quando la firma della convenzione di Algeciras chiuse il primo capitolo del conflitto per il Marocco, l'Intesa anglo-francese aveva acquistato un significato diverso da quello che aveva al momento del suo inizio. Da un amichevole accordo su singole questioni si era passati a un'intesa specifica per la comune resistenza a imposizioni e aggressioni esterne, a una coincidenza d'interessi speciali, la quale tendeva a svilupparsi nell'"attiva cooperazione contro una terza potenza" (Crowe), che era la Germania. L'indirizzo antitedesco ormai preso dalla politica inglese lo si vide anche nel corso di quell'anno. Invano i dirigenti tedeschi fecero approcci per un'intesa con l'Inghilterra. Quali opinioni prevalessero qui, appare da un lungo memorandum di un alto funzionario, le cui opinioni anche in seguito pesarono molto sulle decisioni del governo, e approvato anche da Grey. In esso, sir Eyre Crowe faceva una tremenda requisitoria contro la Germania, accusandola di aspirare al predominio mondiale e di minacciare perciò gl'interessi inglesi. Donde la necessità della resistenza e della solidarietà con l'Intesa.

Intesa anglo-russa. - S'iniziò così il riavvicinamento anglo-russo. Vi si pensava fino dal 1903. La guerra russo-giapponese impedì, da principio, ogni attuazione; l'affrettò più tardi, quando la sconfitta russa liberò l'Inghilterra da qualsiasi preoccupazione in Estremo Oriente. Le divergenze nell'Asia centrale erano piccola cosa, di fronte ai pericoli della concorrenza commerciale tedesca, della crescente flotta da guerra tedesca, dei piani pangermanisti tedeschi, i quali miravano anche a un dominio diretto o indiretto delle coste belghe e olandesi. Si temeva a Londra che l'ambizioso programma navale della Germania fosse destinato a contrastare la supremazia navale inglese e, in combinazione con le sue immense forze militari, a conseguire il predominio in Europa (S. C. Hardinge). Di qui il pensiero di arrivare a un'intesa con la Russia. La quale, indebolita dalla guerra russo-giapponese e dalla rivoluzione, aveva bisogno di un lungo periodo di pace, in Europa e dalla parte del Giappone. Ora, il mezzo migliore era un accordo con l'Inghilterra. Anche perché, respinta dall'Asia, la Russia si volgeva verso i problemi balcanici e verso la Turchia. Ora l'Inghilterra aveva fin dal 1895 abbandonato il dogma dell'integrità dell'impero ottomano, mentre la Germania, oltre che fedele alla sua alleata Austria, era anche, con l'inizio della sua politica di sfruttamento economico dell'Asia Minore, interessata al mantenimento e al rafforzamento della Turchia. Tutti questi motivi facilitarono le trattative e condussero all'accordo del 31 agosto 1907 - di poco preceduto da un accordo franco-giapponese (10 giugno) e russo-giapponese (30 luglio) - con il quale si regolavano le questioni asiatiche, cioè Tibet, Afghānistān, Persia. L'intesa anglo-russa, come già quella anglo-francese, regolava questioni particolari; ma essa significava più che altro l'attenuarsi di quella rivalità che sembrava radicata nella natura delle cose. L'Europa risultava così divisa in due soli gruppi di potenze contrapposte se non già apertamente ostili: quelli che poi si combatteranno nel 1914. Scomparso l'antagonismo anglo-francese e quello più forte anglo-russo, la posizione della Germania era enormemente indebolita: essa non era più arbiter mundi, come si era espresso Bülow. La sua politica delle "mani libere" era fallita. L'equilibrio europeo si era spostato a favore dell'Intesa, che ora aveva un'innegabile preponderanza, dato che anche l'Italia difficilissimamente si sarebbe, in caso di guerra, schierata contro l'Inghilterra. Inoltre l'Intesa, per i motivi che la avevano creata, era nettamente antitedesca. Nelle questioni dell'Alsazia-Lorena, del Marocco, del prossimo Oriente, della competizione navale, essa era in diretta opposizione alla Germania.

Crisi della Bosnia-Erzegovina. - Con tutto questo, la pace poté essere conservata ancora per sette anni. Innanzi tutto, mancava ancora, nonostante gli accordi, unità d'azione fra le potenze dell'Intesa. Altri problemi erano da regolare, prima che esse fossero disposte a impegnarsi all'azione: p. es., quello degli Stretti. Né Inghilterra e Francia, poi, erano disposte ad appoggiare le mire russe sulla Penisola Balcanica, se contemporaneamente non veniva risolta la questione dell'Alsazia-Lorena o quella della concorrenza commerciale e navale della Germania. E poi, quel che più conta, l'Intesa non era ancora preparata a combattere contro gl'Imperi centrali. Lo ricordava nel 1906 e nel 1908 lo stesso Grey. E il sottosegretario inglese Hardinge, nel giugno di questo stesso anno, dichiarava a Izvol′skij: "fra sette o otto anni, può sorgere una situazione critica, in cui la Russia, se forte in Europa, può essere l'arbitra della pace e avere, nell'assicurare la pace nel mondo, una influenza molto maggiore di qualsiasi conferenza dell'Aia". Appunto per questo, l'Inghilterra, fin dal 1908, consigliò alla Russia "di dedicare tutte le sue energie all'esercito" e di fortificare più che fosse possibile il confine occidentale contro la Germania. Così si spiega come le varie crisi che turbarono l'Europa dopo il 1908 non portarono mai alla guerra: esse tuttavia scavarono sempre più il fossato che divideva i due gruppi di potenze.

La prima di queste crisi fu suscitata dalla questione della Bosnia-Erzegovina. Creavano tale questione il progressivo indebolimento dell'impero turco, che ne faceva prevedere la fine, almeno come potenza europea; il movimento delle nazionalità nella Penisola Balcanica; la secolare aspirazione russa al dominio degli Stretti, porte del Mediterraneo. Non essendo tale aspirazione realizzabile d'un colpo, la Russia faceva una politica di favore per le nazionalità balcaniche. Ma a questa politica si contrapponeva quella dell'Austria, interessata allo statu quo, perché non ricevessero offesa i suoi interessi sulla costa albanese e le sue comunicazioni con l'Egeo; non sorgessero movimenti irredentistici nelle sue provincie meridionali, abitate da Slavi; non fosse promossa una egemonia russa nella penisola. Tuttavia, la rivoluzione giovane-turca del luglio 1908, in quanto poteva rafforzare l'impero ottomano e quindi, da una parte, contrastare gli obiettivi russi e dall'altra ritogliere all'Austria l'amministrazione della Bosnia-Erzegovina, provocò uno scambio di idee fra Izvol′skij e Aehrenthal, ministri degli Esteri di Russia e Austria, per cui quello propose a questo di annettersi la Bosnia-Erzegovina e, in cambio, riconoscere alle navi da guerra russe il diritto di transito per gli Stretti. La proposta, fatta in luglio, venne discussa a Buchlau (Buchlovice) il 16 settembre, in un convegno fra i due ministri, i quali parvero d'accordo. Allora il ministro russo credette di aver vinto la maggiore difficoltà e cercò assicurarsi anche il consenso degli altri governi europei. A Parigi, dove non si vedeva di buon occhio che la Russia raggiungesse troppo presto i suoi obiettivi, la proposta fu accolta apparentemente con "simpatia", ma in realtà con freddezza. Peggio fu a Londra, dove sempre si temeva per la via marittima delle Indie. Quel governo si mostrò favorevole "in linea di principio"; ma dichiarò la questione troppo complessa e il momento non opportuno. Perciò, mentre l'Austria, con il decreto imperiale del 7 ottobre 1908, annunziava a tutte le potenze europee l'annessione delle due provincie, Izvol′skij vide il suo piano andare a monte a causa dell'opposizione inglese.

Di fronte al pericolo di una disfatta diplomatica, il ministro russo rivolse tutta la sua ira contro Aehrenthal, che accusò di slealtà, e giunse perfino a negare gli accordi di Buchlau. Cercò quindi di sfruttare l'indignazione suscitata specialmente in Francia e in Inghilterra dall'annessione, per creare difficoltà all'Austria: e propose che la questione venisse sottoposta a una conferenza europea. Ancora maggiore indignazione si ebbe in Serbia, dove, in seguito al cambiamento di dinastia del 1903, si era cominciato ad accarezzare l'idea di una "Grande Serbia", comprendente anche le provincie slave dell'impero asburgico. Per l'effettuazione di questo programma occorreva l'aiuto russo: e la Serbia, infatti, si era da allora riavvicinata alla Russia, svolgendo un'attiva propaganda nelle provincie austriache e determinando da parte dell'Austria processi e repressioni, nonché provvedimenti avversi al commercio serbo. Ora, l'annessione della Bosnia-Erzegovina sollevò in Serbia una fiera tempesta: dimostrazioni contro l'Austria, un principio di mobilitazione, ecc. Poteva essere la guerra: e non solo guerra locale. Ma la Russia non era preparata militarmente. Dové cedere e consigliare alla Serbia di fare altrettanto. Così la Serbia riconosceva il fatto compiuto e s'impegnava a vivere in buoni termini con l'Austria (31 marzo 1909). Contribuì a questi risultati anche l'atteggiamento della Germania. Neppure qui l'annessione incontrò favore; e specialmente irritato ne fu l'imperatore che temette, fra l'altro, un indebolimento della posizione tedesca a Costantinopoli. Ma Bülow, credendo di vedere nell'Austria l'unico alleato fedele che rimanesse alla Germania, si persuase che si dovesse, per non perderla, appoggiarla energicamente, anche a costo di accrescere l'ostilità russa. E così fu fatto, costringendo la Russia a cedere. Tutto questo rese più difficili i rapporti fra i due gruppi di potenze; diede motivo di sospettare che la Germania, che pure non conosceva il programma austriaco, ma che poi premé perché fosse sanzionato il fatto compiuto, avesse incoraggiata la sua alleata all'azione; suscitò in tutta l'Europa maggiore diffidenza verso i metodi della diplomazia austriaca. Senza contare che lo scopo primo e massimo dell'iniziativa austriaca era di stroncare le aspirazioni e, conseguentemente, la propaganda serba, con il sopprimere l'equivoco della sovranità turca; e questo scopo fallì. La Serbia non dimenticò le sue provincie e intensificò la sua propaganda, incoraggiata dalla Russia. Ripercussioni sfavorevoli si ebbero anche in Italia, che aspirava a espandersi economicamente nei Balcani e quindi vedeva male ogni aumento di potenza austriaca in quella regione. Così l'annessione concorse anch'essa a raffreddare i rapporti fra le due alleate. Più grave il contraccolpo in Russia, che vide nella Triplice, o, meglio, nella Germania e nell'Austria i soli ostacoli alla sua politica balcanica e sentì più che mai urgente la necessità di organizzare le forze militari e avvicinarsi più strettamente alle altre due potenze dell'Intesa.

Rivalità navale anglo-tedesca e seconda crisi marocchina. - Intanto era sopraggiunto un altro fatto ad approfondire il dissidio fra i due gruppi di potenze e più specialmente fra la Germania e l'Inghilterra: gli armamenti navali tedeschi. Con le leggi del 1898 e del 1900 l'imperatore e il suo ammiraglio von Tirpitz avevano gettato le basi di una forte flotta, ritenuta indispensabile, anzitutto come segno della nuova potenza del nuovo impero; poi, come mezzo di protezione del commercio mondiale e degl'interessi coloniali della Germania, come arma di difesa contro un eventuale blocco, come argomento diplomatico nella ricerca di vantaggi commerciali e coloniali. Questa flotta, nelle intenzioni di Tirpitz, anche senza eguagliare quella inglese, doveva costituire un forte rischio per chiunque si attentasse di attaccarla. Sperava di rendere, in questo modo, più conciliante l'Inghilterra. Viceversa l'Inghilterra, nella convinzione che il suo impero coloniale dipendeva dal dominio del mare, si rafforzò nel proposito di mantenere la sua superiorità navale. Cominciò così, dal 1904, la gara delle costruzioni navali. Tentò sì l'Inghilterra, nel 1908-9, per evitare troppo aggravio nei suoi bilanci, di venire a trattative. Ma questi approcci, giunti nel momento in cui le relazioni fra le potenze dell'Intesa erano particolarmente cordiali e perciò la Germania sentiva sempre più il suo isolamento e cominciava a nutrire serî timori di essere accerchiata, vennero considerati come un tentativo inglese di tenere in scacco la Germania; anzi, come ingiustificata ingerenza nella politica interna tedesca, quasi atto provocatorio di guerra. Ché se Bülow, alla fine, spinto dai molti avvertimenti che gli venivano dall'ambasciatore tedesco a Londra, Metternich, acconsentì di venire a un onorevole accordo, non acconsentì Tirpitz, persuaso che non la rivalità navale, come si diceva a Londra, ma quella commerciale e industriale fosse la causa dell'antagonismo. In realtà, le due questioni erano strettamente connesse. Bethmann-Hollweg, successo a Bülow, non fu più fortunato nei suoi tentativi d'accordo.

Nel 1911, seconda crisi marocchina. Nonostante i deliberati di Algeciras, la Francia aveva continuato nella sua azione, per stabilire il suo predominio nel Marocco, cercando di escludere tutti gli altri anche dalle imprese economiche, specie la Germania, malgrado l'eguaglianza di trattamento a questa assicurato dall'accordo 9 febbraio 1909. Il governo tedesco non ostacolò questo lavoro, che solo la forza avrebbe potuto arrestare, ma chiese compensi (marzo 1911). E poiché Parigi non rispose, esso risolse di prendere dei "pegni", e informò gli altri governi di aver deciso l'invio di una cannoniera, la Panther, ad Agadir (10 luglio 1911). Pur senza intenzioni bellicose, la Germania, inserendo nelle trattative diplomatiche un argomento di forza, destò vivo allarme a Parigi e Londra, ove si vide nella mossa tedesca l'intenzione di stabilire una base sulla costa marocchina, cioè "sul fianco delle vie commerciali inglesi", e si ebbe la sensazione ancora più viva di una volontà della Germania di adoperare la propria forza militare e navale per imporsi alle altre nazioni. Perciò il governo di Londra, anche per evitare che Francia e Russia, lasciate sole, si accordassero con la Germania a scapito degli interessi inglesi, ritenne opportuno mantenere la Triplice intesa a ogni costo. E in un discorso pubblico del 21 luglio, approvato in precedenza da Grey e Asquith, Lloyd George proclamò che l'Inghilterra non avrebbe tollerato "di essere lasciata da parte nel concerto delle nazioni", e che "la pace a ogni costo era una formula inaccettabile per un grande paese". Né furono solo parole. Il gen. Wilson concertò con lo Stato Maggiore francese tutti "i più minuti particolari" per l'invio di un corpo di spedizione in Francia; la flotta inglese venne tenuta pronta; ponti e gallerie delle ferrovie inglesi di sud-est vennero guardati giorno e notte. Insomma, per più settimane l'Inghilterra visse aspettando la guerra. Si rinfrancò la Francia, la Germania s'indusse a ridurre le sue pretese, si arrivò all'accordo del 4 novembre 1911, con il quale la Francia, cedendo parte del Congo (275.000 kmq.), acquistò piena libertà al Marocco.

Ma non per questo si pacificarono gli animi. L'Intesa si persuase sempre più che la guerra, inevitabile, era solo questione di tempo: necessario solo che non scoppiasse prima del 1914-15, perché Francia e Russia potessero completare i preparativi militari. In Inghilterra, anzi, diplomatici e militari volevano già allora trasformare l'Intesa in alleanza. La Germania, da parte sua, sentì ancora più l'isolamento, vide nell'intervento inglese la causa della sua sconfitta diplomatica, propugnò nuove costruzioni navali. Di fronte a ciò, Londra pensa di nuovo a un accordo che trova fautori in larghi strati dell'opinione pubblica, in finanzieri e perfino ministri, disposti a riconoscere che la politica inglese aveva attraversato un po' troppo la via della Germania. Si ebbe così la visita di Haldane a Berlino, nel febbraio 1912, durante la quale si discusse di limitazioni navali. Ma la Germania, prima d'impegnarsi, voleva essere sicura di non avere contro di sé la flotta inglese in caso di guerra; cioè richiedeva un accordo politico. Il governo inglese si rese conto che, in cambio dei vantaggi sulla questione navale, doveva impegnarsi a rimanere neutrale in caso di guerra, e cioè abbandonare l'Intesa. Insomma, riconoscimento tedesco della permanente superiorità britannica sul mare; riconoscimento inglese di eguale superiorità tedesca sul continente. In conseguenza, Francia e Russia sarebbero cadute sotto l'influenza tedesca, e l'Inghilterra si sarebbe trovata di fronte a un nemico più forte ed esigente. Così l'accordo fallì anche questa volta, e Londra si mantenne fedele all'Intesa.

In Francia, la crisi di Agadir rinvigorì il sentimento nazionale. Se la generazione del 1870 continuava a nutrire un segreto timore della Germania, quella più giovane era più sicura di sé, confidava nell'aiuto della Russia e dell'Inghilterra, non intendeva cedere a una pressione tedesca. Bene espresse questo sentimento R. Poincaré, eletto presidente della repubblica nel gennaio 1913. Era un lorenese, e aveva posto a scopo supremo della vita il riacquisto dell'Alsazia-Lorena. Egli spiegò subito una grande attività nei rapporti della preparazione bellica e nei rapporti diplomatici, per rafforzare i legami con la Russia, che durante la crisi marocchina aveva appoggiato troppo debolmente l'alleata, e con l'Inghilterra, della quale un riavvicinamento alla Germania si poteva sempre temere. Collaboratore, e spesso istigatore di questa politica aggressiva, fu Izvol′skij, ambasciatore russo a Parigi, che voleva prendere vendetta dello scacco subito nel 1908-09. Di qui più frequenti e cordiali colloquî fra gli stati Maggiori; di qui l'accordo navale franco-russo (16 agosto 1912), con il quale la Francia s'impegnava a impedire alla flotta austriaca l'accesso nel Mar Nero; e, poco dopo, l'accordo navale anglo-francese, che permise all'Inghilterra di concentrare in patria, contro la crescente marina tedesca, la flotta da combattimento del Mediterraneo, e affidò alla flotta francese la difesa degl'interessi inglesi nel Mediterraneo. Impegni precisi di difendere le coste francesi della Manica e dell'Atlantico, in caso di guerra, l'Inghilterra non volle prenderne, avversa come era a non legarsi troppo le mani; ma i due governi si erano impegnati a concertarsi sulle misure da prendersi in comune, in caso di complicazioni internazionali. Il governo inglese non si rese conto esatto del valore di questi impegni; né che essi obbligavano moralmente all'intervento, ove fosse scoppiata una guerra franco-tedesca. Ma su tale intervento, Francia e Russia erano autorizzate a contare.

Guerre balcaniche. Durante questo tempo si era stretta la lega balcanica, iniziata con l'alleanza serbo-bulgara del 29 febbraio (13 marzo nuovo stile) 1912 e resa possibile dall'intervento russo. Questa "convenzione di guerra" come ebbe a definirla Poincaré, era diretta non solo contro la Turchia ma anche contro l'Austria, e stabiliva l'egemonia russa sopra i regni slavi. A una tale politica, Francia e Inghilterra erano ancora contrarie, per il timore che la Russia arrivasse troppo presto a Costantinopoli e senza il loro aiuto. Nell'ottobre 1912, guerra balcanica e vittoria della lega contro la Turchia. Con ciò e per ciò inasprimento dei contrasti austro-russi; indebolimento della Turchia, alleata naturale dell'Austria contro l'avanzata russa; opposizioni austriache ai piani della Serbia e del Montenegro, specialmente allo sbocco serbo sull'Adriatico. Da parte della Francia, poi, mentre fino allora quel governo si era sempre rifiutato d'impegnarsi per un conflitto che fosse nato da questioni balcaniche, ora Poincaré dichiarò di riconoscere il casus foederis anche per tali questioni, incitò il governo russo a resistere all'Austria, ripeté più volte questa sua dichiarazione. Gli stessi prestiti fatti dalla Francia agli stati balcanici non fecero che cointeressare sempre più questa ai loro futuri ingrandimenti. Così la Duplice aveva raggiunto una perfetta unità di metodi e di fini, e da difensiva si era trasformata in offensiva.

Per il momento la crisi fu superata; la Russia non si sentiva ancora ben preparata; Grey si adoperò in senso moderatore; l'Italia non volle appoggiare l'Austria; Berlino tenne un po' a freno Vienna. Ma si accrebbe la materia incendiaria nella politica europea. Da una parte la Bulgaria era stata privata del frutto della vittoria comune dovuta specialmente alle sue vittorie, e aspirava alla rivincita; eguale aspirazione aveva la Turchia; Montenegro, Serbia, Grecia e Romania si erano notevolmente ingrandite; era sorto un nuovo stato, l'Albania, ma ancora troppo debole e quindi esposto alle cupidigie dei vicini; la Romania si era allontanata dall'Austria e riavvicinata alla Russia; il prestigio di quest'ultima era grandemente aumentato, specialmente in Serbia, quantunque avesse dovuto cedere sulle questioni dell'Albania, di Scutari e dell'accesso serbo al mare. Ma, quel che era più grave, la Serbia, ottenuti i territorî turchi, sicura dell'appoggio russo, mirava ora alle provincie asburgiche, per completare la "Grande Serbia". A tal fine, intensificò la sua propaganda nelle provincie austriache. Viceversa, l'Austria non era disposta a nessuna concessione territoriale, persuasa che, se si fosse messa su questa strada, tutto il suo edificio sarebbe crollato. Non intendeva poi sopportare più alcuna ingerenza russa, ma regolare da sé il conflitto con il piccolo vicino, a costo anche di una guerra con il vicino impero, magari di una guerra europea. Di fronte a questa situazione, la Francia intensificò i preparativi e insisté presso la Russia, perché affrettasse la costruzione delle ferrovie strategiche al confine tedesco, fornendo i mezzi necessarî. Si cominciò anche a parlare degli scopi della guerra: primo e massimo, indebolire il più possibile la potenza militare, economica e politica della Germania e annientare l'impero tedesco. Si aggiunse, ad aggravare le cose, l'invio della missione militare di Liman von Sanders in Turchia, per riorganizzare l'esercito turco. La Russia, che molto contava sulla debolezza militare di quell'impero, protestò violentemente. L'incidente fu risolto in pace; ma diede occasione al governo russo di riesaminare la situazione generale. Fu così riconosciuto che la Russia dovesse diventare padrona degli Stretti, ma che ciò non poteva avvenire "se non a prezzo di complicazioni europee". In tal caso la Francia avrebbe appoggiato incondizionatamente la Russia; le autorità militari russe affermarono esplicitamente che le forze zariste erano in grado di combattere con la Germania e l'Austria, ma esclusero qualsiasi azione su Costantinopoli, per potere in caso di guerra inviare tutte le forze disponibili verso il fronte austro-tedesco. Da quel momento, in Russia si cominciarono a fare tutti i preparativi, come se il conflitto fosse imminente. Vennero anche riprese le trattative, nell'aprile 1914, per una convenzione navale anglo-russa. Ed erano giunte a buon punto, quando sopravvenne la crisi.

A tale risultato non erano estranei gli errori tedeschi: inesatto calcolo della situazione da parte di quella diplomazia; scarsa consapevolezza dei suoi fini; frequente ricorso a mezzi bruschi e violenti, che irritarono gli avversarî e ottennero l'effetto contrario a quello che si attendeva; gesti e parole imprudenti e provocanti di Guglielmo II, per il suo carattere impulsivo e poco equilibrato; sconfinata fiducia della Germania nelle proprie forze e nell'avvenire, dovuto ai progressi immensi compiuti in pochi decennî; imprudente politica navale. La responsabilità di questi errori il cancelliere Bülow ha cercato, nelle sue Memorie, di scaricarla tutta su Jagow, su Bethmann-Hollweg, su Guglielmo II. In realtà, anch'egli ne ha la sua parte. La situazione politico-diplomatica da cui scaturì la guerra si forma, essenzialmente, dal tempo del suo cancellierato. Comunque, questi errori, di forma o di sostanza, diedero abbondante materia alla propaganda dell'Intesa, per far credere al "pericolo tedesco": credenza poco fondata, come dimostrava il fatto che la Germania aveva lasciato passare, senza afferrarli, varî momenti favorevoli a una guerra, quando la Duplice o l'Intesa erano più deboli e disunite. La guerra, in fondo, nacque dai molti e vivi contrasti d'interessi che allora dividevano e variamente raggruppavano l'Europa: Alsazia-Lorena, Stretti, concorrenza commerciale e navale anglo-tedesca, irredentismi balcanici; tutte questioni che non si potevano risolvere per via diplomatica. La guerra si era più volte evitata; ma con sempre maggiore fatica. Ora, poteva bastare un incidente anche lieve per scatenarla.

Sarajevo. - Questo incidente fu rappresentato dall'assassinio dell'arciduca ereditario austriaco Francesco Ferdinando a Sarajevo (28 giugno 1914), per opera di due giovani, Čabrinović e Princip. Erano sudditi austriaci, ma di nazionalità serba. L'organizzatore occulto del complotto, poi, era stato, con altri, il capo del servizio informazioni dello Stato Maggiore serbo, colonnello Dimitrijević, nazionalista fanatico, partecipe del regicidio del 1903, capo della potente associazione terrorista "Mano Nera" che si proponeva di creare con ogni mezzo la "Grande Serbia", incluse in essa, avanti tutto, la Bosnia e l'Erzegovina. Concorsero all'esecuzione del piano anche membri dell'altra organizzazione patriottica Narodna Obrana (Difesa nazionale) che perseguiva lo stesso scopo della prima, apparememente solo con la propaganda. Lo stesso governo serbo ebbe la sua parte di responsabilità: esso favoriva e appoggiava le due organizzazioni; nessuna misura prese per impedire l'esecuzione del delitto, sebbene già da un mese sapesse quel che si tramava; nulla comunicò al governo austriaco, salvo il vago timore che durante le manovre militari qualche soldato potesse sparare a pallottola anziché a salve e colpire l'arciduca; nulla fece dopo l'assassinio per arrestare e giudicare i Serbi implicati nel complotto, anzi ne mise uno al sicuro; esaltò gli assassini per mezzo della stampa, come martiri. Nell'arciduca Francesco Ferdinando si voleva dai nazionalisti serbi e slavi colpire l'ideatore dei grandi progetti trialisti, i quali, con il dare soddisfazione a certe aspirazioni dei Serbi, Croati e Sloveni austriaci, li avrebbero staccati per sempre dal regno serbo e forse anche avrebbero un giorno o l'altro condotto all'annessione della stessa Serbia da parte dell'Austria-Ungheria.

Ma vi era di più: l'uccisione dell'arciduca colpiva la monarchia stessa, cioè il legame che teneva unite insieme le varie ed etnicamente diverse parti dell'impero e quindi minacciava l'integrità e l'esistenza stessa dell'impero. E che a questo si mirasse, non era più un mistero. Anche il ministro serbo a Vienna riconosceva che la crescente agitazione nelle provincie slave meridionali della monarchia era tale da spingere il governo austriaco o alla separazione di queste provincie o a uno sforzo disperato per ritenerle, riducendo la Serbia all'impotenza. Egli diceva sempre che il tempo lavorava per la Serbia, e che entro tre anni le provincie slave meridionali sarebbero state pronte a rivoltarsi contro l'Austria, senza che la Serbia avesse da muovere nemmeno un dito. Si capisce, perciò, come non solo il capo dello Stato Maggiore, Conrad von Hötzendorff, ma, in ultimo, anche il ministro degli Esteri si fosse venuto persuadendo che oramai non si poteva risolvere la questione se non con un atto di forza. Ma il pericolo dell'irredentismo serbo non consisteva tanto nell'attrazione che un piccolo e rozzo paese come la Serbia poteva esercitare su provincie e popolazioni più civili, quanto nell'aiuto che a quel paese veniva dalla Russia. In ogni modo, Vienna doveva agire verso la Serbia. E se avesse agito subito, nessuna nazione si sarebbe schierata apertamente dalla parte dei regicidi. Prima di far questo doveva assicurarsi del concorso della Germania e superare le opposizioni interne. Ma intanto l'indignazione del primo momento si calmava.

Già prima di Sarajevo, l'Austria, per ristabilire il suo predominio nei Balcani e annullare i risultati delle guerre del 1912-1913, aveva preparato un piano: mantenere a tutti i costi la Romania nella Triplice e attirarvi la Bulgaria e la Turchia e magari la Grecia; cioè ricostituire, sotto l'egida dell'Austria, una nuova lega balcanica che tenesse in scacco la Serbia e limitasse l'influenza russa. Questo piano stava per essere comunicato alla Germania, quando sopravvenne l'assassinio dell'arciduca. Fu inviato egualmente, ma con un'aggiunta, nella quale si affermava la necessità di strappare "con mano risoluta" la rete degl'intrighi serbi e di "isolare e rimpicciolire la Serbia", eliminandola come influente fattore politico nei Balcani. Si voleva insomma rovesciare violentemente la situazione balcanica. Poteva essere la guerra con la Russia. Eppure, il governo tedesco, che nel 1913 si era opposto a un siffatto procedere, rispose accettando il punto di vista austriaco (5 luglio). Dichiarò cioè che le questioni austro-serbe erano al di fuori della sua competenza; ma che, qualora avessero suscitato complicazioni internazionali, la Germania "conforme ai suoi doveri di alleanza e alla sua vecchia amicizia, sarebbe rimasta fedelmente al fianco dell'Austria". Era come dare carta bianca all'alleato: Berlino era convinta che realmente l'impero asburgico fosse in pericolo; temeva di perdere l'ultimo alleato se ancora una volta si contrastavano i suoi disegni; credeva possibili ma non probabili complicazioni pericolose. Come avrebbe potuto lo zar aiutare la patria dei regicidi? E poi, la Russia era ancora impreparata. Essa non aveva raccolta la sfida durante le guerre balcaniche. A Berlino s'inclinava a credere che "il bluff fosse una delle armi favorite del governo zarista, il quale amava minacciare di tirar fuori la spada, ma, al momento decisivo, non lo faceva volentieri per gli altri". Anche la Francia non si riteneva fosse preparata, specialmente in fatto di artiglieria pesante. E poi, erano migliorati i rapporti anglo-tedeschi; si svolgevano favorevoli trattative per la ferrovia di Baghdād e le colonie portoghesi. L'Inghilterra dunque avrebbe dato consigli di moderazione, sarebbe stata neutrale. Esclusa la possibilità di una guerra generale, il governo tedesco stimò inutile prendere misure speciali e consigliò un attacco improvviso alla Serbia che mettesse la Russia e l'Europa davanti al fatto compiuto.

L'ultimatum austriaco e l'Intesa. - Questa assicurazione di Berlino rese i governanti austriaci ancor più favorevoli alla guerra contro la Serbia; solo si oppose energicamente il presidente del gabinetto ungherese, conte Stefano Tisza, che vedeva più chiaro nell'avvenire. Ma anch'esso, dopo lunghe insistenze, cedette; e allora Vienna, la sera del 23 luglio, consegnò un ultimatum - con obbligo di risposta entro 48 ore - che chiedeva lo scioglimento delle associazioni dedite a propaganda politica, la revoca degli ufficiali e funzionarî compromessi in questa propaganda, la collaborazione di funzionarî austriaci per sopprimere il movimento antiaustriaco, un'inchiesta giudiziaria con partecipazione di delegati austriaci per la ricerca dei colpevoli. Sebbene fossero, queste condizioni, molto dure, tuttavia non erano del tutto ingiustificate, dopo quanto abbiamo detto, e neppure inaccettabili. Ma il governo austro-ungarico desiderava non fossero accettate, per poter giustificare la guerra: una guerra, si sperava, localizzata. Anche la Germania la voleva così. Anche governanti e diplomatici dell'Intesa erano contrarî all'"assurda e vieta attitudine della Russia di protettrice di tutti gli Slavi". Ma la Russia avrebbe lasciato libera l'Austria di rovesciare a proprio favore la situazione creata dalle guerre balcaniche?

Gli ultimi avvenimenti avevano in verità rafforzato l'intransigenza russa. Infatti, dal 20 al 23 luglio, e cioè quando le cancellerie europee erano già a conoscenza delle intenzioni austriache, avvenne la visita a Pietroburgo di Poincaré e Viviani, presidenti della repubblica e del governo francese. Giornate di eccitazione bellicosa; giornate decisive. Poiché Poincaré convinse i ministri dello zar che la Francia, in caso di conflitto, si sarebbe schierata senza riserve dal lato dell'alleata, i due governi giunsero a una specie d'accordo: riaffermarono la necessità di mantenere ancora solennemente gli obblighi imposti dall'alleanza; decisero di opporsi a qualsiasi azione austriaca, contraria alla sovranità e indipendenza della Serbia. Il significato di questi accordi è meglio spiegato dall'avvertimento di Poincaré all'ambasciatore austriaco: "la Serbia ha nel popolo russo degli amici fervidissimi, e la Russia ha un alleato, la Francia". E così, alle assicurazioni della Germania all'Austria corrispondevano quelle della Francia alla Russia; solo che le prime avevano di mira soltanto il conflitto austro-serbo, le seconde quello europeo. Da poche ore Poincaré aveva iniziato il viaggio di ritorno quando, la mattina del 24 luglio, Sazonov conobbe l'ultimatum austriaco. Appena lettolo, esclamò: "È la guerra europea!". Conferì con gli ambasciatori francese e inglese, dichiarando loro che la condotta dell'Austria era "immorale e provocante" e che alcune delle richieste fatte alla Serbia erano "assolutamente inaccettabili". L'ambasciatore francese riconfermò che la Francia avrebbe mantenuto tutti gli obblighi dell'alleanza, e si unì a Sazonov per premere su quello britannico e ottenere che l'Inghilterra proclamasse la sua completa solidarietà con la Francia e la Russia. Ma l'Inghilterra dichiarò che l'opinione pubblica, e conseguentemente il governo inglese, non avrebbero approvato una guerra per la Serbia. Apparve chiaro che la Russia "sicura dell'appoggio della Francia, sarebbe andata incontro a tutti i rischi della guerra".

E alla guerra il governo russo volse subito ogni pensiero. Un consiglio di ministri decise di prendere incondizionatamente il partito della Serbia; solo che, visto il riservato atteggiamento inglese, scartò le misure radicali e si limitò a deliberare la mobilitazione nei quattro distretti militari sud-occidentali, cioè Kiev, Odessa, Mosca, e Kazan′, più vicini alla frontiera austriaca, e delle flotte del Baltico e del Mar Nero. Un successivo consiglio di ministri, presieduto dallo zar, a cui presenziò anche il granduca Nicola, designato comandante dell'esercito in guerra, e il capo di Stato Maggiore, non solo riconfermò i deliberati del giorno precedente, ma decise di prendere immediatamente tutte le misure del "periodo di preparazione alla guerra". Così, ai tentativi per salvare la pace, il governo russo sostituì le leggi ferree delle necessità militari, che inevitabilmente conducevano alla guerra. Londra capì subito la nuova situazione: che cioè non era possibile trattenere la Russia; che essa e la Francia erano "decise ad accettare la sfida" "che la partita suprema della Triplice Alleanza con la Triplice Intesa era definitivamente impegnata". Il ministro degli Esteri venne anche nel convincimento che se l'Inghilterra non voleva compromettere la sua posizione europea e mondiale, doveva schierarsi con le due altre potenze dell'Intesa, Russia e Francia. Una sua azione moderatrice sia su Parigi sia su Pietroburgo avrebbe suscitato inutili sospetti. L'unica possibilità di salvare la pace era che la Germania arretrasse, di fronte alle minacce franco-russe: e questo risultato si poteva ottenere facendo comprendere alla Germania stessa la serietà della situazione, cioè mobilitando la flotta inglese. Ma se questo era il giudizio del Ministero degli esteri, ben diverso era quello della pubblica opinione, della stampa, della maggioranza del parlamento e del ministero, nei quali sopravvivevano ancora le antiche diffidenze verso la Russia e la sua politica balcanica in generale e verso la Serbia in particolare. Perciò se l'esposizione, fatta immediatamente da Grey, colpì profondamente i suoi colleghi, non li persuase della necessità dell'intervento. Grey stesso capì che le sue insistenze non avrebbero ottenuto che provocare le dimissioni del ministero, e quindi peggiorare la situazione. L'unica misura concreta adottata fu l'ordine del ministro della Marina alla flotta riunita per le esercitazioni, di non disperdersi (25 luglio).

Intanto, l'ultimatum austriaco aveva prodotta una profonda impressione e irritazione anche in Serbia. Specialmente le autorità militari lo considerarono "disonorevole per l'esercito serbo". Ma un esame più accurato persuase che il rigetto totale o parziale significava la guerra. E questa era possibile per la Serbia solo se la Russia le avesse dato il suo aiuto. Finché, quindi, non c'era questa sicurezza, il governo serbo doveva cedere, cioè accettare l'ultimatum. E così fu deciso: quand'ecco che, poche ore prima della consegna della risposta, circa a mezzogiorno del 25, due telegrammi di Pietroburgo assicuravano l'appoggio russo e consigliavano di mobilitare. Allora il governo serbo inviò all'Austria una risposta che, apparentemente conciliativa, era piena di sotterfugi e di riserve; su due punti, poi, negativa. E intanto, tre ore prima della consegna della risposta, ordinò la mobilitazione e prese altre misure militari, mentre nulla del genere era ancora stato fatto in Austria.

Grande lavorio delle cancellerie europee, in quei giorni e in quelle ore, per trovare una via d'uscita. Proposte svariate: convenzioni dirette Vienna-Pietroburgo; mediazione nel conflitto austro-russo delle quattro potenze meno interessate; conferenze degli ambasciatori delle stesse potenze a Londra, sotto la presidenza di Grey; pressione di tutte le potenze sulla Serbia, perché accetti integralmente l'ultimatum; occupazione austriaca di Belgrado e poi trattative per l'esecuzione dell'ultimatum. Specialmente attivo fu Grey, che si trovava in grave imbarazzo, non potendo, come avrebbe voluto, dichiararsi solidale con la Russia e la Francia, né volendo dar loro consigli di moderazione. Fece allora varî tentativi, con il desiderio - che vogliamo credere sincero - di salvare la pace, ma anche con il proposito di guadagnare tempo (e così agevolare i preparativi militari della Francia e della Russia) e, insieme, dimostrare al governo e al popolo inglese che si era fatto il possibile per evitare la guerra. Ma quest'opera di mediazione non riuscì. La Russia esigeva, per trattare, che si modificasse l'ultimatum; ma ciò equivaleva a una sconfitta diplomatica dell'Austria, con gravi conseguenze per essa. Rimaneva, unica via d'uscita, che l'Austria desse assicurazioni sopra i propositi verso la Serbia; e che la Russia se ne accontentasse, senza discutere l'ultimatum. Ma a ciò si poteva arrivare con una pressione della Germania sull'Austria, e dell'Inghilterra e della Francia sulla Russia. Ora, Berlino, dopo avere in un primo momento rifiutato d'intervenire nel conflitto austro-serbo e accettato solo le proposte tendenti a risolvere quello austro-russo, si prestò alla mediazione, quando capì che non poteva contare sulla neutralità inglese a ogni costo; intervenne ripetutamente ed energicamente, perché Vienna accettasse la proposta della sola occupazione di Belgrado e desse alla Russia serî affidamenti circa le sue intenzioni sulla Serbia; riuscì, dopo molti sforzi, a vincere l'ostinatezza austriaca. Ma a questo punto la mobilitazione generale russa venne a troncare tutte le trattative. Poiché, invece, nessuna pressione esercitarono i governi inglese e francese su quello russo: il quale da parte sua, a un certo momento, avvertì anche che non accettava consigli di moderazione. E così, Parigi e Pietroburgo accolsero le varie proposte con riservatezza e diffidenza; qualche volta con ostilità. Non che esse fossero proprio contrarie a una soluzione pacifica; ma la volevano a condizioni non accettabili per gl'Imperi centrali. Ciò che spiega come i governi russo e francese, pur continuando a trattare, rivolsero la maggiore attenzione ai preparativi militari.

Mobilitazioni e dichiarazioni di guerra. - Il 25, la Francia prende le prime misure; il 27 decide il richiamo delle truppe dell'Algeria e del Marocco, poiché il destino di quelle due colonie "si sarebbe deciso in Lorena". Il 28, adotta tutte le misure preparatorie per la mobilitazione. Quello stesso giorno, Pietroburgo, saputo della dichiarazione di guerra dell'Austria alla Serbia e ricevuta una nuova assicurazione francese, ordina, nei quattro distretti di sud-ovest, la mobilitazione, decisa, in via di massima, tre giorni prima. Il 29, poi, visto chiarirsi l'atteggiamento inglese, Sazonov e le autorità militari inducono lo zar a ordinare la mobilitazione generale, dandone notizia al governo francese, dovendosi "contare sull'imminenza della guerra". Tuttavia, poche ore dopo, un appello personale di Guglielmo II, che scongiurava di non precipitare e non impedire con misure militari la mediazione che egli stava tentando a Vienna, indusse lo zar a revocare la mobilitazione generale e mantenere solo quella parziale contro l'Austria. Intanto da Parigi, nelle prime ore del 30, si consigliava all'alleata di astenersi, nelle sue misure militari, da quanto potesse offrire alla Germania "un pretesto per la mobilitazione totale o parziale delle sue forze"; ma anche si riconfermava l'intervento francese mentre la flotta inglese prendeva il suo posto di combattimento (29 luglio) e forze di terra e di mare ricevevano il "telegramma di allarme", cioè la proclamazione del pericolo di guerra. La revoca della mobilitazione generale scoraggiò sulle prime Sazonov e lo indusse, anche per le insistenze dell'ambasciatore tedesco, a indicare a quali condizioni la Russia avrebbe sospeso i preparativi militari (condizioni del resto giudicate da tutti inaccettabili per l'Austria). Ma quando, poche ore dopo, ebbe le assicurazioni francesi, riprese coraggio e, con i militari, disperati perché la non prevista mobilitazione parziale contro l'Austria avrebbe scompigliato la mobilitazione generale, insisté presso lo zar: e dopo un colloquio di un'ora, nel pomeriggio del 30, poté, servendosi anche di argomenti infondati, come i preparativi degl'Imperi centrali, strappare al debole sovrano un nuovo ordine di mobilitazione generale.

A questo punto, come afferma il gen. Dobrorolskij, capo del servizio mobilitazione, nessuna forza umana poteva arrestare il corso fatale degli eventi. Il tempo della mobilitazione meccanicamente determinava il principio della guerra. La quale, in Russia, era cosa decisa dal momento che si conobbe l'ultimatum austriaco e tutta la profluvie di telegrammi fra i governi russo e tedesco rappresentava puramente la messa in scena di uno storico dramma. Posporre il momento della decisione finale era utilissimo per le "misure preparatorie". I ripetuti avvertimenti del governo tedesco sul pericolo delle misure militari, non fecero altro che infastidire inutilmente. Lo stesso giorno della mobilitazione generale russa, Joffre, conforme agli obblighi imposti alla Francia dall'alleanza, chiede la mobilitazione delle truppe di copertura. Ma il governo francese non voleva apparire aggressore, per riguardo sia all'opinione pubblica del paese, sia all'Italia sia, più ancora, all'Inghilterra, sempre renitente a impegnarsi per l'intervento. Perciò, pur decidendo la mobilitazione delle truppe di copertura, stabiliva varie limitazioni: fra l'altro, che esse rimanessero a 10 km. dalla frontiera per evitare contatti con i Tedeschi. Ma non si mancò di conservare l'occupazione di molti punti strategici, lontani non più di 4 km. né di lasciare sulla frontiera le truppe di finanza, che sorvegliarono le mosse tedesche e impegnarono i primi combattimenti.

E tuttavia il governo tedesco sperava ancora nell'opera di mediazione e resisteva alle autorità militari che sollecitavano contromisure, limitandosi a provvedimenti preliminari di portata limitata. Continuava anche a premere vigorosamente su Vienna. Ma dopo che, fra il 30 e il 31, giunsero sempre più precise notizie del grave passo di Pietroburgo, Vienna decise a mezzogiorno del 31 di ordinare la mobilitazione generale; e Berlino, qualche ora appresso, ordinò il "pericolo di guerra imminente", che non era ancora la mobilitazione generale, poiché si sperava sempre in una risposta favorevole da Vienna alle proposte di mediazione. Tuttavia si inviò un ultimatum alla Russia, con scadenza entro le 12 ore, per intimarle di cessare i suoi preparativi militari; e un altro ultimatum, con la scadenza di 18 ore, alla Francia, per chiederle se nel conflitto tedesco-russo sarebbe rimasta neutrale. Prima ancora che l'ambasciatore tedesco avesse compiuto questo passo a Parigi, si erano qui tenuti lunghi e ripetuti consigli dei ministri e decise, se non la mobilitazione generale chiesta da Joffre, le misure "più estese" nei cinque corpi di armata di frontiera. Ormai si riteneva la guerra inevitabile nonostante le notizie giunte nelle ultime ore di quel giorno sulla decisione del governo austriaco di discutere con quello russo anche le condizioni del suo ultimatum. Perciò, più che di adoperarsi a favorire quest'ultima prospettiva di pace, ci si preoccupò quasi solo del contegno del governo inglese, si fece ogni sforzo per assicurarsi il suo intervento, si cercò di nascondere la verità sulla mobilitbzione russa, facendola apparire conseguenza delle misure austriache e tedesche, si ricorse infine a un appello personale di Poincaré allo stesso re Giorgio V. Londra esitava ancora. Erano per l'intervento immediato Grey e alcuni suoi colleghi; lo richiedevano con insistenza alti funzionarî del Ministero degli esteri; ma erano ancora contrarî la maggioranza dei ministri e gli ambienti finanziarî.

In queste condizioni, Grey non poteva assumere alcun impegno; ma cercò procurarsi argomenti per influire sulle future decisioni; e così, il 31, chiese ai governi francese e tedesco d'impegnarsi a rispettare la neutralità belga. La risposta di Parigi fu affermativa, quella di Berlino evasiva. Continuò, poi, il primo agosto, nella sua opera di mediazione; e forse, dietro suggerimento del consiglio dei ministri, arrivò perfino a offrire alla Germania la neutralità inglese, nel caso che le truppe francesi e tedesche non violassero la frontiera belga. Anche Giorgio V, lo stesso giorno, scrisse allo zar perché le trattative continuassero. Ma gli avvenimenti precipitavano. Di fronte al rifiuto russo di smobilitare, nel tardo pomeriggio del 10 agosto la Germania dichiarò guerra alla Russia. La Francia, intanto, dietro le ripetute insistenze di Joffre, aveva nella mattinata deciso in linea di principio la mobilitazione generale; e il relativo ordine venne poi emanato alle ore 15,40. Alle 17, lo stesso ordine veniva emanato anche in Germania. Tuttavia la dichiarazione di guerra tardò ancora due giorni, sia perché l'offerta di neutralità inglese fece nascere in un primo tempo molte speranze in Germania; sia perché dall'una parte e dall'altra si esitava a fare, per primi, il grande passo. Alla fine, la Germania, a causa delle necessità militari, che prevedevano il rapido inizio delle operazioni, dovette decidersi: e il 3 agosto, alle 18, l'ambasciatore tedesco rimetteva al governo francese la dichiarazione di guerra. In quei due giorni, per influire sulle decisioni inglesi, Parigi aveva trasmesso a Londra un'infinità di notizie, in gran parte inesatte, sui preparativi tedeschi e sulle violazioni di frontiera. Inoltre il 10 agosto il governo francese, richiamandosi all'accordo navale del 1912, chiese a quello inglese che difendesse da un attacco tedesco le coste francesi, rimaste indifese dopo la concentrazione della flotta francese nel Mediterraneo. Fu allora, per la prima volta, che il governo inglese si rese esatto conto della natura dei suoi obblighi verso la Francia; ma, per il momento, rimandò ogni decisione. Il giorno dopo, in seguito all'intervento del partito conservatore in favore dell'aiuto alla Francia e alla Russia, Grey riuscì a indurre i suoi colleghi a dare alla Francia l'assicurazione richiesta. Finché la violazione della neutralità belga convinse anche il parlamento e il popolo inglese che l'aggressore era la Germania. Per attuare il loro piano di guerra, cioè per aggirare il fianco sinistro del nemico senza dar di cozzo nelle fortezze francesi, i Tedeschi dovevano passare attraverso il Lussemburgo e il Belgio. Il primo venne invaso il 10 agosto; al secondo venne inviato un ultimatum il 2, affinché lasciasse libero il passo. Negativa fu, il 3, la risposta belga; e allora, il 4, il paese venne invaso. Grande indignazione in Inghilterra. Ed essa offrì a Grey il pretesto per affermare, con il suo discorso del 3 al parlamento, che la politica seguita dal 1904 in poi doveva essere perseguita fino in fondo. Ottenuta l'approvazione, il 4 venne inviato un ultimatum alla Germania: essa non rispose e così ebbe inizio anche la guerra anglo-tedesca. Pochi giorni dopo, il 23, il Giappone entrava pur esso in guerra contro gl'Imperi centrali.

Alla ricerca di alleati. - Con lo scoppio della guerra non cessò l'opera dei diplomatici. La guerra, vera guerra per l'esistenza, mobilitò tutte le forze dei belligeranti. Si doveva sostenere il morale delle popolazioni e dei combattenti, procurare alleati a sé, toglierne ai nemici. Anzitutto, rinsaldare i legami fra i belligeranti. Austria e Germania erano unite da un trattato di alleanza; ma non le potenze dell'Intesa. E vi si provvide con il Patto di Londra, 4 settembre 1914, con il quale Francia, Inghilterra e Russia s'impegnavano a non concludere pace separata e a non avanzare, in caso di trattative di pace, richieste non concordate prima con gli altri. Ma il compito principale per i belligeranti era di attirare i neutri dalla propria parte.

Il primo paese che intervenne nella guerra mondiale fu l'impero turco. Poiché la Russia mirava agli Stretti, la Turchia si alleò nell'agosto con gl'Imperi centrali. Ciò non impedì veramente che , alcuni giorni dopo, Enver pascià, il padrone della situazione a Costantinopoli, proponesse un'alleanza alla Russia, non è ben chiaro se per evitare un immediato attacco alla Turchia, ancora impreparata, o per impedire che Costantinopoli andasse in mano ai Russi alla fine della guerra. Comunque, l'ambasciatore russo a Costantinopoli propugnò l'accettazione dell'offerta: si sarebbe assicurato il rifornimento del materiale da guerra alla Russia, impedito agl'Imperi centrali di aver merci dalla Turchia, influito sulla Bulgaria, sostituito a Costantinopoli l'influenza russa a quella tedesca. Ma poiché, con l'alleanza, la Russia avrebbe dovuto rinunciare alle sue ambizioni e speranze per Costantinopoli, così declinò l'offerta. Altri passi fecero poi le potenze dell'Intesa verso la Turchia, perché rimanesse neutrale, dato il loro interesse a che le truppe indiane non avessero disturbo nel passaggio di Suez, che si evitassero agitazioni fra i musulmani delle colonie inglesi e francesi, che le forze russe si potessero concentrare sul fronte austro-tedesco. E alla Turchia offrirono di garantire la sua integrità e sovranità. Ma a questa garanzia non si credette né da una parte né dall'altra. E così, alla fine di ottobre, completata la sua mobilitazione e apprestate le difese ai Dardanelli, la Turchia, alleatasi agl'Imperi centrali fin dai primi di agosto, compì i primi atti di ostilità: donde la dichiarazione di guerra da parte dell'Intesa (2 novembre), la rapida annessione di Cipro e l'immediata proclamazione del protettorato sull'Egitto, da parte dell'Inghilterra. Poco dopo a fianco dell'Intesa si poneva il Portogallo, strettamente legato all'Inghilterra. Ma solo nel marzo 1916 la Germania e l'Austria si decidevano a considerarlo come un vero e proprio nemico.

L'intervento dell'Italia. - Alleata degl'Imperi centrali, l'Italia rimase tuttavia neutrale (2 agosto 1914): i contrasti vecchi e nuovi con l'Austria, per le provincie irredente, per l'Albania, per l'espansione economica nei Balcani; il riavvicinamento e gli accordi avvenuti con la Francia e la Russia; le simpatie per il movimento irredentista serbo; la mancata consultazione dell'Italia da parte degli alleati, a proposito dell'ultimatum e della dichiarazione di guerra alla Serbia; il carattere offensivo della guerra stessa, mentre difensiva era la Triplice; questo e altro spiega l'atteggiamento italiano. Il quale era tanto naturale e prevedibile che era stato previsto anche a Vienna e a Berlino. Là sapevano, come già s'è detto, che le lunghe coste indifese e il bisogno assoluto di rifornimenti per via di mare di approvvigionamenti indispensabili alla vita della nazione impedivano all'Italia di entrare in guerra contro l'Inghilterra. Di più, appena un anno prima, nel luglio del 1913, quando l'Austria voleva assalire la Serbia per impedirle ulteriori ingrandimenti, l'Italia aveva nettamente dichiarato che quella non era azione difensiva e non si verificava il casus foederis. Il primo effetto della neutralità italiana fu non solo di permettere alla Francia di ritirare dalla frontiera alpina le sei divisioni ivi dislocate, ma d'indebolire, per il mancato aiuto ai Tedeschi in Alsazia, l'ala destra tedesca manovrante nel Belgio e nella Francia settentrionale (v. appresso), rendendo così possibile ai Francesi, per l'uno e l'altro fatto, di arrestare l'offensiva tedesca sulla Marna. Tuttavia la neutralità "vigile e armata" non poteva durare a lungo, poiché la guerra avrebbe profondamente cambiato l'assetto europeo e mediterraneo al quale l'Italia era interessata. Anzi, la guerra era appena iniziata, e già vi fu in agosto uno scambio d'idee, più o meno ufficiale, fra l'Italia e le potenze dell'Intesa; ma le necessità della preparazione militare fecero rinviare le deliberazioni definitive alla primavera successiva. Nel frattempo, tra la fine di settembre e i primi di ottobre, Di San Giuliano abbozza le prime linee delle rivendicazioni italiane, per il caso di partecipazione a fianco dell'Intesa, e si accorda con la Romania per una condotta comune (23 settembre).

Intanto nel paese si determinava, accanto a una corrente neutralista, una corrente interventista. Dato questo atteggiamento contrastante dell'opinione pubblica; dato, più ancora, il più che trentennale legame con le Potenze centrali e la natura dei patti che legavano Italia e Austria, apparve subito conveniente al governo italiano di trattare con Vienna, avanti di prendere alcuna decisione. Solo la dimostrata impossibilità di risolvere con mezzi diplomatici problemi di vitale interesse per l'Italia e di ottenere dall'Austria le concessioni a cui essa si era esplicitamente obbligata in caso di rottura a suo vantaggio dell'equilibrio balcanico; solo questa impossibilità avrebbe giustificato un intervento italiano contro gli alleati di ieri.

Fu così che, sulla linea già indicata fin dall'estate dal Di San Giuliano e in armonia con le dichiarazioni fatte il 3 dicembre alla camera dall'on. Salandra, il 9 dicembre, il nuovo ministro degli Esteri, on. Sonnino, in base all'art. VII del trattato di alleanza, chiese all'Austria compensi per la sua avanzata verso i Balcani. Ma l'Austria non era disposta a concessioni territoriali, essa che aveva mosso la guerra per salvaguardare, appunto, il suo territorio. Capiva bene che non si poteva dare soddisfazione a uno dei varî irredentismi che ne turbavano la compagine, senza che tutti gl'irredentismi insorgessero in furia. Perciò vane dovevano riuscire le trattative, che furono proseguite fino all'aprile, anche con l'intervento del principe di Bülow, inviato a Roma fin dal 18 dicembre dal governo germanico per tentare di scongiurare il pericolo di un intervento dell'Italia a fianco delle potenze dell'Intesa (v. anche italia: Storia). E allora, a metà febbraio, l'on. Sonnino si decise a trattare con l'Intesa, e il 4 marzo 1915 fece presentare al governo inglese un memorandum sulle condizioni del nostro intervento. Le sue richieste furono accolte diversamente dai varî governi. Mentre Francia e Inghilterra, immobilizzate sul fronte occidentale, desideravano l'intervento italiano, ed erano disposte a largheggiare, anche perché nulla o quasi nulla si chiedeva a esse in proprio, Sazonov invece, reso baldanzoso dalla vittoriosa offensiva russa sui Carpazî, riteneva inutile il nostro concorso: temeva anzi, dall'Italia, un'azione perturbatrice nella compagine dell'Intesa. Quindi, mentre non fece nessuna obiezione per il confine alpino, si rifiutò alle concessioni in Dalmazia, e alla neutralizzazione delle coste che sarebbero toccate alla Serbia e al Montenegro. Tali concessioni contrastavano al programma russo di fare una "Grande Serbia", che non solo tenesse in rispetto le altre potenze balcaniche, ma che fosse la sentinella avanzata russa nell'Adriatico. S'impegnò quindi una vera battaglia diplomatica, nella quale l'Inghilterra e la Francia fecero da mediatrici fra l'alleata e l'Italia. La prima, già inquieta per l'avanzata russa attraverso gli stretti, riconobbe giuste le preoccupazioni italiane per la sicurezza delle coste adriatiche, e appoggiò seriamente la richiesta neutralizzazione delle coste dalmate e albanesi. Ambedue poi, riconoscendo l'importanza "decisiva" dell'intervento italiano per le sorti della guerra, e l'efficacia di esso per affrettare le eventuali decisioni della Romania, Bulgaria e Grecia, premettero vigorosamente sull'alleata per renderla più arrendevole. Finalmente, ascoltando la voce, oltre che degli alleati, degli alti comandi russi, il govemo dello zar s'indusse a sottoscrivere il Patto di Londra del 26 aprile 1915, che riconosceva a noi le provincie austriache fino al confine alpino, la Dalmazia settentrionale, le isole prospicienti e Valona; stabiliva la neutralità di una parte delle coste albanesi e dalmate; e prometteva compensi in Asia Minore e nei territorî confinanti con le nostre colonie. Il patto poi venne completato dalla convenzione generale militare con le potenze dell'Intesa del 2 maggio, da quella speciale con la Russia del 21 maggio, dalla convenzione navale con Francia e Inghilterra del 4 maggio. Con esse si prendevano gli accordi per le operazioni militari e navali contro l'Austria. Nonostame limitate concessioni fatte dall'Austria all'ultimo momento, e cioè quando scorse la serietà del pericolo, seguì il 3 maggio la denuncia della Triplice e, venti giorni dopo, la dichiarazione di guerra.

L'intervento della Bulgaria, della Grecia e della Romania. - Apparve subito - e più ancora dopo l'intervento turco - quanta utilità avrebbe tratto l'Intesa dal concorso dei paesi balcanici, Grecia, Bulgaria, Romania, sia per dar aiuto alla Serbia, sia per combattere la Turchia. Perciò essa si volse a ricostituire la lega balcanica. Ma era necessario che Serbia, Grecia e Romania facessero concessioni alla Bulgaria; specialmente concessioni in Macedonia, per la quale il popolo bulgaro aveva combattuto nel 1912-13, vedendosi poi tolto dagli alleati il frutto delle sue vittorie. Ma nessuno era disposto a fare concessioni. I Serbi, poi, preferivano una pace qualsiasi con l'Austria, piuttosto che cedere la Macedonia; si dichiaravano disposti a morire tutti piuttosto che vedere i Bulgari a Monastir. D'altra parte la Russia diffidava dei veri o supposti disegni bulgari su Costantinopoli, e desiderava che una più grande Serbia facesse da contrappeso alla potenza bulgara. Solo nell'estate 1915, quando i Russi perdevano la Polonia e la Galizia, l'Intesa fece limitate concessioni per la Macedonia. Ma proprio questi eventi inducevano la Bulgaria a unirsi agl'Imperi centrali (luglio 1918), i quali, viceversa, le promettevano la sospirata Macedonia, e a intervenire nella guerra (14 ottobre 1915).

Quegli stessi eventi decisero altresì il definitivo contegno della Grecia. La quale, nonostante le simpatie degli ambienti di corte verso la Germania, tendeva, se mai, a schierarsi con l'Intesa, data la sua posizione geografica. Anzi Venizelos (Benizélos), capo del governo e fervido inventore di combinazioni che dessero alla Grecia, con il minimo sforzo, il massimo risultato, caldeggiava apertamente questo intervento. Fin dal 18 agosto offrì il suo aiuto contro la Turchia. Ma l'Intesa, che allora si sforzava di tener neutrale questa ultima, declinò l'offerta. Scopertasi poi la Turchia a favore degli Imperi centrali, l'Intesa sollecitò essa l'aiuto greco all'impresa dei Dardanelli, offrendo in ricompensa l'Albania meridionale e, magari, Smirne. Ma la Russia temeva che la Grecia volesse conquistare per sé Costantinopoli; e quindi ne contrariò l'intervento. Di esso si riparlò dopo l'entrata in guerra della Bulgaria; e Venizelos chiese che Francia e Inghilterra inviassero 150 mila uomini in aiuto alla Serbia. Ma ora gl'Imperi centrali avevano sconfitto la Russia senza che i suoi alleati avessero potuto impedirlo; tanto meno avrebbero impedito la sconfitta della Serbia e della Grecia. Perciò il re, che aveva approvato la mobilitazione, non approvò la politica di Venizelos, che dovette ritirarsi. Tuttavia nulla fece per opporsi allo sbarco delle truppe alleate a Salonicco. Da quel momento la Grecia fu dilaniata dalle lotte tra i fautori dell'intervento, propugnato da Venizelos, e quelli della neutralità, sostenuta dal re. Questi, senza dubbio, aveva con sé la maggioranza della nazione, che si rendeva conto dei rischi cui andava incontro. L'altro aveva l'appoggio dell'Intesa, la quale ricorse a costrizioni d'ogni genere, che portarono al conflitto del 1° dicembre 1916 e poi alla deposizione del re (giugno 1917), resa possibile dalla rivoluzione russa e dalle assicurazioni date da Venizelos all'Italia a proposito dell'Albania meridionale. E così, nel giugno 1917, l'Italia proclamò l'indipendenza albanese, sotto la sua protezione; e Venizelos, tornato al governo, ruppe le relazioni diplomatiche con gl'Imperi centrali.

All'intervento dell'Italia molto l'Intesa teneva anche per la speranza che la Romania ne seguisse l'esempio. Situazione quanto mai incerta, quella della Romania. Essa aveva, come gli altri, territorî da rivendicare; ma le sue aspirazioni erano tanto verso la Bessarabia tenuta dai Russi, quanto verso il Banato, la Bucovina, e la Transilvania, tenute dall'Austria-Ungheria. Maggiori certo erano queste ultime; e appunto per ciò la Romania inclinava verso l'Intesa. D'altra parte il paese era esposto agli attacchi russi e agli attacchi austro-tedeschi; il regno era legato alla Triplice, ma nel 1913 aveva seguito la politica russa, e partecipato all'attacco contro la Bulgaria; il re Carlo, un Hohenzollern, le autorità militari e i conservatori pendevano verso i due imperi, ma gli altri partiti e soprattutto Brătianu, capo del governo, per l'Intesa. Difficile, quindi la decisione. In un primo tempo, la Romania, dietro l'esempio dell'Italia, rimase neutrale. Di qui una grande gara fra le due parti, per assicurarsi il suo aiuto. La Germania premette su Vienna perché si facessero concessioni, specialmente in Transilvania. Ma l'Ungheria, più direttamente interessata, rifiutò nettamente. Fu offerto, in cambio della neutralità, un regime speciale in Transilvania, rettifica di confini in Bucovina, la Bessarabia con Odessa. Ma il governo romeno preferì l'offerta dell'Intesa, cioè i territorî austro-ungarici abitati da Romeni, oltre a una garanzia per quelli già posseduti. E, in base a quest'offerta, s'impegnò alla neutralità (3 ottobre 1914). Con le vittorie russe sui Carpazî, nella primavera del 1915, quando cioè l'Italia era prossima a concludere con l'Intesa, la Romania riprese a trattare con la Russia, chiedendo la Transilvania, il Banato e la Bucovina fino al Prut. La Russia, da principio, dichiarò le due ultime domande "assolutamente inaccettabili"; ma quando i suoi eserciti cominciarono a sentire i colpi di maglio di Mackensen, il governo zarista accettò tutte le richieste di Brătianu (10 luglio 1915). Era tardi. Ciò che induceva la Russia a cedere, induceva la Romania a rifiutare. Solo la vittoriosa offensiva di Brusilov riportò la possibilità d'un intervento romeno: anche perché, nonostante le pressioni del governo tedesco, l'Austria nulla aveva fatto per stornarlo. Il 17 agosto 1916 fu firmato il trattato fra la Romania e gli Alleati; il 27, si ebbe la sua entrata in guerra. Contemporaneamente l'Italia dichiarava guerra alla Germania.

Neutri. - Le altre potenze europee si mantennero neutrali (la Spagna avvertì il 1° agosto, alla vigilia dello scoppio della guerra, il governo francese della propria neutralità), sia perché non avevano forti interessi in giuoco, sia per non diventare campo di battaglia; sia anche perché le parti in contesa non premettero per avere il loro concorso. Le loro simpatie andarono all'uno o all'altro belligerante, a seconda degl'interessi o dell'affinità di razza: così gli stati scandinavi e specialmente la Svezia parteggiavano apertamente per la Germania, alla quale era apertamente favorevole anche la parte della Svizzera abitata da Tedeschi. Attraverso questi paesi continuarono ad affluire negl'Imperi centrali, merci e approvvigionamenti d'ogni genere; però essi stessi risentirono anche tutte le conseguenze del blocco. Questi paesi, e specie la Svizzera, diventarono centri importanti di osservazione, e il luogo dove s'incontravano diplomatici e agenti di ogni genere a intessere trattative, intrighi, spionaggi, ecc. Per tutta la guerra le potenze neutrali vissero anche in continua ansia che un incidente qualsiasi desse occasione a rappresaglie, o a invasioni di territorio, e qualcuna nella speranza di poter esercitare o allora o alla futura conferenza della pace una parte importante quale mediatrice. Perciò dovettero attenersi a una condotta molto guardinga.

Scopi di guerra e prime proposte di pace. - Ma anche l'intervento della Romania non portò l'attesa decisione; anzi, fu seguito da un nuovo successo militare degl'Imperi centrali. È a questo punto, quando ormai non c'è da sperare che nuovi aiuti portino a una rapida decisione militare, che si comincia a parlare seriamente di pace. Più ancora, almeno da parte dei belligeranti, impegnati con tutte le loro forze in un conflitto che sarebbe stato decisivo per il loro avvenire, a parlare di scopi della guerra. Le potenze dell'Intesa erano entrate nel grande cimento senza un accordo su questi scopi. Perciò fin dal settembre del 1914 iniziarono conversazioni, durante le quali, oltre ai cambiamenti territoriali a favore della Russia, Francia, Belgio, Serbia, Grecia, Bulgaria, Italia e Romania - cambiamenti che non sempre coincidevano con l'affermato principio di nazionalità - venne riconosciuto che lo scopo principale doveva essere l'annientamento della potenza militare, navale e politica della Germania. Intanto l'intervento della Turchia apriva la questione della sorte futura di quei territorî. E così, durante le operazioni ai Dardanelli, il 4 marzo 1915, la Russia chiese senz'altro Costantinopoli, gli Stretti e alcune regioni adiacenti. Francia e Inghilterra avrebbero voluto rimandare tutto alle future trattative di pace, nel timore che la Russia si occupasse solo della guerra con la Turchia e, raggiunto il suo scopo, facesse una pace separata. Ma lo stesso pericolo c'era in caso di risposta negativa, poiché la Russia era più interessata agli Stretti che non ai territorî tedeschi. Perciò i governi inglese e francese, con le rispettive note del 12 marzo e 10 aprile 1915, accettarono le richieste russe.

Intanto, fin dai primi tempi della guerra l'Inghilterra aveva promesso al re Husein che l'Arabia sarebbe diventato uno stato musulmano completamente indipendente. L'Inghilterra perseguiva due scopi: stabilire il califfato religioso in uno stato amico; impedire che una terza potenza mettesse piede in Arabia e vi ottenesse basi navali che minacciassero le comunicazioni inglesi con l'India. In seguito, poi, il colonnello Lawrence persuase lo sceriffo della Mecca a sottrarsi all'autorità del sultano (7 giugno 1916), a proclamarsi indipendente e a schierarsi con gli Alleati.

Mentre si trattava intorno agli Stretti, la Francia affrontò anche la questione della spartizione dell'Asia Minore. Lunghe trattative su ciò, specialmente nella primavera del 1916, che portarono poi a un accordo franco-russo del 26 aprile e a un accordo anglo-francese del 15-16 maggio. Con essi la Russia otteneva i distretti di Erzerum, Trebisonda, Van, Bitlis e il Kurdistan meridionale; la Francia, una striscia costiera lungo la Siria, il distretto di Adana e l'Asia Minore sud-orientale; l'Inghilterra, la Mesopotamia meridionale, Baghdād e i porti di Ḥaifā e Acri. La zona fra i territorî francesi e inglesi doveva formare lo stato arabo indipendente. Alessandretta era dichiarata porto libero. La Palestina avrebbe dovuto avere un regime speciale, da determinarsi fra le tre potenze. Contro questi accordi, conclusi a sua insaputa, l'Italia protestò, chiedendo di partecipare alla spartizione dell'Asia Minore. Francia e Russia erano contrarie; e una conferenza interalleata a Londra, nel gennaio e febbraio 1917, non approdò ad alcun risultato. Solo dopo la rivoluzione russa, al convegno di San Giovanni di Moriana del 19-21 aprile 1917, quando si voleva indurre l'Italia a ridurre le sue richieste verso l'Austria, per rendere possibile una pace separata con quest'ultima, Francia e Inghilterra promisero i distretti di Adalia, Conia e Smirne. Il relativo accordo venne sottoscritto nell'agosto, ma quella promessa rimase in definitiva lettera morta.

Frattanto un altro accordo era stato concluso. In seguito alle proposte di pace fatte nel dicembre 1916 dagl'Imperi centrali e nel timore che la Russia facesse una pace separata, la Francia volle assicurarsi delle sue rivendicazioni; e quindi chiese alla Russia che fosse consacrato in un solenne impegno quello che era stato promesso più volte. Venne così lo scambio di note del 14 febbraio-10 marzo 1917, con le quali la Francia concedeva piena libertà alla Russia per fissare i suoi confini con la Germania e l'Austria, e la Russia concedeva piena libertà alla Francia nel fissare i suoi confini con la Germania, e più specialmente di annettersi l'Alsazia-Lorena e il bacino della Saar, e costituire uno stato autonomo con le provincie tedesche sulla sinistra del Reno, indipendente politicamente ed economicamente dalla Germania. Quanto agl'Imperi centrali, essi non avevano sentito questo bisogno di precisare le loro aspirazioni e spartirsi preventivamente i frutti della vittoria. Essi erano più uniti; e in gran parte si rimettevano all'esito della guerra. Tuttavia miravano a staccare la Polonia dalla Russia, a ottenere garanzie strategiche dalla Francia e dal Belgio, ad acquistare colonie.

Dato tutto questo, non era facile che gli avversarî s'inducessero a fare la pace. Tuttavia i tentativi cominciarono subito dopo le ostilità, per iniziativa sia di neutrali, sia di belligeranti. Specialmente la Germania contava sul favore che godeva in certi ambienti russi, per arrivare a una pace separata con la Russia, dietro concessioni sulla libera navigazione attraverso gli Stretti; il che avrebbe facilitato la vittoria contro la Francia e l'Inghilterra. Di qui i varî tentativi, alcuni forse fatti a scopo diplomatico, per dissuadere l'Italia dall'intervento; altri, fatti quando gl'insuccessi militari potevano rendere la Russia più arrendevole. Ma ormai la sorte della monarchia russa era troppo legata all'esito della guerra; e quindi i tentativi non approdarono. E così fallì anche un tentativo fatto da Wilson al principio del 1916. Alla fine di quell'anno, dopo il crollo della Romania, la situazione militare era nettamente favorevole alla Germania. Cominciò allora, come dicevamo, a trattarsi più seriamente di pace. E fu appunto il governo tedesco che la offrì (12 dicembre 1916): ma non ne specificò le condizioni, solo affermando che i due imperi miravano ad assicurare l'esistenza, l'onore e lo sviluppo dei loro popoli. Ma appunto questa indeterminatezza fece pensare all'Intesa che la Germania volesse approfittare della situazione militare per imporre condizioni inaccettabili. L'Intesa, d'altra parte, confidava nelle sue maggiori risorse per arrivare alla vittoria, quindi pur senza rifiutare apertamente l'offerta, espose le sue richieste, ben lontane da quanto la Germania fosse disposta a concedere. Intanto, il 18 dicembre, Wilson chiedeva ai belligeranti che esponessero chiaramente le loro rivendicazioni, onde tentare un'opera mediatrice. Ma anche adesso la Germania non volle precisare, mentre gli Alleati, con la nota del 10 gennaio 1917, affermarono la loro volontà di giungere a una pace duratura, la quale richiedeva l'evacuazione e la restaurazione del Belgio, della Serbia e del Montenegro, la riorganizzazione dell'Europa, basata su ferme basi e specialmente sul rispetto della nazionalità, la restituzione delle provincie anticamente prese agli Alleati, la liberazione degli Italiani, Slavi, Cecoslovacchi e Romeni soggetti a dominio straniero, la liberazione delle popolazioni soggette alla tirannia turca, la cacciata dell'Impero ottomano dall'Europa. Solo una sconfitta poteva imporre agl'Imperi centrali condizioni siffatte. Perciò le autorità militari, vincendo l'opposizione di quelle civili, imposero la ripresa della guerra sottomarina (1° febbraio 1917).

Crollo della Russia e intervento americano. - Poco dopo, un altro avvenimento veniva a indebolire l'Intesa: cioè il crollo della Russia, troppo impreparata, nonostante il vasto impero e l'inesauribile risorsa di uomini, a una guerra come quella, per difetto di armi e munizioni, di strade, di risorse finanziarie, di facili comunicazioni con gli alleati. La guerra, poi, aveva portato lo scompiglio nella sua vita economica, legata in gran parte alla Germania. Di più, il disordine, la corruzione, l'incapacità, dominanti in tutti i rami dell'amministrazione, uniti alle perdite enormi, avevano prodotto un profondo malcontento nelle masse. La situazione diventava minacciosa; e per questo, nell'ottobre 1916 e nel febbraio 1917, il governo fece qualche approccio per una pace separata con l'Austria. In marzo scoppiava la rivoluzione, e il 15 lo zar doveva abdicare. Fu istituito un governo provvisorio, con democratici e socialisti moderati. Esso voleva proseguire la guerra: e per farla accettare al popolo affermò di proporsi una pace giusta, basata sui diritti dei popoli a decidere dei proprî destini. Invano. La rivoluzione aveva ormai portato con sé il disfacimento dell'esercito russo.

Si ebbe allora l'intervento degli Stati Uniti. Nessuno vi avrebbe pensato al principio della guerra, dato il loro tradizionale disinteresse per le cose d'Europa; data anche la varietà etnica di quella popolazione, che comprendeva numerosi Tedeschi e Irlandesi di origine, ostili all'Intesa. Tuttavia, fin dal principio, le simpatie maggiori erano state per la Francia e l'Inghilterra, a causa delle affinità politiche, dell'invasione del Belgio, dell'avversione al militarismo, ritenuto responsabile della gara degli armamenti e della guerra e impersonato nella Germania. In un primo tempo, tuttavia, il blocco inglese contro la Germania sollevò vive proteste in America e minacciò di alienare la sua simpatia. Ma a ravvivare l'avversione verso i metodi tedeschi venne la guerra sottomarina proclamata il 4 febbraio 1915, e alcuni affondamenti, come quello del Lusitania, che procurarono la morte anche di sudditi americani e sollevarono l'indignazione generale. Si cominciò anche negli Stati Uniti a pensare che la guerra avrebbe portato grandi mutamenti nel campo coloniale e in Estremo Oriente. Gli Americani non aspiravano ad acquisti, ma tenevano al principio della porta aperta. Di più erano diventati i principali fornitori dell'Intesa, mentre il blocco aveva quasi annullato i loro scambî con la Germania e l'Austria: motivo di più, per desiderare la vittoria dell'Intesa. Finché conservarono la speranza di farsi mediatori di pace, rimasero neutrali, ma dopo il fallimento dei tentativi del dicembre 1916 e dopo la ripresa della guerra sottomarina, il 3 febbraio 1917, ruppero le relazioni diplomatiche con la Germania: preludio alla dichiarazione di guerra (6 aprile), dopo la scoperta di un tentativo fatto dalla Germania per indurre il Messico a entrare in guerra contro gli Stati Uniti.

Tentativi di pace del 1917. - Eppure, i tentativi di pace non cessavano. Anche l'Austria era stanca, per le difficoltà dei rifornimenti, per i contrasti nazionali interni, per il tremendo logorio che le incessanti offensive italiane, pur senza grandi guadagni di territorio, imponevano all'esercito nemico, specialmente sul Carso e sul medio Isonzo. Il nuovo imperatore Carlo I, successo a Francesco Giuseppe il 21 novembre 1916, temeva la rivoluzione, e quindi voleva arrivare alla pace. Per tramite del cognato principe Sisto di Borbone, ufficiale nell'esercito belga, si mise in contatto con il governo francese e, dopo molte trattative, riconobbe, in una sua lettera del 24 marzo 1917 da consegnarsi a Poincaré, il diritto francese sull'Alsazia-Lorena, quello del Belgio alla piena restaurazione, quello della Serbia a uno sbocco sul mare e ad ampie concessioni economiche. Nessun accenno alle rivendicazioni italiane. Nello stesso tempo, Carlo insisteva anche presso l'alleato, offrendogli la Galizia, in cambio dell'abbandono dell'Alsazia-Lorena. Perciò in Francia e in Inghilterra si ebbero buone speranze nelle trattative. Al convegno di S. Giovanni di Moriana ne venne informato vagamente anche Sonnino, che escluse la possibilità di una pace separata con l'Austria, a meno che l'Italia non conseguisse tutti i suoi fini. A questo punto, il presidente del consiglio francese, Ribot, onestamente riconobbe che non c'era nulla da fare; e il 22 aprile rifiutò l'offerta. Non per questo le trattative cessarono. In una seconda lettera (9 maggio) Carlo I arrivò fino a permettere la cessione del Trentino in cambio di una colonia italiana. Neanche queste erano basi sufficienti per trattare. Ma intanto anche in Germania il desiderio di pace si faceva più intenso. Tre anni di guerra non avevano portato alcuna decisione nel campo militare né offrivano prospettive confortanti per l'avvenire; la guerra sottomarina non aveva piegato l'Inghilterra; l'intervento degli Stati Uniti allontanava la probabilità di vittoria. Insomma, il tempo lavorava per l'Intesa. Utile era affrettarsi. Di qui la mozione votata al Reichstag il 19 luglio 1917, e approvata a grande maggioranza, con la quale s'invocava una pace d'intesa e senza annessioni. Ma a questa pace erano contrarie le autorità militari, che speravano ancora in una decisione con le armi e consideravano una pace senza annessioni e senza garanzie strategiche equivalente a una sconfitta. Intanto, anche Benedetto XV aveva creduto giunto il momento d'interporre la sua alta autorità morale per indurre i belligeranti alla pace (1° agosto 1917). Ma i punti di vista delle due parti erano ancora troppo lontani perché si potesse arrivare a una conclusione; e il 9 ottobre, von Kühlmann annunciò che la Germania non avrebbe mai fatto concessioni in Alsazia-Lorena. Gli avvenimenti militari e politici dell'autunno, poi, tolsero ogni base ai tentativi di pace in occidente. Si ebbe cioè, dopo l'effimera "offensiva Kerenskij" del luglio, il crollo della Russia; e si ebbe l'avvento al potere, il 7 novembre, dei bolscevichi, che, avversi alla guerra, invitarono tutti i belligeranti a una pace senza annessioni e indennità. Non avendo avuto alcuna risposta dall'Intesa stipularono un armistizio con gl'Imperi centrali, con i quali poi conclusero la pace di Brest-Litovsk (Brześć n. B.) del 3 marzo 1918, rinunciando alle provincie baltiche e alla Polonia. L'8 febbraio anche l'Ucraina fece pace. Si ebbe anche, come conseguenza del crollo russo, la sconfitta italiana sull'Isonzo, che costrinse l'esercito italiano ad arretrare fino al Piave e al Grappa e diede per qualche tempo agl'Imperi centrali la speranza di poter avere ragione dell'Italia e indurla a una pace separata. Anche la Romania fu obbligata alla pace di Bucarest (7 maggio), con la quale cedeva la Dobrugia alla Bulgaria e al condominio degl'Imperi centrali e accordava rettifiche di confine all'Austria.

Tuttavia queste paci, che per un verso segnavano un attivo degl'Imperi centrali, per un altro, in quanto rivelavano in essi mire annessioniste, e in quanto indussero l'Intesa ad accentuare la sua intransigenza verso la Germania e ad apparire sempre più rappresentante di giustizia e libertà, si risolsero in elementi di forza per l'Intesa stessa. Apparvero anche (gennaio 1918) i "quattordici punti" di Wilson, con cui si fissavano le condizioni di pace: lega delle nazioni, disarmo, libertà di navigazione e di commercio, restituzione e restaurazione dei territorî invasi, regolamento delle questioni territoriali secondo il principio di nazionalità, indipendenza della Polonia. Questi concetti vennero poi confermati in successivi messaggi.

Gli armistizî. - Se la Germania avesse accettato, come era nei desiderî dei politici, avrebbe potuto ottenere condizioni onorevoli. Sennonché i suoi alti comandi militari confidavano sempre nella vittoria; e, quindi, le trattative diplomatiche cedettero di fronte alle offensive di Ludendorff. Ma, intanto, si aveva, nel giugno, il fallimento dell'offensiva austriaca sul Piave, che fece crollare la superstite fiducia di quell'impero nell'esito della guerra, e che fu pertant0 evento decisivo nel provocare il mutamento di tutta la situazione; si avevano i rovesci tedeschi dell'agosto che tolsero anche alla Germania le tenui speranze che ancora rimanevano. E tuttavia, se non proprio di vincere, le autorità militari tedesche confidavano di poter resistere ancora su linee arretrate e quindi d'imporre all'Intesa una lunga guerra di logorio. Così, nel contrasto fra le due autorità la conferenza tenuta a Spa, il 13 e 14 agosto, non venne ad alcuna conclusione. Il 30 dello stesso mese, l'Austria minacciò di agire indipendentemente; e il 14 settembre, infatti, inviò una nota, invitando i nemici alle trattative. Alla fine del mese, la Bulgaria e la Turchia conclusero armistizî. A questo punto, Ludendorff, ormai sfiduciato, chiese anch'egli l'immediato inizio delle trattative di pace (1° ottobre). Istituito un governo parlamentare con il principe Max von Baden come cancelliere, questi il 3 ottobre chiese a Wilson di trattare sulla base dei 14 punti e, dopo un attivo scambio di note protrattosi per tutto il mese, alla fine accettò l'abbandono dei territorî occupati e le condizioni di armistizio che avrebbero dettato gli Alleati. Così, il 5 novembre, Wilson comunicò che gli Alleati erano disposti a fare la pace dei 14 punti, salvo una riserva sulla libertà dei mari e salvo un impegno della Germania a compensare "tutti i danni fatti alle popolazioni civili e alle loro proprietà dall'aggressione tedesca per terra, mare e aria". Non c'è dubbio che Vittorio Veneto e la rotta totale dell'esercito austriaco sugli Altipiani, sul Grappa e sul Piave agli ultimi di ottobre; l'armistizio italo-austriaco del 3 novembre; la minaccia di un'armata italiana che poteva prendere di fianco e a tergo, in Germania, le forze tedesche fronteggianti a grande fatica gli Alleati, ebbero il loro peso nell'affrettare la decisione germanica. La Germania era stanchissima, ma aveva ancora possibilità di resistenza; tanto è vero che gli Anglo-Francesi pensavano a un altro inverno di guerra.

Così il nuovo governo, costituitosi dopo l'abdicazione di Guglielmo II, sottoscrisse l'11 novembre l'armistizio, che poneva la Germania nell'impossibilità di riprendere la lotta. Lo stesso giorno anche Carlo I d'Asburgo abdicava, e il 12 veniva proclamata la repubblica in Austria, il 16 in Ungheria. Alle varie nazionalità era stato riconosciuto il diritto di disporre della propria sorte. L'Impero austro-ungarico più non esisteva.

La conferenza di Parigi. - Terminata la guerra, rimaneva da fare la pace: che doveva essere una pace giusta, riguardosa dei bisogni dei varî popoli, sollecita a togliere ogni germe di futuri conflitti. Il compito venne affidato alla Conferenza di Parigi, che incominciò i suoi lavori alla metà di gennaio 1919. Vi erano rappresentati tutti quelli che avevano combattuto contro gl'Imperi centrali; ma solo alle grandi potenze - Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Italia, Giappone - era riservato di deliberare su tutte le questioni, mentre gli alleati minori intervenivano solo in quelle che li riguardavano direttamente. Varî erano i programmi di pace: quello inglese mirava a rendere innocua la Germania, prenderle le colonie, obbligarla a pagare le riparazioni, punire i colpevoli. Questo programma, uscito fuori dalle elezioni di dicembre, era difeso da Lloyd George, uomo di agilissima mente, di rapida concezione, di grande abilità. Il programma francese era impersonato da Clemenceau. Egli, pur facendo omaggio di cortesia ai 14 punti wilsoniani, li considerava come ideologie. La realtà, invece, era per lui il secolare contrasto tra la Francia e la Germania. Nessuna pace duratura poteva esservi fra loro, come non fra gli uomini in genere. Sarebbe stato sciocco non approfittare della vittoria, sia per prendere la rivincita del 1870, sia per dare un durevole colpo alla Germania, pericolosa per la sua superiorità numerica e il suo attrezzamento industriale. Una pace equa non avrebbe fatto che affrettare la ripresa della Germania. e il suo nuovo assalto. Di qui la necessità di garanzie. Ognuna delle quali, accrescendo l'irritazione e quindi la volontà di revanche della Germania, rendeva necessarie altre misure ostili. Ora, Clemenceau godeva di un grande prestigio, come rappresentante massimo della fede incrollabile nella vittoria, proprio quando, sotto i colpi di Ludendorff, tutti vacillavano. Parlava inoltre a nome di un paese che aveva avuto invase alcune delle sue più ricche provincie, subito danni d'ogni genere, avuto milioni di morti, feriti e mutilati. Anche Wilson godeva di autorità grande, per i principî morali banditi, per l'attesa destata tanto nei vincitori quanto nei vinti, per la piena efficienza degli eserciti americani, per la disponibilità americana dei mezzi finanziarî e di rifornimento: ma ignorava l'Europa e le sue condizioni, peccava di dottrinarismo, era lento nella percezione delle cose, inabile a negoziare.

In mezzo a questi contrasti e in una situazione indubbiamente difficilissima, i delegati italiani, Orlando e Sonnino, non seppero prendere una posizione precisa. Sonnino, particolarmente, mancava della duttilità del negoziatore, e credeva da un lato che il Patto di Londra garantisse a sufficienza gl'interessi italiani, e dall'altro che i sacrifici enormi sostenuti dall'Italia in guerra bastassero da sé ad assicurarci Fiume. In pratica essi non seppero tener conto di tutte quelle manovre che si svolgevano entro e ai margini della conferenza, non contrastarono l'attiva e abile propaganda iugoslava, favorita da Francesi e Inglesi e bene accetta allo stesso Wilson, e non riuscirono a far valutare appieno il nostro grandioso sforzo e i sacrifici sostenuti. E così, quando si arrivò alla questione della Dalmazia e di Fiume, si scontrarono nell'ostinata opposizione di Wilson, nella freddezza degli alleati: ciò che indusse Orlando e Sonnino ad abbandonare temporaneamente la conferenza stessa (24 aprile-7 maggio 1919) e significò in definitiva che molte aspirazioni italiane (non ultime quelle coloniali) vennero sacrificate dalla conferenza, e altre (Fiume e Dalmazia) dovettero essere decise dopo e fuori la conferenza stessa e non ad opera dei negoziatori di Versailles (v. italia: Storia). Di più, i lavori della conferenza si svolsero in mezzo all'indifferenza dei popoli, i quali, stanchi del lungo sforzo di guerra, credevano di aver raggiunto la pace con l'armistizio e o esigevano la punizione del nemico o erano profondamente divisi e si dibattevano fra le convulsioni sociali, che sembravano minacciare tutta l'Europa. Perciò, pure riuscendo in certe cose, la pace si risolse essenzialmente - giusta il programma francese - in un compromesso fra il programma anglo-francese e quello wilsoniano e in una radicale diminuzione politica ed economica della Germania, alla quale vennero tolte le colonie, la flotta militare e mercantile, alcuni distretti minerarî; più, imposto l'obbligo delle riparazioni, da fissare in seguito, e il divieto di tenere un esercito superiore ai 100 mila uomini. Nello stesso tempo, tutto intorno e nel territorio del suo antico alleato, l'impero asburgico, sorgevano stati più o meno ostili alla Germania: la Polonia che, oltre ai territorî russi, riacquistava i territorî tedeschi e austriaci abitati in maggioranza da Polacchi; la Cecoslovacchia; la Iugoslavia che, oltre all'antica Serbia, comprendeva le provincie già austriache della Slovenia e Croazia, la Dalmazia, la Bosnia-Erzegovina e il regno del Montenegro. Altre provincie passavano a vecchi stati: la Transilvania alla Romania; alcuni dei territorî fissati nel Patto di Londra del 26 aprile 1915, all'Italia.

Ma tutti i trattati di pace che determinavano tali condizioni - quello di Versailles con la Germania, del 28 giugno 1919; quello di Saint-Germain con l'Austria del 10 settembre 1919; quello di Neuilly con la Bulgaria, del 27 novembre 1919; quello del Trianon con l'Ungheria, del 4 giugno 1920, e quello di Sèvres con la Turchia, del 10 agosto 1920 - non ristabilivano la pace. Troppe questioni rimanevano in sospeso, e troppe cause vecchie e nuove di malcontento sussistevano ancora. L'Italia non aveva avuto Fiume e non tutta la Dalmazia riconosciutale dal Patto di Londra, non i compensi coloniali genericamente assicuratile dal patto stesso; Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Iugoslavia comprendevano nei loro confini forti nuclei di Tedeschi e Ungheresi. Un'infinità di questioni minori rimanevano insolute e mantennero l'agitazione in Europa ancora per molto tempo. La Germania era profondamente umiliata; la Francia malcontenta, perché non aveva avuto la sicurezza. L'Italia spezzava ogni morale solidarietà con gli alleati di ieri, considerandosi defraudata dei benefici della comune vittoria. E così, la pace era fatta, ma non era pace. Alcune condizioni non furono mai eseguite. Perfino trattati interi, come quello con la Turchia, vennero ripudiati e portarono alla guerra turco-greca, nella quale la Grecia, alla quale erano stati attribuiti i territorî asiatici, prima promessi all'Italia, fu sconfitta e umiliata; donde la necessità di un nuovo trattato, quello di Losanna (24 luglio 1923). D'altra parte, era stato trascurato un fatto fondamentale, e cioè che ormai la prosperità di ogni nazione è profondamente legata a quella delle altre e che oggi nessuna nazione nel mondo può fidare esclusivamente sulle proprie risorse e sulla propria forza. Quindi, il lavoro per la pace, se non sempre la buona volontà di fare il necessario per instaurarla veramente, ha continuato anche dopo la conferenza di Parigi, con le conferenze successive e con la Società delle nazioni, creata dai trattati di pace. La quale società ha obbedito a due impulsi diversi: quello di mantenere la soggezione dei vinti stabilita a Parigi; e quello di rivedere, correggere, modificare le condizioni stesse dei trattati, che via via si rivelano ineseguibili. Il primo era suggerito dalle vecchie concezioni di equilibrio o di predominio; il secondo, dalla necessità di stabilire condizioni tali che permettessero a tutti, vincitori e vinti, di vivere. È questa la profonda contraddizione che ha animato e anima la politica non solo europea ma mondiale nel dopoguerra e che ha fatto oscillare l'azione delle principali nazioni europee fra due poli opposti: l'uno che s'ispira alle idee e ai sentimenti del passato, l'altro che guarda all'avvenire. Questi due poli sono soprattutto rappresentati dalla concezione francese e da quella italiana e fascista, in crescente contrasto con l'altra. In questo contrasto, ogni giorno più si riconosce nel mondo il fondamento ideale e il senso realistico che sorreggono la seconda: quella italiana e fascista.

Sguardo generale alle operazioni militari.

Piani di guerra. - La Germania aveva dovuto considerare l'eventualità di una guerra su due opposti scacchieri. E la possibilità di spostare forze dall'uno all'altro non eliminava l'inconveniente della ripartizione iniziale delle forze in due nuclei separati.

Nel ventennio che seguì le disfatte del 1870-71, la Francia poté essere considerata dal Moltke (senior) come il meno pericoloso dei probabili nemici, e il piano di campagna della Germania poté orientarsi sopra un'offensiva iniziale (forze maggiori) contro la Russia e contemporanea difensiva (forze minori) alla frontiera occidentale. Ma quando fu chiaro il grande progresso delle istituzioni militari della repubblica, lo Schlieffen (dal 1891 capo di Stato Maggiore germanico) invertì le basi del piano di campagna del Moltke, tanto più che l'alleanza fra Berlino e Vienna consentiva di conferire un notevole dinamismo alla difensiva contro la Russia, mercé l'impiego delle armate austro-ungariche, anche riducendo al minimo le forze germaniche impiegate a est. Le sconfitte della Russia nell'Estremo Oriente (1904-05) e la convinzione che, a causa della vastità e della scarsa viabilità dell'Impero russo, la mobilitazione e la radunata russa dovessero svolgersi lentamente, confermarono lo Schlieffen nel suo proposito. Circa il modo dell'offensiva nello scacchiere occidentale, lo Schlieffen era d'avviso che convenisse compiere un largo movimento aggirante spingendo innanzi l'ala destra dello schieramento germanico, ciò che non poteva attuarsi senza violare la neutralità del Belgio e del Lussemburgo. Il piano Schlieffen rimase nelle linee generali immutato sotto il successore, generale Moltke (iunior); il quale soltanto indebolì alquanto l'ala destra (ala di manovra) a vantaggio dell'occupazione dell'Alsazia-Lorena, tanto più che dal 1911 (guerra di Libia) non si poté più contare sul concorso armato dell'alleata Italia in Alsazia. Al principio del 1914, quando i deprimenti effetti della spedizione di Libia sulla mobilitazione metropolitana dell'Italia, furono in parte superati, la possibilità dell'invio di alcune divisioni italiane in Alsazia tornò a essere presa in esame dagli Stati Maggiori di Berlino e di Roma. E se, nell'agosto 1914, l'Italia non si fosse dichiarata neutrale, quelle forze italiane - promesse pochi mesi prima dal capo di Stato Maggiore Pollio - avrebbero potuto indurre il Moltke a ridare all'ala settentrionale manovrante attraverso il Belgio la consistenza voluta dallo Schlieffen; ciò che avrebbe, con tutta probabilità, evitata ai Tedeschi la perdita della battaglia della Marna.

Quanto all'Austria, era preveduto che in caso di guerra contro la duplice franco-russa, essa avrebbe dovuto impiegare una parte delle sue forze nei Balcani, dove la Serbia si sarebbe sicuramente mossa nello stesso senso della Russia. Da quando (1903), con la soppressioue degli Obrenović, era mutato l'orientamento della politica estera serba, lo Stato Maggiore austro-ungarico aveva messo in conto la necessità di condurre contemporaneamente la guerra nei Carpazî e ai confini meridionali dell'impero. Questa necessità si affermò più imperiosa dopo l'annessione della Bosnia-Erzegovina (1908) e dopo le guerre balcaniche del 1912-13. La ripartizione delle forze imperiali prevista dal capo di Stato Maggiore Conrad v. Hötzendorff (¾ contro la Russia e ¼ contro la Serbia) rispondeva quindi a una sana concezione politico-strategica, in quanto la preponderanza delle forze austro-ungariche contro la Russia ripeteva dal giusto concetto che le sorti della Serbia sarebbero comunque dipese dalle sorti della Russia. Pur tuttavia il Conrad, anch'egli d'accordo con lo Stato Maggiore germanico nel prevedere che la mobilitazione russa si sarebbe svolta lentamente, aveva tenuto in riserva un grosso nucleo di divisioni, che in un primissimo tempo si sarebbero potute impiegare contro la Serbia, per schiacciarla rapidamente e completamente, e avrebbero poi potuto essere trasportate in Galizia in tempo utile, e insieme con esse, probabilmente, anche le forze costituenti il primo schieramento alla fronte balcanica. Con l'applicazione di questa variante si sarebbe avuta - nella primissima fase operativa - una ripartizione delle forze austro-ungariche a dosi pressoché eguali sulle due fronti, russa e serba. Era, tuttavia, opinione del Conrad che le forze inviate contro la Russia - anche così ridotte - dovessero tenere un contegno aggressivo per profittare della debolezza dell'avversario nei primi giorni dopo la dichiarazione di guerra; e lo stesso Conrad aveva insistito presso il Moltke (iunior) perché analogo contegno tenessero a nord del saliente polacco le poche forze tedesche destinate a operare nello scacchiere russo (Prussia orientale).

Nel campo opposto, la Francia aveva formulato fin dal 1887 un piano di campagna offensivo, che assunse forme sempre più decise, specie dopo l'alleanza franco-russa. Lo sforzo principale doveva essere compiuto in Lorena, dove si prevedeva a nord di Metz la prima grande battaglia della guerra, non lungi dal terreno sul quale l'armata del Bazaine aveva subiti i primi rovesci nell'agosto del 1870. Contro l'Italia si sarebbe tenuto contegno difensivo: per questo si ritenevano sufficienti due corpi d'armata dislocati sulle Alpi. Nel 1911 il generale Michel, designato generalissimo, prevedendo possibile la violazione del Belgio da parte tedesca, aveva formulato un diverso piano, secondo il quale si sarebbe rinunciato all'offensiva in Lorena e si sarebbero concentrate le forze al confine franco-belga, per contromanovrare l'ala destra tedesca. Poiché questo piano importava una più ampia intelaiatura dell'esercito di pace, il Consiglio superiore di guerra negò la sua approvazione. Poco dopo, al Michel successe il Joffre, che preparò un piano di campagna (il XVII, applicato poi nel 1914) permeato di spirito offensivo, e fissato sul vecchio caposaldo d'una vivace azione da svolgere in Lorena a nord di Metz, con contemporanea dimostrazione offensiva nell'Alsazia meridionale; un'intera armata era tenuta indietro, in riserva, nelle mani del generalissimo. Nella possibilità, non ritenuta peraltro molto probabile, di violazione tedesca del Belgio e del Lussemburgo, l'armata di sinistra della linea di attacco contro la Lorena sarebbe stata spostata verso nordovest, con contemporanea avanzata al confine franco-belga della riserva strategica. (Sull'importanza che il Belgio aveva assunto nella valutazione dei diversi Stati Maggiori - importanza già messa in rilievo fin dal 1870 dal Moltke (senior) - ha recato nuova luce la pubblicazione dei Mémoires di Joffre). Le truppe inglesi - il cui intervento era ritenuto certo in caso di violazione del Belgio - avrebbero costituito una seconda linea dietro l'ala settentrionale francese. Infine questo piano prevedeva il trasporto dall'Africa di due divisioni di colore, e contro l'Italia l'impiego dei soliti due corpi d'armata con contegno difensivo.

In Russia, il piano di guerra era stato (1912-1913) armonizzato con quello francese. Non senza ritrosia, lo Stato Maggiore russo si era lasciato convincere a sferrare una doppia offensiva al confine carpatico e a quello della Prussia orientale contemporaneamente all'offensiva francese in Lorena. Le forze maggiori contro l'Austria, le minori contro la Germania. La Serbia e il Montenegro dovevano anch'essi attaccare l'Austria da sud, lasciando un semplice cordone d'osservazione verso il confine bulgaro.

Circa l'impiego delle flotte, fin dal 1912 gli ammiragliati inglese e francese avevano prevista (senza carattere di obbligatorietà) una reciproca collaborazione. In generale era stato concordato che la flotta inglese avrebbe provveduto da sola alla difesa del Mare del Nord e del Passo di Calais, mentre il resto della Manica sarebbe stato affidato alle cure della marina francese. Per il Mediterraneo i Francesi avrebbero provveduto alla difesa della zona occidentale, gl'Inglesi (base Malta) dell'orientale (convenzioni del 1913).

Nelle sue linee generali questo programma era in vita nel 1914. Però, fino all'entrata in guerra dell'Italia, l'ammiragliato francese ebbe una doppia missione da compiere e cioè tener testa alle forze navali austriache e soccorrere il Montenegro, mentre dopo l'intervento dell'Italia (la quale richiese perentoriamente di sopperire da sola alla lotta marinara contro gli Austro-Ungarici nell'Adriatico) una parte delle forze navali francesi rimase distaccata in Siria e ai Dardanelli, un'altra ebbe il compito di assicurare le comunicazioni nel Mediterraneo e infine alcune unità collaborarono con gl'Inglesi alla sicurezza del Canale d'Otranto.

Fin da quando lo sviluppo marittimo tedesco aveva assunto proporzioni inquietanti, l'Inghilterra aveva deciso di concentrare le forze navali nelle grandi basi metropolitane per garantire la sicurezza delle vie commerciali indispensabili alla vita del regno. Si trattava, in sostanza, d'impedire alla flotta tedesca di uscire dal Mare del Nord.

La Germania, conscia dell'inferiorità della sua flotta in confronto di quella inglese, non aveva prestabilito un piano di guerra navale, indipendente dalle operazioni terrestri: battuti i nemici nella guerra terrestre si sarebbe potuto, ma non prima d'allora, minacciare l'Inghilterra dai porti belgi e francesi, e forse effettuare uno sbarco nell'isola. Durante la guerra terrestre la flotta inglese avrebbe dovuto, però, essere molestata con colpi di mano, con mine e sottomarini.

Le vicende della guerra nel 1914. - La guerra s'inizia ai primi d'agosto del 1914 con l'offensiva di 5 armate tedesche contro la Francia attraverso il Belgio e il Lussemburgo; altre 2 armate sono in Alsazia-Lorena; un'altra è inviata al confine russo (Prussia orientale). Joffre applica la variante prevista per il caso di violazione del Belgio, mentre la dichiarata neutralità dell'Italia gli consente anche di utilizzare le sei divisioni del cosiddetto Corpo delle Alpi. Intanto l'Inghilterra dichiara d'inviare le proprie forze sul continente contro la Germania. A sud la 1ª armata francese ottiene in Alsazia qualche relativo, e in parte effimero, vantaggio, ma a nord i Tedeschi, occupata Liegi, avanzano a cavallo della Mosa, con 12 corpi d'armata a nord di questo fiume. I Belgi si ritirano ad Anversa. Una grande battaglia fra Tedeschi e Franco-Inglesi si accende dalle Ardenne lungo il confine franco-belga. Le truppe dell'Intesa sono battute a Charleroi e a Mons e Joffre ordina la ritirata verso sud, sottraendosi al contatto con il nemico. In due giorni la situazione dei Franco-Inglesi è divenuta grave; il piano Joffre è sconvolto; i vantaggi ottenuti in Alsazia perdono valore. L'impressione a Parigi è profonda; si forma un ministero Viviani di difesa nazionale; viene deciso di trasferire a Bordeaux governo e parlamento.

Intanto s'insinua da molti che Joffre abbia mentalità negativa per ore di grandi prove, come sembra provare la continuazione della ritirata oltre la Marna e forse fin dietro la Senna. Ma poi in accordo con Gallieni governatore della capitale (il quale fa uscire tutte le truppe disponibili) il generalissimo decide di passare alla controffensiva contro la linea della Marna, nel frattempo raggiunta dai Tedeschi. L'improvvisa reazione frontale (5 settembre) combinata con la seria minaccia di avvolgimento rappresentata dalla sortita da Parigi, trova i Tedeschi inferiori di numero su tutta la linea (44 divisioni germaniche contro 57 alleate) con accentuata riproporzione nella regione più vicina a Parigi. La gigantesca battaglia è perduta dai Tedeschi; Guglielmo II esonera dal comando il Moltke, sostituendolo con il Falkenhayn. Quantunque la Marna non sia per i Franco-Inglesi vittoria decisiva e i Tedeschi rimangano in grado di riprendere, quando convenientemente rinforzati, l'interrotta manovra, non è dubbio che il piano germanico di una rapida eliminazione della Francia che consenta di portare la massa delle forze contro la Russia, viene a essere sconvolto.

Comunque, dopo breve sosta, gli avversarî riprendono entrambi l'offensiva; ed entrambi con il disegno di sopravanzare l'ala settentrionale dell'avversario. Si ha, così, nell'un campo e nell'altro, quella serie di manovre e di arroccamenti che costituiranno la cosiddetta corsa al mare, nella quale saranno particolarmente interessati gl'Inglesi. Si è cominciato a constatare alla Marna, e se ne ha conferma durante la corsa al mare, che la potenza delle armi moderne, se lascia integro il principio teorico dell'offensiva, ne limita le possibilità pratiche e obbliga comunque a modificarne i procedimenti. Si hanno così i primi indizî di guerra interrata e di conseguente stabilizzazione delle fronti. Questa fase operativa della corsa al mare, durata parecchie settimane, si conclude dalle due parti senza reali vantaggi; né poteva essere diversamente se si tien conto che l'affrettato allungamento della linea di battaglia verso nord-ovest, aveva talmente assottigliati gli schieramenti fronteggiantisi, da escludere ogni possibilità di manovra alimentata. I Tedeschi tentano ancora un grande scatto offensivo nella regione settentrionale (battaglia delle Fiandre), ma alla metà di novembre del 1914 anche questa attività si spegne. La tendenza a riparare entro terra uomini e materiali, ha il sopravvento; la guerra nel suo insieme e la battaglia in particolare cominciano a essere vedute sotto forma diversa da quella di un dinamismo fulmineo e ininterrotto.

Mentre ciò accadeva nello scacchiere occidentale, al confine della Prussia orientale due armate russe (Rennenkampf e Samsonov) sconfinavano nei primissimi giorni obbligando l'armata tedesca del v. Prittwitz a ripiegare a Gumbinnen. Un tentativo, fallito, di contrattacco demoralizzò il comandante tedesco, che ordinò - non costrettovi - la ritirata alla Vistola. Il Comando supremo, irritato da tale contegno, prescrisse la sospensione del movimento retrogrado, esonerò il Prittwitz e il suo capo di Stato Maggiore, sostituendoli rispettivamente con Hindenburg e Ludendorff. Immediatamente (fine agosto) il nuovo binomio di pose all'opera con concetti di audace controffensiva. Le operazioni cominciarono il 27 agosto, e tre giorni dopo l'armata russa del Narev era battuta (battaglia di Tannenberg), e Hindenburg proseguiva l'offensiva per battere anche l'altra armata russa, non curando le obiezioni del capo di Stato Maggiore austro-ungarico, che vedeva mal volentieri lo spostamento a nord dell'azione germanica e il conseguente maggior distacco fra i due eserciti alleati. Il Rennenkampf è anche battuto ai Laghi Masuriani e i Russi passano in disordine il Niemen. Trascinato dal successo, Hindenburg avrebbe voluto che il Comando supremo capovolgesse il piano strategico iniziale, assumendo atteggiamento difensivo in Francia per scatenare un'offensiva generale contro la Russia. Ma il nuovo comandante in capo, Falkenhayn, si mostrò di opposto parere. E, d'altra parte, gli Austro-Ungarici erano stati battuti dai Russi nella Polonia meridionale e nella Galizia, e la loro lunga e rapida ritirata (una media di 200 km. per i varî tratti di fronte) aveva determinato colà una grave crisi, aggravata dai contemporanei avvenimenti sfavorevoli alla fronte serba (v. oltre). In ottobre Hindenburg e Conrad tentarono di ristabilire la situazione in Galizia senza riuscirvi, sicché al Comando supremo tedesco sorsero preoccupazioni per la minaccia d'una invasione russa dei grandi bacini industriali della Slesia. La situazione era seria e Hindenburg volle tentare di rimediare movendo audacemente all'attacco; questa volta, però, senza fortuna.

Il gelido inverno settentrionale si avanza. Le fronti si stabilizzano su tutti gli scacchieri. Il Falkenhayn ammetterà nelle sue Memorie che in quella situazione e in quel momento sarebbe stato consigliabile per i Tedeschi metter fine volontariamente alla guerra "nel caso in cui la direzione politica dello stato avesse disposto di mezzi atti a condurre a una conciliazione degli avversarî".

Mentre la situazione austriaca si aggravava in Galizia, un altro insuccesso assai notevole - quantunque d'importanza più morale che strategica - subivano le truppe imperiali operanti contro i Serbi; i quali avevano contrattaccato e occupato alcuni punti in territorio austriaco (nel banato di Temesvár [Timiṣoara], nella Slavonia e nella Bosnia). Gli Austriaci avevano ripreso di poi l'avanzata invadendo il territorio serbo, ma di nuovo erano stati costretti a ripiegare. A questa seconda reazione i Serbi erano stati spinti soprattutto dal desiderio di mostrare a Francia e Inghilterra che si poteva fare a meno per la guerra nello scacchiere balcanico dell'alleanza bulgara, alla quale le grandi potenze alleate miravano, in quel tempo, con rinnovata attività diplomatica. Era però chiaro che i successi serbi erano un riflesso delle disgrazie austro-ungariche in Galizia; e le potenze dell'Intesa continuarono a insistere perché fosse almeno evitata l'entrata in guerra della Bulgaria accanto agl'Imperi centrali, il che avrebbe aggravato le difficoltà che si prospettavano all'Intesa per l'entrata in guerra della Turchia, già avvenuta in ottobre. Per questa entrata in guerra, gl'Imperi centrali estendevano l'attività operativa in una direzione (l'Asia occidentale) particolarmente sensibile per l'Inghilterra, e inoltre acquistavano nuove possibilità offensive nella regione del Caucaso e cioè sul rovescio della fronte russa. Si presentavano infatti, fin dall'inizio, tre compiti per lo Stato Maggiore turco: sbarrare alle forze e ai rifornimenti dell'Intesa l'accesso dall'Egeo al Mar Nero; minacciare l'Egitto per via di-terra; attaccare la Russia nel Caucaso. L'accenno a questi tre compiti basta a stabilire qual peso avesse l'intervento turco nella lotta. Inoltre i nuovi problemi politico-strategici che questo avvenimento determinava nei Balcani, si riverberavano sui rapporti fra gli alleati dell'Intesa che difficilmente potevano essere d'accordo (e infatti per lungo tempo non furono) sul peso e sul modo di un diretto intervento armato nell'Europa sud-orientale. Infatti l'ammiragliato e il governo inglesi prediligevano operazioni in grande stile nella penisola balcanica, base Egeo; gli Stati Maggiori degli eserciti operanti nello scacchiere francese (e soprattutto Joffre) si dichiaravano ostili a un alleggerimento di truppe di fronte alle armate del Falkenhayn; finché, da questi contrasti d'idee verrà fuori il disgraziato compromesso della spedizione dei Dardanelli, che si risolverà nel 1915 in uno scacco nocivo alle armi e al prestigio dell'Intesa.

Le vicende della guerra nel 1915. - Il capo di Stato Maggiore tedesco aveva deciso di riprendere l'offensiva in Francia al finire dell'inverno, quando cioè fossero giunte alla fronte le nuove divisioni che si andavano formando all'interno. Suo proposito era quello di far convergere ogni energia realizzabile contro i Franco-Inglesi, senza deviarne la minima parte verso oriente. Il Falkenhayn collegava la sua concezione strategica con alcuni punti fermi che la diplomazia avrebbe dovuto realizzare. Per lui era assiomatico che la situazione alla fronte russa si sarebbe ristabilita soltanto se si fosse attratta la Bulgaria nell'alleanza con gl'Imperi centrali e si fosse evitato che l'Italia entrasse in guerra con l'Intesa. La strategia, in sostanza, chiedeva alla politica il modo di risolvere la situazione difficile di una grossa guerra su due scacchieri lontani. Di fronte alle aggravate minacce dei Russi contro il territorio ungherese e alle insistenze di Hindenburg e Conrad, il generalissimo tedesco inviò alla fronte est alcuni rinforzi, se pure non nella misura richiesta.

Nel gennaio del 1915 il Conrad in un colloquio avuto a Berlino col Falkenhayn gli prospettò la crescente minaccia dell'intervento italiano che, a suo parere, si doveva temere per il marzo. E poiché il Falkenhayn espresse il parere che la duplice monarchia dovesse evitare il pericolo cedendo Trento e Trieste, il Conrad ribatté che, nello stesso ordine di idee, la Germania avrebbe ben potuto concludere la guerra in occidente, e dedicarsi alle operazioni in oriente cedendo l'Alsazia e la Lorena. Irritato da queste resistenze il Falkenhayn ribadì il rifiuto di nuovi rinforzi aggravandolo con l'imposizione di condizioni umilianti per lo Stato Maggiore austro-ungarico. Pretese infatti (e il Conrad dovette acconciarvisi) che con quattro divisioni tedesche e quattro divisioni austro-ungariche si formasse l'armata imperiale germanica dei Carpazî agli ordini di un generale tedesco (il v. Linsingen) e che allo Stato Maggiore germanico fosse riserbato un diritto di veto nella designazione delle quattro divisioni austro-ungariche, allo scopo di escluderne quelle che lo Stato Maggiore germanico riteneva meno sicure.

Mentre queste dispute erano in atto, gli eventi si svolgevano alla fronte est con varia fortuna: successi germanici (però non decisivi) nella regione dei Masuriani; gravi insuccessi austro-ungarici in Galizia, dove il 22 marzo Przemyśl si arrendeva ai Russi. Ciò indusse il Falkenhayn a consentire la costituzione di una nuova armata di 6 divisioni germaniche e 3 austriache al comando del Mackensen, per una controffensiva che, iniziata ai primi di maggio, capovolse la situazione alla fronte orientale: in due mesi tutta la Galizia fu sgombrata dai Russi e durante l'estate anche la Polonia.

Né meno gravi per l'Intesa erano i contemporanei avvenimenti nella Penisola balcanica, dove i Serbi si erano messi in riposo e dove le difficoltà incontrate nell'impresa dei Dardanelli lasciavano intravvedere la fine infausta di quella spedizione; il tutto poi aggravato dal naufragio, causato dall'opposizione romena e bulgara, del progetto Briand per la costituzione di un blocco balcanico. Questi sfavorevoli avvenimenti erano in corso, quando - a sollevare le sorti dell'Intesa - l'Italia entrò in guerra.

In Francia le operazioni avevano attraversato un periodo di relativa calma; gli Alleati avevano attaccato con forze superiori in diversi punti: nella Champagne, a nord di Arras, nella regione di Lilla, e presso Verdun; tuttavia, nel complesso, la situazione era rimasta immutata. Un'operazione di maggiore entità, tentata con 6 corpi d'armata al comando del Foch, e con lo scopo di alleggerire la Russia, poté far breccia nelle Argonne, ma i Tedeschi reagirono e la lotta riprese in Francia il carattere della guerra trincerata e del logoramento lineare. Anche nello scacchiere francese l'Intesa era in una fase di depressione quando l'Italia entrò in campo.

Giova notare che in questo momento appariva definitivo il passaggio dalla guerra di movimento alla guerra di trincea nello scacchiere principale (franco-tedesco) e n'era rimasta scossa di conseguenza la fiducia in una pronta risoluzione del conflitto. Conseguentemente s'imposero provvidenze di grande stile per assicurare gli effettivi, i materiali, i rifornimenti, la resistenza interna e, insieme, un attento studio comparativo degli analoghi valori altrui (alleati, avversarî e neutri); occorreva, insomma, una progettazione lungimirante che limitasse per quanto possibile i rischi.

Sull'intervento italiano gli Stati Maggiori dell'Intesa fondavano vive speranze per il ristabilimento della situazione nello scacchiere orientale, tanto più che l'esercito serbo era stato messo ormai di nuovo in pieno assetto. Ma, mentre solo pochi vedevano in quell'intervento la possibilità di una grande diversione decisiva su un nuovo teatro di guerra (specie gli ambienti politici), gli elementi militari alleati lo consideravano solo come l'insorgere di nuove forze in lotta, destinato a rompere l'equilibrio stabilitosi fra i belligeranti. Cadorna aveva ottenuto (Convenzione di Baranovič [Baranowicze] del 12 maggio) che all'offensiva italiana sull'Isonzo si accompagnasse una ripresa offensiva dei Russi e dei Serbo-montenegrini. Ma, all'atto pratico, il granduca Nicola non fu in grado di mantenere l'impegno; e lo Stato Maggiore serbo rimase inattivo, mettendo innanzi pretesti che non mancarono di sorprendere lo stesso Joffre e il ministro francese della Guerra, A. Millerand, che il 6 agosto 1915 scriveva al suo collega degli Esteri: "L'arresto degl'Italiani sull'Isonzo, se anche si producesse realmente (e niente permette di prevederlo), sarebbe piuttosto la conseguenza che la causa dell'immobilità serba, essendo l'Italia in diritto di contare sulla cooperazione di quell'esercito".

Tuttavia l'esercito italiano iniziò egualmente la propria avanzata generale con l'intento di attuare lo sforzo massimo in direzione d'oriente, limitando le azioni in tutto il tratto settentrionale dello scacchiere (dalla Carnia al confine svizzero) ad affermazioni locali, almeno per il primo momento. L'attacco delle posizioni nemiche sul Carso e lungo la barriera montana a nord della conca di Gorizia, conseguì vantaggi che non poterono andare oltre le possibilità del nostro armamento, inadeguato a battaglie offensive secondo il più recente stile contro posizioni che erano state ben munite e saldamente organizzate nel periodo della neutralità italiana e più intensamente dopo l'avvenuta denuncia della Triplice.

Più si allargavano le basi dell'Intesa, e più evidente si manifestava il difetto di armonia fra le operazioni nei diversi scacchieri. Per tentare di ovviare a questo serio inconveniente, o almeno di limitarne gli effetti, i capi militari dell'Intesa si riunirono una prima volta a Chantilly il 7 luglio. Si constatò l'impossibilità per il momento d'intraprendere offensive a largo raggio nello scacchiere francese; per lo scacchiere italo-serbo s'insistette nella necessità di coordinare una doppia offensiva contemporanea dall'Isonzo e dal Danubio, cui più tardi avrebbe apportato indiretto ausilio l'offensiva anglo-franco-belga nello scacchiere occidentale; si riconosceva, infine l'opportunità d'insistere nell'azione per attrarre la Bulgaria nell'orbita dell'Intesa. L'Italia, uniformandosi a questi accordi, iniziò il 18 luglio un'offensiva sul Carso (2ª battaglia dell'Isonzo) che, data la gravità delle continue sconfitte russe e l'inazione persistente dei Serbi, non portò allo sperato capovolgimento della situazione.

A fine settembre i Franco-Inglesi furono pronti anch'essi per la grande offensiva preannunciata e che si svolse nell'Artois; ma le condizioni dei Russi erano giunte frattanto a tale estremo da non poterne più risentire benefici effetti, e anzi il Falkenhayn aveva avuto il tempo di trasportare notevoli forze dalla fronte orientale a quella occidentale, così come gli Austro-Ungarici avevano avuto il tempo di trasportarne dalla Galizia all'Isonzo. Poco dopo l'inizio dell'offensiva nell'Artois, gl'Italiani lanciavano un nuovo attacco (3ª battaglia dell'Isonzo) con l'intento anche di controbilanciare gli effetti dell'avvenuta entrata in guerra della Bulgaria a fianco degl'Imperi centrali, il cui piano immediato tendeva ormai a metter fuori causa la Serbia. Né l'offensiva italiana, né il tentativo del corpo alleato di Salonicco di soccorrere direttamente i Serbi rimontando il Vardar (tentativo subito stroncato dai Bulgari) valsero a salvare i Serbi, i quali attaccati su tre lati furono costretti a cercare scampo sulle coste adriatiche, dove sarebbero stati annientati se l'Intesa, e in particolar modo l'Italia, non li avesse tratti a salvamento attraverso il mare. Alla fine di dicembre del 1915 s'inizia altresì lo sgombro della penisola di Gallipoli da parte dell'Intesa, la quale però cerca di rivalersi dello scacco rafforzando Salonicco, base da cui si muoverà più tardi per una ripresa nei Balcani centro-occidentali, cui l'Italia parteciperà sbarcando a Valona (16 dicembre) un nuovo corpo di spedizione di 50.000 uomini.

Le vicende della guerra nel 1916. - I fatti dell'anno 1915 (che si chiudeva in passivo per l'Intesa) stavano a indicare che, senza l'intervento italiano la guerra si sarebbe risolta in quell'anno con la vittoria tedesca. Le armate della Quadruplice erano tutte in territorio nemico, fatta eccezione per lo scacchiere italiano. Particolarmente critica era la situazione determinatasi nei Balcani dopo l'annientamento della Serbia e lo scacco dei Dardanelli. Nello scacchiere occidentale tutte le grandi offensive dell'Intesa si erano esaurite con gravissime perdite e senza alcun risultato positivo.

Alla fine del 1915 le due coalizioni avverse si preoccuparono, l'una di trarre il più prontamente possibile le ultime conseguenze dei favorevoli avvenimenti, l'altra di compiere un grande sforzo per capovolgere, o almeno equilibrare, la situazione.

Nel campo germanico, Hindenburg e Ludendorff giudicano la Russia in condizioni tali da essere costretta a cedere definitivamente, ove si attui contro di essa una poderosa offensiva manovrata. Era intenzione dei due generali tedeschi di aggirare l'ala sinistra russa, attraversando con grandi forze il territorio romeno, volente o nolente il governo di Bucarest. Occorreva per questa azione il concorso su larga scala dell'esercito austro-ungarico. Ma il Conrad, era, invece, d'avviso che lo sforzo maggiore dell'inizio del 1916 dovesse essere compiuto contro l'Italia. Il Falkenhayn condivideva il modo di vedere di Hindenburg, perciò insistette perché il Conrad alleggerisse la fronte italiana a vantaggio dello sforzo offensivo contro la Russia, ciò che il generalissimo austriaco non volle assolutamente consentire. Il peso dell'offensiva progettata per il 1916 contro la Russia ricadde, perciò, quasi interamente sulla Germania e fu chiaro anche in questa circostanza quale vantaggio per l'Intesa fosse il fattore italiano; non solo per le grandi forze austriache che attirò nel Veneto, ma anche per il dissenso che suscitò fra i capi nemici. Si aggiunga che il Falkenhayn non abbandonò affatto la sua idea che la guerra dovesse risolversi nello scacchiere francese e progettò per il 1916, contemporaneamente all'offensiva di Hindenburg contro la Russia, anche una grande colpo contro la Francia nella regione di Verdun, considerata pilastro della resistenza francese. Pensava il Falkenhayn (e i fatti gli diedero, in questo, ragione) che i Francesi avrebbero alimentato la battaglia difensiva in quella regione sottraendo forze da tutti gli altri settori, con conseguente crisi di movimenti e molto probabilmente anche con effetto di creare disaccordo fra le tendenze francesi e quelle inglesi. Di più, il Falkenhayn, d'accordo con l'ammiraglio Tirpitz, avrebbe voluto che l'ampio quadro delle azioni offensive contro l'Intesa comprendesse altresì l'incremento della guerra sottomarina volta anche contro i paesi neutri, ma destinata a ferire soprattutto l'Inghilterra. A ciò si oppose il cancelliere Bethmann-Hollweg - appoggiato dall'imperatore - per ragioni politiche (principalmente in relazione con l'atteggiamento degli Stati Uniti in occasione dei precedenti siluramenti), ché, da un punto di vista tecnico, non si sarebbe potuto negare la grande efficacia della caccia sottomarina ai trasporti nemici, sola forma di guerra marinara consentita alla Germania da che la sua flotta, dopo varî tentativi, conclusisi con altrettanti insuccessi (v. appresso), per uscire dal mare del Nord, si trovava per la maggior parte imbottigliata. Del pari, la flotta austro-ungarica, dopo aver compiuto nel 1915 qualche inutile colpo di mano contro porti italiani dell'Adriatico, s'era ridotta nei proprî rifugi. Il controllo esclusivo dei mari rimaneva alle flotte dell'Intesa la quale si era assicurata i rifornimenti dalle colonie e dai paesi neutri. Solo turbamento a quel possesso dei mari veniva dall'attività dei sommergibili degl'Imperi centrali.

Frattanto i capi militari dell'Intesa avevano concordato (conferenza di Chantilly, 6-8 dicembre 1915) per la primavera del 1916 una ripresa offensiva su tutti gli scacchieri d'operazione, calcolandosi che l'inverno sarebbe stato sufficiente a riparare le perdite gravi subite in un anno e mezzo di guerra e a riorganizzare Russi e Serbi. In successive conferenze (Chantilly, febbraio e marzo), di fronte al constatato ritardo degli apprestamenti previsti, l'inizio dell'offensiva fu rinviato. In sostanza si doveva lanciare un gigantesco attacco franco-inglese sulla Somma con contemporanee azioni minori in Alsazia-Lorena e nella Champagne; nello scacchiere italiano si doveva attaccare nuovamente sulla fronte Giulia; nello scacchiere russo, si doveva riprendere l'avanzata con l'intento di compiere lo sforzo principale in Galizia.

Ma l'Intesa fu prevenuta dall'offensiva sopra accennata degli Imperi centrali. Contro Verdun questa ebbe inizio a fine febbraio e durò poi fino al mese di luglio con perdite e consumo di mezzi enormi da ambo le parti. I Tedeschi non riuscirono a sfondare la fronte francese né a impedire la reazione franco-inglese sulla Somma, anch'essa molto logorante per entrambi gli avversarî. Alla fine d'agosto Falkenhayn fu sostituito nel Comando supremo con Hindenburg. In Italia, gli Austriaci avevano frattanto scatenata (maggio) un'offensiva nel Trentino, la quale dopo un primo travolgente successo era stata contenuta dal pronto accorrere di rinforzi. Di più, Cadorna aveva conquistato subito dopo il campo trincerato di Gorizia ed era pervenuto sul Carso fino alla zona di Castagnavizza (7ª, 8ª e 9ª battaglia dell'Isonzo). Così l'Austria, per il mancato successo dell'offensiva dal Trentino e per la necessità di contenere la nuova offensiva italiana sulla fronte Giulia, non era stata in grado di aiutare la Germania (come il Falkenhayn avrebbe voluto) impegnata a Verdun e sulla Somma.

Non meno redditizia dell'azione strategica italiana fu l'offensiva dei Russi. Nel mese di giugno, infatti, il generale Brusilov (gruppo di armate del sud) travolse le ali austro-ungariche del fronte galiziano e giunse ai Carpazî. Successivamente (seconda metà di luglio) i Russi tentarono una nuova poderosa spinta, con il proposito di agevolare le operazioni della Romania - alfine decisasi, di fronte alle vittorie italiane e russe, a entrare in guerra a fianco dell'Intesa -; ma presto per le scarse munizioni, per la stanchezza delle truppe e soprattutto per le energiche contromisure di Hindenburg, l'arrestarono. Lo Stato Maggiore germanico spiegò in questa occasione un'audacia e una tecnica veramente superiori, decidendo che gli Austro-Germanici (secondo un piano del Falkenhayn modificato da Hindenburg) occupassero la Dobrugia (Mackensen) e avanzassero su Bucarest, dopo aver fugato i Romeni dalla Transilvania. Sulle prime il vantaggio rimase ai Romeni, ma poi mancarono loro le forze per continuare e non poterono impedire ai Tedeschi e agli Austriaci di passare all'attacco. In una ventina di giorni quella regione fu completamente perduta e il concorso romeno inutilizzato (settembre). Nei mesi seguenti la situazione si aggravò ancora: a dicembre Bucarest cadde, e sullo scacchiere romeno la lotta fu praticamente finita. In novembre, quasi a prendere il posto della Romania, la Grecia dichiarava, dopo singolari vicende, la guerra agl'Imperi centrali.

Mentre si svolgevano questi avvenimenti, la guerra divampava anche in Asia Minore e in Palestina. Le operazioni quivi effettuate non assursero a importanza primaria; ma ebbero interesse politico specie perché gli alleati dell'Intesa si trovarono di fronte - nei loro possessi coloniali - al rischio che le popolazioni musulmane fossero indotte dai Turchi alla proclamazione della guerra santa.

Nel Caucaso, dopo numerosi scontri avvenuti fra Russi e Turchi nel 1914 e 1915, senza decisivo risultato, il granduca Nicola era riuscito con un'offensiva energica a occupare tutta l'Armenia. Intanto gl'Inglesi, il cui disegno era di giungere a Baghdād per congiungersi con i Russi, avevano sofferto (aprile 1916) una grave sconfitta per opera dei Turchi che disponevano di migliori mezzi logistici (ferrovie d'Anatolia e di Baghdād). E quando alla fine dell'anno ricuperavano il terreno perduto e riuscivano a collegarsi con i Russi, era troppo tardi, ché già la Russia si avviava allo sfacelo interno.

In Egitto, i Turchi cercarono di togliere all'Intesa il possesso del Canale di Suez. Però fino al termine del 1916 non riuscirono che a preoccupare gl'Inglesi e a indurli a invii di forze colà. Giova qui accennare, per non ritornare sull'argomento, che nel 1917 si svolgeranno fatti più importanti, soprattutto per gli aiuti inviati ai Turchi dalla Germania e per l'azione vigorosa del generale inglese Allenby (a sua volta rinforzato da elementi indiani e australiani e appoggiato dalla flotta) il quale riuscirà ad avere il sopravvento e a conquistare Gaza, Giaffa e, infine, Gerusalemme.

Le vicende della guerra nel 1917. - L'anno 1917 s'inizia in mezzo a preoccupazioni gravi nel campo dell'Intesa. In Francia, fin dall'anno precedente, si erano manifestati gravi sintomi di stanchezza aggravati dall'azione non benefica di un demagogismo parlamentare che pretendeva immischiarsi direttamente nella condotta della guerra. La scarsità degli effettivi, conseguenza della scarsità di risorse demografiche, era difficilmente riparabile e, ove le perdite degli uomini fossero continuate con il ritmo degli ultimi mesi, le disponibilità sarebbero state appena sufficienti per tenere a numero le unità mobilitate non oltre la primavera del 1917. Di fronte a questo pericolo il parlamento aveva lasciato intendere di volere per quell'epoca uno sforzo supremo che risolvesse alfine la guerra, chiedendo anche agli alleati di fare altrettanto; corse il nome del Nivelle come quello di un generale giovane e audace, particolarmente adatto a sostituire il Joffre giudicato troppo titubante. Fin dal novembre del 1916, in un convegno militare interalleato (Chantilly) l'azione concorde era stata regolata sul criterio di massima che le diverse offensive, senza essere precisamente simultanee, dovessero collegarsi nel tempo sì da non permettere che potessero arrivare rinforzi all'esercito germanico operante in Francia. Dato che si sapeva anche la Germania in crisi di uomini e di materiali, si riteneva dall'Intesa che queste molteplici offensive collegate non sarebbero state prevenute da offensive nemiche se attuate in primavera.

La Germania, infatti, pienamente edotta dei propositi avversarî, aveva deciso un atteggiamento difensivo, salvo poi a passare alla controffensiva al momento opportuno. E aveva fatto costruire trinceramenti arretrati di trenta e più chilometri (linea di Siegfried), e operato la distruzione totale di quanto esisteva fra le due linee, quella avanzata e quella arretrata. La linea arretrata era tracciata in modo da accrescere, senza incremento di forze, la densità di occupazione e da permettere perciò una più lunga resistenza.

Mentre nei campi opposti questi progetti maturavano per le operazioni nello scacchiere occidentale, il governo germanico decideva alfine di ricorrere alla guerra sottomarina a oltranza. Non si nutrivano speranze eccessive che l'azione intensificata dei sottomarini potesse attuarsi senza che gli Stati Uniti d'America facessero causa comune con l'Intesa, ma si credeva di ridurre all'impotenza l'Inghilterra prima che l'America potesse effettivamente intervenire con le armi in Europa. I fatti dimostrarono che, se si calcolò giusto circa la lentezza dell'organizzazione di un esercito americano, non si tenne conto che il commercio marittimo degli Alleati e neutrale aveva avuto agio di prepararsi a neutralizzare almeno in parte le offese sottomarine, e questo errore di calcolo fu indubbiamente una delle cause della perdita della Germania. Per contro, un evento di gran peso sull'andamento della guerra, in senso contrario all'Intesa, fu lo scoppio (marzo 1917) della rivoluzione russa. Di fronte al trionfo del socialismo e all'abdicazione dello zar, era chiaro ai più che se un popolo come il russo, da due anni e mezzo in durissima guerra, si rivoltava contro i poteri costituiti, ciò era per effetto di stanchezza, non per desiderio di moltiplicare lo sforzo. La combattività della nuova Russia non si spegnerà d'un tratto; ma fin dalla primavera del 1917 il suo possibile collasso incombe sulle decisioni degli Stati Maggiori dell'Intesa come un fattore di grave incertezza.

In Francia la proclamata grande offensiva - che prese il nome dal Nivelle - fu iniziata il 9 aprile con un attacco degl'Inglesi; una settimana dopo cominciarono gli attacchi francesi. Ma la sorpresa determinata dall'accennato ripiegamento di Hindenburg sulla linea di Siegfried, e la necessità in cui si trovarono i Franco-Inglesi di montare un nuovo attacco, con spostamenti d'immensi tonnellaggi di materiali, tolsero slancio al grande sforzo offensivo; il quale effettivamente si esaurì in pochi giorni senza apportare gli sperati frutti decisivi e prima che gl'Italiani sferrassero (12 maggio) la loro decima battaglia sull'Isonzo, cui seguì l'offensiva sull'Altipiano di Asiago (Ortigara 10-25 giugno). Il pronto esaurirsi dello sforzo franco-inglese era causa in Francia di grave delusione e conseguente depressione morale nell'esercito e nel paese. Gravi fatti d'insubordinazione si manifestarono fra le truppe. Il Nivelle fu subito sostituito nel comando dal Pétain. Si dovette ricorrere alle più rigorose repressioni, le quali poterono ristabilire la disciplina, non ripristinare interamente l'entusiasmo combattivo. E poiché gli Stati Uniti avevano il 6 aprile dichiarato guerra alla Germania, l'esercito francese si asterrà - d'ora innanzi - dal prendere l'iniziativa di grandi operazioni, finché gli Americani non saranno pronti ad agire in Europa. Nell'attesa - che dovrà essere necessariamente lunga - Inglesi, Italiani e Russi (e senza far troppo assegnamento su questi ultimi) dovranno essi dar prova dell'attività offensiva necessaria a tenere in vita la guerra fino all'arrivo dei rinforzi d'oltre Oceano. E sarà per gl'Inglesi la grande offensiva delle Fiandre (giugno-novembre) che costerà perdite enormi (450.000 uomini), non certo compensate dall'entrata in linea delle poche forze portoghesi; e sarà per la Russia la fortunata offensiva della prima quindicina di luglio che sorprenderà lietamente gli alleati, ma i cui vantaggi non potranno, però, essere mantenuti; e sarà per l'Italia l'offensiva della Bainsizza (18-29 agosto), contro la quale gli Austro-Ungarici, vivamente impressionati per le sorti di Trieste, reagiranno due mesi dopo con il concorso di un'armata germanica. Con le sue offensive a catena, non solo l'Italia aveva assolto il suo compito di non consentire la sottrazione di truppe austro-ungariche dallo scacchiere veneto a vantaggio di altri fronti, ma aveva attratto a sé anche considerevoli forze germaniche, così da essere costretta, dopo la battaglia di Caporetto, a un ripiegamento della sua fronte orientale sulla linea del Piave. Per gl'Imperi centrali questo risultato era assai al disotto delle loro speranze, l'offensiva nel Veneto essendosi proposto lo scopo, non raggiunto, di mettere fuori causa l'Italia. Un successo definitivo ottennero, invece, gl'Imperi centrali contro la Russia, che - dopo la perdita di Riga - non mostrò nessuna volontà di durare nella guerra, finché il 15 dicembre capitolò a Brest-Litovsk (v.), per decisione della repubblica sovietica, preludio alla futura pace dello stesso nome.

Se era stata fortuna per l'Intesa che l'esercito italiano si fosse arrestato (e con le sole sue forze) alla linea del Grappa-Piave (ove l'arresto non fosse avvenuto, l'Intesa sarebbe stata seriamente compromessa e forse perduta), l'anno 1917 si chiudeva tuttavia, per essa, fra gravi timori. Il ritiro della Russia significava la piena disponibilità degli eserciti della Quadruplice sugli scacchieri francese, italiano e balcanico. Ma una ragione ancor più seria di preoccupazioni, alla fine di quell'anno, era il grande ritardo degli apprestamenti americani in confronto delle troppo rosee speranze della primavera. La riorganizzazione dell'esercito degli Stati Uniti, approvata dal Congresso fin dall'agosto del 1916, era rimasta lettera morta: e la legge che introduceva il principio della coscrizione entrò in vigore solo un mese e mezzo dopo la dichiarazione di guerra degli Stati Uniti alla Germania. Soltanto la lontananza dell'America dai luoghi dove la guerra si combatteva, spiega come si sia potuto dichiarare la guerra in quelle condizioni. Di questo stato di cose si era resa conto assai meglio la Germania che non l'Intesa. In definitiva, soltanto alla fine di giugno del 1917 fu potuto sbarcare in Francia il primo scaglione della prima divisione americana, e ancora costituito da reclute male addestrate; e alla fine del 1917 non erano sbarcate in Francia che 4 divisioni, nemmeno complete di materiali e di addestramento (100.000 combattenti in tutto). Infine, in luogo dei previsti due milioni di uomini per la primavera del 1918, da Washinghton s'informava il generalissimo Pershing che poco più di 600.000 Americani fra combattenti e non combattenti, sarebbero stati pronti per l'estate. E intanto la guerra sottomarina diminuiva il tonnellaggio mercantile.

Le vicende della guerra nel 1918. - Nei progetti operativi dei due gruppi avversarî per il 1918 continua, naturalmente, a dominare il fattore americano. L'Intesa deve completare il laborioso rifacimento dell'esercito francese, riparare le gravi lacune negli effettivi inglesi, riportare l'esercito italiano all'efficienza che aveva avuto prima di Caporetto; e perciò le operazioni dell'Intesa debbono ispirarsi in linea generale, e per un primo periodo, a un concetto di vigile e fattiva attesa, che è quanto dire a un concetto nella sua essenza, difensivo. Sola eccezione si faceva per la Penisola balcanica, per la quale finì con il prevalere il concetto che l'esercito interalleato d'Oriente, accresciuto di forza anche per l'avvenuto riassetto dell'esercito serbo, attuasse un'impresa offensiva verso nord, e cioè un'azione strategica di minaccia a tergo degl'Imperi centrali. Il Comando supremo italiano (Diaz) avrebbe preferito che si raggiungesse più efficace risultato (cogliere a tergo la Germania attraverso una sconfitta austriaca) prendendo come regione di partenza il Veneto orientale anziché i Balcani meridionali. Molte buone ragioni tecniche avrebbero potuto portare a preferire la via attraverso le Alpi orientali, più breve e più sicura. Ma per l'attuazione di un simile progetto sarebbe stato necessario trasferire nel Veneto gran parte delle divisioni americane giunte o attese in Europa; e ciò contrastava con le idee del Foch e dello stesso generalissimo Pershing, i quali pensavano che tutte le forze americane dovessero impiegarsi in Francia; il che equivaleva a preparare uno sforzo frontale, con esclusione di ogni possibilità di manovra avvolgente, e con il rischio di conseguire soltanto una mezza vittoria.

Anche quest'anno le azioni di grande stile furono iniziate (marzo 1918) dalla Germania, la quale subito rivelò l'intento di compiere uno sforzo disperato prima dell'efficace intervento americano. Gli Stati Maggiori degl'Imperi centrali si erano accordati perché alla spinta frontale in Francia s'accompagnasse un attacco austriaco nel Veneto, condotto con superiorità di forze con la certezza di poter mettere definitivamente fuori causa l'Italia.

Con un'energica puntata in Piccardia, penetrante nella fronte nemica per ben cinquanta chilometri, i Tedeschi spezzarono la fronte dell'Intesa in corrispondenza della saldatura fra le armate francesi e inglesi. A gran fatica i Franco-Inglesi riuscirono a tamponare lo squarcio, ma la loro linea dovette inflettersi per una larga zona con gravi perdite. I dirigenti francesi insistettero in questo momento difficile perché si attuasse il principio del "comando unico". Questa fu, più che altro, un'affermazione di principio, che in pratica conferì al generalissimo francese una prevalenza - e come la presidenza - nelle discussioni fra i generalissimi delle potenze coalizzate, per giungere ad accordi sulle operazioni da compiere. Una vera autorità di comando non sarebbe stata possibile, sia per mancanza di sanzioni, sia perché uno stato non mette il proprio esercito agli ordini assoluti di un capo straniero. Così i generalissimi inglese e americano non mancarono di muovere obiezioni agli ordini dell'unico comandante Foch; quanto all'Italia fu convenuto che, in relazione con la grande distanza e la riconosciuta maggiore autonomia dello scacchiere veneto, i rapporti fra gli Stati Maggiori si sarebbero limitati a intese, all'incirca come in passato.

Frattanto i Tedeschi, alla puntata in Piccardia ne facevano seguire un'altra in aprile in direzione delle coste della Manica; gli Inglesi furono costretti ad arretrarsi con perdite immense e solo dopo aver ceduto terreno fino a Ypres e Béthune poterono arginare l'ondata nemica. Anche qui, dunque, situazione sfavorevole come in Piccardia. Nel maggio l'attività tedesca continuò a manifestarsi con una vigorosa puntata nella Champagne in direzione di Parigi, dove gli attaccanti ottennero per la terza volta ripetuti successi in quella tormentata regione e avanzarono fino a Château-Thierry. La Marna era ancora una volta raggiunta, e anche qui la difesa era stata costretta ad abbandonare una profonda zona di terreno nella direzione più sensibile, quella di Parigi. Ormai Hindenburg mirava a fare delle posizioni avanzate sulle quali aveva messo piede, il punto di partenza per tentare la battaglia decisiva; e la iniziò il 15 luglio, quantunque nel frattempo fossero accaduti due fatti che grandemente diminuivano la probabilità di riuscita: l'uno era il decisivo insuccesso subito dall'esercito austro-ungarico nel Veneto, dove lo sforzo del von Arz era stato arrestato al Piave (18-23 giugno) e dove erano perciò cadute le speranze di poter avere in Francia il sussidio delle divisioni austriache dopo che l'Italia fosse stata messa fuori causa; l'altro avvenimento sfavorevole era l'entrata in linea della prima armata americana avvenuta il 12 luglio (Saint-Mihiel). Ma ormai non era più possibile per Hindenburg rinviare la prova suprema, ed egli virilmente l'affrontò. L'offensiva si svolse dapprima con vantaggio tedesco, ma ormai i rapporti numerici si erano invertiti e il Foch poté ben presto lanciare una controffensiva contro un lato del saliente formato dagli attaccanti. A questo punto gl'Imperi centrali non potevano avere più altra speranza fuor di quella di prolungare la guerra per un tempo sufficiente a evitare condizioni di pace disastrose.

Anche la campagna sottomarina aveva dato risultati inferiori alle speranze tedesche, e le forze navali germaniche avevano subito lo scacco dell'imbottigliamento di Zeebrugge e di Ostenda e la flotta austro-ungarica la perdita della grande corazzata Szent Istvan ad opera della marina italiana.

Nei Balcani l'offensiva dell'Intesa, iniziata soltanto a metà settembre, in dieci giorni mise i Bulgari fuori causa, e aprì la via per giungere alle spalle dell'Austria-Ungheria. Nella Palestina, il generale tedesco Liman von Sanders, se non era riuscito a progredire, aveva nondimeno resi nulli gli sforzi inglesi fatti nella primavera del 1918, per sfondare la linea turco-tedesca. Quando però le operazioni inglesi furono riprese nell'autunno, i Turchi non ressero e si ritirarono. Il 30 settembre cadde Damasco e quindi Aleppo; il 31 ottobre i Turchi firmarono l'armistizio di Moũdros.

Nel frattempo in Francia continuava la controffensiva generale dell'Intesa. I Franco-Inglesi nella prima quindicina di ottobre misero saldo piede sulla prima linea difensiva dei Tedeschi (linea di Hindenburg) obbligandoli a ripiegare sulla seconda linea (Hermann-Hunding). Ma gli eserciti degl'Imperi centrali rappresentano tuttora un blocco formidabile, quantunqne si sia cominciato a intaccarlo da due parti opposte (Francia e Balcani). In questo momento l'Italia vibra un colpo mortale al centro. Il generalissimo Diaz disegnava da tempo la battaglia risolutiva. Gli eventi corrisposero ai propositi. Infatti, mentre era in pieno corso a occidente la pressione franco-anglo-americana contro le linee tedesche, le quali ripiegavano tenendo ancor testa validamente, l'attacco a fondo condotto nel Veneto contro gli Austro-Ungarici a partire dal 24 ottobre, portava in pochi giorni di sanguinosa azione allo sfondamento delle linee nemiche e al totale avviluppamento dei due spezzoni. Vittorio Veneto fu la più completa - come sviluppo tattico e come effetto strategico - delle battaglie di tutta la guerra; e poiché si svolse in gran parte fuori del terreno organizzato, fu battaglia che ricorda quelle di tipo classico nella guerra di movimento. Strategicamente essa affrettò, senza alcun dubbio, la conclusione della lotta più che quadriennale. Il 3 novembre l'Austria si rendeva a discrezione e otto giorni dopo capitolava la Germania. Nell'intervallo di tempo fra l'uno e l'altro armistizio il generalissimo italiano si era preparato a un attacco oltre il Brennero contro la Baviera, ove la Germania non avesse anch'essa abbassate le armi.

La guerra nelle colonie. - All'inizio della guerra, la Germania possedeva un territorio coloniale non vasto come quello inglese, ma ricco e bene amministrato. Era naturale perciò che non appena scoppiate le ostilità, Inghilterra e Francia rivolgessero le loro mire a quelle fertili zone e decidessero di occuparle come prezioso pegno per il giorno della pace. Ma questa lotta coloniale si riassumerà in scontri di modesta importanza fra gl'invasori e nuclei metropolitani e di colore, posti a presidio dei centri principali. In complesso si trattò di un'attività senza alcuna immediata relazione con la lotta che si svolgeva contemporaneamente in Europa fra i grandi eserciti opposti. Soprattutto da parte tedesca, le operazioni coloniali, dove ebbero luogo, furono il frutto dell'iniziativa, del coraggio e dell'esperienza personale degli ufficiali più elevati in grado rimasti sul posto e necessariamente abbandonati a loro stessi. La presenza nei mari asiatico-africani di alcune navi da guerra tedesche, operanti isolatamente, non bastava a proteggere o collegare con la madrepatria i lontani possedimenti germanici. E quelle navi ebbero più logicamente il compito della guerra di corsa.

Perciò le colonie tedesche dovettero difendersi con mezzi proprî; la loro capitolazione divenne inevitabile per la grande maggioranza di esse. Cosi Kiao-chow (Cina) cadde il 1914 stesso e tutti i possedimenti germanici del Pacifico passarono in mano altrui senza colpo ferire. Le colonie africane resistettero più a lungo. I territorî del sud-est africano, del Camerun (v.) e del Togo (v.) caddero in mano delle truppe inglesi e francesi verso la fine del 1915. L'Africa Orientale tedesca difesa da un generale energico e volitivo, il Lettow-Vorbeek, riuscì a tener testa in tutti i modi agli avversarî che toccarono sconfitte spesso notevoli. Un'accanita guerriglia fu colà mantenuta in vita fino al termine della guerra mondiale. (v. africa, I, p. 801; africa del sud-ovest).

Le dichiarazioni di guerra. - Ecco un quadro completo di tutte le dichiarazioni di guerra che ebbero luogo durante il grande conflitto:

1914: Austria-Serbia (28 luglio); Germania-Russia (1° agosto); Gemiania-Francia (3 agosto); Germania-Belgio (4 agosto); Gran Bretagna- Germania (4 agosto); Montenegro-Austria (5 agosto); Austria-Russia (5 agosto); Serbia-Germania (6 agosto); Montenegro-Germania (9 agosto); Francia-Austria (12 agosto); Gran Bretagna-Austria (12 agosto); Giappone-Germania (23 agosto); Austria-Giappone (27 agosto); Austria-Belgio (28 agosto); Russia-Turchia (2 novembre); Francia-Turchia (2 novembre); Serbia-Turchia (2 novembre); Gran Bretagna-Turchia (5 novembre).

1915: Italia-Austria (23 maggio); San Marino-Austria (24 maggio); Italia-Turchia (21 agosto); Bulgaria-Serbia (14 ottobre); Bran BretagnaBulgaria (15 ottobre); Francia-Bulgaria (16 ottobre); Italia-Bulgaria (19 ottobre); Russia-Bulgaria (19 ottobre).

1916: Germania-Portogallo (9 marzo); Romania-Austria (27 agosto); Germania-Romania (28 agosto); Turchia-Romania (28 agosto); Italia-Germania (28 agosto); Bulgaria-Romania (10 settembre); Grecia (governo provvisorio)-Germania e Bulgaria (28 novembre).

1917: Stati Uniti-Germania (6 aprile); Cuba-Germania (7 aprile); Panamá-Germania (10 aprile); Grecia (governo di re Alessandro)- Germania e Bulgaria (29 giugno); Siam-Germania (22 luglio); Siam-Austria (22 luglio); Liberia-Germania (4 agosto); Cina-ermania (14 agosto); Cina-Austria (21 agosto); Brasile-Germania (26 ottobre); Stati Uniti-Austria (7 dicembre); Panamá-Austria (10 dicembre); Cuba-Austria (16 dicembre).

1918: Guatemala-Germania (23 aprile); Nicaragua-Germania (7 maggio); Costarica-Germania (24 maggio); Haiti-Germania (15 luglio); Honduras-Germania (19 luglio).

Le operazioni militari sulle fronti francese, russa, balcanica e in Asia Minore.

Gli eserciti belligeranti. - Germania. - L'esercito germanico aveva in pace 25 corpi d'armata su 2 divisioni che sommavano a 760.000 uomini dei quali 35.000 ufficiali. Essi si mobilitarono incorporando nei reggimenti permanenti due classi di richiamati, in totale 500.000 uomini circa. Questa massa di 1.200.000 uomini era quindi formata di soldati tra i 21 e i 24 anni, inquadrati da un ottimo e numeroso corpo di sottufficiali (all'incirca un sottufficiale per ogni 10 soldati). Inoltre sino al 1913 la Germania non aveva incorporato circa 90.000 uomini all'anno fra i meno idonei, quindi sotto le armi andavano elementi scelti. L'istruzione impartita durante i due anni di ferma era accuratissima. Limitato era il numero degli ufficiali, una cinquantina per ogni reggimento di fanteria, ma erano dotati di altissimo spirito militare e di elevato grado di capacità, favorita dalla rilevante forza di pace dei reparti.

Venne lasciata all'incirca una classe come riserva di complemento dell'esercito permanente per appianare le perdite e con le quattro classi successive, cioè con gli uomini istruiti fra i 26 e i 30 anni, furono formati i reggimenti e le grandi unità di riserva. Poiché in Germania l'ordinamento militare era territoriale, il soldato in congedo restava in intimo contatto con il proprio reggimento: il reggimento di riserva conservava quindi tutta la forza morale del reggimento attivo. Il reggimento di riserva tedesco era dunque un'unità costituita all'atto della mobilitazione, ma non improvvisata. Furono formate 30 divisioni di riserva, delle quali 26 furono riunite in 13 corpi d'armata di riserva, un'altra costituì il corpo d'armata di riserva della Guardia insieme con la 3ª divisione attiva della Guardia e 3 rimasero non riunite in corpo d'armata. La formazione delle divisioni di riserva era su quattro reggimenti di fanteria come quelle attive e un reggimento di cavalleria (con 3 soli squadroni invece di quattro), ma l'artiglieria assegnata alla divisione di riserva era la metà di quella della divisione attiva (36 pezzi anziché 72). Il corpo d'armata di riserva non aveva poi le quattro batterie pesanti assegnate ai corpi d'armata attivi e non aveva aeroplani. Malgrado la deficienza d'artiglieria, le grandi unità di riserva tedesche, formate anch'esse con la parte scelta del contingente e organizzate sì da tener conto dei fattori morali, erano subito impiegabili.

Caratteristica dell'esercito tedesco era la formazione del corpo di Stato Maggiore effettuata con elementi sceltissimi dei quali il capo di Stato Maggiore dell'esercito curava di continuo l'istruzione e l'uniformità di vedute. Il corpo di Stato Maggiore godeva in Germania di grandissimo prestigio e si dimostrò, come già nelle precedenti campagne, all'altezza del suo compito. Per utilizzare l'eccedenza d'uomini in congedo istruiti disponibili furono costituite circa 6 divisioni di Ersatz, l'organizzazione delle quali però non era stata curata come quella delle divisioni di riserva. All'esercito di campagna furono assegnate anche una trentina di brigate di Landwehr, con le quali si costituì anche un corpo d'armata.

L'esercito di campagna contava 8 armate più 4 corpi di cavalleria, in cifra tonda 2.200.000 uomini. Cause di superiorità di questo superbo strumento di guerra erano l'ottima costituzione dei comandi, l'elevato spirito militare degli ufficiali, il numeroso corpo di sottufficiali e soprattutto la costituzione delle unità di riserva subito atte al combattimento. Questo vantaggio sugli altri eserciti era però limitato all'inizio della campagna. Lo stesso si dica per la caratteristica di avere da principio nell'esercito solo la parte scelta del contingente; con il prolungarsi della guerra si doveva però ricorrere anche ai meno idonei. Due cioè delle principali cause della superiorità dell'esercito tedesco erano destinate ad attenuarsi e a sparire con il prolungarsi della guerra.

Austria. - L'esercito austriaco aveva già sin dal tempo di pace costituite quasi tutte le unità da mobilitare in tempo di guerra per l'esercito di campagna. Esso comprendeva 14 corpi d'armata composti in massima di 2 divisioni dell'esercito comune e di una divisione di Landwehr o di Honved. La forza di pace ammontava a 450.000 uomini, ma sino a pochi anni prima essa era stata sensibilmente inferiore, tanto che sino al 1912 non si erano incorporate che 134.000 reclute all'anno: pertanto per mobilitare le 42 divisioni occorrevano all'incirca tutte le classi sino al 32° anno di età; perciò i reggimenti non erano formati di elementi giovani: ciò andava a scapito della capacità offensiva dell'esercito stesso. Questo poi era composto da elementi diversi per razza, per sentimenti e per lingua, i quali tuttavia trovavano il fondamento della loro compattezza nelle tradizioni dell'esercito e soprattutto nel corpo degli ufficiali che, estraneo alle lotte di nazionalità, considerava tutto l'impero come propria patria e godeva di grande, meritato prestigio. Tuttavia la composizione eterogenea dell'esercito costituiva un'evidente causa di debolezza tanto più quando la lotta si doveva svolgere contro eserciti affini per nazionalità. In sostanza lo spirito dell'esercito era ottimo, l'istruzione però risentiva della scarsezza degli effettivi del tempo di pace. L'esercito austriaco si mobilitò su sei armate, 16 corpi d'armata, 49 divisioni, 9 divisioni di cavalleria, oltre a qualche brigata da montagna e di Landsturm indipendenti, in totale 1094 battaglioni, 425 squadroni, 483 batterie da campagna o da montagna (2610 pezzi), 224 compagnie d'artiglieria a piedi, 155 compagnie del genio, 15 compagnie d'aviazione, 1582 mitragliatrici, con una forza complessiva di 1.400.000 uomini. Dei 1094 battaglioni, 401 però erano appartenenti alle brigate di Landsturm ovvero a quelle di marcia (destinate queste ultime al rifornimento uomini). Analogamente non erano da considerarsi di prima linea 72 squadroni e 32 batterie. Grave debolezza era lo scarsissimo munizionamento d'artiglieria (circa 500 colpi per pezzo, meno della metà delle altre grandi potenze).

Francia. - L'esercito francese mobilitò i 20 corpi d'armata permanenti (44 divisioni) oltre a un corpo d'armata, più una divisione di coloniali, e costituì 36 divisioni di riserva; 18 corpi d'armata disponevano di una brigata di fanteria di riserva. Le divisioni erano di 12 battaglioni e 9 batterie di 4 pezzi, il corpo d'armata disponeva di un terzo reggimento di artiglieria da campagna su 12 batterie, in totale 120 pezzi per corpo d'armata, proporzione inferiore a quella del corpo d'armata tedesco attivo (144 pezzi da campagna, 16 pesanti campali), ma sensibilmente superiore a quella del corpo d'armata tedesco di riserva (72 pezzi da campagna). La cavalleria si mobilitò in 6 divisioni assegnate alle armate, più un corpo di cavalleria su 3 divisioni. L'artiglieria pesante era assegnata alle armate (in complesso 75 batterie): forza dell'esercito da campagna circa 1.800.000 uomini.

L'esercito francese incorporava in pace tutte le reclute atte alle armi (250.000 uomini circa). Nel 1913, per effetto del ritorno alla ferma triennale, aveva incorporato le due classi del 1912 e 1913. La forza di pace raggiungeva gli 850.000 uomini, dei quali 1/10 di colore; 45.000 erano addetti a servizî non armati, rimanevano quindi 720.000 uomini che assicuravano ai reparti una notevole efficienza. In complesso però l'esercito francese aveva fatto sin dal tempo di pace il massimo sforzo: non disponeva quindi di complementi non istruiti. Le divisioni di riserva per deficienza d'istruzione e d'inquadramento non erano atte a essere subito impiegate nel combattimento. Come dice il Buat (che fu capo di Stato Maggiore dell'esercito francese) esse non erano "que des agglomérations de cadres et de soldats, et non des unités"; peggiore ancora la situazione delle divisioni territoriali. Molto curata era l'istruzione della truppa sotto le armi e ottima quella dell'artiglieria; l'indirizzo però dato, sotto l'impulso dei giovani ufficiali di Stato Maggiore, alla preparazione dell'esercito al combattimento, si basava su pretese qualità della razza e su concezioni teoriche; i regolamenti avevano quindi sancito il principio dell'offensiva a oltranza senza attendere una conveniente preparazione d'artiglieria, la quale doveva semplicemente appoggiare l'attacco, non prepararlo in precedenza, disconoscendo l'aumentata importanza dell'azione a distanza dell'artiglieria; inoltre la tendenza all'offensiva a testa bassa non era rispondente alla situazione dell'esercito francese, il quale, dato il precedente del 1870, non poteva affrontare l'esercito tedesco senza preoccupazioni.

Russia. - La Russia mobilitò 37 corpi d'armata (30 europei, 2 del Turkestan, 5 siberiani) e 24 divisioni di cavalleria permanenti, costituì una trentina di divisioni di fanteria di riserva di nuova formazione. L'esercito russo aveva una forza di pace superiore a un milione e mezzo. Aveva larga disponibilità di forza in congedo: inizialmente mobilitò 6 armate; le truppe asiatiche e le divisioni di riserva erano disponibili solo in un secondo tempo. Le divisioni russe avevano 4 reggimenti ciascuno su 4 battaglioni e 6 batterie su 8 pezzi, cioè 3 pezzi per battaglione come le divisioni tedesche di riserva. Il corpo d'armata aveva inoltre 12 obici campali da 12 cm. Malgrado i grandi progressi effettuati negli ultimi anni, l'esercito russo presentava sensibili deficienze. I comandanti di grado elevato non erano istruttori delle proprie unità, tanto che essi consideravano quasi come una prova umiliante dover dirigere manovre con i quadri dei proprî ufficiali; esercitazioni che per tale motivo si era riusciti a effettuare soltanto nel 1914. Inoltre l'esercito russo risentiva del turbamento politico del paese: il governo alla vigilia della guerra era isolato dalla nazione, e poiché l'esercito era impiegato senza riguardo nelle repressioni dei disordini sociali, il vuoto si era scavato fra il corpo degli ufficiali e la popolazione. Sulla fronte europea a radunata compiuta gli effettivi dei combattenti erano 1.500.000 baionette, 150.000 sciabole, 7000 pezzi d'artiglieria: in totale oltre 3.000.000 di uomini.

Inghilterra. - L'esercito inglese constava di un'armata regolare di 250.000 uomini circa, dei quali 140.000 in patria. Questi formavano 6 divisioni di fanteria, 1 di cavalleria, oltre ad una brigata di cavalleria autonoma. Altri 200.000 uomini che già avevano prestato servizio nell'esercito regolare erano disponibili come complemento. A quest'esercito composto di militari volontarî a lunga ferma si aggiungeva l'esercito territoriale, che era una milizia volontaria destinata alla difesa del paese, pochissimo istruita e quindi non disponibile subito. Nelle colonie e negli altri possedimenti oltre al resto dell'esercito regolare vi erano 150.000 uomini di truppe indiane e si poteva inoltre contare sull'aiuto dei Dominions (Canada, Australia, Nuova Zelanda e Unione Sudafricana).

In sostanza l'Inghilterra poteva dare al principio della guerra solo 6 divisioni di ottime truppe; ma le sue grandi risorse le permettevano di dare con il tempo grande sviluppo anche alle sue forze di terra. Il maresciallo Kitchener, nominato ministro della Guerra, intuì subito che per soppraffare la potenza militare della Germania occorreva che anche l'Inghilterra organizzasse un grande esercito; pertanto l'esercito territoriale, che constava di 14 divisioni di prima linea, fu portato sul piede di guerra e in parte inviato alla fine del 1914 nelle Indie e nell'Egitto a sostituire truppe da destinarsi in Francia. A partire dal 1915 anche le divisioni territoriali furono impiegate in Francia, inoltre Kitchener organizzò altre 30 divisioni di nuova formazione, le prime delle quali furono in grado di essere impiegate a partire dall'autunno 1915. Infine il Canada costituì 6 divisioni, l'Australia 6, più una di cavalleria, la Nuova Zelanda una divisione di fanteria e una di cavalleria, l'Unione Sudafricana alcune brigate. Dall'India si trassero 14 divisioni di fanteria e due di cavalleria, le quali però, dopo la non buona esperienza effettuata nell'inverno 1914-15 da due divisioni, non furono impiegate in Francia.

In complesso le forze inglesi impiegate sul continente, che nell'agosto 1914 sommavano a soli 100.000 uomini, nell'ottobre erano già raddoppiate, nel marzo 1915 erano state triplicate; nel febbraio 1916 ammontavano a 900.000 uomini, nel settembre 1916 a 1.400.000 uomini, nell'aprile 1917 a 1.600.000 uomini e nel marzo 1918 a 1.800.000 uomini, mentre negli altri teatri di guerra erano pure impiegate numerose truppe.

Belgio. - L'esercito belga si componeva di 6 divisioni a 18 battaglioni e 18 batterie ciascuna, più una divisione di cavalleria. L'esercito però era stato trascurato dal governo e aveva quindi un' efficienza limitata: contava circa 120 mila uomini.

Serbia. - L'esercito attivo serbo comprendeva 11 divisioni e mezza di fanteria e una di cavalleria; delle divisioni di fanteria 6 erano di primo bando e comprendevano gli uomini tra i 20 e i 31 anni. Ciascuna era costituita da 4 reggimenti e 4 battaglioni. Le divisioni di secondo bando comprendevano gli uomini dai 32 ai 39 anni e, tranne una, erano composte di 3 reggimenti anziché di quattro. L'equipaggiamento però era deficiente: mancava un terzo dei fucili, le mitragliatrici erano solo quattro per reggimento; aviazione quasi nulla, scarso il materiale sanitario, limitato il munizionamento (750 colpi per pezzo da campagna, 650 per pezzo da montagna), sebbene superiore all'austriaco. L'esercito serbo era già addestrato dalla guerra balcanica e fiero delle proprie vittorie; inoltre l'odio contro Vienna infiammava i Serbi, sì da formare di essi un avversario assai temibile specie nel caso di un'offensiva austriaca; mancavano alla Serbia i mezzi per un'efficace offensiva contro l'impero degli Asburgo: i rifornimenti di armi dovevano giungere dalla Russia e le munizioni d'artiglieria dalla Francia, via Salonicco.

L'esercito serbo costituì 3 armate più un gruppo d'armata; l'esercito di campagna contava circa 250.000 uomini con 202 battaglioni, 216 mitragliatrici, 542 pezzi e 8 aeroplani. Le truppe di complemento e quelle territoriali nell'interno del paese e specialmente al confine bulgaro contavano circa 150.000 uomini: tutto compreso, la forza dell'esercito sommava a 542.000 uomini, 75.000 cavalli e 76.000 buoi da traino.

Montenegro. - Contava circa 70 battaglioni con 40.000 fucili: anch'esso era atto più a operazioni difensive che a offensive di grande raggio.

I piani d'operazione. - Germania. - Il piano d'operazione tedesco in caso di guerra su doppia fronte si basava sul principio di effettuare inizialmente il massimo sforzo contro la Francia, per battere rapidamente questo stato mentre la Russia, più lenta nel riunire il proprio esercito sarebbe stata tenuta in scacco dall'esercito austriaco e da deboli forze tedesche della Prussia orientale. Il gen. Moltke (iunior), capo dello stato Maggiore tedesco, aveva detto al Conrad, capo dello Stato Maggiore austriaco, che egli prevedeva che in sei settimane la guerra in Francia sarebbe stata decisa sì da poter poi dirigere notevoli forze contro la Russia.

Il confine fra Belfort e il Lussemburgo era stato potentemente fortificato dalla Francia, specialmente nel tratto Belfort-Épinal-Nancy-Verdun, in modo da sbarrare le vie più dirette d'invasione. Un attacco in questa direzione sarebbe stato lungo e costoso: quindi il conte Schlieffen (fino al 1906 capo di Stato Maggiore dell'esercito tedesco) aveva ideato di evitare tale zona invadendo con la massa dell'esercito la Francia fra Verdun e il mare violando la neutralità del Lussemburgo e del Belgio. Lo Schlieffen aveva altresì stabilito le modalità con le quali l'invasione doveva aver luogo; nell'ultima manovra da lui diretta nel 1905 egli considerò l'invasione della Francia nella supposizione che la guerra avvenisse solo contro Francia, Inghilterra e Belgio. Le condizioni nelle quali allora si trovava la Russia per effetto della guerra contro il Giappone giustificavano tale ipotesi. Lo Schlieffen penetrava in Francia dalla frontiera belga poco o punto fortificata, schierando sette armate a nord di Metz, mentre in Lorena e in Alsazia era destinata una sola armata di 9 divisioni, oltre a una dozzina di brigate di Landwehr: l'alta Alsazia doveva rimanere indifesa. Tra Metz e il mare agivano 3 gruppi, uno a sinistra di 16 divisioni seguite da altre 10 di riserva, quello al centro di 13 divisioni e quello di destra di 24; questi gruppi dovevano eseguire - perno a Metz - una conversione per portarsi contro la fronte Dunkerque-Verdun. Il gruppo settentrionale doveva attraversare il Belgio, accerchiare Anversa e spiegarsi al più presto. Il gruppo del centro doveva schierarsi tra Namur e Mézières, quello di sinistra verso il tratto Mézières-Verdun. Sorpassata Namur, i gruppi dovevano convergere con tutta la celerità che l'unità d'azione e la necessità di ripristinare le comunicazioni interrotte avrebbe consentita.

L'ala destra doveva essere scaglionata in profondità per opporsi a eventuali imprese del corpo di spedizione inglese; la seconda linea di fortificazioni incompleta che i Francesi avevano lungo l'Aisne (tra VerdunReims-Laon-La Fère) sarebbe stata aggirata a nord; il movimento aggirante doveva, occorrendo, estendersi fino al mare. Qualora i Francesi formassero una fronte difensiva da Parigi a La Fère dovevano essere impegnati di fronte, ma la decisione doveva cercarsi accerchiando da ovest Parigi. Analogamente doveva avvenire per il caso in cui i Francesi si ritirassero dietro la Marna o dietro la Senna. All'accerchiamento di Parigi lo Schlieffen destinava 6 corpi di Ersatz, riservando 7 corpi d'armata per agire contro la fronte Auxerre-Troyes contro il fianco o il tergo dei Francesi, in modo da ricacciarli contro la Mosella o contro il Giura.

Condizione indispensabile per questo piano era che la destra fosse estremamente forte, perché essa, oltre all'accerchiamento della gigantesca piazza di Parigi, doveva portare il colpo decisivo. In complesso il piano consisteva in un tentativo di gigantesco accerchiamento dell'esercito francese, ma nel campo strategico nessuna sorpresa sarebbe stata possibile per il tempo occorrente a effettuare l'aggiramento, ed era evidente che i Francesi (i quali disponevano al loro tergo delle reti ferroviarie intatte) avrebbero potuto contromanovrare assai meglio di quanto non era possibile ai Tedeschi, i quali trovavano le opere d'arte interrotte e le ferrovie disorganizzate e senza personale.

Inoltre è da tener conto che due elementi importanti erano entrati in giuoco dopo il 1905: l'aviazione e l'esercito russo, il quale si era ricostituito e soprattutto aveva migliorato la rete ferroviaria occorrente per la radunata. Lo Schlieffen stesso, se fosse stato vivo, sarebbe stato il primo ad accorgersi che non si può aggirare un nemico forte e ben condotto il quale, intuita la manovra, voglia evitarla. Un piano d'operazione deve prevedere lo schieramento iniziale per attuare il concetto d'operazioni; ma appena si siano avute notizie sul nemico, il comandante deve tener conto soprattutto dell'azione di quest'ultimo e saper adattare le proprie decisioni alla realtà. Invece mancava al capo di Stato Maggiore tedesco l'agilità mentale e la forza di decisione per adattare le mosse dell'esercito alle condizioni reali del momento. Un solo insegnamento si poteva ancora trarre dalla manovra dello Schlieffen, ed è che questi, invadendo la Francia con una destra molto forte per ottenere il successo su tale ala, dimostrava di non temere che una puntata francese sulla sua sinistra a occidente di Verdun gli facesse perdere le proprie comunicazioni e lo rigettasse contro la Manica, e ciò per il suo giusto convincimento della superiorità dell'esercito tedesco: quindi il capo di Stato Maggiore e i grandi capi tedeschi avrebbero dovuto aver presente tale preziosa qualità per battere l'avversario ogni qual volta si presentasse un'occasione favorevole, anche se non si fosse trattato d'azione avvolgente. Contro un nemico battuto si sarebbe poi potuto manovrare meglio che contro truppe intatte. Inoltre il concetto di agire contro l'avversario con azione avvolgente non era soltanto da applicarsi alla battaglia generale, ma doveva ricercarsi anche nelle inevitabili grandi battaglie preliminari; era sopra tutto da evitarsi che queste ultime si riducessero - come avvenne - ad attacchi puramente frontali in terreno sfavorevole all'attaccante: perché la manovra accerchiante può non riuscire contro un'avversario avveduto, ma la sola minaccia di essa però costringe chi è sulla difesa a cambiare di posizione per sottrarsi all'accerchiamento: in tal modo l'attaccante può evitare di dover agire frontalmente in condizioni a lui sfavorevoli.

Alle operazioni della Prussia orientale fu destinata l'8ª armata composta di tre corpi d'armata attivi più un corpo d'armata e una divisiorie autonoma di riserva: in totale 9 divisioni di prima linea e una divisione di cavalleria, oltre a truppe di Landwehr e delle fortezze; le altre sette armate furono destinate alle operazioni contro la Francia: la 11ª e la 2ª armata con un totale di 15 divisioni attive e di 9 divisioni di riserva furono destinate a operare nel Belgio a nord di Namur: inizialmente esse erano schierate a nord del Lussemburgo; a sud sino a Metz erano schierate la 3ª, 4ª e 5ª armata con 18 divisioni attive e 11 di riserva. A sud del campo trincerato di Metz sino a Belfort si radunarono la 6ª e la 7ª armata con 12 divisioni attive e 5 di riserva, alle quali vennero poi aggiunte le 6 divisioni di Ersatz. Forze assai superiori a quelle previste dallo Schlieffen. La mobilitazione fu indetta in Germania il 1° agosto alle 17, il 18 incominciò l'avanzata tedesca: la mobilitazione e la radunata avevano quindi richiesto 16 giorni

Francia. - Dopo che l'Italia ebbe dichiarato la neutralità, tutte le forze erano rimaste disponibili contro la Germania. Il piano di operazione di Joffre, detto piano XVII, era stato approvato dal consiglio direttivo di guerra nella primavera del 1913: esso prevedeva uno schieramento di 4 armate tra Belfort e il confine belga, mentre un'armata sarebbe rimasta in riserva; era però previsto il caso in cui i Tedeschi avessero violato la neutralità del Belgio: in tal caso anche l'armata di riserva sarebbe entrata in linea e la sinistra dello schieramento si sarebbe estesa più a nord verso Maubeuge, mentre un corpo di cavalleria sarebbe penetrato nel Belgio per esplorare e trattenere le colonne tedesche. Tale variante entrò in vigore sino dal 2 agosto, all'indomani cioè dell'ordine di mobilitazione francese (ore 4,30 del 1° agosto), e poiché i trasporti di radunata non cominciavano che il 5, lo schieramento dell'esercito francese si effettuò con tutte le armate in linea tra Hirson e Belfort: inoltre alla sinistra delle forze francesi venne a schierarsi nella zona Maubeuge il corpo di spedizione inglese, inizialmente di 4 divisioni. Il tratto da Maubeuge al mare venne guardato da un gruppo di divisioni territoriali. In sostanza alla massa costituita dalle 3 armate di destra tedesche (in totale 31 divisioni attive e 11 di riserva subito impiegabili) veniva ad opporsi la 5ª armata francese inizialmente costituita da 10 divisioni di fanteria, più 3 divisioni di riserva, alle quali si dovevano aggiungere le quattro divisioni inglesi.

Al centro la 4ª e la 3ª armata francese venivano, con un complesso di 14 divisioni attive più 3 divisioni di riserva, a opporsi alla 4ª e alla 5ª armata tedesca comprendenti 12 divisioni attive e 5 di riserva.

A sud di Metz la 1ª e la 2ª armata francese (inizialmente 20 divisioni attive, 6 divisioni di riserva oltre a 3 divisioni di riserva delle fortezze di Belfort, di Nancy e Toul) erano schierate contro la 6ª e 7ª armata tedesche comprendenti inizialmente 12 divisioni attive e 4 di riserva: quindi all'inizio delle operazioni lo schieramento delle due parti si presentava con una schiacciante superiorità tedesca per le operazioni del Belgio, accentuata dal fatto che la destra tedesca si venne a estendere sensibilmente più a nord di quanto arrivasse la sinistra inglese. I Francesi invece disponevano di una superiorità sensibile per le operazioni nell'Alsazia-Lorena. In sostanza il comando francese ritenne che i Tedeschi da principio non potessero far conto che delle divisioni attive e che fosse quindi impossibile ad essi di assumere uno schieramento così ampio da invadere il Belgio con forze rilevanti. A disposizione del comando francese restavano però ancora parecchie divisioni che nello schieramento iniziale in caso di guerra generale erano destinate all'armata delle Alpi e altre che potevano essere rimpatriate dall'Algeria e dal Marocco. Inoltre con il procedere delle operazioni anche le divisioni di riserva francesi venivano ad acquistare la solidità necessaria. Tuttavia la situazione numerica iniziale era al nord nettamente sfavorevole ai Franco-Inglesi.

Con le 5 armate Joffre intendeva di prendere l'offensiva generale non appena finita la radunata, e precisamente la destra (1ª e 2ª armata) doveva avanzare in Lorena tra Metz e Strasburgo, mentre un corpo d'armata avrebbe cominciato da Belfort un'offensiva in Alsazia su Colmar e Strasburgo; alla 3ª armata era affidato il compito di fronteggiare la zona fortificata Metz e Diedenhofen (Thionville), per poi procedere all'investimento di Metz; alla 4ª e alla 5ª armata era affidato un compito generico offensivo, la direzione del quale doveva dipendere dalla situazione del nemico: in sostanza cercare il nemico e batterlo senza alcuna idea preconcetta di avvolgimento o di altra manovra. Il generale Lanrezac comandante della 5ª armata dice che impressione sua, e non soltanto sua, all'ultima riunione dei comandanti d'armata fatta il 3 agosto dal generale Joffre, fu che questi non avesse "un'idea".

Non si comprendono le prime operazioni della guerra mondiale se non si pone a fondamento il fatto che gli eserciti i quali dovevano affrontare le forze tedesche erano necessariamente preoccupati dal sentimento della superiorità che a questo esercito derivava dalle sue grandi tradizioni militari e dall'ottima sua preparazione. Questo sentimento influi anche (come si vedrà) sulle operazioni dell'esercito russo, perché la Francia aveva ottenuto che l'esercito russo incominciasse al più presto le operazioni offensive in forze contro la Prussia orientale per diminuire la pressione sulla fronte francese. Ciò venne ripetutamente richiesto anche nei primi giorni della mobilitazione, quando già si sapeva che l'Italia sarebbe rimasta neutrale; e questa richiesta, che spinse l'esercito russo all'offensiva prima di avere terminato l'organizzazione delle proprie forze, è da attribuire alla convinzione della superiorità dell'esercito tedesco. Tale sentimento del resto fu, soprattutto inizialmente, comune a tutti gli eserciti che ebbero ad affrontare le forze germaniche.

La conquista di Liegi. - Per schierarsi nel Belgio senza invadere il territorio olandese, la destra tedesca, forza armata, doveva passare in una stretta striscia a sud di Aquisgrana sbarrata dalla piazzaforte belga di Liegi. La conquista di questa era dunque la condizione preventiva per l'esecuzione del piano tedesco; poiché Liegi distava in linea d'aria di una ventina di chilometri dal confine tedesco, si poteva attaccare tale piazza senza attendere che fossero mobilitati i servizî necessarî per assicurare i rifornimenti in caso di spostamento dei riparti. L'operazione fu affidata a 6 brigate di fanteria non ancora completamente mobilitate, che il 4 agosto passarono il confine e nella notte dal 5 al 6 attaccarono l'intervallo tra i forti. Cinque delle brigate furono respinte e una sola, guidata dal generale Ludendorff, riuscì a penetrare e a impadronirsi della città e della cittadella. I forti esterni caddero tra l'8 e il 16 agosto. In 10 giorni la via era stata sgombrata; quindi Liegi non ritardò di un giorno solo l'entrata nel Belgio dei Tedeschi, i quali soltanto il giorno 18 furono pronti per l'avanzata, che avvenne secondo le norme già fissate.

L'avanzata tedesca. - Venne iniziata, come si è detto, il 18 agosto: di fronte alle forze preponderanti avversarie l'esercito belga si ritirò sulla piazzaforte di Anversa: i Tedeschi lasciarono a fronteggiare le cinque divisioni belghe il III corpo d'armata di riserva, rinforzato più tardi dal IX corpo d'armata di riserva, il 20 agosto la 1ª armata occupò Bruxelles e il 21 si trovava già con i tre corpi d'armata di testa a una quindicina di chilometri a sud-ovest di Bruxelles, mentre nello stesso giorno la 2ª armata aveva già investito Namur ed era con il resto delle forze a ovest di questa piazza; essa però aveva lasciato una divisione a Liegi. La 3ª armata tedesca per tale giorno era a sud di Namur e aveva destinato al pari della 2ª un corpo d'armata all'attacco di questa piazza. Anche la 4ª e la 5ª armata tedesche avevano iniziato l'avanzata il 18, in modo che il 21 sera si trovavano con la destra della 4ª armata una tappa a est di Givet e con la sinistra della 5ª poco a ovest di Diedenhofen, cioè presso il confine francese. La 6ª e la 7ª armata erano state invece prevenute dall'avanzata francese.

Offensiva francese in Alsazia. - Il 4 agosto Joffre ordinò che il VII corpo d'armata prendesse l'offensiva per occupare la fronte Thann-Mülhausen (Mulhouse): l'avanzata s'iniziò il 7 da parte del VII corpo d'armata rinforzato dall'8ª divisione di cavalleria e da una brigata della guarnigione di Belfort. Mülhausen fu occupata il giorno 8, ma l'indomani il XIV e il XV corpo d'armata tedeschi ricacciavano i Francesi oltre il confine. Subito dopo i due corpi della 7ª armata tedesca vennero trasportati presso l'ala sinistra della 6ª per partecipare alle operazioni in Lorena. Nell'Alta Alsazia rimasero solo alcune brigate di Landwehr e di Ersatz. I Francesi ripresero l'offensiva da Belfort il 14, rinforzando il VII corpo d'armata con altre 5 divisioni, costituendo un'armata di Alsazia sotto il comando del generale Pau. Queste rilevanti forze francesi (150.000 uomini circa) occuparono Mülhausen il 19 agosto; ma il giorno 20, sotto l'impressione delle sfavorevoli notizie circa le operazioni in Lorena, l'armata d'Alsazia arrestava la sua offensiva e successivamente ripiegava, limitandosi a mantenere l'occupazione di Thann. In complesso con questa operazione isolata si era esposto prima un corpo d'armata a un grave scacco e successivamente si erano vincolate rilevanti forze contro deboli reparti avversarî senza ottenere un risultato apprezzabile.

Offensiva francese in Lorena. - La 1ª armata doveva attaccare in direzione di Saarburg (Sarrebourg), impadronendosi anzitutto del massiccio del Donon; la 2ª armata fiancheggiando la 1ª sulla sinistra avrebbe dovuto attaccare dalla fronte Dieuze-Château-Salins in direzione generale di Saarbrücken (Sarrebruck). Il generale Joffre riteneva che i Tedeschi di fronte alla 1ª e 2ª armata disponessero di 6 corpi d'armata pronti a sboccare da Metz sia verso ovest sia verso sud, mentre aveva notizia che 5 corpi d'armata erano penetrati nel Belgio. Era sua intenzione di cercare la battaglia di fronte a Metz, appoggiando al Reno la propria destra; nello stesso tempo la 3ª armata riunita a nord di Verdun doveva essere pronta a prendere l'offensiva in direzione nord e a contrattaccare le forze che sboccassero da Metz verso ovest; la 4ª e 5ª armata dovevano attaccare le forze che avessero passato la Mosa o passare esse stesse la Mosa, la 4ª a nord di Verdun, la 5ª tra Mouzon e Mézières. In tal modo l'ala sinistra della 5ª armata sarebbe stata diretta contro la 4ª armata tedesca, mentre la 1ª, 2ª e 3ª avrebbero avuta via libera per invadere la Germania. L'offensiva della 1ª e della 2ª armata francese doveva essere protetta alle spalle dalle operazioni in Alsazia, il VII corpo avrebbe dovuto distruggere i ponti sul Reno sino a Colmar fronteggiando la testa di ponte di Neu-Breisach (Neufbrisach), mentre 2 gruppi di divisioni di riserva avrebbero proceduto all'investimento di Strasburgo. Con lo stesso ordine dell'8 agosto Joffre ordinava però alla 2ª armata di lasciare 2 corpi d'armata a sua disposizione nella regione di Bernecourt (a nord di Toul sulla sinistra della Mosella). Tutte le armate dovevano prendere le misure preparatorie per rendere l'offensiva fulminea.

Il 13 agosto Joffre precisava che la 1ª armata doveva attaccare il nemico ovunque lo trovasse inseguendolo sino alla linea Sarrebourg-Hazenbourg-Obersteigen (una ventina di chilometri a sud-ovest di Saverne). L'armata si doveva organizzare su tale linea.

Non si parlava più dunque di giungere al Reno. Da che l'avversario avesse incominciato a ritirarsi, la 2ª armata si doveva raddrizzare verso nord per attaccare la fronte di Dieuze-Château-Salins. Uno dei due corpi d'armata già tolti alla 2ª armata le veniva restituito in vista della necessità di assicurare in ogni caso la posizione organizzata davanti a Nancy. In tal modo, mentre si spingeva la 2ª armata a un attacco decisivo, si tratteneva un quarto delle sue forze per una missione puramente difensiva, ciò che prova come lo stesso comando francese non avesse piena fiducia nell'offensiva ordinata. La necessità di assicurare la posizione di Nancy era condivisa anche dal generale Castelnau comandante della 2ª armata.

L'offensiva della 2ª armata incominciò il 14 agosto e il 19 sera essa aveva raggiunto Sarrebourg e occupato il massiccio del Donon, riuscendo a sorprendere una brigata tedesca a Saint-Blaise costringendola alla ritirata dopo aver preso tutta l'artiglieria (tre batterie e 1800 uomini); ma i Francesi non sfruttarono il successo, che avrebbe loro permesso, puntando per la valle della Breusch (Bruche), d'impedire la riunione della 7ª armata alla 6ª.

Sulla fronte della Lorena truppe del XXI corpo d'armata tedesco avevano l'11 agosto attaccato le truppe di copertura del XVI corpo d'armata francese a Lagarde. I Francesi lasciarono nelle mani dei Tedeschi 2500 prigionieri e 8 pezzi, l'azione non ebbe altro seguito avendo il generale Castelnau vietato ogni ritorno offensivo francese. L'avanzata della 2ª armata incominciò il 14; in tal giorno i Francesi avanzarono senza dare l'impressione che essi volessero intraprendere un serio attacco; tuttavia l'azione fu tale da rilevare, come ora si vedrà, una delle caratteristiche della guerra di movimento: la mancanza del combattimento ravvicinato, così che una grande unità può subire un rovescio senza che l'avversario si avveda di averlo inflitto.

La 29ª divisione francese attaccò presso Lagarde, ma fu arrestata a distanza dall'artiglieria nemica senza riuscire a vedere la fanteria tedesca. Essa ebbe oltre 1000 feriti, senza contare i morti; i reggimenti della 30ª brigata "ont été dissociés" e messi in condizioni di non poter rinnovare l'attacco.

Il comandante dell'armata rimandava l'attacco a tre giorni dopo, da tentarsi però con un'altra divisione rinforzata. Il comandante dell'armata aveva l'impressione di trovarsi di fronte a una seria organizzazione difensiva appoggiata da batterie di grosso calibro, mentre invece su tutta la fronte della 6ª armata, cioè una cinquantina di chilometri, non vi erano che 64 pezzi da 15 centimetri, i quali avevano una portata non superiore a quella dell'artiglieria da campagna francese. Intanto i Tedeschi avevano deciso di ritirarsi dietro la Saar (Sarre) per organizzare una posizione di difesa, ciò che essi effettuarono in ordine, seguiti lentamente dai Francesi. Il 19 sera la 2ª armata francese aveva oltrepassato di una tappa con il XX corpo (generale Foch) Chateau-Salins, il XV corpo d'armata aveva oltrepassato Dieuze e sulla sua destra il XVI corpo d'armata era alla stessa altezza, senza potere sboccare dal canale des Salines malgrado le forti perdite avute dalla divisione di testa per effetto dell'artiglieria nemica. Sin dal 17 il generale Joffre aveva ritenuto di essere riuscito a effettuare una breccia nello schieramento avversario e aveva raccomandato di predisporre un inseguimento da parte delle divisioni di cavalleria.

La sinistra francese distava ancora di 2 tappe circa dalla Saar e sarebbe stato vantaggioso per i Tedeschi lasciare che l'armata del Castelnau continuasse l'avanzata per arrestarla di fronte e colpirla sul fianco, ma il comandante della 6ª armata principe Rupprecht di Baviera ritenne che il proseguimento della ritirata sarebbe stato svantaggioso al morale delle truppe e ordinò che il 20 la 6ª e la 7ª armata contrattaccassero. Sulla destra la 1ª armata francese, pur perdendo terreno, conservò il possesso del Donon, ma la sua sinistra fu ricacciata da Sarrebourg. Il XV e XVI corpo d'armata della 2ª armata francese furono prevenuti dai Tedeschi e respinti in disordine, e anche il XX corpo, che aveva attaccato in direzione di Mörchingen (Morhange), dovette ripiegare, in ordine, su Château-Salins. In conseguenza la 2ª e la 1ª armata incominciarono il 21 la ritirata sulle posizioni del Grand-Couronné e a sud di Nancy per la 2ª armata, e nella regione di Rambervillers (15 km. a nord di Épinal) per la 1ª.

Battaglia delle Ardenne. - Il giorno 20 Joffre aveva ordinato che la 3ª armata (generale Ruffev) e la 4ª (generale Langle de Cary) prendessero l'offensiva in direzione rispettivamente di Arlon e di Neufchâteau. Ne derivò una battaglia d'incontro a Longwy (22 agosto) fra la 5ª armata tedesca e la 3ª armata francese che fu respinta; altri scontri avvennero tra forze di queste due armate a Longuyon il 24 e il 25; contemporaneamente la 4ª armata francese veniva a incontrarsi il 22 con la 4ª armata tedesca nella zona di Neufchâteau e dovette ritirarsi con gravi perdite.

Battaglia di Charleroi. - Solo il 15 agosto Joffre aveva compreso il pericolo derivante da un grande aggiramento tedesco nel Belgio; decise di opporvisi con un'offensiva della 5ª armata sostenuta dai Belgi e dal corpo di spedizione inglese. Ordinò quindi alla 5ª armata di avanzare fino alla Sambra per prendere poi l'offensiva nel Belgio. Il 20 agosto Lanrezac era giunto con la testa alla Sambra: egli disponeva di 4 corpi d'armata più un gruppo di tre divisioni di riserva (in totale 13 divisioni) del corpo di cavalleria Sordet; il 22 si schierava alla sua sinistra il corpo di spedizione inglese (quattro divisioni) nella zona di Mons.

Il generale von Bülow, comandante della 2ª armata tedesca, decise di attaccare i Francesi schierati nell'angolo fra Sambra e Mosa e, poiché a lui era stato conferito il comando anche sulla 1ª armata, ordinò al comandante di questa, generale von Kluck, di serrare a sinistra sulla sua armata per intervenire nella battaglia. Il von Kluck desiderava invece di continuare nel suo movimento verso ovest per precisare dove era la sinistra nemica ed effettuarne il vagheggiato accerchiamento: egli, nell'incertezza della situazione nemica, aveva tenuto indietro due corpi d'armata, i quali quindi non parteciparono alla battaglia. Il Bülow inoltre invitò il comandante della 3ª armata (generale von Hausen) ad agire contro il fianco destro della 5ª armata francese, il quale era protetto dalla Mosa guardata dal Lanrezac: ne derivò dunque un attacco frontale in condizioni difficilissime per la 3ª armata.

La 3ª armata che, agendo più a sud, avrebbe potuto passare la Mosa senza resistenza e riuscire a tergo dei Francesi, fu invece trattenuta da deboli forze; la 2ª armata riuscì il 22 e il 23 a respingere la 5ª armata francese. Il 23 gl'Inglesi erano costretti a ripiegare di fronte all'attacco di 3 corpi d'armata della 1ª armata tedesca. All'infuori del successo morale nessun grande risultato era stato però conseguito dai Tedeschi malgrado la loro superiorità: riuscirono soltanto a catturare un terzo circa della 4ª divisione belga che difendeva il campo trincerato di Namur contro due corpi d'armata tedeschi; il grosso della divisione riuscì a ripiegare prima della caduta della piazza: esso fu poi avviato per ferrovia ad Anversa, perché le truppe d'occupazione del Belgio (III corpo d'armata di riserva rinforzato poi dal IX corpo d'armata di riserva) trascurarono d'interrompere le comunicazioni che collegavano Anversa con la Francia.

La battaglia delle frontiere nella quale i Francesi avevano ovunque preso l'offensiva si risolse per essi in un insuccesso generale, ma anche ai Tedeschi non era riuscito di sfruttare convenientemente la superiorità loro là dove per l'opportuno schieramento modellato sul piano di Schlieffen disponevano di una schiacciante superiorità. Il miraggio dell'accerchiamento aveva tenuto lontano dall'azione rilevanti forze della 1ª armata mentre la 2ª aveva impiegato 2 corpi nell'azione contro Namur che poteva essere differita a dopo la battaglia.

L'invasione della Francia. - I rapporti delle armate dal 20 al 24 avevano fatto credere al Moltke di avere riportato una grande e completa vittoria su tutta la fronte: si riteneva quindi al Comando supremo che "in sei settimane tutta la faccenda sarebbe liquidata". Dalla fronte orientale invece Hindenburg telegrafava il 24 sera che non era escluso un esito sfavorevole; Conrad continuava a chiedere rinforzi per la fronte tedesca dell'est. In conseguenza Moltke pensò dapprima di mandare nell'est, oltre alla 1ª divisione di Landwehr sinora tenuta nello Schleswig, anche sei corpi d'armata tolti dalla Francia; ma successivamente, poiché la situazione dell'ala sinistra tedesca era divenuta tesa, Moltke si limitò a ordinare la sera del 25 che i due corpi d'armata di Namur fossero trasportati nella Prussia Orientale. Tale decisione venne mantenuta anche quando nei giorni successivi la situazione nell'est apparve radicalmente mutata in seguito alla vittoria di Tannenberg. Invano il generale Ludendorff avvertì che non aveva bisogno di soccorsi: malgrado ciò e malgrado che il 27 il Comando supremo tedesco avesse dovuto riconoscere che i Francesi conservavano la loro energia combattiva, il generale Moltke mantenne l'ordine dato. In tal modo l'ala destra tedesca era diminuita di tre corpi d'armata (comprese le truppe rimaste nel Belgio) e di un altro corpo che fu destinato all'assedio di Maubeuge. Inoltre le sei divisioni di Ersatz erano state assegnate alla sinistra anziché alla destra.

Il Comando supremo tedesco ordinò al principe Rupprecht di inseguire in direzione sud per staccare l'avversario da Épinal; in tal modo si presentò alla 2ª armata francese l'occasione favorevole per attaccare con successo il fianco destro dei Tedeschi rigettandoli sulla difensiva. Sulla destra tedesca le armate dopo i successi ottenuti passarono all'inseguimento; la 1ª, avendo sempre presente il concetto dello Schlieffen, tendeva ad avvolgere gl'Inglesi sulla loro sinistra; le altre armate procedettero all'inseguimento diretto del nemico, concetto che fu ripetuto nelle direttive del 27 agosto emanate dal Comando supremo, in base alle quali la 1ª armata doveva marciare verso la Senna a valle di Parigi, la 2ª su Parigi, la 3ª su Château-Thierry, la 4ª su Epernay, la 5ª su Chalons-sur-Marne, accerchiando però Verdun. In tal modo, per seguire l'idea difficilmente effettuabile di aggirare con l'armata di destra l'estrema sinistra dell'avversario, si esposero la 4ª e la 5ª armata a dover attaccare il nemico frontalmente e in posizioni sfavorevoli ai Tedeschi, cioè al passaggio del Chiers (4ª armata), dell'Othain (5ª armata) e della Mosa dove i Tedeschi subirono qualche scacco e molte perdite.

Il 26 agosto la destra della 1ª armata tedesca attaccava a Le Cateau Cambrésis un corpo d'armata inglese sostenuto dal corpo di cavalleria francese Sordet infliggendogli gravi perdite (circa 8 mila uomini), senza però riuscire ad accerchiarlo. Oltre che per le perdite materiali, questo combattimento sfortunato influì sul morale delle truppe e soprattutto del comandante inglese, maresciallo French, il quale decise senz'altro di continuare la ritirata senza più rimanere in linea con le armate francesi.

La battaglia delle frontiere era stata perduta essenzialmente per le sfavorevoli condizioni di forze in cui Joffre aveva impegnato le proprie armate e per la tattica francese che non teneva sufficiente conto della necessità di una cooperazione dell'artiglieria. Il comandante supremo francese ebbe il torto di voler addossare invece la colpa della sconfitta alle truppe. Tuttavia egli vide chiaramente che una ritirata ordinata avrebbe dato all'esercito francese il tempo di completarsi, di rifarsi e di assumere una nuova dislocazione favorevole per riprendere l'offensiva, mentre l'avanzata avrebbe reso difficili le comunicazioni dei Tedeschi e ne avrebbe diminuito le forze. Il concetto di una prossima offensiva fu sempre ribadito da Joffre in tutti i suoi ordini. Per ottenere che l'esercito si ritirasse senza presentare pericolosi intervalli, Joffre creò un distaccamento d'armata (denominato poi 9ª armata) con forze prese in massima alle armate di destra e dalla 4ª armata. La 9ª armata si frappose fra la 5ª e la 4ª; il comando ne fu dato al generale Foch. Già precedentemente sin dal 27 agosto Joffre aveva ordinato la costituzione della 6ª armata che, agli ordini del generale Manoury, doveva riunirsi nella regione d'Amiens per opporsi all'avanzata della destra tedesca: anche la 6ª armata era costituita con elementi tolti dall'Alsazia-Lorena o provenienti dal campo trincerato di Parigi. Il 27 Joffre per rallentare l'inseguimento dei Tedeschi ordinò alla 5ª armata di contrattaccare le forze tedesche fra l'Oise e S. Quintino. L'attacco, effettuato il 29 di agosto con 13 divisioni, sorprese completamente le 8 divisioni della 2ª armata separate in due gruppi: la superiorità morale dei Tedeschi ebbe però ragione del numero e l'azione costituì un successo tedesco; la 5ª armata francese riuscì il giorno 30 a interrompere il combattimento e a ritirarsi senza grandi perdite (v. XVIII, pp. 266-7).

Tra il 28 e il 30 la 1ª armata tedesca respinse nella zona della Somma (Amiens) le truppe della 6ª armata che si andavano colà raccogliendo. Il generale von Kluck decise allora di non proseguire verso la Senna a valle di Parigi, ma di sfruttare la vittoria della 2ª armata a Guise per convergere con la sua armata verso sud in direzione di Compiègne e avvolgere le truppe battute dalla 2ª armata: in tal modo si rinunciava all'avvolgimento di Parigi previsto dallo Schlieffen; per tale operazione a largo raggio mancavano evidentemente alla destra tedesca le forze necessarie, perché la 1ª armata, avendo lasciato nel Belgio il III corpo d'armata di riserva, era ridotta a 5 corpi d'armata e la 2ª non ne contava che quattro, poiché il corpo di riserva della Guardia era stato inviato in Russia e il VII corpo di riserva assediava Maubeuge. Molti distaccamenti erano stati poi lasciati nelle retrovie e i vuoti prodottisi non erano stati colmati. Il Comando supremo il 30 agosto stesso approvò la decisione del von Kluck; lo stesso giorno il Comando supremo si trasferì da Coblenza a Lussemburgo, sede ancora assai lontana specie dall'ala destra, con la quale esisteva il solo collegamento, piuttosto lento, per radio.

Il 2 settembre il Comando supremo ordinava alla 1ª e 2ª armata di respingere i Francesi verso est staccandoli da Parigi; la 1ª armata doveva seguire scaglionata la 2ª, per proteggere il fianco dell'esercito. Il generale von Kluck però, poiché nel suo sforzo per raggiungere e aggirare il fianco dell'avversario aveva sopravanzato la 2ª armata, non si attenne all'ordine ricevuto di rimanere dietro di questa, ma continuò a inseguire decisamente, passando il giorno 3 la Marna: a guardarsi dalle forze che potevano sboccare da Parigi lasciò soltanto il IV corpo di riserva che era ridotto all'effettivo di una sola divisione.

Il 5 giunse alla 1ª armata un nuovo ordine dal Comando supremo in base al quale non solo la 1ª armata, ma anche la 2ª doveva far fronte a Parigi per prendere l'offensiva contro le forze che ne sboccassero; 4ª e 5ª armata dovevano continuare nell'offensiva in direzione sud. La 3ª, pur marciando verso sud, doveva essere pronta a sostenere sia le forze che agivano verso Parigi sia quelle che puntavano verso sud. La 6ª e 7ª dovevano continuare ad agire contro la fronte della Mosella fra Toul e Épinal. Questa decisione era conseguenza delle notizie pervenute al Comando supremo circa il trasporto di numerose forze francesi dalla destra (fronte Alsazia-Lorena) verso Parigi. Ciò nonostante il generale von Kluck continuò per tutto il giorno 5 nell'inseguimento verso sud; ma nello stesso giorno il generale Gronau, comandante del IV corpo di riserva lasciato a fronteggiare Parigi, accortosi che le forze contro di lui ingrossavano, per chiarire la situazione attaccò decisamente l'avversario: il combattimento, di esito incerto, svelò la grande superiorità di forze del nemico. Il generale Gronau nella notte sul 6 si ritirò prendendo posizione dietro l'Ourcq: era chiaro in tal modo che l'esercito tedesco, partito con l'intenzione di aggirare a ogni costo con la propria destra il nemico, era invece aggirato.

Battaglia della Marna. - La lunga ritirata aveva senza dubbio aumentato nei Francesi il sentimento naturale di preoccupazione di dover combattere contro forze addestrate e solide come le tedesche, ma nello stesso tempo la visione della patria invasa induceva ad affrontare ogni sacrificio. Il contrattacco di Guise e i combattimenti sulla Mosa, dove il 28 agosto i Tedeschi avevano avuto un serio scacco a Donchery, avevano dimostrato che l'esercito francese possedeva ancora capacità offensiva, sebbene difficilmente fosse in grado di portare a fondo un attacco contro forze tedesche. Ma il Comando supremo tedesco, lontano e staccato dalle truppe, non aveva riconosciuto né l'una né l'altra di queste due verità, tanto che da principio non attribuì al nemico che si ritirava la possibilità di un ritorno offensivo, e quando questo invece fu pronunciato non seppe tener conto della superiorità morale delle proprie truppe.

Il generale Joffre aveva avuto notizia di grandi trasporti di truppe tedesche dal Belgio verso l'est: egli intendeva guadagnare tempo per riorganizzare l'esercito e passare all'offensiva quando il momento della "vittoria finale" fosse venuto: per intanto la sinistra francese doveva ripiegare dietro la Senna (5ª armata), il centro dietro l'Aube (9ª armata), la destra doveva continuare ad appoggiarsi ai campi trincerati di Verdun, Toul, Nancy. Parigi doveva essere, secondo una decisione del 28 agosto, considerata città aperta cioè abbandonata; ma due giorni dopo tale decisione fu annullata. Il 2 settembre il governo si trasferì a Bordeaux: di fronte al pericolo l'intero popolo francese si dimostrò compatto stringendosi per la salvezza della patria senza eccezione di partiti intorno a un nuovo governo detto d'Unione nazionale. Il 4 settembre veniva firmato a Londra un accordo con il quale le potenze dell'Intesa s'impegnavano a non concludere pace separata: nessuna debolezza quindi né da parte del popolo né da quella dei governi. Intanto il 3 settembre l'aviazione francese aveva notato che la destra tedesca anziché marciare su Parigi si dirigeva verso sud-est; il generale Gallieni, comandante del campo trincerato di Parigi, fece allora presente a Joffre quale favorevole occasione si presentava per attaccare sul fianco i Tedeschi; Joffre decise l'offensiva generale che doveva cominciare il 6. Ad essa dovevano partecipare anche gl'Inglesi, sebbene non ancora riordinati dopo le grandi perdite e i disagi della ritirata: essi erano stati rinforzati dal III corpo d'armata mandato dall'Inghilterra.

L'esercito tedesco si trovava con le comunicazioni ferroviarie in critiche condizioni, e soprattutto era perduta alla destra tedesca sia la facilità di manovrare, data l'esistenza del campo trincerato di Parigi, sia la superiorità numerica. L'inferiorità derivante ai Francesi dall'inopportuno indirizzo tattico iniziale era ormai scomparsa, perché i comandanti di quell'esercito avevano, subito dopo i primi rovesci, disposto che per ogni azione fosse convenientemente realizzata la necessaria cooperazione tra fanteria e artiglieria.

Il comando francese aveva razionalmente modificato lo schieramento, togliendo l'eccesso delle forze all'ala destra per trasportarle alla propria sinistra. Alle armate 9ª, 5ª, corpo di spedizione inglese e 6ª, formanti un totale di circa 30 divisioni, i Tedeschi erano in grado di opporre solo la 1ª e 2ª armata rafforzate da circa un corpo d'armata della 3ª, con un totale di 20 divisioni. Joffre durante la ritirata aveva inoltre spiegato grande e provvida attività personale, mentre il comando tedesco era a Coblenza e a Lussemburgo fuori d'ogni contatto con le truppe: il Moltke, di carattere impari alla gravità del compito, pur avendo una chiara intelligenza, era preoccupato di fantastici sbarchi russi nel Belgio e di offensive francesi da Verdun. Scarsa, se non negativa fu perciò l'azione del comando tedesco. Rimaneva quindi ai Tedeschi solo un grande vantaggio: la superiorità morale della truppa, rafforzata dal lungo inseguimento.

Di fronte all'invasione l'esercito francese, che non aveva perduto la coesione durante il ripiegamento, si rivolse all'attacco, deciso a ogni sacrificio; ma non era possibile che esso ritrovasse immediatamente tutto il vigore offensivo necessario per attaccare truppe solide come le tedesche sino allora vittoriose. Quasi ovunque i Francesi dovettero ridursi alla difensiva e le azioni offensive da essi intraprese ebbero esito quasi nullo o negativo: attaccanti alla Marna furono in complesso, dopo il primo giorno, i Tedeschi. Ma il comando tedesco non conosceva le proprie truppe, e quando dopo 4 giorni di lotta ritenne la situazione divenuta difficile, intervenne presso le armate 1ª e 2ª in modo che queste il 9 settembre ordinarono la ritirata (v. marna).

Battaglia dell'Aisne. - L'ala destra ripiegò sull'Aisne, ma tra la 1ª e 2ª armata continuò a rimanere un intervallo di una quarantina di km. Joffre ordinò che si prendesse l'offensiva contro la fronte dell'Aisne, e il 12 settembre i Franco-Inglesi riuscirono a occupare Reims, a prendere piede sulla destra dell'Aisne e a incunearsi nell'intervallo tra la 1ª e la 2ª armata avversarie: però i Tedeschi avevano frattanto fatto giungere sul campo di battaglia il VII corpo d'armata di riserva che il giorno 7 aveva ottenuto la resa di Maubeuge (con 42.000 prigionieri); altre forze tolte dalla sinistra e dal Belgio giunsero in tempo: in questo modo con la battaglia dell'Aisne riuscì ai Tedeschi di arrestare l'inseguimento dei Francesi e di stabilirsi solidamente su buone posizioni. Il giorno 14 il Moltke veniva sostituito nella carica di capo di S. M. dal generale Falkenhayn.

Le operazioni nella Prussia orientale. - In conformità degli accordi presi con la Francia, i Russi - sapendo che nella Prussia orientale erano rimaste deboli forze tedesche - presero l'offensiva contro tale regione con due armate sottoposte entrambe al comando del gruppo nord-ovest (generale Želinskij). La 1ª armata (generale Rennenkampf) passò il confine a nord dei Laghi Masuriani il 17 agosto. Nello stesso giorno il I corpo d'armata tedesco, rimasto isolato presso la frontiera, contrariamente agli ordini del comando d'armata attaccò improvvisamente il centro russo a Stallupönen riuscendo a infliggergli uno scacco, ma si sarebbe trovato l'indomani in condizioni difficili se la sera stessa non si fosse ritirato - indisturbato - per ordine del generale von Prittwitz comandante l'8ª armata. Questi aveva lasciato il XX corpo d'armata rafforzato da truppe di Landwehr a difesa del confine meridionale nella zona di Soldau (Działdowo); con il resto delle forze attaccn̄ il Rennenkampf il 19 agosto a Gumbinnen; i Tedeschi ebbero qualche successo alle ali, ma al centro il XVII corpo d'armata (generale Mackensen) subị un grave rovescio e si ritirn̄ disordinatamente, tanto che fuggiaschi giunsero fino a Danzica a 300 km. dal campo di battaglia. Intanto il von Prittwitz aveva saputo che contro il XX corpo d'armata s'avanzava l'intera 2ª armata russa (generale Samsonov); poiché tali forze minacciavano le sue comunicazioni, egli decise di ripiegare a ovest della Vistola. Il I c. d'A. fu quindi inviato per ferrovia nella zona della Vistola e la 3ª divisione di riserva in quella di Allenstein, mentre il I C. d'A. di riserva e il XVII ripiegavano per via ordinaria. Rennenkampf, che aveva avuto sensibili perdite, non inseguì. Il generale von Prittwitz si dimostrò tanto pessimista che il Comando supremo lo sostituì il 22 agosto, destinando all'8ª armata il generale von Hindenburg, a riposo da qualche anno, cui fu assegnato come capo di stato Maggiore il generale Ludendorff. In tale giorno anche il Prittwitz aveva deciso di rimanere sulla destra della Vistola e di agire contro la 2ª armata russa. Tale concetto però prese una ben altra estensione quando il 23 agosto Hindenburg assunse il comando. Il Samsonov avanzava su larga fronte con un corpo d'armata distaccato sulla destra di circa due tappe; il centro russo aveva il giorno 23 attaccato il XX corpo, il quale era ripiegato ordinatamente con la sua sinistra schierandosi in direzione da sud a nord a est di Tannenberg. Anziché cercare di riunirsi al più presto alla 1ª armata, il grosso della 2ª appoggiò verso ovest allontanandosene sia per seguire le forze che gli stavano di contro, sia per rendere più efficace l'accerchiamento rendendolo più largo.

Documenti trovati su un ufficiale russo caduto e intercettazioni radiotelegrafiche permisero a Hindenburg di farsi un'idea esatta della situazione avversaria e, basandosi su questa conoscenza, decise di tener fermo con il XX corpo d'armata rinforzato dalla 3ª divisione di riserva e da altre truppe di seconda linea e di prendere l'offensiva alle due ali: sulla sinistra con il I C. d'A. di riserva e con il XVII corpo d'armata i quali, dopo avere respinto il VI corpo d'armata russo, dovevano voltarsi contro il tergo del centro russo; analogamente sulla destra il I corpo tedesco doveva respingere la sinistra russa a Usdau (Uzdowo) avvolgendo da sud il centro russo. Questo disegno riuscì completamente: il VI corpo d'armata russo fu il 26 battuto nella zona di Bischofsburg e messo in disordinata ritirata, il 27 il I corpo tedesco ricacciava oltre il confine il I corpo russo. Nelle giornate tra il 27 e il 30 il centro russo veniva in gran parte catturato, lasciando nelle mani dei Tedeschi oltre 90.000 prigionieri e 380 cannoni (v. tannenberg).

L'armata del Samsonov a partire dal 27 si era avanzata senza curarsi di conservare il collegamento con il generale Želinskij, il quale era rimasto all'oscuro sulla sorte di essa e non aveva quindi ordinato in tempo al Rennenkampf di soccorrerlo; il Rennenkampf era avanzato lentamente verso ovest di un centinaio di chilometri, trattenuto essenzialmente dalle difficoltà dei rifornimenti, dato che le ferrovie tedesche (di scartamento diverso dalle russe) erano inservibili. All'annuncio della sconfitta del Samsonov la 1ª armata ripiegò dietro i Laghi Masuriani. Sebbene il Conrad insistesse perché i Tedeschi prendessero l'offensiva verso sud in modo da collegare la loro offensiva con le operazioni austriache, tuttavia il comando tedesco decise - come era necessario - di attaccare il Rennenkampf. Hindenburg era stato rinforzato con altri due corpi d'armata e da un'altra divisione di cavalleria: egli decise d'impegnare di fronte con quattro corpi d'armata il Rennenkampf e di aggirarlo a sud dei Laghi Masuriani con il resto delle forze. Ma tale mossa non poteva rimanere celata ai Russi, i quali tentarono dapprima di opporsi con altre forze al tentativo d'aggiramento; ma, riuscita vana tale controffensiva, nella notte dal 9 al 10 settembre Rennenkampf ordinò la ritirata sfuggendo all'aggiramento. Un vigoroso inseguimento da parte dei Tedeschi inflisse però gravi perdite ai Russi (45 mila prigionieri, 150 cannoni). Rennenkampf si rifugiò sotto la protezione delle fortezze del Niemen: Grodno e Kovno (Kaunas). L'effetto morale delle vittorie di Tannenberg e dei Laghi Masuriani fu considerevole ed ebbe ripercussioni anche sull'atteggiamento dei neutri della penisola balcanica (Turchia, Bulgaria). L'effetto morale fu grande anche sull'intera nazione tedesca, la quale si abituò a considerare i nomi cari di Hindenburg e di Ludendorff come pegni sicuri di vittoria. Tuttavia, quantunque si trattasse di brillanti vittorie, esse erano state ottenute da una piccola massa, e non potevano perciò equilibrare lo scacco che quasi l'intero esercito tedesco aveva subito alla Marna.

Le operazioni contro la Serbia. - Ritenendo che la minaccia tedesca avrebbe trattenuto la Russia da un intervento effettivo, l'Austria aveva indetto la mobilitazione prevista per operazioni contro la Serbia isolata; pertanto si concentrarono al confine serbo non soltanto la 5ª e 6ª armata destinate ad agire in ogni caso contro tale avversario, ma anche la 2ª armata, la quale invece in caso di guerra generale era assegnata all'ala destra dello schieramento contro i Russi: quando si vide invece che la Russia era decisa alla guerra, non si fu più in tempo a cambiare gli ordini per la radunata; quindi da principio la 2ª armata mancò contro la Russia ed essa vi fu condotta soltanto gradatamente e non per intero, perché frattanto una parte era stata assorbita dalle operazioni contro la Serbia.

Le operazioni contro la Serbia furono dirette dal maresciallo Potioreck; l'esercito serbo aveva il grande vantaggio, oltre che di un forte spirito nazionale, anche di essere già allenato a grandi operazioni di guerra per le vittorie ottenute nella guerra del 1912: esso però difettava di mezzi per condurre efficaci operazioni offensive. Sarebbe quindi stato opportuno limitarsi contro tale avversario alla difensiva con il minimo delle forze per concentrare tutti i disponibili contro la Russia; ma Conrad e Potioreck d'accordo decisero di agire offensivamente e la solita tendenza all'aggiramento fece scegliere come direzione d'attacco quella partente dalla Bosnia che aggirava così la linea principale di difesa Sava-Danubio. Ma in tal modo le forze austriache venivano a mettersi in condizioni difficili per i rifornimenti e a dover affrontare, oltre che il passaggio della Drina, anche l'attacco di successive ottime posizioni di difesa costituite dalle dorsali di riva destra della Drina e degli altri affluenti della Sava. Il 12 agosto cominciò l'offensiva austriaca, ma già il 20 la 5ª armata veniva da una controffensiva serba rigettata, talché anche la 6ª dovette ritirarsi. Un tentativo serbo di spingersi al nord della Drava finì con la cattura delle deboli forze che l'avevano tentato.

Poiché importava di rimediare al primo scacco e nella speranza di influire sulle decisioni della Bulgaria, il 7 settembre Potioreck riprese l'offensiva, impiegando però anche parte della 2ª armata che era stata lasciata a sua disposizione; l'attacco principale fu portato ancora sulla fronte della Drina e fu da principio trattenuto con successo dai Serbi; in seguito però, anche per la mancanza di munizioni, i Serbi furono respinti a Krupanj (23 settembre): gli Austriaci in novembre iniziarono l'offensiva su Šabac e riuscirono ad avanzare sino a occupare Belgrado il 2 dicembre. Il timore dell'imminente rovina della patria rialzò di nuovo lo spirito dei Serbi, che parevano sull'orlo della dissoluzione; intanto erano giunte dalla Francia le munizioni occorrenti, talché fu possibile attaccare la destra austriaca, che alla sua volta per le difficoltà dei rifornimenti mancava dei mezzi occorrenti alla difesa. Il contrattacco serbo, iniziato il 3 dicembre stesso verso Valievo, riuscì completamente: gli Austriaci dovettero riparare in Bosnia e dietro il Danubio, avendo subito gravissime perdite materiali e soprattutto morali. Il proclama del principe ereditario serbo precisava che erano stati catturati oltre 300 ufficiali, più di 40.000 uomini di truppa, 142 cannoni, 70 mitragliatrici. Il numero minimo di ufficiali in confronto ai soldati fatti prigionieri denota come nella truppa debbono essere avvenuti episodî di mancata resistenza e di passaggio al nemico. L'Immanuel riferisce infatti che circa 20.000 uomini di truppe ceche e sud-slave sarebbero in questa occasione passate all'avversario. Il 15 dicembre il suolo serbo era libero. Stanco dallo sforzo, ma soprattutto insoddisfatto nelle proprie aspirazioni, l'esercito serbo non prese più parte attiva alle operazioni, consentendo così che l'Austria sguernisse totalmente il fronte serbo di truppe attive per concentrarle sulla fronte italiana. Tralasciando di combattere contemporaneamente ai proprî alleati, la Serbia si illuse di poter continuare a difendersi, mentre altro non fece che lasciare ai suoi nemici la possibilità di scegliere il momento in cui essi poterono sommergerne la resistenza e impadronirsi dell'intero suo territorio.

Le prime operazioni austro-russe. - Il comando russo aveva deciso di agire con la massa delle forze offensivamente contro l'Austria schierando quattro armate (in complesso circa 46 divisioni di fanteria, 18 di cavalleria) al confine galiziano per avere ragione dell'esercito austriaco (inizialmente circa 33 divisioni di fanteria, 8 di cavalleria). Sarebbe stato conveniente che a tale concetto fosse stata data intera applicazione lasciando contro la Germania un minimo di forze per tenere impegnata l'8ª armata tedesca: da questa infatti non era da attendersi una grande azione offensiva sul suolo russo, perché mancava la possibilità di sfruttare le ferrovie russe di scartamento diverso e perché le strade tra la Polonia e la Prussia orientale erano per considerazioni militari scarse e mal tenute; d'altra parte una puntata tedesca con forze limitate avrebbe dovuto temere per le proprie comunicazioni, per offensive condotte dai Russi contro la Prussia orientale specie mediante masse di cavalleria; ma le premure della Francia fecero sì che i Russi concentrassero contro le scarse divisioni dell'8ª armata numerose forze che mancarono poi contro gli Austriaci.

Diversamente dai Francesi, il Conrad si adattò ad avere da principio contro di sé il peso della massa russa pur di consentire il logico svolgimento delle operazioni ai Tedeschi in Francia. Aiutato da principio direttamente da un solo corpo d'armata tedesco di Landwehr, egli decise di agire a sua volta offensivamente contro i Russi, ordinando alla sua 1ª e 4ª armata di avanzare tra Vistola e Bug rispettivamente su Lublino e Cholm (Chelm), mentre la 3ª armata doveva prendere dalla fronte di Leopoli l'offensiva verso est. A sud di quest'ultima si doveva schierare la 2ª armata, in trasporto dalla Serbia. All'ala sinistra la 1ª armata austriaca (generale Dankl) batté la 4ª armata russa (generale Evert) il 23 agosto presso Kraśnik; la 4ª armata austriaca (generale Auffenberg) il 26 agosto batteva la 5ª armata russa (generale Plehve) a Komarów. In queste due vittorie gli Austriaci catturarono 200 pezzi e circa 20.000 prigionieri; ma, anziché inseguire a fondo i Russi, Auffenberg dovette con il grosso delle forze rivolgersi verso sud-est per attaccare sul fianco destro le forze russe (3ª armata generale Russkij e 8ª armata generale Brusilov) le quali avevano frattanto respinto la 3ª armata austriaca (generale Brudermann) e minacciavano Leopoli. Ma a sua volta il granduca Nicola aveva rinforzato le armate 4ª e 5ª mettendole in condizioni di riprendere l'offensiva e aveva diretto la 3ª armata verso ovest in modo da portare aiuto alla 5ª. Le forze della 2ª armata austriaca (generale Boehm-Ermolli) che frattanto giungevano dalla Serbia non poterono cambiare la situazione: l'armata di Auffenberg non riuscì nel suo attacco di fianco, anzi dovette a sua volta mettersi sulla difensiva nella zona di Rawa Ruska, mentre le armate russe riprendevano l'offensiva tra Vistola e Bug, minacciando il tergo delle tre armate (4ª, 3ª, 2ª) impegnate sulla fronte Rawa Ruska-Leopoli. Per sottrarsi a tale minaccia l'11 settembre Conrad ordinò la ritirata.

Verso la fine di settembre le armate 1ª, 3ª e 4ª erano sulla linea NidaBiala, mentre la 2ª armata fu diretta al sud a difesa dei passi dei Carpazî. I Russi avanzarono lentamente, investendo la piazza di Przemyśl. Entrambi gli eserciti avevano subito grandi perdite, ma soprattutto lo spirito offensivo degli Austriaci aveva ricevuto un grave colpo. Conrad si lagnò amaramente che fosse mancato alla sua offensiva verso nord l'aiuto d'una offensiva contemporanea tedesca dalla Prussia orientale verso sud, ma tale lagnanza è infondata: i Tedeschi legando a loro e disorganizzando in gran parte due armate russe avevano salvato l'Austria.

La fronte occidentale sino alla fine del 1914. - Già sin dal 9 settembre la 6ª armata tedesca aveva avuto ordine di troncare l'offensiva contro Nancy ripiegando fra Metz e i Vosgi per rendere disponibile la massima parte possibile delle divisioni. Il generale Falkenhayn, appena assunta la carica di capo di Stato Maggiore, decise che l'esercito rimanesse nelle posizioni occupate e che l'ala destra composta dalla 2ª, 7ª e 1ª armata prendesse l'offensiva: intanto il grosso della 6ª armata doveva essere trasportato per ferrovia da Metz a S. Quintino per avvolgere l'avversario. La 6ª armata (5 corpi d'armata) cominciò a entrare in azione con i corpi di testa il 23 settembre; ma a sua volta Joffre aveva inviato con compito analogo l'armata di Lorena (2ª) verso il nord; s'iniziò così dalle due parti un tentativo di avvolgere l'ala settentrionale dell'avversario, tentativi che, non riusciti né ai Tedeschi né ai Francesi, ebbero fine quando venne raggiunta la costa. Queste operazioni vennero quindi chiamate: la corsa al mare. Si ebbero anzitutto nelle zone di Amiens violenti combattimenti (battaglia della Somma che s'iniziò il 23 settembre). I due avversarî verso la fine di settembre dopo una settimana di lotte indecise finirono con il trincerarsi fra l'Oise e la Somma a est di Amiens in direzione sud-nord. Joffre riunì ai primi d'ottobre una nuova armata, la 10ª (generale Maudhuy), per avviluppare a sud di Lilla il fianco destro dei Tedeschi, ma le forze francesi furono contenute dalla cavalleria tedesca (5 divisioni, generale von der Marwitz) in modo che la 6ª armata ebbe tempo di ricevere i rinforzi e passare a sua volta all'offensiva. La battaglia di Arras, svoltasi nella prima decade di ottobre, terminò con la stabilizzazione delle due fronti in direzione nord; Lilla era rimasta ai Tedeschi. Le linee avversarie terminavano all'altezza di La Bassée; più a nord si fronteggiavano fino alla Lys le due cavallerie. La lotta subì una sosta: i Francesi dovevano rendere disponibili nuove forze ritirandole dal resto della fronte; fu deciso che l'armata inglese, dopo essere stata sostituita sull'Aisne, sarebbe stata trasportata nelle Fiandre, donde, in unione ad altre forze inglesi sbarcate nella zona di Ostenda, avrebbe preso l'offensiva per liberare Anversa e avviluppare la destra tedesca. Il generale Foch il 4 ottobre fu incaricato del comando delle armate francesi a nord dell'Oise. Intanto Anversa, il 9 ottobre, era caduta; tuttavia l'esercito belga sfilando tra la Schelda e il confine olandese riuscì a sfuggire e a riunirsi alle forze alleate nella zona di Ostenda. Da parte tedesca si erano così rese disponibili le truppe che avevano assediato Anversa (circa 5 divisioni) e inoltre erano pronti 4 corpi d'armata di nuova formazione, composti per la maggior parte di elementi volontarî; tali reparti, pur avendo un grande entusiasmo, difettavano d'istruzione e soprattutto di ufficiali sperimentati: essi, che formavano una nuova 4ª armata (duca di Württemberg), il 18 ottobre cominciarono la battaglia dell'Yser contro le truppe inglesi rinforzate sulla sinistra da unità francesi che più tardi costituirono l'8ª armata (generale D'Urbal) e dall'esercito belga. Quest'ultimo, posto all'estrema sinistra, si aggrappò all'ultimo lembo della patria, e, per impedire l'avanzata del nemico ruppe le dighe effettuando davanti alla propria fronte un'inondazione. La lotta fra Francesi, Inglesi e Tedeschi fu lunga e sanguinosa (si calcola che i due avversarî abbiano perduto circa 200.000 uomini ciascuno), ma nessuna delle parti poté avere il sopravvento. Sotto l'energica direzione del generale Foch gli alleati resero vani gli sforzi dei Tedeschi, arrestandoli all'altezza del canale dell'Yser: tentativi tedeschi fatti impiegando grandi quantità d'artiglieria contro Ypres (30 ottobre) non riuscirono e del pari senza successo fu l'offensiva nelle Argonne condotta dalla 2ª armata tedesca. Unico successo locale fu la conquista di Dixmude, avvenuta il 10 novembre da parte delle giovani truppe del XXII C. d'A. di riserva. Il 18 novembre i Tedeschi cessarono dai tentativi di sfondare la fronte avversaria e sulla fronte francese cominciò ormai definitivamente la guerra di trincea.

La campagna d'autunno alla fronte russa. - Sotto la pressione francese il granduca Nicola decise di trasportare il grosso delle sue forze in Polonia tra Novogeorgevsk (Modlin) e il confluente del San per prendere l'offensiva in direzione di Breslavia contro l'interno della Germania (5 armate, circa 60 divisioni); altre 3 armate dovevano avanzare all'ovest del San, mentre un'altra avrebbe fronteggiato i Carpazî e protetto il blocco di Przemyśl. Questo disegno fu conosciuto sotto il nome popolare di "gran compressore russo". Contro la Prussia orientale rimasero da principio due armate che presero l'offensiva contro le deboli forze tedesche colà rimaste, obbligandole lentamente ad abbandonare il suolo russo. In seguito i Russi ridussero le loro forze a una sola armata di 6 corpi d'armata di forza, cioè all'incirca doppia dell'8ª armata tedesca: i due avversarî si fronteggiavano sulle posizioni dei Laghi Masuriani e dell'Angerapp, senza che i Russi osassero intraprendere operazioni offensive come la loro superiorità numerica avrebbe consentito. Il disegno del granduca di agire offensivamente dal saliente polacco contro la Germania era attraente: la massa era disponibile, ma la capacità offensiva della massa stessa contro truppe tedesche era assai dubbia, e questo piano d'operazione aveva soprattutto il lato debole di avvicinare le forze russe a portata dei colpi offensivi che potevano venirgli dal confine germanico.

Dopo la sconfitta di Leopoli l'esercito austriaco non fu più in grado di agire da solo contro i Russi; il Comando supremo tedesco dovette inviare nella zona di Cracovia la 9ª armata agli ordini di Hindenburg, comprendente il grosso delle forze che erano nella Prussia orientale. Con il suo aiuto il 28 settembre gli Austriaci ripresero l'offensiva riuscendo a raggiungere il San e a liberare Przemyśl, mentre alla loro sinistra i Tedeschi giungevano sino di fronte a Ivangorod (Dęblin) e prendevano poi l'offensiva in direzione di Varsavia: ma frattanto i Russi avevano aumentato le loro forze in tale zona, per modo che Hindenburg fu costretto a ritirarsi in direzione della Slesia distruggendo le comunicazioni per ritardare l'avanzata russa. Sulla sua destra gli Austriaci ripiegarono nuovamente verso Cracovia e i Carpazî: così ai primi di novembre Przemyśl fu di nuovo investita. Conrad alla fine di ottobre chiese 30 divisioni di rinforzo a Falkenhayn, ma questi poté concedere uno solo dei nuovi corpi d'armata aggiungendovi la promessa che altre forze avrebbero potuto essere inviate nell'est dopo terminata la battaglia di Ypres. I Russi avevano, a ragione, considerato la ritirata austro-tedesca come un proprio successo; al principio di novembre cinque armate sotto il comando del generale Russkij erano pronte a prendere l'offensiva contro la Slesia e la Galizia orientale. Hindenburg (che il 1° novembre era stato nominato comandante in capo di tutte le forze tedesche alla fronte orientale: 9ª e 8ª armata) decise, anziché opporsi frontalmente ai Russi, di trasportare la 9ª armata (generale Mackensen) nella zona di Posen (Poznan) per prendere di sorpresa l'offensiva in direzione sud contro la destra russa. Poiché i Russi avevano trascurato di guardarsi verso Posen, la mossa riuscì completamente: il 1° novembre cominciò l'avanzata di Mackensen con la sinistra lungo la Vistola, mentre da Kalisz e a sud altre truppe, tolte dai presidî di Posen e Breslavia, avanzavano per impegnare frontalmente i Russi. Più a sud avanzavano gli Austriaci. Mackensen riuscì a battere nella battaglia di Kutno (14-15 novembre) la destra russa e a respingerla su Łódź tentando di avvilupparla; ma i Russi riuscirono a rompere la linea dei Tedeschi e ad accerchiarne la sinistra. Questa però (XXV corpo d'armata, 3ª divisione fanteria della Guardia) riuscì ad aprirsi un varco combattendo e a riunirsi con il resto della 9ª armata (v. Łódź).

Tra il 20 novembre e il 4 dicembre giunsero però dalla fronte occidentale otto divisioni tedesche, delle quali sei furono assegnate alla 9ª armata; con tale rinforzo Hindenburg riuscì a respingere i Russi da Łódź e ad arrestarne l'avanzata verso occidente, ma non a respingerli al di là della Vistola. Frattanto anche il Conrad riusciva a battere l'11 dicembre presso Limanoja a sud di Cracovia i Russi e a respingerli sulla destra del Dunaiec e della Biała. Nei Carpazî e in Bucovina i Russi avevano avuto qualche vantaggio sugli Austriaci, occupando pure Czernowitz (Cernăuti).

In tal modo il grandioso piano dei Russi era stato arrestato e anche in oriente i due avversarî si fronteggiavano lungo una linea che dalla zona di Varsavia per i Carpazî andava al confine romeno. Intanto nella Prussia orientale l'8ª armata aveva tenuto in scacco, sebbene ridotta a circa 5 divisioni e mezza, la 10ª armata russa di forza doppia, ciò che indica a qual punto fosse giunta la superiorità morale dei Tedeschi.

Frattanto era intervenuto un fatto nuovo: la Turchia aveva iniziato le ostilità contro l'Inghilterra, la Francia e la Russia.

Perdute in seguito alla guerra del 1912, per la massima parte, le provincie europee, la potenza militare della Turchia si fondava essenzialmente sulle truppe che essa poteva trarre dall'Asia Minore; il soldato turco era ottimo e solo difettavano all'esercito, riorganizzato e istruito da ufficiali tedeschi, i mezzi tecnci per una guerra moderna. Dall'entrata in guerra della Turchia venne l'interesse da parte delle potenze centrali di occupare appena possibile la Serbia, così da mettersi in più diretto rapporto con la nuova alleata. In ogni modo l'entrata in guerra della Turchia (forte di 38 divisioni, ripartite in 4 armate, oltre a distaccamenti minori, con un totale di 500.000 uomini), chiudendo gli stretti isolava la Russia, la quale era così ridotta a ricevere i materiali da guerra di cui abbisognava soltanto dall'Oriente (per mezzo della Transiberiana) oppure dalla Murmania, che però era assai mal collegata con l'interno del paese, esistendo solo una ferrovia, non completa, a scartamento ridotto.

Risultato delle lotte del 1914. - Nell'ovest i due avversarî si equilibravano; i Tedeschi però avevano oramai perduto la netta superiorità morale che in principio della guerra avevano sull'avversario; l'esercito francese aveva avuto gravissime perdite, ma in compenso l'esercito inglese era in pieno sviluppo; la guerra si prospettava lunga perché i due avversarî accrescevano sempre più i mezzi di difesa e di offesa, talché un'offensiva richiedeva la riunione d'ingenti materiali e rilevanti provvidenze per sistemarli e proteggerli dall'avversario. Quindi sino al termine della guerra su questa fronte non si poterono verificare che azioni intermittenti aventi il carattere di lotta di materiali oltre che di uomini.

Anche sulla fronte russa la lotta si era irrigidita; ma poiché i due avversarî non disponevano su una fronte così vasta di materiali ingenti come sulla fronte occidentale, ne derivava che la rottura della fronte irrigidita era assai meno difficile che in Francia, soprattutto perché si era prodotto uno squilibrio nelle forze morali. L'esercito tedesco aveva acquistato una decisa superiorità morale sul russo, mentre l'austriaco aveva bisogno dell'aiuto diretto tedesco per fronteggiare i Russi.

1915: l'offensiva russa contro l'Austria. - Dopo l'insuccesso dell'offensiva di Polonia, il granduca Nicola decise di operare contro la fronte dei Carpazî per penetrare in Ungheria: il massimo sforzo fu fatto in direzione del colle di Dukla; gli Austriaci però con l'aiuto di 5 divisioni tedesche (oltre alle due divisioni del corpo di Landwehr) riuscirono a trattenere l'avversario e a rioccupare Czernowitz in Bucovina. Nel gennaio vennero inviati nella Prussia orientale 4 corpi d'armata per consentire a Hindenburg di prendere l'offensiva contro la 10ª armata russa, schierata a est dei laghi Masuriani, in direzione all'incirca da sud a nord.

Battaglia d'inverno in Masuria. - Hindenburg costituì due armate, la 10ª a nord e l'8ª a sud, e il 7 febbraio prese l'offensiva agendo con il massimo sforzo alle due ali e soprattutto all'ala settentrionale. I Russi, distesi lungo una linea di circa 200 km., furono completamente sorpresi e travolti: l'avanzata rapida della 10ª armata da nord verso sud-est riuscl a tagliare alle retroguardie russe la ritirata verso est, mentre l'avanzata dell'8ª armata impediva ad esse lo scampo verso sud: il numero dei prigionieri si aggirò intorno ai 110.000. Ma le truppe, stanche dello sforzo, non poterono essere subito impiegate in successive operazioni. La vittoria, oltre alle perdite materiali inflitte ai Russi, ebbe il vantaggio di rendere ancora più temuto per i Russi l'esercito tedesco e il nome di Hindenburg.

Tuttavia il granduca continuò nel suo sforzo contro i Carpazî, mentre Conrad sguarnendo la Polonia iniziò il 25 febbraio un'offensiva per liberare Przemyśl; il tentativo non riuscì, perché dopo qualche successo la forza offensiva degli Austriaci in quel difficile terreno e in quella stagione si esaurì; la fortezza dovette arrendersi ai Russi con 40 mila uomini: con l'armata assediante così disponibile il granduca rinforzò l'attacco contro i Carpazî, riuscendo a oltrepassare in qualche tratto le creste. Per trattenere i Russi fu necessario l'intervento di nuove forze tedesche: con l'aiuto del corpo dei Beschidi (3 divisioni tedesche) la 3ª armata austriaca contrattaccò nei primi giorni di aprile i Russi, riuscendo a farli retrocedere alquanto. Così terminò la gigantesca battaglia dei Carpazî con lo scacco del tentativo russo di penetrare in Ungheria. Esso era costato gravi sacrifizî ai Russi, tanto che il Falkenhayn ritiene che l'insuccesso e i sacrifizî di questa offensiva siano state le cause principali che consentirono subito dopo agli Austro-Tedeschi lo sfondamento decisivo della fronte russa.

La guerra di trincea sulla fronte occidentale. - Al principio del 1915 i Francesi tentarono di sfondare le linee tedesche a nord dell'Aisne nella zona di Soissons: dopo un bombardamento di parecchi giorni l'attacco francese riuscì a intaccare leggermente le posizioni tedesche (8 gennaio), ma un contrattacco (12 gennaio) ritolse ai Francesi ogni vantaggio e lasciò a essi solo una piccola testa di ponte in corrispondenza di Soissons. L'azione non fu senza influenza sul morale delle truppe francesi.

Un mese dopo Joffre ordinò che nella stessa zona la 4ª armata francese effettuasse un altro attacco, condotto però su una fronte di 20 km., Perthes-Le Mesnil, preceduto da una potente preparazione d'artiglieria. Per la prima volta l'azione della fanteria fu preceduta da un "feu roulant" destinato a soffocare ogni resistenza avversaria prima che la fanteria fosse giunta alle minime distanze. La resistenza tedesca fu messa a dura prova e la battaglia durò circa un mese, con un lieve guadagno di terreno da parte dei Francesi, i quali però perdettero secondo il Palat 240 mila uomini.

Anche gl'Inglesi tentarono lo sfondamento in Fiandra presso Neuve Chapelle: l'azione durò dal 10 al 13 marzo senza conseguire vantaggi apprezzabili. Questi combattimenti insieme con altri minori dimostrarono che la speranza nutrita da Joffre di poter in breve cacciare i Tedeschi dalla Francia era infondata; tuttavia egli, secondo il Palat, assicurò il governo che entro l'ottobre del 1915 avrebbe passato il Reno. Per spiegare questo ottimismo occorre ritenere che Joffre sopravvalutasse l'azione dell'esercito russo: egli cioè non tenne conto della decisa inferiorità morale che tale esercito aveva oramai di fronte ai Tedeschi.

L'idea del generale francese non era però divisa dagli uomini politici in Inghilterra: tanto Lloyd George, cancelliere dello Scacchiere, quanto Churchill, ministro della Marina, ritenevano che in Francia gli alleati non disponessero delle forze necessarie per sfondare la fronte tedesca e credevano invece che lo sforzo decisivo potesse essere fatto dalla Russia, la quale disponeva di grandi riserve di uomini. Era però per questo necessario poter fornire alla Russia i materiali da guerra dei quali difettava e, poiché il blocco della Germania aveva di conseguenza bloccato anche la via del Baltico, occorreva aprire i Dardanelli per comunicare facilmente con la Russia. Inoltre, mettendo fuori causa la Turchia, l'Inghilterra rendeva sicuro il Canale di Suez. Fu quindi decisa a Londra una spedizione per forzare i Dardanelli.

La spedizione dei Dardanelli. - Si sperò anzitutto di poter riuscire a forzare gli Stretti soltanto con la flotta, mettendo fuori causa i forti turchi; già il 19 e il 25 febbraio furono bombardati i vecchi forti di Kumkalè e di Sedd elbaḥr (seddülbahir) riducendoli al silenzio. Poiché vi era il pericolo delle mine subacquee, oltre a rastrellarle si pensò d'impiegare nel forzamento dell'interno dello stretto solo vecchie navi già destinate a essere radiate. L'attacco non avvenne che il 18 marzo, ma per tale data la difesa era stata rafforzata e vi era giunto personale tedesco specializzato per i servizî tecnici. I 18 pezzi pesanti della difesa tacquero sotto il bombardamento delle navi, ma quando queste si avvicinarono riaprirono il fuoco; quattro corazzate furono affondate o gravemente colpite dall'artiglieria, due dalle mine; l'ammiraglio De Robeck interruppe l'attacco.

Venne quindi deciso di operare in cooperazione di potenti sbarchi; furono riuniti nelle isole di Imbro e di Lemno circa 80 mila Franco-Inglesi comandati dal generale Hamilton. I Turchi avevano collocato a difesa dei Dardanelli 6 divisioni sotto il comando del generale tedesco Liman von Sanders, il quale ne aveva dislocato due sulla costa asiatica, due nell'estremità sud della penisola di Gallipoli e due nella parte nord.

Il 25 aprile venne tentato lo sbarco sulla costa asiatica da parte dei Francesi presso Kumkalè, ma dopo quattro giorni di lotta essi furono costretti a imbarcarsi; lo sbarco invece riuscì agl'Inglesi nella Penisola di Gallipoli presso Sedd elbaḥr, dove però poterono appena prendere piede su un ristretto spazio. In analoghe condizioni riuscì lo sbarco presso Ariburnu. In entrambe le località i Turchi contennero gli avversarî e la lotta prese il carattere di guerra di trincea: i Turchi, malgrado la scarsezza di materiale da guerra, riuscirono a impedire ogni progresso avversario. Il 6 agosto Hamilton, avendo ricevuto 5 divisioni di rinforzo, le fece sbarcare di sorpresa nella baia di Suvla a nord di Ariburnu, ma l'accorrere di truppe turche impedì anche da questa parte sensibili progressi. Le grandi speranze poste in queste operazioni vennero dunque a fallire. Il 14 ottobre Hamilton fu sostituito dal generale Monro, ma frattanto le Potenze centrali si erano impadronite della Serbia e alleate alla Bulgaria: potevano così far giungere alla Turchia quanto occorreva per rafforzarne la resistenza. Kitchener in novembre si recò sul luogo e venne nella convinzione che l'impresa era da abbandonare. Nella notte sul 20 dicembre con l'aiuto della nebbia poterono essere ritirate le truppe di Ariburnu e nella notte sul 9 gennaio 1916 fu sgomberato Sedd elbaḥr.

Il maresciallo Robertson, che fu capo di Stato Maggiore dell'esercito inglese, dice che tale spedizione fu una prova sconsolante delle esitazioni e della debolezza del governo di Londra. Indubbiamente fallì la sorpresa; le azioni della marina e dell'esercito furono successive e mancò, dopo le prime perdite della flotta, la fermezza necessaria per continuare nella lotta. Il 18 marzo, quando la flotta si ritirò, non rimanevano, secondo un racconto tedesco, che 8 colpi per pezzo e mancava il rifornimento delle mine subacquee. I Turchi, secondo il Liman von Sanders, avrebbero avuto 218 mila uomini fuori combattimento, tra i quali 76.000 morti; le perdite anglo-francesi vengono indicate in circa 150 mila tra morti e feriti e 120 mila ammalati sgombrati.

Lo sviluppo degli eserciti belligeranti. - A eccezione della Francia, nessun paese belligerante aveva durante la pace organizzato tutte le risorse di uomini disponibili; perciò all'apertura della guerra tutte le potenze svilupparono i loro eserciti. L'aumento dell'esercito francese non poté essere considerevole. All'atto della mobilitazione erano state mobilitate in Francia 46 divisioni attive, 25 di riserva, 12 territoriali oltre al XIX corpo d'armata d'Algeria e a qualche divisione di nuova formazione: in totale circa 85 divisioni. Questo numero fu durante la guerra elevato sino a 125 alla fine del 1916; nel 1918 era ridotto a 117; per deficienza di uomini il numero dei battaglioni di ogni divisione dovette essere ridotto da 12 a 9. Il numero degli effettivi da 2.700.000 salì a 3 milioni, per diminuire a 2.850.000 alla fine della guerra.

Considerevole fu lo sforzo dell'Inghilterra, la quale da 6 divisioni a 12 battaglioni disponibili inizialmente passò a oltre 60 divisioni per le sole forze in Francia; tale aumento non poteva essere immediato: solo alla fine del 1916 l'esercito inglese aveva raggiunto il suo intero sviluppo.

In condizioni ben più favorevoli era la Germania: per l'organizzazione di nuove forze essa aveva uomini, armi e istruttori. Mobilitatasi con 94 divisioni, contando le riserve mobili delle fortezze, nei primi sei mesi furono costituite altre 20 divisioni; al principio del 1915 si decise di ridurre la divisione a 9 battaglioni per formare con il resto dei battaglioni nuove unità: si ebbero così una cinquantina di nuove divisioni; in pari tempo però si aumentò la forza dei singoli battaglioni, in modo che per un certo periodo la divisione su 9 battaglioni ebbe una forza superiore a quella dell'organico di guerra (si ebbero compagnie di fanteria superiori ai 300 uomini). Nel 1916 furono costituite altre 46 divisioni, in modo che quando Hindenburg assunse il comando esistevano già 210 divisioni. Nel 1917 Ludendorff ne fece organizzare altre 31, ma a detrimento delle riserve di complemento. L'aumento dei combattenti, secondo dati del Falkenhayn, si può ritenere: inizio della guerra, divisioni 94, combattenti 1.700.000; metà ottobre 1914, divisioni 115, combattenti 2.000.000; maggio 1915, divisioni 157, combattenti 2.540.000; giugno 1916, divisioni 170, combattenti 2.940.000; oltre all'aumento delle divisioni va considerato l'aumento considerevole dell'artiglieria pesante e dei mezzi di guerra non compresi nelle divisioni. Nella seconda metà del 1918 per deficienza di uomini si dovettero sciogliere oltre venti divisioni.

L'esercito austriaco aumentò da principio sensibilmente le proprie forze e soprattutto quelle delle divisioni dell'esercito comune, che passarono da 32 a mobilitazione ultimata a 46 nel primo semestre del 1915 e a 51 nel 1916, portando il numero totale delle divisioni a 70, numero che nel secondo semestre del 1918 fu diminuito a 66. La minore energia dell'organismo austro-ungarico e le grandi perdite di uomini soprattutto in prigionieri impedirono un maggiore sforzo: ma è specialmente da considerare che l'Austria non formava uno stato nazionale e che l'esercito comune trovava la sua forza nel corpo degli ufficiali permanenti.

Le divisioni austriache rimasero però su 12 e alla fine anche su 13 battaglioni. Un aumento sensibile ebbe l'esercito con l'appiedamento delle divisioni di cavalleria, le quali furono portate a una forza corrispondente quasi ai ⅔ di una divisione di fanteria. Il numero delle brigate di fanteria da 126 nel 1914 non aumentò che a 158 nel 1915.

Quanto alla Russia, essa aveva bensì grandi risorse di uomini, ma difettava di armi e di organizzazione industriale. Difettavano inoltre gli ufficiali per l'addestramento rapido dei complementi. Per la grande estensione del territorio e la scarsezza delle ferrovie avveniva che un grande numero di uomini fosse continuamente in movimento nelle retrovie. Inoltre rilevante era la diserzione verso l'interno. Al principio del 1915 le divisioni di fanteria opposte agli Austro-Tedeschi erano 103. Nell'aprile del 1916 giungevano a 110 circa. Nell'inverno del 1916-17 la sessantina di corpi d'armata russi di due divisioni si trasformò su 3 divisioni, diminuendo i battaglioni della divisione da 16 a 12, ma da principio le nuove divisioni non ebbero artiglierie. Un aumento sensibile poi dell'artiglieria pesante non si ebbe che nel 1917, quando cioè l'esercito per effetto della rivoluzione perdette rapidamente la propria combattività.

L'offensiva austro-tedesca sulla fronte orientale. - In seguito alle grandi perdite avute l'esercito austriaco si trovava nell'aprile 1915 in condizioni preoccupanti; a questo si aggiungeva la minaccia dell'intervento italiano a breve scadenza. Conrad chiese a Falkenhayn quattro divisioni per un'offensiva nella regione di Gorlice fra i Carpazî e la Vistola. Falkenhayn dichiarò che già da tempo meditava simile operazione con un'intera armata: fu quindi riunita a sud est di Cracovia l'11ª armata tedesca (generale Mackensen) che doveva attaccare nella zona di Gorlice, mentre la 4ª armata austriaca avrebbe agito più a nord nella zona di Tarnów. La fronte russa era tenuta da due corpi d'armata della 3ª armata; l'avanzata degli Austro-Tedeschi in questa zona veniva a minacciare alle spalle le forze russe internate nelle valli dei Carpazî. Prima dell'operazione di Gorlice i Tedeschi intrapresero un'offensiva in Curlandia per attirarvi l'attenzione del comando russo. L'operazione s'iniziò il 17 aprile con 3 divisioni di fanteria e 3 di cavalleria che occuparono Mitau e Libau.

Le forze tedesche dovettero poi essere considerevolmente aumentate per assicurare l'occupazione della Curlandia, talché vi fu costituita l'armata del Niemen. Più di questa diversione, favorì l'operazione di Gorlice (v.) la rapidità e il segreto della concentrazione; l'operazione, iniziata il 2 maggio, ebbe completo successo; il 5 maggio lo sfondamento era riuscito; la 3ª armata russa su una fronte di 150 km. dalla Vistola ai Carpazî era in ritirata disordinata. Falkenhayn rinforzò con un'altra divisione il Mackensen, opponendosi all'intenzione di Conrad di distrarre forze per parare a una controffensiva che i Russi avevano iniziato con qualche successo in Bucovina. Il 12 maggio venne deciso di continuare l'offensiva fino alla linea San-Dnestr; l'11ª armata puntò su Jaroslaw fiancheggiata a destra dalla 3ª armata austriaca, a sinistra dalla 4ª. Il 10 maggio il comandante della 3ª armata russa aveva già ordinato la ritirata dietro il San; il 16 maggio l'11ª armata tedesca forzò anche la linea del San, ma i Russi inflissero un grave scacco più a valle alla 4ª armata austriaca nella regione di Sieniawa, mentre sulla destra dell'11ª tedesca la piazza di Przemyśl impediva l'avanzata. Questa piazza venne il 30 maggio attaccata con l'aiuto dell'artiglieria pesante dalla 3ª austriaca da sud e dall'11ª tedesca da nord; l'11ª divisione bavarese riusci a penetrare di sorpresa nei forti il 31 maggio e il 3 giugno i Russi abbandonavano la fortezza; così la linea del San era raggiunta. L'11ª armata tedesca aveva catturato 153.000 prigionieri, e a sud le armate austriache avevano avanzato.

Il 3 giugno, in seguito alla notizia data da Mackensen che i Russi di fronte a lui davano segni di debolezza e mancavano di munizioni, Falkenhayn e Conrad decisero, malgrado l'entrata in guerra dell'Italia e dell'offensiva francese nell'Artois, di proseguire nelle operazioni in Galizia. L'11ª armata continuò l'offensiva e il 29 giugno essa sfondava nuovamente le linee russe: il 22 fu occupata Leopoli, perdita che ebbe grave ripercussione morale in Russia. L'esercito russo era demoralizzato: mancavano alla fronte 500.000 uomini e nell'interno le reclute e i richiamati non potevano svolgere l'istruzione per mancanza di fucili; scarsi erano gli ufficiali, le armi e le munizioni. Per contro il morale dell'esercito austriaco si era rialzato. Il 22 giugno Falkenhayn aveva deciso di togliere a Mackensen 4 divisioni per rinforzare la fronte di Francia, ma in seguito alle pressioni di Conrad e di Mackensen e del capo di Stato Maggiore di questo, von Seeckt, egli decise di proseguire le operazioni contro i Russi, facendo però convergere l'armata di Mackensen verso nord fra Bug e Vistola, in modo da minacciare le forze russe che si trovavano più ad ovest nell'arco della Vistola.

L'operazione doveva cominciare a metà di luglio in concomitanza con un attacco che l'armata del Gallwitz avrebbe pronunciato dalla regione di Przasnysz verso sud-est contro la fronte russa del Narew. Hindenburg, che comandava le forze nella Prussia orientale, aveva proposto di agire invece all'estrema sinistra contro la zona di Kovno (Kaunas) in modo da rendere più largo e quindi più efficace l'aggiramento; ma il Falkenhayn ritenne che tale operazione (la quale non sarebbe potuta avvenire di sorpresa) non sarebbe stata efficace, e così pure egli non accettò il consiglio del colonnello von Seeckt di effettuare la puntata verso nord non con la sola 11ª armata ma anche con la 2ª armata austriaca sulla destra dell'11ª in modo da disporre di una massa aggirante anche ad oriente del Bug; pare che Falkenhayn abbia ritenuto che la 2ª armata avrebbe a nord di Vladimir Volinsk (Włodzimierz Wołyński) urtato nella zona paludosa del Pripet, mentre in realtà in quell'estate tale zona venne poi trovata percorribile.

Il 13 luglio incominciò l'avanzata del Gallwitz con 12 divisioni; la linea russa fu sfondata e il 19 dovette piegare dietro il Narew. Il 15 luglio Mackensen, a sua volta, sfondò le linee russe a sud di Chelm, ma i Russi organizzarono poco più a nord una nuova linea di resistenza e l'avanzata del Mackensen divenne penosa, anche per le difficoltà di rifornimento. Gallwitz pure trovava difficoltà nell'avanzata e Hindenburg propose nuovamente d'impegnare due divisioni tolte dalla fronte francese a rinforzare la sua sinistra; neppure questa volta però il Falkenhayn accettò la proposta e insistette nell'offensiva iniziata. Contro le previsioni di Hindenburg, la 9ª armata che era di fronte a Varsavia riuscì a passare la Vistola il 29 luglio, mentre nello stesso giorno Mackensen sfondava nuovamente la fronte russa tra Chelm e Lublino. I Russi iniziarono la ritirata dall'intera fronte Ivangorod-Chelm. Conseguentemente essi dovettero sgombrare anche la Vistola: il 5 agosto la 9ª armata tedesca occupava Varsavia; il giorno stesso la fortezza di Novogeorgevsk a nord di Varsavia venne attaccata dai Tedeschi (generale Beseler) e costretta il 20 a capitolare (85 mila prigionieri, oltre 700 pezzi). I Russi si ritirarono quindi sull'intera fronte, riuscendo a sottrarsi dall'accerchiamento in Polonia. Il 13 agosto Hindenburg nuovamente propose l'attacco su Kovno contro le spalle dell'avversario, osservando che solo in tal modo si sarebbe potuto avere una battaglia decisiva. Falkenhayn rispose che la distruzione dell'avversario non era mai stata sperata da lui, e che era già gran risultato che i Russi avessero perso in tre mesi 750 mila prigionieri.

Innegabilmente l'operazione del Falkenhayn è la più grandiosa della guerra mondiale ed essa dimostra come non soltanto con l'accerchiare il nemico si possano infliggere perdite enormi all'avversario; è poi da escludere che un'operazione da Kovno potesse ottenere l'accerchiamento dei Russi, anche se fosse stata intrapresa con forze rilevanti, perché l'avanzata non poteva essere spinta al di là di un centinaio di km., oltre il quale limite non funzionano più regolarmente i rifornimenti, poiché era da escludersi di potersi valere delle ferrovie russe, data la certezza di trovare i ponti sul Niemen distrutti. Inoltre premeva al Falkenhayn di rendere al più presto disponibili forze per opporsi ai Francesi e per annientare i Serbi e ottenere il collegamento con la Turchia. Intanto Hindenburg aveva fatto attaccare Kovno dalla 1ª armata; la piazza dopo 10 giorni cadeva (20 mila prigionieri, 1300 pezzi); il 18 agosto Falkenhayn acconsentì che Hindenburg iniziasse un'offensiva nella direzione da lui desiderata di Vilna, inviandogli 3 divisioni in temporaneo rinforzo. L'avanzata si iniziò il 29 agosto, ma i Russi si erano rinforzati e in quel settore pericoloso disponevano delle armate 10ª, 11ª e 1ª contro la 10ª armata e la destra dell'armata del Niemen tedesca. Intanto i Russi sgombrarono la Polonia abbandonando le altre fortezze (Osowiec-Grodno-Bielostok [Białystok]-Brest-Litovsk), talchḫ alla fine di agosto gli Austro-Tedeschi avevano raggiunto la linea Brest-Litovsk-Grodno. L'avanzata della 10ª armata e dell'armata del Niemen incominciò il 9 settembre, ma la 10ª armata trovò grande resistenza nella zona di Vilna: tale città fu occupata, ma non essendo stato possibile al Falkenhayn di concedere altri rinforzi, le operazioni dovettero arrestarsi il 25 settembre sulla linea Lago di Narocz-ovest di Dünaburg (Daugavpils)-ovest di Riga. La ritirata dei Russi dalla Polonia aveva consentito anche l'avanzata delle armate austriache, in modo che la fronte austro-tedesca dal Lago di Narocz per Baranowicze-Pińsk si dirigeva in direziono nord-sud sino al Dnestr.

L'esercito russo non era annientato, ma aveva ricevuto un grave colpo; l'avanzata austro-tedesca non era da paragonarsi a quella di Napoleone nel 1812, quando il relativamente piccolo esercito francese avanzando nel cuore della Russia esponeva le proprie comunicazioni all'avversario; qui era invece l'intero paese sottratto alla Russia; enormi quantità di materiali erano andate perdute e la fuga di parte della popolazione davanti all'invasore accresceva il disagio della Russia. Il granduca Nicola il 5 settembre fu esonerato dal comando supremo, che fu assunto dallo zar in persona con il generale Alekseev come capo di Stato Maggiore. Il granduca Nicola fu inviato al comando delle truppe nel Caucaso.

Le operazioni in Francia nella primavera-autunno. - Decisa l'offensiva contro la Russia, i Tedeschi si tennero in Francia sulla difensiva: unica eccezione fu l'attacco con gas asfissianti effettuato il 21 aprile contro la testa di ponte di Ypres occupata dagl'Inglesi; una nuvola di gas larga 6 km. e profonda 600-900 metri, spinta da vento favorevole dalle linee tedesche dove era stata emessa, raggiunse le posizioni avversarie colpendo circa 15 mila uomini, dei quali un terzo morirono. Tuttavia i Tedeschi non sfruttarono immediatamente il successo e contrattacchi effettuati il 23 dagl'inglesi, e nei giorni successivi anche dai Francesi, ristabilirono in parte la situazione. I Francesi effettuarono parecchie offensive con mezzi sempre più rilevanti, dalle quali si ottennero risultati più sensibili. Il 5 aprile la 1ª armata francese attaccò sulla destra della Mosa con quattro corpi d'armata i due fianchi del saliente di Saint-Mihiel, ma l'offensiva ripresa il 9 e il 14 fallì completamente per l'insufficienza dei mezzi d'artiglieria pesante.

L'arrivo in Francia di una nuova armata inglese (2ª, generale Smith Dorrien) permise ai Francesi di disporre dell'8ª armata. Nell'intento di aiutare i Russi e con la speranza di poter rompere la fronte avversaria, i Franco-Inglesi attaccarono a nord della Scarpe; il generale Foch (incaricato di coordinare le operazioni alleate) dispose per un attacco principale contro la cresta di Vimy (una quindicina di chilometri a nord di Arras) assecondato da due attacchi d'ala, complessivamente sulla fronte di una ventina di km., da effettuarsi dalla 10ª armata, pare con 19 divisioni e 350 pezzi pesanti: più a nord gl'Inglesi dovevano attaccare con 13 divisioni nella zona di Neuve Chapelle. La preparazione di artiglieria si iniziò il 3 maggio e durò 6 giorni, l'organizzazione difensiva tedesca era stata sconvolta, talché la fanteria francese il 9 maggio poté specialmente al centro (XXXIII corpo d'armata, generale Pétain) avanzare per circa 4 km. su una fronte di 6 km. Anche più a nord la posizione di Notre-Dame-de-Lorette era stata occupata dai Francesi, ma i Tedeschi avevano avuto tempo di far giungere rinforzi che arrestarono ogni progresso dei Francesi; l'azione fu proseguita per impegnare i Tedeschi impedendo a essi di portare altre forze in Russia ed eventualmente anche contro l'Italia. Una ripresa si ebbe tra il 16 e il 25 giugno senza risultati apprezzabili. Minimi erano stati quelli ottenuti dagl'Inglesi nella zona di La Bassée; specie le perdite francesi furono gravi. Il von Kuhl afferma che tra aprile e giugno i Francesi perdettero 440 mila uomini, tra cui 143.000 morti e dispersi.

Un periodo di calma subentrò in Francia sino a settembre. Il 7 luglio in una conferenza alleata a Chantilly (sede del Comando supremo francese) si decise di attaccare al più presto sulla fronte occidentale, mentre l'Italia avrebbe continuato nella sua vigorosa offensiva sul Carso. Joffre decise di attaccare con due armate nella Champagne a occidente di Verdun, su una fronte di 25 km., in direzione di Mézières, mentre nell'Artois avrebbero attaccato la 10ª armata francese e la 1ª inglese in direzione di Vimy e di Loos (nord di Arras). Si sperava così di recidere alle basi il grande saliente che le posizioni tedesche facevano verso Parigi. In totale dovevano partecipare 53 divisioni francesi, 13 inglesi con 1650 pezzi d'artiglieria pesante. Un ordine di Joffre lasciava sperare dalla riuscita di questi attacchi il passaggio all'offensiva generale su tutta la fronte e la dissoluzione dell'avversario. Le singole divisioni erano state inviate isolatamente per poco tempo nella zona d'attacco per orientarsi; il 19 settembre incominciò il bombardamento che raggiunse una violenza sino allora sconosciuta. Le divisioni d'attacco partirono all'assalto protette, oltre che dal "feu roulant" che le precedeva, anche da tiri d'interdizione destinati a impedire l'accorrere delle riserve. Nella Champagne i Francesi, che avevano di fronte solo 7 divisioni tedesche, riuscirono a occupare la prima linea per circa 25 km.; ma furono arrestati davanti alla seconda, contro la quale fu necessario portare innanzi l'artiglieria pesante; ma quando al principio d'ottobre la lotta fu ripresa, i Tedeschi si erano rinforzati e arrestarono ogni progresso francese. I Francesi avevano catturato 25.000 prigionieri, 150 cannoni. Meno favorevoli erano stati i risultati in Artois a nord di Arras, dove i Tedeschi, in seguito alla battaglia di maggio, avevano rafforzato le loro linee con ripari alla prova: quando i Franco-Inglesi si slanciarono all'assalto, furono ricevuti da un fuoco potente di mitragliatrici uscite dai ricoveri, quindi il guadagno di terreno fu limitato e i prigionieri catturati furono soltanto 6000 oltre a 30 cannoni. I corpi di cavalleria preparati per sfruttare la vittoria non poterono trovare impiego. Le perdite erano state gravissime: esse vengono indicate dal Marin in circa 180 mila uomini per i soli Francesi, 60 mila per gl'Inglesi; i Tedeschi accusano perdite minori. Il maresciallo French fu sostituito dal Douglas Haig.

Campagna contro la Serbia. - La Russia avrebbe potuto più facilmente riorganizzare l'esercito qualora i Franco-Inglesi fossero riusciti ad aprire gli stretti. Per impedire ciò era necessario per le Potenze centrali occupare la Serbia, in modo da poter effettuare gl'invii di materiali da guerra alla Turchia: oltre a questo scopo la campagna contro la Serbia aveva il vantaggio di assicurare alle Potenze centrali l'alleanza della Bulgaria. Falkenhayn ebbe la netta visione di queste necessità e il 6 settembre 1915 riuscì a assicurare il concorso della Bulgaria: questa, oltre alla promessa di territorî serbi, pretese subito dalla Turchia una rettifica di confine nella zona della Marizza. La Germania concesse aiuti finanziarî e di materiali da guerra. La Bulgaria rifiutò però di sottoporre le sue armate (12 divisioni di 20.000 uomini ciascuna) ad altri che a comandanti tedeschi, ciò che esasperò il Conrad. L'operazione fu affidata al Mackensen, dal quale dipendevano l'11ª armata tedesca (generale Gallwitz, 7 divisioni) che doveva dal Banato puntare sulla valle della Morava; la 3ª armata austriaca (generale Kövess, 3 divisioni tedesche e 4 austriache) che dalla Sirmia doveva puntare su Kraljevo; la 1ª armata bulgara (generale Boiadžijev, 4 grosse divisioni) doveva marciare su Niš. Non erano invece sottoposte al Mackensen la 2ª armata bulgara (generale Todorov, inizialmente una sola divisione rinforzata poi da altre due) che dalla regione di Kjustendil doveva avanzare verso ovest nella valle del Vardar. Il resto delle forze bulgare (cioè altre 5 divisioni) erano dislocate al confine greco o romeno.

Del pari non erano dipendenti dal Mackensen le poche forze austriache nella Bosnia, destinate a tenere in scacco il Montenegro. Le 4 armate serbe, che in totale sommavano a circa la metà delle forze avversarie, furono ripartite metà fronte a nord (Danubio-Sava) e metà contro i Bulgari, essendosi l'Intesa opposta al progetto serbo di prevenire l'attacco con un'offensiva contro la Bulgaria prima che questa fosse pronta.

Il 4 ottobre cominciò il bombardamento sulla fronte Danubio-Sava: il 7, sotto la protezione dell'artiglieria, cominciò il passaggio che richiese parecchi giorni; le truppe avanzate serbe furono respinte. Belgrado fu occupata il 9, Semendria l'11. Solo il 21 furono terminati 2 ponti di 1000 metri ciascuno sul Danubio.

Il 22 s'iniziò l'avanzata austro-tedesca da nord, mentre la 2ª armata bulgara, che aveva iniziato le operazioni il 15, avanzava per sbarrare a sud la valle della Morava. Per le difficoltà delle comunicazioni solo il 30 gli Austro-Tedeschi raggiunsero la zona di Kragujevac dove speravano di dare battaglia, ma poiché la 2ª armata bulgara intanto aveva occupato Üsküb (Skoplje) e Vranje tagliando le comunicazioni con Salonicco, il voivoda Putnik ordinò la ritirata generale verso sud-ovest per raggiungere la costa albanese.

In principio d'ottobre, violando la neutralità della Grecia, una divisione inglese e una francese erano sbarcate a Salonicco agli ordini del generale Sarrail; altre due divisioni francesi vi sbarcarono alla fine di ottobre. Sarrail aveva il compito di dare la mano ai Serbi nella zona di Krivolak: egli avanzò sino alla Černa prendendo contatto con i Bulgari il 27 ottobre. Ma né i Serbi né Sarrail erano in grado di battere le forze avversarie. I Serbi dovettero continuare la ritirata per Priština e Kosovo Polje, opponendo resistenze di retroguardia ai Tedeschi che li inseguivano e ai Bulgari che tentavano di tagliare loro la ritirata. Il 4 dicembre anche i Bulgari cessarono l'inseguimento. I Serbi dopo infinite sofferenze giunsero alla costa albanese dove furono da navi italiane e alleate trasportati a Corfù. La cifra più attendibile dei soldati serbi imbarcati è di 150.000 circa: di questi 25 mila, per gli stenti subiti, non poterono riprendere le armi; molti perirono. Le perdite serbe sono indicate dai Tedeschi in 150.000 prigionieri e 800 pezzi: non vi sono cifre attendibili di morti e feriti.

La 2ª armata bulgara si era intanto avanzata contro le forze del Sarrail costringendole dopo combattimento sulla Černa (6-15 novembre) alla ritirata su Salonicco. I Bulgari dovettero arrestare le operazioni al confine greco (13 dicembre) per volere del comando tedesco; lo scopo essenziale, il collegamento con la Turchia, era raggiunto e a fronteggiare le forze che l'Intesa aveva a Salonicco bastavano essenzialmente i Bulgari, che difficilmente avrebbero aderito a essere impiegati fuori dei Balcani.

Il Conrad fece occupare il Montenegro dalla 3ª armata; gli Austriaci il 10 gennaio 1916 presero il Lovćen, il 13 Cettigne e avanzarono poi su Durazzo dove giunsero il 28 febbraio, dopo che ne erano stati sgombrati i Serbi e senza riuscire a impedire l'imbarco delle truppe italiane.

Le operazioni nel 1916. - Il 1915 si era chiuso con vantaggio degli Imperi centrali: se l'intervento dell'Italia aveva impedito l'abbattimento della Russia, tuttavia la Serbia era stata quasi annientata e l'alleanza della Bulgaria oltre a un aumento di forze consentiva la diretta comunicazione con la Turchia; inoltre una quarantina di nuove divisioni tedesche furono costituite nella prima metà del 1916. Dalla parte opposta era previsto per il 1916 l'entrata in azione delle divisioni di Kitchener, che dovevano portare l'esercito inglese in Francia da 950 mila uomini (compresi i servizî), come erano nel 1915, a 1.400.000 come lo furono in luglio 1916: restava però l'incognita dell'esercito russo. Ritiratosi dalla Polonia con deficienze notevolissime di uomini (corpi d'armata ridotti a 8 mila uomini) e con perdite materiali e morali gravi, l'esercito russo attese nell'inverno 1915-16 a ricostituirsi e a migliorare la propria istruzione; notevoli quantità di armi giunsero dall'estero. Poiché l'esercito russo non era istruito per la guerra di posizione, si mandarono in Francia ufficiali per apprendere le modalità seguite dagli alleati. Ma non a tutto si era posto riparo, talché nel marzo 1916 l'esercito russo, se contava 55 corpi d'armata rimessi a numero come uomini e se aveva aumentato le artiglierie pesanti da 756 a 1115 pezzi, presentava però deficienze sensibili, di armi e di addestramento.

Punti oscuri ve ne erano però anche per gl'Imperi centrali: l'esercito austriaco, formato per una parte rilevante di slavi, era sicuramente impiegabile soltanto contro l'Italia; contro i Russi invece vi erano stati casi gravi di diserzione collettiva. I Bulgari non erano obbligati a combattere fuori della Penisola balcanica; i Turchi erano impegnati in Asia e ritenuti non adatti alla lotta sulla fronte occidentale. Ma grave soprattutto era il dissidio fra il Falkenhayn e il Conrad; entrambi decisi all'offensiva, non si accordarono sullo scopo; il primo, generalizzando la debolezza di alcune unità, non riteneva le truppe dell'impero alleato adatte alla lotta in Francia e avrebbe voluto che Vienna estendesse la fronte occupata contro la Russia per liberare divisioni tedesche da trasportare nell'ovest; rifiutò quindi il concorso che Conrad gli offrì per l'offensiva di Verdun. Conrad, d'altra parte, rifiutò di estendere la propria fronte contro la Russia considerando troppo umiliante una parte secondaria. Ognuno decise quindi di operare per proprio conto: Falkenhayn contro Verdun, Conrad contro l'Italia; e ciò malgrado che la prima operazione dovesse precedere di circa tre mesi la seconda.

Da parte dell'Intesa si era stabilito nella conferenza di Chantilly (dicembre 1915) di passare contemporaneamente all'offensiva, per togliere all'avversario la possibilità di agire successivamente contro le singole fronti. L'Inghilterra avrebbe dovuto per la primavera portare le sue divisioni in Francia da 35 possibilmente a 50; l'esercito serbo si riorganizzava a Corfù su sei grosse divisioni da inviarsi come rinforzo ai franco-inglesi a Salonicco, le quali tra l'agosto e l'ottobre del 1916 si accrebbero delle tre brigate costituenti la 35ª divisione italiana, forte di 50.000 uomini. (E fin dal marzo di quest'anno l'Italia inviò il suo XVI corpo d'armata, dapprima su tre divisioni, in Albania). Poiché la ricostituzione dell'esercito russo richiedeva tempo, Joffre e il nuovo comandante inglese, Haig, ritennero di poter differire l'offensiva comune sino a metà d'anno: così l'iniziativa rimase alle Potenze centrali.

Verdun. - La decisione del Falkenhayn di attaccare Verdun ebbe per scopo essenziale non già la conquista della piazza, ma il dissanguamento dell'esercito francese, ritenendo che esso sarebbe accorso sino all'ultimo uomo a difenderla. L'operazione fu affidata al comando del gruppo d'armate del kronprinz Guglielmo, il quale però opinava che scopo principale dovesse essere la conquista della fortezza. Delle 26 divisioni che erano in seconda linea in Francia, i due terzi potevano essere destinati all'attacco, sostenute da 1400 pezzi d'artiglieria riccamente dotati di munizioni (2 milioni e mezzo di colpi). L'esiguità delle forze disponibili fece sì che da principio l'attacco fosse limitato al settore nord-est della piazza sulla destra della Mosa. Per mantenere il segreto nessun ordine fu dato per iscritto, ma indiscrezioni verbali fecero sì che a Berlino se ne parlasse apertamente: fatto sta che in Francia giunsero voci sulla possibilità di un attacco a Verdun, mentre al governo venivano denunciate condizioni d'insufficiente preparazione della fortezza. Joffre, informato, respinse tali affermazioni. Il comando francese poi non riteneva probabile l'attacco, dato che le trincee tedesche non erano state avvicinate alle francesi. Verdun era una piazza moderna, ma la difesa dei forti permanenti, per quanto questi fossero in buone condizioni, non era organizzata e delle trincee erano state curate solo quelle della prima linea. I preparativi vennero da parte tedesca compiuti di notte o con la nebbia o durante il cattivo tempo, facendo credere alle truppe che si trattava di migliorare i lavori di difesa. Era l'attacco di Verdun la prima importante operazione offensiva dei Tedeschi dopo il passaggio alla guerra di posizione: gli attacchi franco-inglesi avevano insegnato che la lunga durata del bombardamento consentiva alla difesa di far giungere riserve sufficienti a fermare l'attacco. Il bombardamento venne quindi limitato a nove ore. Esso doveva iniziarsi il 12 febbraio, ma fu differito di 9 giorni perché il cattivo tempo non consentiva l'osservazione del tiro. L'attacco principale fu effettuato da tre corpi d'armata della 5ª armata su una fronte di 13 chilometri, da Consenvoye ad Azannes; un altro corpo d'armata doveva in seguito effettuare un attacco sussidiario più a sud dalla pianura della Woëvre. Occupata la 1ª posizione, si doveva subito preparare l'attacco della successiva per l'indomani. Il 21 alle 8 cominciò il bombardamento; alle 17, cioè all'imbrunire, la fanteria dei tre corpi d'armata prese d'assalto le prime linee francesi. Il giorno seguente fu bombardata la seconda linea che il 24 venne occupata interamente. Sette divisioni francesi erano state respinte con gravi perdite. Il comandante della piazza, generale Herr, per impedire che le truppe dalla pianura della Woëvre fossero prese alle spalle, le fece ritirare sulle colline che fiancheggiano la destra del fiume. Il gen. Joffre intanto intervenne energicamente; ottenne che gli Inglesi estendessero la fronte nell'Artois, per rendere disponibile appena possibile la 10ª armata francese; inviò il 24 sul posto il suo alter ego, generale Castelnau; l'Herr sfiduciato pensava a ripiegare sulla sinistra della Mosa, il che sotto la pressione dei Tedeschi avrebbe portato a perdite gravissime. Joffre telegrafò che chiunque ordinasse di ripiegare fosse tradotto avanti a un consiglio di guerra e il Castelnau ordinò di tener fermo sulla destra: il 25 il forte di Douaumont, che dominava tutta la fronte nord-est della piazza, audacemente attaccato da una compagnia tedesca, venne occupato senza colpo ferire, perché guarnito solo da pochi territoriali che stavano disarmando alcuni pezzi: sessanta artiglieri destinati al servizio delle torri corazzate si erano riparati nei ricoveri. Anche altre truppe cedevano, ma i Tedeschi non disponevano di riserve sufficienti per sfruttare il successo. Il 26 fu occupata l'opera di Hardaumont (ad est di Douaumont), ma tra Douaumont e la Mosa non si fecero progressi e nei giorni successivi l'attacco in complesso languì per far avanzare le artiglierie pesanti, ordinare i reparti e provvedere alle sostituzioni. Ciò diede modo ai Francesi di far giungere truppe e mezzi per la difesa.

Il 25 sera, su proposta del Castelnau, assumeva il comando il generale Pétain, comandante la 2ª armata. Calmo, sicuro di sé, egli dimostrò subito piena fiducia nei capi e nelle truppe che avevano piegato sì sotto il formidabile urto, ma avevano quasi ovunque continuato a resistere. Le disposizioni del Pétain furono semplici: resistere sul posto su una linea ben precisata senza cedere volontariamente altro terreno; tutti dovevano guardare avanti, non indietro; i rinforzi stavano giungendo. Pétain insisté perché fosse accresciuta l'artiglieria, specialmente i grossi calibri, non solo per controbattere l'avversaria, ma per assumere un contegno aggressivo. L'arrivo dei rinforzi fu sollecito; il morale delle truppe si risollevò. In sette giorni giunsero a Verdun 190 mila uomini e 25 mila tonnellate di munizioni e materiali: la forza della 2ª armata alla difesa di Verdun giunse a 437 mila uomini e 136 mila quadrupedi. Grave era il problema dei rifornimenti obbligati a svolgersi sulla strada Bar-le-Duc-Souilly-Verdun, rovinata dal disgelo, che ebbe poi il nome di "Voie Sacrée"; il traffico in media giunse a un automezzo ogni 14 secondi.

Nelle azioni sino alla fine di febbraio i Tedeschi avevano catturato 10 mila prigionieri, 65 cannoni e 75 mitragliatrici: più grande era il guadagno morale, culminato nelle conquiste dei forti di Douaumont e di Hardaumont. Ma tutto questo era frutto essenzialmente della sorpresa. Parimenti era stato raggiunto lo scopo di richiamare a Verdun notevoli forze francesi; ma d'ora innanzi la partita si combatteva ad armi pari; mancava cioè ai Tedeschi quella superiorità schiacciante d'artiglieria che era stata una delle cause essenziali del loro successo. Rimaneva la solidità dell'esercito che rifulse anche nella lotta successiva, ma i guadagni, necessariamente limitati, avvennero a prezzo di gravi perdite anche da parte tedesca. Poiché la sorpresa era ormai esclusa, era chiaro che la caduta di Verdun avrebbe costituito per la Francia una prova d'impotenza alla quale il patriottismo francese non poteva sottostare. La difesa di Verdun esaltò quindi al massimo lo spirito di resistenza dei Francesi. La lotta pertanto fu proseguita nelle condizioni morali meno favorevoli per i Tedeschi, i quali poi, proseguendo nei loro attacchi, venivano a trovarsi in un terreno sconvolto dai bombardamenti che non presentava possibilità di sicuri ripari e di agevoli rifornimenti. Il 2 marzo i Tedeschi s'impadronirono del villaggio di Douaumont; intanto il Comando supremo aveva ordinato l'attacco anche sulla sinistra della Mosa, che s'iniziò il 6 marzo, mentre l'azione riprendeva violenta anche sulla destra: ma Pétain conosceva l'importanza di quelle posizioni, la perdita delle quali avrebbe permesso ai Tedeschi di prendere alle spalle le forze e le artiglierie poste sulla destra del fiume, e aveva provveduto a rinforzarle. La lotta a ovest della Mosa fu accanitissima: il guadagno di terreno da parte dei Tedeschi si ridusse alle posizioni del Mort Homme e del bosco di Malancourt e di Avocourt, che per l'intero marzo e al principio di aprile furono teatro di combattimenti continui. Ma, sotto il comando fermo e insieme paterno di Pétain, il morale dei Francesi non piegò, e Verdun resisté. I Tedeschi nei primi dodici giorni di marzo catturarono altre migliaia di prigionieri, portando il numero complessivo a tale data a 25 mila, ma il 10 aprile Pétain poteva affermare in un ordine del giorno che tutti gli assalti Tedeschi erano stati respinti. I combattimenti proseguirono, e specialmente nel settore di Douaumont i Francesi, sotto il comando del gen. di divisione Mangin, passarono all'offensiva cercando di guadagnare terreno verso il forte. Il 1° maggio Pétain era nominato comandante del gruppo d'armate del centro (che contava 52 divisioni) con la missione di assicurare l'inviolabilità di Verdun e di riprendere Douaumont. Il 22 maggio dopo 5 giorni di bombardamento i Francesi passano all'assalto; due battaglioni giungono sino al forte, ma le batterie tedesche impediscono l'avanzata delle riserve; i due battaglioni rimangono isolati finché il 24 un contrattacco tedesco li fa prigionieri. I Tedeschi, il 2 giugno, in un attacco su larga fronte riuscirono a circondare il forte di Vaux, nel quale un distaccamento francese si difese ancora quattro giorni contro attacchi con i gas e con lanciafiamme. Tentativi di soccorso furono respinti e Vaux si arrese: fu questo l'ultimo progresso importante dei tedeschi, i quali avevano dovuto inviare rinforzi agli Austriaci minacciati dall'offensiva di Brusilov (4 giugno): ciò malgrado Falkenhayn persisté nell'attacco. Il 1° luglio i Franco-Inglesi incominciarono l'offensiva sulla Somma: questo non bastò per piegare il Falkenhayn; ma quando l'11 luglio un attacco contro il forte Souville finì in uno scacco, anche il pertinace condottiero tedesco dovette rinunciare all'impresa e adattarsi all'opinione, da tempo sostenuta dal principe ereditario, di limitarsi a una stretta difensiva. A Verdun furono impiegate 66 divisioni francesi contro 42 tedesche, ma ciò non dà la misura delle forze opposte, perché la permanenza delle divisioni nella lotta era maggiore per i Tedeschi, che pare le completassero sul posto durante le soste. Le perdite francesi il 1° maggio secondo il Pétain erano di 3 mila ufficiali e 130 mila uomini; il Pétain calcola le perdite tedesche a tutto luglio non molto inferiori alle francesi: fino al 15 novembre le perdite francesi furono di 380 mila uomini. Anche cessato l'attacco tedesco, continuò a Verdun la lotta sostenuta essenzialmente dall'artiglieria: ai Tedeschi però, gravemente impegnati sulla Somma e contro i Russo-Romeni, cominciarono a far difetto i mezzi. Ne approfittarono i Francesi per sferrare offensive parziali, limitate, ma assai costose per i Tedeschi. Il 24 ottobre fu ripreso il forte di Douaumont e il 1° novembre i Tedeschi sgombravano quello di Vaux. Nell'operazione furono catturati 6 mila prigionieri. Dal 12 al 18 dicembre i Francesi riconquistarono le zone di Côte-du-Poivre e di Louvemont, facendo 12 mila prigionieri. I nomi del Nivelle e del Mangin divennero cari al popolo francese che sperò da essi la vittoria finale.

L'offensiva di Brusilov. - Sotto l'impressione dei primi successi tedeschi a Verdun, i Francesi, per impedire che l'avversario distogliesse forze dalla fronte orientale, richiesero che i Russi attaccassero, e come al solito la Russia fu subito pronta all'appello dell'alleato.

RANDE LETT-G 32esimo 56

La 2ª armata russa forte di otto corpi d'armata avanzò nella zona Postawy-Laghi di Narocz contro la 10ª armata tedesca (circa 6 divisioni) ma dopo sanguinosa lotta (18-30 marzo) fu respinta. In aprile i Tedeschi riconquistarono anche il poco terreno ceduto inizialmente. Né più fortunata fu un'azione della 5ª armata a nord di Jakobstadt (Jekabpils). Questi risultati dimostravano che il vigore offensivo russo era sempre scarso di fronte a truppe tedesche, ma che l'esercito dello zar aveva ancora la capacità di battersi affrontando perdite gravi. Esso dunque rappresentava sempre un fattore non trascurabile, perché con il tempo sia l'armamento, sia l'istruzione e il morale potevano migliorare. Entrambi i capi degli eserciti tedesco e austro-ungarico non credettero necessario assestare un nuovo colpo alla Russia e si volsero invece contro gli avversarî che stavano loro più a cuore. Ma il Faumenhayn lasciò contro la Russia forze bastevoli; non così il Conrad: alla fronte italiana nel febbraio 1916 esistevano 256 battaglioni equivalenti a 23 divisioni; a metà maggio erano diventati 409 (equivalenti a 34 divisioni), per tre quarti nel Trentino. Il Conrad, per effettuare questo sforzo, aveva trascurato di rinforzare il fronte russo, inviando contro l'Italia le forze rese disponibili dopo l'occupazione della Serbia e del Montenegro; ciò che era imprudente di fronte al ricostituirsi dell'esercito dello zar. Anzi il Conrad aveva tolto dalla stessa fronte russa 5 divisioni. Pertanto, se alla fine del 1915 l'equilibrio sussisteva fra Austriaci e Russi, alla metà del 1916 l'equilibrio era rotto a favore dei Russi. Secondo gli accordi di Chantilly la Russia doveva attaccare nella prima metà di giugno, nel caso però di offensiva avversaria contro uno degli alleati era inteso che tutti avrebbero dovuto effettuare un'offensiva di alleggerimento. Pertanto, in seguito all'offensiva austriaca, l'Italia il 19 maggio richiese la cooperazione russa e il 27 Alekseev rispose che invece dell'attacco dimostrativo richiesto avrebbe effettuato un attacco decisivo per il 4 giugno. Vi erano quindi stati 15 giorni per prepararlo, più che sufficienti dato che la Russia non aveva masse di artiglierie e di munizioni da concentrare. Brusilov attaccò tutta la fronte tra le paludi del Pripet e il confine romeno, tenuta dall'esercito austriaco con un rinforzo di truppe tedesche (armata del sud). Il tratto nord (zona di Luck) occupato dalla 4ª armata austriaca fu completamente sfondato. Luck fu subito occupata, il giorno 16 i Russi erano penetrati per 80 chilometri in linea d'aria nelle posizioni austriache minacciando il centro ferroviario di Kowel. A sud l'offensiva aveva avuto minori successi, tranne verso il confine romeno, dove la 7ª armata austro-ungarica dovette retrocedere fino ai Carpazî. Secondo il von Cramon in dodici giorni la 4ª armata perdette il 54% dei suoi effettivi e la 7ª il 57%. Nel mese di giugno i Russi fecero più di 200 mila prigionieri, senza che vi fosse stato qualsiasi accenno a manovra accerchiante; si trattò in gran parte di truppe che nell'insuccesso si erano arrese volontariamente.

Per rimediare alla grave crisi, Falkenhayn dovette concentrare 5 divisioni tedesche nella regione di Kowel per attaccare su Luck; anche il Conrad dovette a malincuore ritirare qualche divisione dalla fronte italiana. Il contrattacco austro-tedesco s'iniziò il 17 giugno, ma esso era stato previsto dai Russi, i quali alla loro volta contrattaccarono su tutta la fronte Malgrado altri rinforzi tratti dalle fronti occidentali - in totale una trentina di divisioni, delle quali 20 tedesche - e l'invio anche di un corpo d'armata turco, l'offensiva austro-tedesca ebbe limitato successo. I Russi attaccarono anche con il gruppo di armata ovest (generale Evert) nella regione di Baranowicze contro l'armata Woyrsch (6 divisioni tedesche, 2 austriache), ma senza successo (13 giugno-29 luglio).

Anche sulla fronte nord il gruppo d'esercito Kuropatkin attaccò nella zona di Jakobstadt l'8ª armata tedesca, ma infruttuosamente, tanto che Kuropatkin fu esonerato dal comando. Nella prima decade di agosto in complesso si esaurì tutta l'energia combattiva dalle due parti sull'intera fronte russa. Le conseguenze si ripercossero sia sugli eserciti delle Potenze centrali, sia sulle altre fronti e presso i neutrali. Conrad, il prestigio del quale era scosso, dovette rassegnarsi a un maggior controllo da parte tedesca accordando all'alleato il comando dell'intera fronte russa, che fu affidato a Hindenburg. Ne era esclusa la 12ª armata, alla destra dello schieramento, agli ordini dell'arciduca ereditario Carlo, al quale però fu assegnato un capo di Stato Maggiore tedesco, il von Seeckt. In Francia la diminuzione di truppe tedesche facilitò l'offensiva franco-inglese sulla Somma, che costrinse i Tedeschi ad arrestare l'attacco contro Verdun. Sul fronte italiano Cadorna, dopo aver preso la controffensiva nel Trentino, inflisse di sorpresa agli Austriaci la grande sconfitta di Gorizia (8 agosto). Quest'ultimo avvenimento decise secondo il Falkenhayn la Romania a schierarsi contro le Potenze centrali. Il prestigio del Falkenhayn, al quale si rimproverava l'insuccesso di Verdun, era svanito e le speranze dell'esercito e del popolo tedesco si volgevano invece a Hindenburg e a Ludendorff, che nel 1914 avevano salvato la patria nell'est. L'imperatore Guglielmo affidò quindi a essi il 29 agosto la direzione delle operazioni nominando Hindenburg capo di Stato Maggiore e Ludendorff primo quartier mastro generale compartecipe del comando.

Battaglia della Somma. - Nella conferenza di Chantilly del 16 febbraio era stata decisa una offensiva su 70 chilometri, dei quali 25 agl'Inglesi sulla fronte della Somma, da iniziare il1° luglio. L'attacco tedesco contro Verdun obbligò Joffre a ridurre la partecipazione delle truppe francesi a una fronte di soli 12 chilometri; l'operazione principale fu quindi condotta dagl'Inglesi su direttive date da Joffre; Foch, comandante del gruppo d'armate del nord, era incaricato di dirigere le operazioni dei Francesi. Gli attacchi dovevano essere condotti metodicamente, sfruttando la superiorità dei mezzi per rompere le linee tedesche nella zona della Somma. L'artiglieria doveva conquistare il terreno, la fanteria occuparlo, secondo la massima messa in onore da Pétain. Si doveva conseguire il consumo delle riserve tedesche, ciò che avrebbe poi consentito la rottura della fronte in direzione di Cambrai per prendere poi di rovescio la fronte tedesca con obiettivo Le Cateau e Maubeuge. Furono impiegati nell'attacco la 5ª e la 4ª. armata inglese (26 divisioni) con direzione Bapaume, la 6ª armata francese (18 divisioni) che attaccò nella zona della Somma per appoggiare l'attacco inglese. La fronte avversaria, ben organizzata, era tenuta dalla 2ª armata tedesca (11 divisioni delle quali 3 in riserva). L'attacco era previsto, ma il comando tedesco credeva che i Francesi non fossero in grado di parteciparvi e che l'attacco principale avvenisse più a nord fra Arras e Lilla. Il 10 luglio, dopo sette giorni di preparazione d'artiglieria, cominciò l'avanzata. I Tedeschi, sebbene snervati dall'intenso bombardamento, resistettero energicamente. La lunga durata della preparazione aveva permesso di far giungere rinforzi. All'ala sinistra inglese di fronte ai contrattacchi tedeschi non si ottenne alcun vantaggio. Il 10 luglio gl'Inglesi ebbero 60 mila fra morti, feriti e dispersi. La prosecuzione dell'attacco dovette essere limitata alla 4a armata che nei primi dieci giorni guadagnò passo passo 5 chilometri di profondità; più brillante fu l'inizio delle operazioni francesi che penetrarono fino a 9 chilometri catturando 12 mila prigionieri. Un successivo attacco degl'Inglesi contro la 2ª posizione tedesca (14-17 luglio) ottenne scarsi risultati. La battaglia continuò ostinata e implacabile; trincee, reticolati, tutto era spianato dall'artiglieria e la fanteria tedesca era ridotta a difendersi occupando gl'imbuti prodotti dal bombardamento; l'attaccante era in analoghe condizioni, esso però era sostenuto da un'artiglieria e da un'aviazione preponderanti. L'azione continua dell'artiglieria era intramezzata da attacchi generali (20-25 luglio, 12-14 agosto) ma i Francesi e la destra inglese non riuscirono a realizzare sino alla fine d'agosto alcun progresso, e limitati (2 chilometri di profondità) furono quelli della sinistra inglese. La tensione estrema dei Tedeschi era conseguenza della superiorità del materiale avversario; il Falkenhayn aveva già impartito disposizioni per rimediare a tale deficienza, quindi in settembre il nuovo Comando supremo tedesco poté attuare un miglioramento. Ludendorff s'interessò della parte tattica: la cessazione delle operazioni di Verdun e la disponibilità di divisioni di nuova formazione diedero modo di ridurre il turno delle divisioni in linea sulla Somma a due settimane: l'aumento delle artiglierie permise di sviluppare sia la controbatteria, sia i tiri contro fanteria per soffocare gli attacchi prima del loro inizio. Furono adottate le posizioni in contropendenza. Si cominciò a impiegare l'aviazione non più ad apparecchi isolati, ma a squadre. Tuttavia nell'offensiva generale del 3-5 settembre gl'Inglesi e la sinistra della 6ª armata francese s'impadronirono di parte della 2ª posizione tedesca. Altri progressi furono effettuati verso la metà di settembre oltrepassando Combles a nord della Somma. Notevole l'attacco inglese del 15 settembre, nel quale apparvero per la prima volta i tanks, che permisero un'avanzata di un paio di chilometri: così tale mezzo di guerra fu svelato prima di disporne di un numero che consentisse un risultato decisivo. Vivi combattimenti si effettuarono in ottobre e in novembre con nuovi sensibili progressi degli Alleati.

Dal 24 giugno al 26 novembre furono impegnate sulla fronte della somma 67 divisioni tedesche, 44 francesi e pare una cinquantina d'inglesi. Le perdite sono valutate a 400 mila Inglesi, 300 mila Francesi e mezzo milione di Tedeschi, compresi 100 mila prigionieri: per quanto più forti per gli Alleati, tuttavia la minore disponibilità di risorse rendeva assai sensibili anche per la Germania le perdite avute.

La battaglia aveva dimostrato la grande superiorità degli Alleati in fatto di materiali, aviazione compresa, e la solidità delle loro truppe; tuttavia nessuno degli obiettivi sperati era stato raggiunto. Non solo la fronte avversaria non era stata spezzata, ma neppure si era arrivati a Péronne. Inoltre il fatto che l'offensiva sulla Somma non aveva impedito ai Tedeschi di atterrare la Romania faceva cadere in discredito le operazioni degli Alleati, costretti a lottare mesi e mesi spendendo enormi risorse e numerose vite per acquistare pochi chilometri quadrati di terreno ridotto a un deserto. Il mancato grande successo della Somma oscurò la fortuna di Joffre e di Foch e le speranze francesi si rivolsero al capo che aveva diretto le brillanti operazioni attorno a Verdun, il generale Nivelle.

La campagna di Romania. - La Romania si trovava in condizioni difficili perché a contatto con la sola Russia e priva come questa di un'industria che valesse ad assicurarne i rifornimenti. Tuttavia l'insuccesso di Verdun, l'offensiva franco-inglese sulla Somma e soprattutto Luck e Gorizia indussero la Romania a ritenere la situazione sfavorevole per gl'Imperi centrali. Il 18 agosto essa firmò un trattato di alleanza con l'Intesa e nove giorni dopo dichiarò la guerra all'Austria. Si aggiungevano così, nella lotta contro la Quadruplice 15 divisioni attive più altre 8 di truppe territoriali, ripartite in quattro armate con 640.000 combattenti. In realtà il momento favorevole era passato, perché gli Austro-Tedeschi erano riusciti ad arrestare l'offensiva russa e a contenere quelle sulle fronti occidentali. Non era quindi difficile a essi, che disponevano di oltre 300 divisioni, di trovare quanto bastava per far fronte al nuovo nemico.

D'altra parte l'entrata in azione della Romania permetteva di utilizzare quelle forze bulgare e anche turche che rimanevano inattive perché non era possibile impiegarle fuori dei Balcani; infine le riserve di grano e petrolio della Romania ne rendevano desiderabile l'occupazione, facilitata dal fatto che le frontiere romene erano tanto estese da consentire la più ampia libertà di manovra. Di più il nuovo nemico mancava d'esperienza di guerra ed era insufficientemente provvisto di materiale bellico; i reggimenti avevano 6 mitragliatrici soltanto e solo 10 divisioni avevano artiglierie moderne; il rifornimento delle munizioni non era assicurato.

Il 28 agosto stesso la Romania invase con la 1ª e 2ª armata la Transilvania, mentre l'armata del nord operava in collegamento con i Russi e la debole armata del sud era sparsa al confine della Dobrugia, lungo il Danubio. I Romeni contavano che le forze alleate di Salonicco avrebbero richiamato i Bulgari verso sud. L'attacco romeno non era atteso da Berlino che dopo la mietitura. Quindi per il momento la dichiarazione di guerra trovò la frontiera transilvana sguernita, tanto che i Romeni poterono credere di aver soltanto da marciare per prendere sul fianco lo schieramento austriaco volto contro la Russia. L'impressione per questa sorpresa fu tale in Germania che l'imperatore, come si è visto, esonerò il generale Falkenhayn dalla carica di capo di Stato Maggiore, sostituendolo con Hindenburg e Ludendorff.

Nella prima decade di settembre i Romeni occuparono infatti l'alta Transilvania. Ma intanto il gruppo d'armata Mackensen, costituito da principio essenzialmente dalla 3ª armata bulgara, invadeva la Dobrugia, espugnava il 6 settembre la testa di ponte di Turtucaia e il 9 occupava Silistria (Silistra). Rinforzi russi ne arrestarono l'avanzata.

Nella prima metà di settembre furono riunite contro i Romeni la 1a armata austriaca (generale Arz) e una nuova 9ª armata tedesca ricostituita con 4 divisioni tedesche, tra le quali l'Alpenkorps bavarese, e una ungherese, più due divisioni di cavalleria. A capo dell'armata fu messo il Falkenhayn, che in questo teatro (ove la scarsità delle truppe permetteva la manovra) diede luminosa prova delle sue qualità di condottiero. Egli diresse i suoi colpi contro la 1ª armata romena attaccando nella zona di Hermannstadt (Sibiu), dopo aver fatto occupare di sorpresa il passo di Torre Rossa dall'Alpenkorps, intercettando così la linea principale di rifornimento dell'armata che in quella critica situazione finì con il disperdersi (27 settembre). Anche la 2ª e la 3ª armata romena furono quindi costrette ad abbandonare la Transilvania, riducendosi alla difesa dei colli. Invano gli Alleati continuarono i loro attacchi sulla Somma, sull'Isonzo (8ª battaglia dell'Isonzo) e in Macedonia, dove i Bulgari furono costretti a sgombrare Monastir (18 novembre).

La Romania non poteva ricevere soccorsi diretti altro che dalla Russia, ma anche con questa le comunicazioni erano in cattivo stato. Nell'ottobre Mackensen occupò la Dobrugia, compresa Costanza; il 7 novembre il Falkenhayn riusciva a far occupare di sorpresa il passo di Târgu-Jiu scarsamente guarnito e a irrompere nella Valacchia, tagliando cosi fuori una divisione romena dislocata presso Orsova (Orşova) che dovette poi arrendersi l'8 dicembre. Il Falkenhayn marciò su Bucarest, mentre altre forze austrotedesche attaccavano i Romeni ai passi di Predeal più a oriente. Il 23 novembre Mackensen passava il Danubio. Il comando romeno, ispirato dal generale francese Berthelot, attaccò, anche con rinforzi russi, il Mackensen, riuscendo a sorprenderlo il 24 sull'Arges; ma il Falkenhayn con le sue forze minacciò a sua volta sia il tergo delle truppe che combattevano contro il Mackensen, sia quelle che difendevano ancora i passi, talché i Romeni dovettem abbandonare la capitale, che fu occupata il 6 dicembre dai Tedeschi, i quali inseguirono sino al Seret (Siret).

Con scarse forze, approfittando abilmente della difficile posizione strategica e dell'inesperienza di guerra della Romania, i Tedeschi erano riusciti a infliggere ai Romeni una perdita di più di 200 mila uomini e a occupare un territorio ricco d'ogni risorsa. L'esercito romeno però non era stato annientato e la sventura della patria ne ravvivò le forze morali. Riorganizzato dal Berthelot, poté nell'estate del 1917 riprendere l'offensiva e tenere impegnata la 9ª armata tedesca, rinforzata di truppe austriache e turche. Anche dopo la pace di Bucarest del 7 maggio 1918 le Potenze centrali lasciarono 6 divisioni in Romania. Forze rilevanti furono dunque colà vincolate, sia per le operazioni sia per l'occupazione; e se la Romania non fosse entrata in guerra, gl'Imperi centrali avrebbero potuto impiegare altrove i mezzi spesi per battere quest'ultimo avversario che, se provò amare disillusioni, seppe anche persistere efficacemente.

Situazione politico-militare alla fine del 1916 e piani per il 1917. - La Germania era riuscita ad aver ragione dell'ultimo nemico e a mettere la mano sulle risorse esistenti nella parte di Romania occupata. Tali successi però erano stati ottenuti dalle Potenze centrali tenendosi sulla difensiva su tutte le altre fronti. In Francia la lunga lotta sulla Somma non aveva soddisfatto né i popoli né i governi dell'Intesa, i quali non comprendevano che la lotta tra forze capaci di saturare l'intero teatro di operazioni e quasi pari doveva avere necessariamente carattere di logoramento, essendo necessario sgretolare la compagine materiale e morale dell'avversario. L'Austria era stata costretta dalle offensive del Cadorna ad aumentare le forze tenute sulla fronte sud-ovest e aveva nondimeno perduto, quasi interamente, la formidabile linea di resistenza da Gorizia al mare. L'attacco di Brusilov l'aveva ridotta in condizioni difficili e solo l'intervento tedesco era riuscito a impedire una catastrofe. Fuori d'Europa i Russi avevano occupato Erzerum (15 febbraio); gl'Inglesi avevano avuto un grave scacco con la caduta di Kūt el-Amārah, ma avevano subito posto mano ai preparativi per riprendere l'avanzata su Baghdād. Il 21 novembre morì l'imperatore Francesco Giuseppe e gli successe l'imperatore Carlo.

Nel 1916 le Potenze centrali erano state, sulle fronti principali, rigettate sulla difensiva. Lo stesso Comando supremo tedesco vedeva questa necessità, tanto che si preoccupò essenzialmente di attuare in Francia un nuovo metodo di difensiva inteso a non immobilizzare con ordini di difesa a oltranza la truppa nella prima linea, dove essa necessariamente andava perduta sotto il bombardamento avversario. Si doveva invece avere fiducia nelle truppe e consentire che esse, per evitare l'annientamento, potessero ripiegare sui reparti retrostanti per unirsi a essi sia nella resistenza sia per il contrattacco. Il Comando supremo tedesco, al quale era attribuito anche il comando su tutte le fronti alleate, rinunciò dunque all'inizio del 1917 all'iniziativa delle operazioni, almeno dal punto di vista offensivo. Ciò può trovare una spiegazione anche nel fatto che Ludendorff, colui che decideva il da farsi, aveva ritenuto conveniente di attendere gli eventi. Motivi militari consigliavano di differire la lotta in Francia finché la Germania non avesse aumentato le proprie forze in truppe e materiali. Per la primavera dovevano essere pronte una trentina di nuove divisioni, raggiungendo il totale di 240. Così pure si era dato impulso alla fabbricazione del materiale, dall'aviazione all'artiglieria: tutte le armi e corpi dell'esercito sotto la vigorosa spinta del nuovo comando furono riordinati e accresciuti. In quest'opera però mancò l'equilibrio, perché l'aumento del numero di divisioni avvenne a scapito dei complementi necessarî per colmare le perdite: si sapeva cioè che non sarebbe stato possibile tenerle a numero per lungo tempo: era un enorme esercito capace di uno sforzo di non eccessiva durata. Viceversa per la fabbricazíone del materiale fu continuamente accresciuto di centinaia di migliaia il numero dei dispensati dal servizio militare, ciò che affrettò e acuì la crisi dei complementi. La Somma aveva posto in luce la superiorità dei mezzi franco-inglesi, dovuti all'aiuto dell'industria americana: Ludendorff volle eliminare tale deficienza accrescendo il materiale tedesco, sia pure a scapito del numero dei combattenti. Ma questo lo indusse anche a cercare d'impedire l'arrivo del materiale americano dichiarandosi favorevole alla lotta sottomarina a oltranza, sebbene ciò significasse la guerra con gli Stati Uniti. L'ammiragliato tedesco aveva dichiarato, è vero, che con la guerra sottomarina a oltranza, silurando ogni nave che tentasse di dirigersi ai porti avversarî, in pochi mesi l'Intesa avrebbe subito tali danni da essere costretta a capitolare. Ludendorff si basò su tale assicurazione e richiese al governo l'applicazione della lotta sottomarina a oltranza. Il BethmannHollweg, che aveva in tale questione resistito al Falkenhayn, cedette davanti all'autorità di Hindenburg e di Ludendorff. Intanto dal dicembre 1916 s'iniziarono quelle trattative di pace attraverso la mediazione di Wilson (v. sopra: Storia politico-diplomatica) che, iniziate dagl'Imperi centrali, fallirono completamente.

Il 31 gennaio la Germania proclamò la guerra sottomarina a oltranza; il 3 febbraio l'America troncò le relazioni diplomatiche con la Germania. Se gli Stati Uniti non avevano un grande esercito pronto, la dichiarazione agiva immediatamente come effetto morale, benefico per i popoli dell'Intesa perché si univano a loro le immense risorse del grande stato, deprimente per gli avversarî che si vedevano contro il mondo intero. Ben a malincuore l'Austria aveva in questo seguito l'alleata. Un altro motivo infine deve avere spinto Ludendorff a tenere per il principio del 1917 contegno difensivo: egli voleva guidare anche la parte politica: sperando che potesse scoppiare in Russia la rivoluzione, temette forse che un'offensiva risvegliasse il sentimento di quella nazione, dove si vedevano i sintomi della prossima lotta civile. Il 5 novembre Germania e Austria avevano proclamato l'indipendenza della Polonia. La Russia rispose promettendo l'indipendenza dell'intera Polonia ricostituita. Una prima disillusione ebbero le Potenze centrali con la mancata costituzione di un esercito polacco. I Polacchi avevano compreso che essi avevano più da guadagnare dalla sconfitta degl'Imperi centrali che dalla loro vittoria.

In una conferenza a Chantilly (26 novembre) sotto la presidenza di Joffre, le potenze dell'Intesa avevano deciso l'offensiva contemporanea a partire dal febbraio per togliere ai Tedeschi l'iniziativa delle operazioni. In quel momento l'Intesa vantava una notevole superiorità di forze sugli Imperi centrali: circa 450 divisioni contro 350, 26.000 cannoni contro 20.000, 11 milioni di combattenti contro 7 milioni. Ma i limitati risultati ottenuti sulla Somma indussero il governo francese a sostituire il generale Joffre, al quale si rimproverava anche un soverchio ottimismo. Il vincitore della Marna, nominato maresciallo di Francia, fu sostituito con il Nivelle il quale promise senz'altro la rapida rottura della fronte tedesca applicando il metodo impiegato a Verdun, cioè l'impiego di grandi masse d'artiglieria che avrebbero dovuto fare il vuoto davanti alla fanteria, la quale non avrebbe dovuto che raccogliere i frutti della distruzione e procedere sicura, assecondata dai carri armati. La sicurezza del Nivelle sedusse anche il governo inglese, sì che Lloyd George acconsentì che per le operazioni l'esercito inglese fosse subordinato al Nivelle. Ma per attuare il piano del nuovo comandante l'operazione fu rinviata all'aprile.

Le operazioni del 1917. L'attacco Nivelle. - Il Nivelle non era un condottiero. Fisso nella sua idea di sfondare fatalmente la fronte tedesca, egli diede prova, come già il Moltke, di essere incapace di adattare le sue concezioni alle mutevoli esigenze della lotta. Egli avrebbe voluto che Cadorna prendesse l'offensiva sul Carso in aprile, senza tener conto che le forze austriache erano aumentate in Trentino e che egli stesso, il Nivelle, riteneva probabile un'offensiva austro-tedesca da quella direzione. Attaccare lasciandosi guidare non dalla situazione reale, ma dalle proprie speranze, era il metodo del Nivelle e ciò lo indusse a volere che le speranze fossero da tutti condivise, che tutti fossero al corrente dei suoi piani. Così, tolto ogni freno al dilagare delle notizie, alla metà di febbraio i Tedeschi venivano in possesso d'un ordine che dava la prova che era in preparazione un grande attacco francese sull'Aisne, operazione della quale avevano già avuto sentore. Il piano di Nivelle prevedeva un'offensiva generale dalla zona di Arras sino alla zona di Reims, attaccando così da ovest e da sud il grande saliente tedesco per ottenere lo sfondamento rapido. Mentre gl'Inglesi avrebbero agito in direzione di Douai, Cambrai, San Quintino, assecondati a sud dal gruppo d'armate francesi del nord, il gruppo d'armate di rottura (5ª e 6ª) avrebbe sfondato rapidamente - in 24 o 48 ore - la fronte nemica tra Reims e Soissons i attraverso la breccia sarebbe passata la 10ª armata che avrebbe puntato verso nord per prendere di rovescio le linee tedesche impegnate dagl'Inglesi e dal gruppo armate nord. L'operazione doveva essere iniziata in aprile. Questo piano aveva in sé un grande coefficiente di successo, costituito dalla grande estensione dell'attacco; inoltre i Franco-Inglesi avevano la superiorità delle forze: contro 154 divisioni tedesche a 9 battaglioni stavano 109 divisioni francesi anche a 9 battaglioni e altre 62 divisioni inglesi, due portoghesi, 12 belghe e una russa: totale 1945 battaglioni attivi pari a 216 divisioni tedesche, e rilevante era anche la superiorità dei materiali.

Ma il Comando supremo tedesco decise di ripiegare su una linea di resistenza, detta "Siegfried", tra Arras e Soissons, costruita a una distanza media di 30 chilometri dalla linea di contatto con il nemico; lo sgombro incominciò il 9 febbraio: tutto ciò che poteva servire al nemico, comprese le strade, fu distrutto, il terreno davanti la nuova posizione fu spianato per chilometri in modo da richiedere un lungo lavoro per poter essere utilizzato come base offensiva. Non era solo un arretramento che obbligava l'avversario a perdere tempo per avanzare: era un vero accorciamento della fronte per un tempo considerevole, perché nel terreno così preparato i Franco-Inglesi non potevano più organizzare offensive senza compiere lavori rilevanti.

Il 4 marzo il generale Franchet d'Espêrey, comandante del gruppo d'armate nord, avverti il Nivelle che i Tedeschi preparavano la ritirata e propose l'attacco immediato. Il Nivelle rifiutò e il 16 marzo i Tedeschi iniziarono la ritirata indisturbati. L'11 marzo era scoppiata a Pietrogrado la rivoluzione, ciò che consentiva alla Germania maggiore libertà d'azione rispetto alle truppe sulla fronte orientale. E anche questo avrebbe dovuto indurre ad affrettare l'attacco secondo la richiesta del Franchet d'Espérey. Ma Nivelle si attenne rigidamente al suo piano, non modificandolo neppure quando, il 6 aprile, seppe che documenti rivelatori del piano d'attacco di un'intera armata erano caduti in mano al nemico. Tutto questo allarmava però alcuni dei più eminenti generali e il governo impose al Nivelle di riunire un consiglio di guerra presieduto dal presidente della repubblica e al quale avrebbero preso parte i comandanti di gruppi d'armate. Nivelle acconsentì, ma al consiglio il 6 aprile minacciò di dimettersi ove non fosse accettato di dar seguito al suo piano. L'attacco fu dunque deciso. I Franco-Inglesi avevano la superiorità dei mezzi che consentiva una fronte più ampia dei precedenti attacchi, e ciò rendeva difficile al difensore il giuoco delle riserve; ma gli altri vantaggi proprî di ogni offensiva, la scelta del terreno favorevole e la sorpresa, erano per colpa del Nivelle svaniti. I Tedeschi si erano rinforzati, specie in artiglieria.

Dal 22 marzo al 9 aprile i Franco-Inglesi, superando resistenze di retroguardia, si portarono a contatto con la nuova linea. Il 9 aprile, dopo una attiva lotta per conquistare la superiorità nell'aria e dopo un bombardamento con 4 mila pezzi, gl'Inglesi attaccarono nella zona di Arras su una fronte di 24 chilometri, riuscendo a occupare al centro la cresta di Vimy, penetrando per 5 chilometri nella posizione avversaria, catturando 11 mila prigionieri; ma gl'Inglesi avevano avuto gravi perdite e non poterono il 9 portare a fondo l'azione: l'indomani le riserve tedesche erano giunte. La lotta continuò con intermittenze sino al maggio, ma il guadagno fu scarso. Gl'Inglesi v'impiegarono 30 divisioni. Il 16 aprile, dopo una preparazione d'artiglieria di parecchi giorni, i Francesi attaccarono tra Reims e Laffaux su un tratto di 40 chilometri. Anziché la rottura sperata, i Francesi non ottennero che di occupare parzialmente la prima linea avversaria, ma lo slancio offensivo francese era stato infranto. Il Nivelle decise di continuare la battaglia. La delusione del paese fu grande: si parlò di sospendere l'offensiva, e occorse l'energico intervento del governo inglese per ottenere la continuazione delle operazioni. L'azione continuò; essa fu estesa a est di Reims su Moronvilliers: i Francesi ottennero risultati parziali limitati, a prezzo di perdite gravi: 125 mila uomini in aprile, e altri 60.000 nella prima decade di maggio. Il malcontento era tale che si ebbe un aumento nelle diserzioni, e numerosi ammutinamenti, sui quali è stata fatta ampia luce da pubblicazioni apparse nel 1932 in Francia, scoppiarono nell'esercito. Il morale delle truppe francesi era talmente scosso che il comandante la 1ª armata in principio di giugno esprimeva il timore che i suoi soldati si sarebbero rifiutati di uscire dalle trincee per un nuovo attacco.

Il Nivelle intanto era stato sostituito il 17 maggio dal generale Pétain, il quale con il suo grande ascendente, visitando personalmente quasi tutte le divisioni per accertare e togliere tutte le cause di malcontento, seppe ricondurre gradatamente la fiducia nell'esercito e nel paese. Ma egli assunse come norma: "j'attends les Américains et les tanks". Il ministro Painlevé dichiarò alla Camera che era finita l'epoca dei piani ambiziosi e temerarî. Questo dava mano libera ai Tedeschi, che però non seppero approfittarne che limitatamente. Toccò all'Inghilterra e all'Italia continuare da maggio a settembre sole nell'offensiva per tenere impegnato l'avversario e impedire che riprendesse l'iniziativa delle operazioni.

La battaglia delle Fiandre. - La campagna dei sottomarini cagionava danni tali da far temere all'Inghilterra che la deficienza di tonnellaggio potesse mpedire il proseguimento della guerra in un momento in cui occorreva iniziare il trasporto dell'esercito americano, rifornire l'armata d'Oriente e quelle operanti nell'Asia. Si decise quindi di attaccare nelle Fiandre per distruggere le basi di sottomarini di Ostenda e Zeebrugge. Il 7 di giugno gl'Inglesi mediante mine colossali (500 tonnellate di esplosivo preparato con un lavoro di 2 anni) fecero saltare la linea tedesca saliente di Wytschaete per una lunghezza di 6 chilometri; la 2ª armata inglese (gen. Plumer) attaccò su 16 chilometri di fronte con 12 divisioni e 2400 pezzi riuscendo a occupare Messines e Wytschaete; ma l'operazione non ebbe seguito. L'azione in grande stile nelle Fiandre s'iniziò il 3 luglio, dopo che gl'Inglesi, sostituiti i Francesi nel settore da questi occupato a sud del settore belga, ebbero costruito le strade, i ricoveri, gli osservatorî necessarî.

L'attacco fu effettuato su una fronte di 24 chilometri dopo un bombardamento di parecchi giorni. Ma il terreno fangoso e la resistenza accanita dei Tedeschi limitarono l'avanzata. Tra inaudite sofferenze delle truppe la lotta continuò ostinata dalle due parti sino al 6 novembre, giorno in cui fu occupata Passchendaele. Le offensive inglesi, condotte su fronte ristretta (10 a 15 chilometri), per quanto precedute da violente azioni di artiglieria diedero risultati limitati: si guadagnò spazio attorno a Ypres, ma gl'Inglesi perdettero oltre 400 mila uomini, mentre le perdite tedesche sorpassarono di poco i 250 mila. Gli stessi governanti inglesi presero in orrore simile guerra di logoramento.

Il risultato principale dell'offensiva delle Fiandre fu quello di vincolare le forze tedesche, ciò che consentì all'esercito francese di rinfrancarsi e compiere a sua volta operazioni a scopo limitato, intese ad infliggere perdite materiali e morali all'avversario. Il 20 agosto quattro corpi d'armata (14 divisioni) attaccarono a Verdun su 18 chilometri di fronte a cavallo della Mosa. La preparazione d'artiglieria, iniziata il 13, aveva rovesciato sulle linee tedesche 110 mila tonnellate di proiettili, delle quali un decimo circa a gas asfissianti. L'attacco fruttò la conquista della 1ª linea tedesca. Il 23 ottobre poi la 10ª armata nella zona dell'Aisne attaccò a Malmaison con 3 corpi d'armata, 1850 cannoni e 5 gruppi di carri armati riuscendo a progredire per una profondità di 6 chilometri. Poiché la nuova posizione francese infilava le posizioni dello Chemin-des-Dames i Tedeschi dovettero abbandonarle ripiegando a nord dell'Ailette.

Le azioni nelle Fiandre erano basate sulla potenza dell'artiglieria: il 20 novembre invece il comando inglese sferrò all'improvviso un attacco intorno a Cambrai senza preventiva preparazione d'artiglieria; 6 divisioni di fanteria in prima linea, sostenute da 2 divisioni in seconda, attaccarono improvvisamente con la cooperazione di 387 tanks e di 1000 aeroplani da combattimento. Il terreno era favorevole all'impiego dei carri armati. I Tedeschi, sorpresi dall'attacco e dall'impiego di simile massa di carri, cedettero sino al canale della Schelda presso Cambrai; ma turarono prontamente la falla. Dieci giorni dopo essi contrattaccarono all'improvviso gl'Inglesi non ancora ben rafforzati sulle nuove posizioni e riconquistarono quasi tutto il terreno perduto. Era questa la prima vittoria che i Tedeschi riportavano in Francia sotto il nuovo Comando supremo. Queste operazioni dimostrarono l'importanza dei carri armati e inoltre indicarono i pericoli cui si esponevano truppe che alla fine di una fortunata offmsiva rimanessero in linee affrettatamente sistemate.

La fronte russo-romena nel 1917. - Nonostante lo scoppio della rivoluzione, dal marzo al novembre la Russia aveva assicurato di poter continuare nell'alleanza e nella guerra; ma le condizioni dell'esercito non consentivano nessuna energica operazione offensiva. Kerenskij percorse la fronte cercando d'infiammare le numerose divisioni. Ma le perdite, le sofferenze, la mancanza di conforto morale, fecero sì che la stanchezza del soldato russo superasse quella degli altri eserciti; ora si aggiungeva il crollo della disciplina: su 240 divisioni russo-romene ben 165 avevano intavolato trattative con l'avversario, guadagnate dalla propaganda pacifista austro-tedesca. I soldati russi fraternizzavano con gli avversarî e il tentativo di Kornilov di ristabilire l'ordine con la forza era destinato a fallire per opera di Kerenskij stesso.

In queste condizioni ogni offensiva contro truppe solide era condannata all'insuccesso. La conquista della testa di ponte di Toboly sullo Stochód, effettuata dai Tedeschi il 3 aprile con perdite minime, era chiaro indizio della situazione. Tuttavia Kerenskij, ritenendo che i suoi discorsi potessero aver ragione della forza delle cose, ordinò a Brusilov - assurto al comando supremo - di iniziare l'offensiva che fu detta di Kerenskij. Questa fu affidata al Kornilov che attaccò il 30 giugno in direzione di Leopoli. Data la poca solidità delle truppe austriache contrapposte, Kornilov riusci a occupare Halicz. Ma il 19 luglio forze tedesche presero la controffensiva che fece retrocedere rapidamente i Russi nel più grande disordine. Ia Galizia e la Bucovina furono perdute per i Russi e solo le difficoltà dei rifornimenti arrestarono al principio di agosto gli Austro-Tedeschi dopo un'avanzata di 150 chilometri. In agosto, nella zona del Seret, i Russo-Romeni riuscirono a far indietreggiare gli Austriaci, ma contrattacchi tedeschi ristabilirono la situazione facendo 15 mila prigionieri.

Bethmann-Hollweg, che con la proclamazione dell'indipendenza della Polonia aveva reso impossibile ogni pace separata con la Russia imperiale, aveva sperato di riuscire in tale intento dopo la rivoluzione. Egli in aprile aveva arrestato ogni offensiva e non aveva voluto che si menasse vanto della facile conquista della testa i ponte sullo Stochód. Così 80 divisioni tedesche erano non solo rimaste con l'arma al piede sino all'offensiva di Kerenskij, ma soggette a bolscevizzarsi al contatto con i Russi. La ragione militare avrebbe consigliato di sguernire la fronte russa a favore di quella francese, poiché era chiaro che da oriente non si avevano a temere grandi offensive; d'altra parte vi era la possibilità di guadagnare tempo cedendo parte dei territorî russi occupati e distruggendo le linee di comunicazione. Una delle due decisioni era da prendere: o subito contro la Russia o subito contro la Francia. Forse un'offensiva contro la Russia verso la metà del 1917, prima che la propaganda bolscevica fosse penetrata, avrebbe potuto ravvivare il sentimento nazionale russo; e forse anche il trasportare notevoli forze in Francia avrebbe portato alla perdita dei territorî russi occupati. Ma che valore poteva avere ciò di fronte a una probabílità di vittoria decisiva in Francia? In questa occasione l'uomo politico prevalse in Ludendorff sul generale, come prova anche la sua ingerenza per un mutamento nella persona del cancelliere, con il quale mutamento il Ludendorff sperò di frenare la demoralizzazione di cui il popolo tedesco cominciava a dar segno. In luglio sotto la minaccia delle dimissioni di Ludendorff e di Hindenburg l'imperatore sostituì Bethmann-Hollweg con il dott. Michaelis. Ma la discussione al Reichstag intorno alla pace eventuale mostrò che l'accordo sugli scopi della guerra non esisteva più in Germania. Forse all'inattività tedesca contribuirono i successi, superiori alle speranze, ottenuti nei primi mesi dai sottomarini. Ma l'Inghilterra trovò gradatamente modo di combattere efficacemente tale minaccia, talché fu possibile provvedere al regolare trasporto delle forze americane in Europa; una sola nave con truppe americane, la Tuscania, di 144 mila tonnellate, fu affondata dai sottomarini in vicinanza delle coste inglesi, con la perdita di un centinaio di soldati. Oltre che alle provvidenze difensive degl'Inglesi, ciò si dovette forse al timore tedesco di spingere all'estremo l'ostilità dell'America, sicché i Tedeschi preferirono dare la caccia ai piroscafi mercantili. Respinta l'offensiva di Kerenskij, Ludendorff decise di farla finita con la Russia e di attaccare Riga. L'operazione fu affidata all'8ª armata. Il bombardamento fu iniziato il 30 agosto e il 10 settembre salì d'intensità in modo da rendere intenibili le posizioni russe, che furono occupate quasi senza perdite. Con pari facilità il 2 venne attraversata la Düna (Dvina, Daugava) - larga 380 metri - e occupata Riga (3 settembre) con il territorio circostante. Il 21 fu conquistata anche la testa di ponte di Jakobstadt. A metà ottobre i Tedeschi occuparono le isole di Osel (Saaremaa), Moon (Muhu) e Dagö (Hiiumaa) a sud del golfo di Finlandia.

Nel novemhre il potere fu assunto in Russia dai bolscevichi e il 26 dello stesso mese il nuovo governo inviò per radio la richiesta di armistizio, tanto attesa dai Tedeschi, seguita da un invito di pace senza annessioni né indennità. A metà dicembre venne concluso l'armistizio a Brest-Litovsk e il 22 incominciarono le trattative di pace che furono concluse il 9 febbraio con i soli rappresentanti dell'Ucraina, separatasi dal resto della Russia. Il rappresentante di questa, Trockij (Trotzki), interruppe le trattative dichiarando cessata la guerra, ma la Germania denunciò l'armistizio e il 18 febbraio gli Austro-Tedeschi iniziarono l'avanzata servendosi delle ferrovie. Il 3 marzo avevano raggiunto la linea Kiev-Narva. Nello stesso giorno i Russi firmavano la pace senza discutere, piegandosi alla forza; per garantirne l'esecuzione e per ottenere dalla Russia e dall'Ucraina le sperate risorse, gli Austro-Tedeschi dovettero occupare vaste regioni nel sud, immobilizzandovi forze che al contatto della propaganda bolscevica finirono con il perdere in gran parte ogni spirito di sacrificio. Il ritorno dei prigionieri austro-tedeschi non fornì rinforzi all'esercito, ma masse che andarono a ingrossare i disertori o i malcontenti all'interno. Anche la Romnania fu costretta a una dura pace, ma gl'Imperi centrali dovettero impiegare 6 divisioni come truppe d'occupazione. Di più una divisione tedesca fu inviata a liberare la Finlandia dai bolscevichi. Lo stato di abbandono delle campagne russe e le difficoltà dei trasporti ridussero di molto, rispetto alle speranze, le risorse dell'Ucraina. Comunque, dopo Riga, la guerra era cessata alla fronte russa e i Tedeschi ne approfittarono per concedere all'Austria un'armata di rinforzo per l'offensiva dell'ottobre contro l'Italia. Questa che, al pari dell'Inghilterra, si era battuta tutta l'estate a prezzo di gravi perdite per controbilanciare la scarsa attività francese, si trovò di sorpresa assalita da truppe tedesche che sfondarono le linee dell'alto Isonzo costringendo gli Italiani alla ritirata sul Piave. Ma neppure allora Ludendorff ebbe la chiara visione dell'importanza di riportare subito un successo definitivo e non inviò contro l'Italia forze decisamente preponderanti per attaccare anche dalla fronte del Tirolo, talché la tenace resistenza italiana al Piave e al Grappa arrestò l'invasione.

Nel complesso il 1917 si chiudeva per le operazio- ni terrestri con il vantaggio degl'Imperi centrali, i quali potevano disporre contro le fronti occidentali di quasi tutte le loro forze. Ma il risultato della campagna dei sottomarini, per quanto rilevante (7 milioni e mezzo di tonnellate affondate in 11 mesi), non aveva corrisposto alle previsioni. All'inizio del 1918 la Germania non era riuscita ad arrestare il traffico marittimo nemico, tanto che, quando s'iniziò la grande offensiva primaverile contro la Francia, già 300 mila Americani erano giunti e l'Intesa aveva organizzato i mezzi per trasportarne altrettanti ogni mese. Viceversa Germania e Austria cominciavano a difettare di soldati, se non di uomini. Numericamente esistevano ancora risorse umane, ma si trattava degli esonerati per le industrie, dei disertori all'interno, dei prigionieri ritornati dalla Russia e difficilmente impiegabili. Enorme era il numero degl'"imboscati". Un grande sciopero era scoppiato nel 1917 a Berlino nelle fabbriche di munizioni e nell'autunno vi erano stati ammutinamenti nella flotta. Tuttavia, malgrado la stanchezza, la Germania e in un certo grado i suoi alleati avevano ancora fede negli uomini che avevano atterrato la Russia e speravano che essi avrebbero potuto ottenere la vittoria o almeno una pace di compromesso. Intanto dalla parte avversa, se i popoli erano stanchi, se difettavano i soldati, si intuiva però più o meno chiaramente che la lotta di quasi tutto il mondo contro gl'Imperi centrali non poteva finire con una sconfitta. Questa convinzione permetteva ai governanti di combattere efficacemente il disfattismo e di resistere ai tentativi di pace degli avversarî.

Situazione militare all'inizio del 1918. - All'inizio del 1918 la Russia e conseguentemente la Romania erano virtualmente fuori causa, e le forze austro-tedesche vincolate alla fronte orientale avrebbero potuto essere impiegate altrove, quando gl'Imperi centrali avessero accettato di concludere una pace senza annessioni e senza contributi. La Germania disponeva di 240 divisioni; l'Austria di un'ottantina senza contare le bulgare e le turche disponibili per operazioni nei Balcani. Degli avversarî, l'Italia aveva perduto la battaglia di Caporetto e una sua controffensiva dal Piave e dal Grappa-Altipiani avrebbe potuto esser contenuta con poche forze date le favorevolissime condizioni difensive della nuova fronte austriaca. Era noto che l'America, se stava preparando un grande esercito, aveva però in Europa scarsi effettivi. Il trasporto e l'impiego degli Americani richiedeva tempo e questo tempo era disponibile per attaccare la fronte francese con superiorità di mezzi: tale fronte era difesa alla fine di gennaio del 1918 da 99 divisioni francesi, 55 inglesi, più 12 belghe, 2 portoghesi e da 4 divisioni americane. Tenuto conto che anche le 11 divisioni anglo-francesi inviate temporaneamente in Italia avrebbero potuto in caso di bisogno ritornare, in gran parte, in Francia, sulla fronte occidentale i Tedeschi dovevano calcolare di avere contro circa 180 divisioni nemiche. In quanto a materiale gli Alleati si erano sinora dimostrati nettamente superiori e i tre grandi stati industriali dell'Intesa avrebbero eertamente continuato nello sforzo per accrescere sempre più i mezzi di lotta. Cambrai era stata una dura sorpresa per i Tedeschi. Per assicurarsi la superiorità bastava trasportare in Francia tutto quanto era disponibile dell'esercito austriaco; Ludendorff e Arz erano di tale avviso. Ma l'attuazione di quest'idea fu impedita dal desiderio (diffuso in Austria a cominciare dall'imperatore fino ai socialisti) di non combattere contro i Francesi: si sperava sempre che i tentativi per allacciare segretamente trattative di pace arrivassero a un risultato favorevole; inoltre gli Austriaci avrebbero voluto in ogni caso combattere come un esercito a sé. Fatto sta che l'accordo per una azione comune in Francia mancò e Ludendorff non insisté. In luogo di quest'azione comune Arz promise che a fine maggio avrebbe attaccato per annientare militarmente l'Italia. Ma questa data significava rinuncia alla contemporaneità degli sforzi. Così, in aprile, 8 divisioni alleate (delle quali 2 italiane) furono sottratte dal veneto e inviate a rinforzare la fronte francese.

I condottieri tedeschi ritennero che 190 divisioni più 5 di cavalleria con un totale di 3 milioni e mezzo di uomini concentrati contro la Francia sarebbero stati sufficienti a strappare la vittoria; ma la storia dimostrò una volta di più che la concentrazione del massimo di forza è la migliore garanzia di riuscita. Rimanevano lontani dalla Francia un milione di Tedeschi lasciati in Oriente e le forze austriache che fronteggiarono sino a giugno passivamente un avversario inferiore di numero. Eppure i vantaggi che si potevano ricavare nell'est erano un nulla di fronte alla possibilità di una sconfitta nell'ovest, che doveva essere assolutamente evitata.

Dalla fronte russa vennero però tratte tutte le buone artiglierie disponibili. Le 56 divisioni, destinate a formare la parte principale della massa d'attacco, furono ritirate nelle retrovie ed esercitate ad agire di pieno accordo con l'artiglieria, in modo da irrompere sul nemico quando questo era ancora sotto l'effetto demoralizzatore del bombardamento. L'artiglieria (si calcolava un pezzo per ogni 10 metri) fu addestrata in particolari accorgimenti che le consentivano di aprire il fuoco di sorpresa. E la sorpresa fu appunto la caratteristica dell'offensiva tedesca. Gli attacchi ebbero larga fronte, ciò che rendeva difficile all'avversario turare la falla, furono condotti a fondo, cioè si cercò la penetrazione profonda; le offensive, se da principio parvero proporsi lo scopo strategico di separare i Francesi dagl'Inglesi, ebbero sostanzialmente di mira, sia all'inizio sia durante il loro svolgimento, di trovare un punto debole dal quale fossero possibilmente lontane le riserve nemiche. Si ottennero all'inizio dell'offensiva successi non mai visti; però nel tempo in cui i Tedeschi avanzavano profondamente nella breccia dove le comunicazioni erano devastate, cioè con rifornimenti di fucili, i Franco-Inglesi potevano (approfittando delle loro comunicazioni non interrotte) far giungere le riserve e fronteggiare l'assalitore ormai stanco e mal rifornito: talché la lotta contro le riserve si svolgeva in condizioni non favorevoli per i Tedeschi. Ludendorff non disponeva di una decisa superiorità e per ottenerla nel punto attaccato doveva ricorrere agli spostamenti; ma anche l'avversario era ben comandato e disponeva poi di mezzi rapidi per muovere le proprie truppe. Inoltre i Tedeschi avevano potuto addestrare ai grandi attacchi soltanto una parte dell'esercito quindi le grandi offensive non potevano succedersi con notevole rapidità, perché bisognava continuare a spostare truppe e artiglierie. In tal modo il tempo lavorava a favore dell'Intesa. Di fronte a un consumo mensile di almeno 100 mila uomini, i Tedeschi non disponevano effettivamente che di 200 mila uomini, e altri 500 mila speravano di ricavarli al 10 gennaio dalla revisione dei dispensati e dal personale dei servizî idoneo alla fronte. Dopo questi 700 mila uomini (in buona parte soltanto ipotetici) rimaneva la classe del 1900. Invece gli avversarî avevano, oltre a una quantità di complementi proprî non inferiori a quelli tedeschi, la riserva immensa del fresco esercito americano, che si stava riunendo e addestrando in Francia.

Perciò, ove l'esercito tedesco non avesse ottenuto la vittoria decisiva nelle offensive progettate, si sarebbe logorato assai prima dell'avversario e si sarebbe trovato debole in confronto di questo e per di più dislocato in linee occasionali, determinate dalle vicende della lotta, e perciò tali che non avrebbero favorito un'efficace resistenza a una controffensiva avversaria.

L'offensivadel marzo. - Ludendorff attaccò fra Arras e La Fère su una fronte di 75 chilometri. L'offensiva fu eseguita da tre armate, in totale 62 divisioni, delle quali 3 a disposizione del Comando supremo. Si sperava di sfondare e di occupare Amiens per separare gl'Inglesi dai Francesi e respingerli contro la costa.

Nel tratto settentrionale (un terzo circa della fronte attaccata) stava la 3ª armata inglese con 10 divisioni in linea e 5 in riserva; nel tratto rimanente stava la 5ª armata inglese con 12 divisioni in linea e 3 in riserva. In totale, a una sessantina di divisioni tedesche gl'Inglesi ne contrapponevano una trentina. In sostanza anche nel tratto più debole le divisioni inglesi avevano bensì una fronte media di 4 chilometri (che consentiva una occupazione forte) ma mancarono, specie alla 5ª armata, quelle adeguate riserve che sole avrebbero potuto consentire una condotta elastica della difesa basata sul contrattacco, a somiglianza di quanto si era attuato dai Tedeschi in circostanze simili. E, di più, né truppe né comandi erano bene addestrati alla lotta in campo libero necessariamente conseguita.

I Tedeschi poi si erano assicurati una schiacciante superiorità di artiglieria; il 21 mattino oltre 6 mila pezzi, malgrado la nebbia, aprirono d'un colpo il tiro a gas contro le batterie nemiche. G'Inglesi non sapevano ove rispondere. Dopo qualche ora, il fuoco delle artiglierie, cui si unirono le bombarde, si diresse contro le trincee della fanteria. Alle 9,40, precedute dal tiro dei calibri minori, le fanterie mossero all'attacco. La sera la prima posizione era conquistata quasi sull'intera fronte; la seconda era stata in molti tratti raggiunta, in taluni oltrepassata. Solo al nord contro la 3ª armata inglese la resistenza tenace aveva limitato i successi, mentre a sud la 5ª armata inglese cedeva rapidamente e in modo pericoloso, e il 22 aveva perso totalmente la 2ª posizione; in questo settore dopo il 22 non si trattava che d'inseguimento. Il 25 i Tedeschi, salvo che alla destra (17ª armata), erano avanzati di una trentina di chilometri e procedevano in campo libero. Circa 100.000 prigionieri e quasi 1300 cannoni cadevano in mano ai Tedeschi. Già Ludendorff sperava di raggiungere Amiens e aveva ordinato il 26 l'estensione dell'attacco sino al mare. Ma gli attacchi contro Arras fallirono nuovamente il 25, perché le riserve dell'esercito inglese erano in quel settore a portata di mano. Restava da parte franco-inglese il pericolo della separazione, perché Pétain, pur inviando in aiuto agl'Inglesi le divisioni prontamente disponibili, tendeva (come risulta da un suo ordine del 24) a conservare la saldezza della fronte francese e a proteggere Parigi, e solo subordinatamente pensava che si dovesse conservare il collegamento con gl'Inglesi, se possibile". Pétain, ritenendo prossimo un attacco sull'Aisne da parte di una cinquantina di divisioni tedesche non ancora impiegate (erano invece predisposte per l'attacco nelle Fiandre), teneva il grosso delle riserve tra Reims e Soissons.

Haig, dal canto suo, tendeva a ritirarsi verso il mare. Così fra i due eserciti veniva formandosi il vuoto e per una ventina di chilometri il collegamento era tenuto dal solo II corpo di cavalleria francese. I Tedeschi, trovando resistenza verso Amiens, avevano premuto verso sud, respingendo le divisioni francesi prime arrivate, ma in tal modo venivano anche ad abbreviare la strada alle successive riserve francesi.

I governi di Londra e di Parigi e il comandante in capo dell'esercito inglese, di fronte all'imminenza del pericolo, compresero la necessità di unificare gli sforzi. La situazione sembrava così grave che Clémenceau avvertì il presidente della repubblica che occorreva prepararsi a trasportare nuovamente il governo a Bordeaux. I Tedeschi bombardarono Parigi con un cannone di gittata superiore ai 100 chilometri: gli avversarî risposero con bombardamenti aerei. Clémenceau era deciso a lottare anche nel caso in cui Parigi andasse perduta. Il Comando supremo francese da Compiègne dovette affrettatamente portarsi a Provins dietro la Marna. Le popolazioni fuggivano dinnanzi all'invasione. In tale situazione il 26 a Doullens fu deciso di affidare a Foch l'incarico di "coordinare l'azione delle armate alleate alla fronte occidentale". Foch ordinò subito di difendere Amiens a ogni costo e di conservare uno stretto collegamento fra i diversi tratti di fronte. I resti della 5ª armata britannica dovevano resistere sul posto in attesa di rinforzi francesi. Il 27 i Tedeschi s'impadronirono di Montdidier, a 50 km. dalle loro linee di partenza; mentre a nord la linea d'attacco si andava restringendo per la difesa ostinata della 3ª armata britannica; il 29 gli attacchi tedeschi languivano sull'intera fronte, ostacolati com'erano nei rifornimenti dal terreno rotto dai molti bombardamenti, trattandosi della regione dove si era combattuta la battaglia della Somma. Nel campo della difesa stava giungendo il gruppo d'armate Fayolle, incaricato di estendere la fronte per ristabilire saldo contatto con gl'Inglesi. Questi erano stati rinforzati da 75 mila complementi inviati dall'Inghilterra. La 5ª armata inglese si ricostituiva sotto un nuovo comandante. Il generale americano Pershing aveva offerto d'impiegare subito le divisioni americane già istruite. La progressione germanica era stata rapida finché era mancata una resistenza ordinata, ma appena questa fu costituita ogni progresso tedesco diventava estremamente difficile. Un'ultima puntata effettuata il 4 aprile tra Villers-Bretonneux e Montdidier fu arrestata il giorno 5 da contrattacchi. In conclusione i Tedeschi, che pur avevano avuto gravi perdite, non avevano raggiunto lo scopo della loro offensiva, e si erano messi in condizioni precarie di fronte a una controffensiva.

Il 3 aprile a Beauvais venne precisato che il generale Foch aveva "la direzione strategica delle operazioni alla fronte occidentale". E il 14 fu nominato comandante supremo degli eserciti alleati in Francia. A Pétain, Haig e Pershing era riservata la piena direzione tattica nonché il diritto di appello al governo nel caso in cui ritenessero che gli ordini di Foch mettessero il proprio esercito in pericolo. Il 2 maggio venne affidata a Foch la facoltà di coordinare le operazioni alla fronte italiana: ne avrebbe assunto il comando qualora vi avessero dovuto operare nuove armate di altre nazioni, come avveniva in Francia. Il Belgio non acconsentì a un accordo formale, ma accettò in pratica il comando di Foch.

Seconda offensiva tedesca. - Foch attendeva un'offensiva violenta a nord della Somma e ordinò di rafforzare tale tratto e di prepararsi a prendere l'offensiva a sud del fiume e nella zona di Amiens per liberare tale nodo ferroviario dalla pressione tedesca: l'attacco doveva aver luogo il 12 aprile, ma fu prevenuto dai Tedeschi, i quali il 9 con la 6ª armata attaccarono con 9 divisioni il tratto tra Givenchy e Armentières occupato da 3 divisioni inglesi e una portoghese. L'attacco raggiunse la linea della Lys: l'indomani altre 5 divisioni tedesche entrarono in linea verso nord occupando Armentières e Messines; l'attacco si estese sempre più verso nord e il 14 vi erano in campo 25 divisioni tedesche, avanzate per una profondità di circa 18 chilometri nelle linee inglesi: il 15 l'attacco si estese ancor più a nord portandosi a contatto del monte Kemmel. Haig propose di ripiegare sino alla zona di Saint-Omer proteggendosi con inondazioni: il porto di Dunkerque avrebbe dovuto essere distrutto. Foch indusse gli Alleati a resistere sul posto e oltre alle riserve inglesi e belghe fece affluire 5 divisioni francesi più 3 di cavalleria: attacchi tedeschi tra il 17 e il 20 furono arrestati con perdite gravi d'ambo le parti. Il 25 i Tedeschi attaccarono nella zona di Ypres e l'Alpenkorps bavarese occupò il Kemmel, piccola altura a 40 chilometri da Dunkerque, dominante la piana sino a questa città; un ulteriore ripiegamento avrebbe consentito ai Tedeschi d'installare sul Kemmel artiglierie di lunga portata; agl'Inglesi rimanevano come riserva due divisioni in via di ricostruzione e una di ritorno dall'Italia, ma ormai erano giunte le divisioni francesi e un'offensiva tedesca il 29 contro i monti di Fiandra (alture di M. Rosso, M. Nero, M. Scherpenberg) fallì. L'offensiva non era riuscita a gettare a mare gl'Inglesi, sebbene vi si fossero impiegate 52 divisioni, ma li aveva profondamente logorati. Secondo dati riferiti dal Foch, i soli Inglesi avevano perduto circa 300 mila uomini, dei quali 25 mila circa prigionieri. In complesso nelle due battaglie gli Alleati avevano perduto 180.000 prigionieri e 1600 cannoni. Alcune divisioni inglesi dovettero essere sciolte, ma furono in seguito quasi tutte ricostituite. Inoltre quasi metà dell'esercito francese era a nord dell'Oise (23 divisioni in linea, 24 in riserva), mentre tra l'Oise e la Svizzera stavano soltanto 43 divisioni in linea e 12 in riserva. Situazione alquanto grave, quantunque vi fossero già disponibili 4 grosse divisioni americane complete (delle quali una andò m linea il 26 aprile) e si potesse anche contare sulla fanteria di altre divisioni americane. Ma non meno grave era la situazione dei Tedeschi, che difettavano ormai di complementi per colmare i vuoti.

La terza offensiva tedesca. - Per poter ricostituire le divisioni destinate all'offensiva, il comando tedesco dovette concedere una sosta alle operazioni, durata quasi tutto maggio. Ludendorff era deciso ad attaccare nuovamente nelle Fiandre, ma per avere la massima probabilità di successo decise di far precedere una puntata verso Parigi partendo dalla fronte dell'Aisne, affidandola alla 7ª armata assecondata dalla destra della 1ª. Foch giudicava che il nemico disponesse di una riserva di 76-80 divisioni e riteneva probabile un'offensiva tra Amiens e il mare, tanto più che intense ricognizioni aeree sulla fronte dell'Aisne nulla avevano rilevato dei preparativi tedeschi, ai quali avevano fatto cenno rivelazioni di prigionieri. Il 26 maggio altri prigionieri precisarono che l'attacco sarebbe avvenuto il mattino seguente. All'una del 27 un violento bombardamento da parte di 1158 batterie tedesche (4600 pezzi circa) con largo uso di proiettili tossici fu diretto tanto contro le prime linee avversarie quanto contro quelle arretrate: alle 3,40 la fanteria, preceduta dal "barrage roulant", sostenuta in alcuni punti da tanks, mosse all'attacco. La 7ª armata aveva 17 divisioni in prima linea, 5 in seconda. La 1ª armata agiva con 3 divisioni in prima linea, una in seconda. Il Comando supremo aveva 7 divisioni in riserva. Più tardi partecipò all'azione anche la sinistra della 18ª armata. La fronte era difesa da 10 divisioni delle quali soltanto sette in prima linea, con una fronte media di otto chilometri. Quattro delle divisioni erano inglesi, non ancora completate, mandate per rifarsi in quel settore tranquillo.

La sorpresa assicurò la facile riuscita dell'attacco: due divisioni al centro furono sommerse; il comandante la 6ª armata francese mandò in aiuto una divisione che guarniva la linea retrostante dell'Aisne, la quale rimase indifesa. Il 27 stesso la formidabile posizione dello Chemin-des-Dames era nelle mani dei Tedeschi i quali nel pomeriggio, inseguendo, passarono l'Aisne sui ponti intatti; 15 mila prigionieri erano stati catturati in quella prima giornata, nella quale era stato interamente raggiunto l'obiettivo dell'offensiva. Il 28 i Tedeschi, pur non avendo di fronte e al centro nemico organizzato, si limitarono a passare la Vesle e ad allargare la breccia sui fianchi. Verso sera però il Comando supremo, visto il successo, ordinò di procedere risolutamente nell'offensiva verso ovest e verso sud per occupare Soissons, tagliare la ferrovia Nancy-Parigi e minacciare Parigi, costituendo una testa di ponte oltre la Marna. Anche questi obiettivi vennero rapidamente raggiunti verso sud e il 30 sera i Tedeschi erano alla Marna.

In quattro giorni l'offensiva aveva progredito di 55 km. e i difensori avevano lasciato nelle mani dei nemici 55.000 prigionieri, quasi 700 cannoni, 2000 mitragliatrici, grandi depositi di materiali. Dal 21 marzo i Tedeschi avevano catturato 200 mila uomini, 2500 pezzi. Due divisioni americane mandate a difendere la linea della Marna, riuscirono ad arrestare i Tedeschi e a dare un po' di sollievo morale alle truppe francesi che si ritiravano nel massimo disordine; ma alle ali invece la resistenza era stata efficace, specialmente a Reims, perché si erano opportunamente impiegate le riserve a restringere la falla. Il 31 maggio e il 10 giugno i Tedeschi, rinforzati da divisioni tolte dalla riserva preparata per l'operazione delle Fiandre, attaccarono ancora riuscendo a far retrocedere notevolmente i Francesi sino a Villers-Cotterêts. Fu questo il momento di maggiore crisi: Pétain e Foch concentrarono tutte le forze disponibili per sbarrare la strada di Parigi, tanto che il generale Castelnau, comandante il gruppo d'armata dell'est, rimasto senza riserve, dichiarò che in caso di grande attacco tedesco avrebbe dovuto ripiegare rapidamente con le divisioni non attaccate. Pétain chiese in rinforzo anche le riserve inglesi e americane, ma Foch ottenne anzitutto che le truppe contendessero palmo a palmo il terreno, e ciò consentì di arginare il 3 giugno, con l'arrivo dei soli rinforzi francesi, l'avanzata tedesca fra Oise e Marna.

Ludendorff decise allora di attaccare nella zona di Noyon a ovest dell'Oise, dove un'avanzata tedesca avrebbe preso di rovescio le posizioni avversarie a est del fiume. L'attacco fu effettuato con 13 divisioni sostenute da 616 batterie su 34 km. di fronte, forze che si dimostrarono insufficienti. I Francesi avevano qui pronte 7 divisioni in prima linea e 12 in seconda e terza: il maresciallo Haig era stato intanto pregato di preparare il trasporto di tutte le sue riserve generali e parziali. Haig, credendo che lo si volesse privare del comando di una parte delle truppe inglesi, si appellò al suo governo, ma una conferenza a Parigi chiarl che si trattava solo di una precauzione e che Foch era deciso a sbarrare tanto la marcia su Parigi quanto quella verso la Manica. Il giorno 9 l'attacco tedesco ebbe sulla destra un rilevante successo malgrado l'intervento di 6 divisioni francesi; un'altra breccia era stata aperta, profonda 12 km.; ma il giorno 10 l'attacco fu contenuto; il giorno 11 un contrattacco del generale Mangin riuscì a guadagnare terreno facendo un migliaio di prigionieri tedesch;. Il 13 le operazioni furono in questo settore sospese darle due parti. Questa offensiva, sebbene d'importanza limitata, aveva dimostrato che da parte francese si era finalmente imparato a contenere le irruzioni. I grandi risultati delle tre prime offensive si dovevano in primo luogo alla sorpresa ottenuta con una potente ma rapida preparazione di artiglieria attuata secondo il metodo di un eminente artigliere, il colonnello Bruchmüller, il quale era riuscito a ridurre al minimo i tiri preventivi di aggiustamento che mettevano l'avversario sull'avviso. A questo si aggiungevano le precauzioni per celare la raccolta delle truppe d'attacco. Inoltre, e questo è il punto essenziale, mentre i Franco-Inglesi, seguendo la massima posta in onore dal Pétain, seguivano il sistema "l'artiglieria conquista, la fanteria occupa", ciò che limitava l'avanzata della fanteria al raggio di azione delle batterie, invece la fanteria tedesca, una volta che i pezzi avevano aperto la strada, continuava nell'avanzata finché una resistenza ordinata non l'arrestasse. A frenare queste irruzioni di fronte all'offensiva, prevista, del 9 giugno, i Francesi non avevano tenuto molte truppe sulla prima posizione, per conservare numerose riserve che avevano subito arrestati i Tedeschi ed erano poi passate al contrattacco. Era poi evidente che, riducendo al minimo (dove si poteva cedere terreno senza danno) le forze tenute sulla prima linea, i risultati ottenuti dalle offensive erano destinati ad essere assai scarsi, perché l'azione dell'artiglieria sarebbe caduta pressoché nel vuoto e dopo una facile, ma limitata avanzata, i Tedeschi si sarebbero trovati senza il sostegno delle proprie artiglierie davanti alle linee avversarie quasi intatte.

Ma un'altra conseguenza aveva avuto l'offensiva di maggio: essa era riuscita a richiamare al sud le riserve francesi e le aveva agglomerate a contatto delle nuove estese posizioni tedesche organizzate in modo speditivo, vere ernie sporgenti, che si prestavano a essere attaccate sui fianchi. Le truppe tedesche, in sostanza, si erano messe in condizione pericolosa per il caso in cui l'avversario potesse passare all'offensiva, eventualità con la quale, dato un capo come Foch e il continuo arrivo di truppe americane, bisognava ben contare. Le nuove linee importavano una maggior estensione di 50 km., ciò che impegnava numerose truppe per l'occupazione. Questo era vero per entrambe le parti ed era un grande vantaggio per quello dei due avversarî che poteva agire offensivamente: ma per i Tedeschi questa eventualità cominciava a presentare difficoltà gravi. Anche dopo la partenza delle riserve francesi, la fronte inglese, di appena 150 km., era guarnita da una cinquantina di divisioni, ciò che consentiva agl'Inglesi di tenere rilevanti riserve che, per la ristrettezza della fronte, potevano rapidamente giungere in tempo in qualsiasi punto minacciato. Il Comando supremo tedesco decise quindi di rinunciare per il momento all'offensiva nelle Fiandre e scelse il settore di Reims per una nuova offensiva, che però non poté essere iniziata che il 15 luglio. Così agli avversarî fu lasciato oltre un mese per rifarsi dal colpo ricevuto, tempo che fu opportunamente sfruttato. Due avvenimenti di capitale importanza intervennero a modificare la situazione delle forze opposte: la vittoria italiana del Piave e l'azione delle forze americane.

Sul Piave l'esercito austriaco, che aveva attaccato sicuro della vittoria, era stato completamente sconfitto e tutti compresero che dall'Austria nulla vi era più da sperare per la guerra nello scacchiere occidentale. Quale fosse il contraccolpo morale sull'animo dei combattenti è facile intendere. L'altro avvenimento che si rese palese verso la metà del 1918 fu l'intervento effettivo dell'esercito americano. Alla fine di giugno 900 mila Americani erano già sbarcati in Francia, e quantunque i siluramenti mensili di navi mercantili si aggirassero intorno alle 600 mila tonnellate lorde, l'Intesa disponeva di piroscafi in quantità sufficiente per trasportare 300 mila Americani al mese. Queste truppe giungevano non perfettamente istruite e soprattutto non organizzate in grandi unità: quindi all'inizio dell'offensiva di primavera gli Alleati non avevano potuto far conto che su una sola divisione. Per questo essi avevano insistentemente chiesto che gli Americani fossero impiegati come complementi nelle unità alleate che difettavano di uomini. Per venire in qualche modo immediatamente in aiuto agli Alleati il generale Pershing acconsentì, ma a condizione che, appena idonee a essere raggruppate, le truppe americane fossero organizzate in divisioni, corpi d'armata e armate autonome. Il sentimento nazionale era vivissimo negli Americani; i Francesi avevano in più d'un caso urtato vivamente la suscettibilità americana; d'altra parte, presso gl'Inglesi come presso i Francesi, le truppe americane venivano istruite solo nella guerra metodica di trincea, ciò che, secondo il Pershing, faceva più male che bene, perché ritardava l'addestramento alla guerra in campo aperto con lo sfruttamento massimo del fucile, cioè del fante. Si aggiunga che l'impiego di divisioni americane agli ordini di comandanti francesi aveva lasciato negli ufficiali americani l'impressione che qualche comandante francese (Degoutte, 6ª armata) avesse sacrificato inutilmente numerose truppe degli Stati Uniti. Quindi Pershing seppe energicamente opporsi ai tentativi che Foch fece anche alla fine di agosto per impedire, o per lo meno ritardare seriamente, la formazione d'un esercito americano autonomo. Il Pershing sentiva che gli Americani anelavano di battersi sotto la propria bandiera, e, se accordò agli Alleati unità americane quando erano indispensabili, riusci a costituire, tra mille difficoltà, un esercito nazionale avente fisionomia propria, caratterizzata dallo slancio di una truppa giovane, accuratamente addestrata alla lotta fuori della trincea, cioè all'offensiva in campo aperto.

Alla fine di giugno vi erano in Francia 27 divisioni americane, delle quali almeno sei erano subito disponibili per le operazioni: in principio d'agosto 14 erano già in linea scaglionate da Ypres al confine svizzero; altre 7 si trovavano a non grande distanza dalle linee e 11 all'istruzione in varie località della Francia. Ogni divisione americana contava quattro grossi reggimenti di fanteria, tre di artiglieria e numerose truppe sussidiarie, con un totale di 28 mila uomini. L'entrata in campo delle truppe americane aveva anzitutto un altissimo valore morale per gli Alleati e doveva portare profonda depressione nei Tedeschi, i quali constatavano che la facilità con la quale il Comando supremo aveva accettato la guerra con l'America aveva portato ben tristi conseguenze. Ma anche dal lato materiale l'entrata in campo degli Americani aveva un'importanza capitale in rapporto con la diminuzione degli effettivi tedeschi. Da marzo alla fine di settembre l'esercito tedesco da 3.600.000 uomini si ridusse a meno di 2.600.000: e ciò quantunque altre 24 divisioni fossero state portate in Francia dalla fronte orientale.

La seconda battaglia della Marna. - Il Comando supremo tedesco sentiva che, malgrado le strepitose vittorie ottenute, le forze morali e materiali dell'esercito diminuivano mentre gli Americani aumentavano. Ma le truppe avevano bisogno di un po' di riposo e l'azione fu fissata per il 10 luglio. Fu scelta la zona di Reims perché si riteneva che le riserve francesi fossero lontane, sull'Oise. Si sperava, portando avanti la linea nella zona di Reims, eliminare il pericoloso saliente che essa formava a sud-ovest di tale città. Tra le due soluzioni, sgombrare il saliente verso la Marna o allargarlo, Ludendorff scelse quest'ultima. Successivamente si sarebbe provveduto a regolarizzare il saliente al lato opposto verso Villers-Cotterets. Si sperava, iniziando l'operazione il 10 luglio, che per il 20 potesse effettuarsi il sempre divisato attacco nelle Fiandre: ma i preparativi poterono essere terminati soltanto per il 15 luglio. La fronte d'attacco era di 120 chilometri, dei quali però una ventina al centro, intorno a Reims, non venivano attaccati. La 7ª armata che agiva a ovest di Reims doveva passare la Marna e puntare su Èpernay, mentre a est di Reims la 1ª e la 3ª armata dovevano puntare verso la fronte Epernay-Châlons. Cosi Reims sarebbe caduta per manovra. Attaccavano 47 divisioni con 2010 batterie: la densità, sia delle truppe sia delle artiglierie, era inferiore a quella delle offensive precedenti. Nella notte sul 15 le duemila batterie tedesche aprirono improvvisamente il fuoco. Alla 7ª armata nella zona di Dormans-Châtillon riusci di gettare i ponti sulla Marna e passare il fiume: ma le partiglierie avversarie rimasero attive perché i Francesi si erano scaglionati in profondità. A occidente di Reims la prima linea fu presa, ma una resistenza accanita contrastò ogni altro progresso.

Si segnalò in questa azione il II corpo d'armata italiano (Albricci) che tenne fermo malgrado notevoli perdite. Ma una delusione completa attendeva i Tedeschi a est di Reims: i Francesi avevano quasi abbandonato la prima linea per guarnire la seconda posizione che era fuori dell'azione della massa delle artiglierie tedesche. Inoltre il comando francese, avvertito da prigionieri dell'ora dell'attacco, fece aprire il fuoco di contropreparazione prima che l'attaccante iniziasse il bombardamento: i Tedeschi ebbero gravi perdite e la loro avanzata fu arrestata davanti la seconda posizione. Il bottino (in totale 14.000 prigionieri e 50 pezzi) era piccolo in confronto delle speranze. La delusione era completa: l'offensiva dell'ala sinistra (3ª armata) fu senz'altro troncata. Il giorno 15 la 7ª e la 1ª armata cercarono invano di attanagliare Reims; il 17 l'offensiva era ovunque arrestata e la situazione della 7a armata, oltre la Marna, era critîca, dato il continuo bombardamento e il contegno aggressivo dell'avversario in quel settore, dove erano entrate in linea tre divisioni americane. Ludendorff il giorno 16 aveva deciso di arrestare l'operazione per passare all'offensiva nelle Fiandre. La 7ª armata doveva ripassare la Marna il 20. Rimaneva il saliente, aggravato dallo scacco morale e dalla presenza di un nuovo nemico aggressivo.

Le cause dell'insuccesso vanno ricercate anzitutto nella mancanza della sorpresa. Si parla di notizie date il giorno 14 da prigionieri tedeschi: ciò era avvenuto anche nelle offensive precedenti. Non è in un giorno che si può cambiare assetto a una fronte difensiva, spostare artiglierie e munizioni. La sorpresa è mancata perché i Tedeschi hanno continuato nell'identico metodo delle offensive precedenti, mentre i Francesi, ammaestrati dalle dure esperienze, erano già corsi ai ripari. Un'opportuna attività sulla fronte aveva permesso ai Francesi di catturare prigionieri e di essere continuamente al corrente delle intenzioni del nemico; l'esplorazione aerea non aveva più dato risultati negativi come in precedenza. Foch aveva così potuto rinforzare in tempo la fronte minacciata, servendosi anche delle divisioni americane. Pétain aveva insistito perché fosse attuato lo scaglionamento in profondità. Ma un'altra cagione sta nel fatto che Ludendorff, avendo sempre di mira l'attacco nelle Fiandre, non concentrò nella zona di Reims forze sufficienti a garantire una netta superiorità. Dietro le due armate 4ª e 5ª non rimanevano la sera del 15 in riserva al Pétain che 2 divisioni. L'importanza dell'attacco stava nella necessità di uscire da una posizione precaria, ma per questo si sarebbe dovuto dedicargli tutte le forze disponibili.

Contrattacco degli Alleati. - Foch intanto, vista assicurata la fronte anche dall'arrivo di qualche divisione inglese, decise di attuare al più presto l'offensiva che da tempo andava preparando fra Aisne e Marna. Il generale Mangin, con la 10ª armata composta di 18 divisioni (tra le quali 2 americane), con 471 batterie, 376 tanks, 35 squadriglie di aeroplani, doveva attaccare il tratto tra Ourcq e Aisne, lungo ventiquattro chilometri, dove la resistenza delle linee e delle truppe tedesche, a giudicare dalle operazioni precedenti, pareva debole. Sulla sua destra la 6ª armata (Degoutte) doveva prolungare l'attacco. Il 18 luglio alle 4,36 le batterie della 10ª armata aprivano il fuoco e subito la fanteria, preceduta da tanks e da aeroplani, avanzava. La 6ª armata si avvicinò agli avamposti tedeschi e, dopo aver bombardato per un'ora e mezzo la linea di resistenza, riprese l'avanzata. La sorpresa fu completa: l'attaccante giunse sino presso Soissons, in modo da minacciare la ferrovia: le due armate, 6ª e 10ª, catturarono 10 mila prigionieri e centinaia di cannoni. Notevole parte del successo fu degli Americani. Secondo un ordine del giorno del Mangin le due solide divisioni americane, 1ª e 2ª, della decima armata, avrebbero catturato 7200 Tedeschi, avanzando per una decina di chilometri con gravi perdite: 5000 uomini per la 2ª e 7200 per la 1ª divisione. L'attacco della 6ª e 10ª armata riprese il giorno 25, mentre le truppe più a ovest incalzavano l'avversario in ritirata, che resisteva accanitamente per salvare il più possibile del materiale sistemato dietro le posizioni. Il 29, 30 e 31 luglio i Tedeschi resistettero sulla linea Soissons-Fère-en-Tardenois e il 2 agosto ripiegarono dietro la vesle. Anche questa battaglia, come nel giugno quella del Piave, incominciata su troppo ampia fronte - in relazione ai mezzi impiegati - era finita con danno dell'attaccante: 30 mila prigionieri, 600 cannoni, 3000 mitragliatrici erano rimasti nelle mani degli Alleati. Alla battaglia difensiva fra Soissons e Reims dal 18 al 25 luglio avevano partecipato la 1ª, la 7ª e la 9ª armata con un complesso di 83 divisioni; era dunque sconfitta quasi la metà delle forze tedesche disponibili in Francia. Come il prestigio austriaco sul Piave, così sull'Ourcq e sulla Vesle il prestigio tedesco era svanito, e, bene ricorda il Foch, per un insieme di condizioni favorevoli, con le divisioni francesi avevano cooperato divisioni americane, inglesi e italiane. Il comando tedesco sospese l'offensiva nelle Fiandre, per cui il gruppo di armate del principe Rupprecht di Baviera aveva pronte 32 divisioni riposate, altre 15 avrebbero dovuto essere inviate dalle armate che partecipavano all'offensiva su Reims: e già il giorno 16 erano stati impartiti gli ordini per il trasporto, ma la controffensiva nemica aveva arrestato l'esecuzione dell'ordine. I Tedeschi erano ridotti alla difensiva. Il 7 agosto Foch fu nominato maresciallo di Francia.

L'offensiva degli Alleati. - Il maresciallo Foch aveva chiaramente compreso le condizioni dei Tedeschi costretti a tenere due eserciti, uno di divisioni destinate a tenere le posizioni, prive di rifornimento di uomini, e un altro d'assalto al quale amuivano le riserve disponibili, già assai intaccate. La superiorità per riserve e per materiali, artiglierie, aviazione, tanks era passata agli Anglo-Franco-Americani, i quali avevano l'afflusso di altre forze americane, mentre Foch sapeva quale grave crisi di effettivi attraversasse l'esercito tedesco. Basta ricordare che erano ormai disponibili 30 divisioni americane (pari per numero a una sessantina di divisioni alleate), addestrate dal Pershing alla guerra offensiva fuori delle trincee che stava appunto ora per avere sviluppo con il ripiegamento dell'avversario. Foch inoltre sapeva valutare la superiorità morale acquistata ormai dagli eserciti ai suoi ordini. Restava ai Tedeschi la superiorità d'istruzione e la saldezza tradizionale dei reparti, sebbene anche questa fosse scossa dall'incorporamento di elementi sfiduciati. Anche le reclute dell'ultima classe vissuta durante quattro anni in paese tra le privazioni e le invocazioni alla pace, dimostravano scarso spirito militare e disertavano a frotte.

A ogni modo Foch non si prefisse al principio scopi definitivi; egli sapeva che gl'Inglesi erano stanchi, i Francesi logorati, e riteneva che grandi sforzi sarebbero occorsi per terminare la guerra nel 1919, con il concorso previsto di 100 divisioni dell'esercito americano. Come obiettivi immediati delle operazioni egli si propose: 1. di liberare le più importanti ferrovie con la conquista del saliente di Saint-Mihiel affidata agli Americani; 2. di respingere il nemico dalla regione mineraria del nord, ossia dalla zona di Dunkerque. Erano quindi due operazioni da attuare o contemporaneamente o a breve distanza di tempo, il risultato delle quali avrebbe potuto consigliare per la fine dell'estate un'offensiva più ampia. Questo programma parve troppo ardito ai tre comandanti in capo riuniti il 24 luglio a Bombon, quartiere generale di Foch. Haig e Pétain dissero che le loro truppe erano sfinite; Pershing osservò che l'esercito americano non era formato. Il giorno successivo però tutti e tre dichiararono attuabile il programma, ma Pétain espresse l'avviso che i due attacchi preliminari avrebbero esaurito le risorse francesi per l'anno in corso, 1918. Tutti e quattro i capi furono tuttavia d'accordo che occorreva intensificare gli sforzi, per terminare la guerra nel 1919.

Prima operazione fu un'offensiva per la liberazione della ferrovia Parigi-Amiens. Protetta a nord dalla Somma, quest'offensiva doveva essere portata avanti fra Somma e Avre in direzione di Roye. Fiduciose sino a poche settimane prima nei risultati dell'offensiva, le truppe tedesche non avevano curato a sufficienza il rafforzamento delle linee, e d'altra parte la delusione recente aveva scosso la fiducia nel Comando supremo, che era stata prima d'allora la base più sicura della superiorità morale tedesca. L'attacco alleato (4ª armata inglese - che contava anche una divisione americana -, 1ª armata francese) s'iniziò alle 4 dell'8 agosto con un intenso bombardamento che ridusse al silenzio le batterie nemiche. Gl'Inglesi, preceduti da tanks, si gettarono subito all'attacco; i Francesi avanzarono dopo un bombardamento di tre quarti d'ora: il nemico, interamente sorpreso, ripiegò senza svolgere una resistenza ordinata; gli Alleati penetrarono per una profondità di 10 chilometri catturando 13 mila prigionieri, 300 cannoni. Foch ordinò di seguitare l'avanzata rapida senza rimandare nelle retrovie nessuna divisione; il 9 e il 10 l'avanzata continuò e il 10 la 3ª armata francese assecondò sulla destra l'avanzata della 1ª. Solo il giorno 11 i Tedeschi avevano riunito riserve sufficienti e iniziarono un energico bombardamento contro le posizioni dei Franco-Inglesi, tanto che Haig e il comandante la 1ª armata francese convinsero il Foch a rinunciare a un attacco immediato, e a far invece aggirare la linea della Somma a nord mediante un attacco della 3ª armata inglese schierata sulla sinistra della 4ª. Foch fissò la ripresa dell'offensiva per il 20 agosto, estendendola a sud sino all'Aisne e a nord sino alla Scarpe. A sud la 10ª armata francese assecondata dalla 3ª ricacciò in tre giorni l'avversario dalla zona di Noyon: il 21 la 1ª armata inglese (gen. Horne) estese l'attacco nella zona a est di Arras; i Tedeschi dovettero ripiegare su una fronte di 120 chilometri finché il 3 settembre non furono giunti alla posizione detta di Hindenburg, cioè alla linea di partenza per l'offensiva del marzo. Così gli Alleati in 50 giorni di lotta avevano riconquistato il terreno che in marzo i Tedeschi avevano guadagnato in 8 giorni; ma i Tedeschi avevano rovesciato solo la 5ª armata inglese, mentre gli Alleati avevano ricacciato in continua lotta quattro armate tedesche: la 9ª, la 18ª, la 2ª e la 17ª, metà circa dell'esercito nemico. Nel primo caso dunque si trattava di un gigantesco colpo di mano contro una posizione male organizzata a difesa, della sorpresa contro un punto debole; l'avanzata del Foch era una vittoria sul grosso dell'esercito avversario. Ludendorff, di fronte a questa sconfitta, come spesso avviene, ne disse responsabili le truppe, anziché considerare quali sforzi queste avevano prestato e in quali condizioni fossero situate in seguito alle grandi, ma sterili offensive da lui ordinate. Egli comprese però la necessità di ripiegare su una linea più breve. Foch infatti temeva che i Tedeschi ripiegassero sulla linea Anversa-Bruxelles-Namur-Mosa-Chiers-Metz-Strasburgo, di estensione all'incirca pari alla metà della linea occupata dai Tedeschi prima della controffensiva alleata. Ma questo equivaleva a confessare la sconfitta e Ludendorff non ebbe l'animo di attuare ciò che la pura ragione militare avrebbe consigliato. Ordinò rettifiche parziali, abbandonò il Kemmel liberando la regione carbonifera posta a ovest, ma per il resto volle che si continuasse nella difesa, ostinata passo a passo. Ritardò a fare sgombrare il saliente di Saint-Mihiel, ciò che fornì l'occasione alla 1ª armata americana di ottenere (12-15 settembre) un brillante successo nella prima operazione autonoma compiuta dalle truppe degli Stati Uniti agli ordini del Pershing. Otto divisioni tedesche e una austriaca, che potevano essere sostenute da altre 5 in tre giorni, furono attaccate da 550 mila Americani e da 110 mila Francesi, in totale 15 grosse divisioni americane e 5 francesi, che disponevano di 260 tanks leggieri e di 1400 velivoli. L'attacco s'iniziò il 12 settembre dopo un bombardamento di 4 ore, eseguito da più di 3000 pezzi, e procedette con tale decisione contro le due basi del saliente, che il nemico in una giornata fu ricacciato dalla posizione, lasciando nelle mani degli Americani 13 mila prigionieri e 460 cannoni. L'azione era però costata agli Americani circa 7000 morti.

Il crollo bulgaro. - Nel complesso dell'offensiva svoltasi tra l'8 agosto e la prima decade di settembre Foch aveva ottenuto un grande successo: 150 mila prigionieri, 2 mila cannoni, 13 mila mitragliatrici erano cadute nelle mani degli Alleati. A questo si aggiunse il colpo di Saint Mihiel. Tutto ciò influi non solo sulla Germania, ma anche sui suoi alleati, i quali, mentre constatavano i grandi successi degli Alleati sul Piave e in Francia, erano a mezzo delle rispettive missioni militari al corrente delle stremate condizioni dell'esercito germanico. In Albania fin dalla metà di luglio le due divisioni italiane del XVI corpo d'armata (generale Ferrero) avevano iniziato un'energica offensiva, che strappava al nemico il massiccio della Malakastra e obbligava gli Austriaci a ritirarsi oltre il Semeni. Questa situazione doveva anzitutto influire sfavorevolmente sul morale sia dei Bulgari, sia dei Turchi. Le forze avverse in Macedonia erano distese su larga fronte e comprendevano 16 grosse divisioni bulgare a 6 reggimenti contro 29 alleate (6 serbe, 8 francesi, 4 inglesi, 1 italiana, con effettivi pari a quelli di un corpo d'armata, comandata dal gen. Mombelli, 10 greche). Caratteristica di questa fronte era una densità d'artiglieria di molto inferiore a quella delle fronti occidentali, perciò lo sfondamento offriva difficoltà assai minori. Il generale Franchet d'Esperey, comandante delle forze alleate, aveva sin dall'agosto iniziato i preparativi di un'offensiva che s'iniziò il 15 settembre e che in 3 giorni riusci a fare una breccia di 25 chilometri. La scarsezza di riserve e l'impossibilità di farle giungere in tempo a portata del tratto sfondato e soprattutto la stanchezza del popolo e del soldato bulgaro cambiarono la sconfitta in un disastro. Il 22 tutta la fronte da Monastir al Lago di Dojran ripiegava. Più a ovest la 11ª armata tedesca (composta essa pure essenzialmente di truppe bulgare) teneva ancora a nord di Monastir: ma gli Alleati con 2 divisioni francesi, la divisione italiana e una greca riuscirono a tagliarle la ritirata obbligandola il 29 settembre alla resa (80 mila uomini, circa 500 cannoni). Nello stesso giorno i plenipotenziarî bulgari accettavano le condizioni d'armistizio imposte dal Franchet d'Esperey, che equivalevano a una resa a discrezione. Gli Alleati avevano soprattutto ottenuto lo scopo d'isolare la Turchia, che un mese dopo era costretta a capitolare a sua volta (convenzione di Moũdros, 31 ottobre). Inoltre era aperta la via alla liberasione della Serbia, che fu effettuata dalle divisioni serbe. Le truppe italiane (che ebbero nell'intera campagna di Macedonia 2840 morti e 5353 feriti), staccatesi da Monastir, percorrevano attraverso una zona impervia e senza risorse circa 350 km. fino al Danubio. Gli Austro-Tedeschi ripiegarono distruggendo la ferrovia. Il 31 ottobre fu occupata Scutari, il 4 novembre Antivari dalle truppe italiane, che fin dal 7 avevano preso contatto in Elbasan con gli alleati. Dalla liberazione della Serbia non vi era però da sperare la possibilità di minacciare da sud gl'Imperi centrali. Sarebbe stato necessario riattare le interruzioni ferroviarie e aver mezzi per passare il Danubio, costruendo anche qui un ponte per ferrovia. Ciò era da escludere per un tempo assai lungo. Il crollo della Bulgaria non fu, come vorrebbe far credere Ludendorff, una delle cause della sconfitta tedesca; ne fu l'indice. I Bulgari cedettero, non avendo più fede nella vittoria germanica.

Le operazioni in Asia nel 1917-18 e la resa della Turchia. - Falliti i tentativi d'impadronirsi di Costantinopoli, le operazioni in Asia cessarono di avere lo scopo di risolvere la guerra con ristabilire una facile comunicazione con la Russia per fornirle i mezzi per un'azione decisiva: esse mirarono al Canale di Suez, all'occupazione di territorî ambiti dalle potenze interessate e ad abbassare il prestigio della Turchia, per impedire la sollevazione del mondo musulmano a suo favore.

Dopo la perdita di Kūt el-Amārah (6 aprile 1916) gl'Inglesi ripresero, dopo grandi preparativi, l'offensiva e riuscirono a occupare Baghdād (11 marzo 1917) e a collegarsi con i Russi; in seguito però al crollo della potenza militare russa i Turchi ripresero l'Armenia e, rinforzati da una divisione tedesca, tentarono nell'estate 1918 d'impadronirsi della Georgia: ma le truppe tedesche furono richiamate alla fine di settembre. I Turchi intanto erano avanzati fino a Baku sul Caspio, cacciandone gl'Inglesi (15 agosto 1918), i quali però occuparono gran parte della Persia.

Nel 1917 da parte turco-germanica s'iniziò un'offensiva verso il Canale di Suez; ma i mezzi e soprattutto le vie di comunicazione erano inadeguati e quindi i servizî delle truppe erano deficientissimi. Inoltre anche gl'Inglesi avevano preso l'offensiva dall'Egitto, sostenuti dalla flotta che assicurava le comunicazioni per mare, mentre per terra si procedeva alla costituzione di una ferrovia dietro le truppe. Nel marzo gl'Inglesi furono arrestati presso Gaza. Alla fine di settembre il comando della fronte turca fu affidato al Falkenhayn: un mese dopo gl'Inglesi, notevolmente rinforzati, ripresero l'offensiva sotto l'abile comando del generale Allenby, occupando Gaza (7 novembre), Giaffa e Gerusalemme (9 dicembre). Nel gennaio 1918 Falkenhayn fu sostituito dal generale Liman von Sanders, pure tedesco, il difensore dei Dardanelli. Nella primavera del 1918 le operazioni languirono perché parecchie divisioni furono richiamate in Francia. Ma alla metà di settembre Allenby, approfittando della demoralizzazione dell'avversario dovuta alla miseria e agli avvenimenti di Francia, fece crollare la fronte turca: il 30 settembre occupò Damasco, il 26 ottobre Aleppo, riuscendo a tagliare la ferrovia per Baghdād, isolando così la Mesopotamia dove ogni resistenza cessò. Il 3 novembre d'Inglesi entravano in Mossul. La Turchia, minacciata anche in Europa dalle truppe di Franchet d'Esperey, chiese e ottenne l'armistizio (31 ottobre) consentendo all'Intesa l'apertura dei Dardanelli e l'occupazione di Costantinopoli.

L'offensiva generale degli Alleati dal 26 settembre al 16 ottobre 1918. - I Tedeschi nella prima decade di settembre si erano sistemati sulla linea dove si erano ripiegati nel marzo 1917, cioè sulla fronte Cambrai-San Quintino-La Fère-Saint-Gobain. Foch decise di estendere l'attacco a tutta la fronte Cambrai-San Quintino-Mézières in modo da obbligare i Tedeschi a disseminare le loro riserve che sarebbero, quindi, state deboli ovunque e presto esaurite. Quindi egli stabilì: 1. per il 26 settembre attacco franco-americano (1ª armata americana, 1ª francese) fra Reims e la Mosa: agli Americani era affidato il compito di progredire fra l'Argonne e la Mosa puntando sul nodo ferroviario di Mézières per facilitare la caduta della fronte dell'Aisne; 2. per il 27 attacco della 1ª e 3ª armata inglese su Cambrai; 3. per il 28 attacco tra Mosa e Lys delle forze belghe, assecondate da forze inglesi e francesi poste agli ordini del re Alberto. 4. per il 29 attacco della 4ª armata e della 1ª armata francese su Busigny (30 km. a nord-est di S. Quintino). Questi gli attacchi ordinati dal Foch: Pétain ordinò inoltre l'intervento della 5ª armata (sulla sinistra della 4ª) e della 10ª (nella zona dello Chemin-des-Dames).

Foch ordinò d'incalzare senza posa, affidandosi allo spirito di decisione dei comandanti dei corpi d'armata e divisione, in modo da non lasciare ai Tedeschi tempo di ricostituirsi.

I Tedeschi avevano evacuato la prima linea, quindi il primo giorno la 1ª armata americana e la 4ª francese progredirono; ma successivamente i Tedeschi seppero contenere l'avversario, difendendo palmo a palmo il terreno e contrattaccando, per impedire che un successo avversario lungo la Mosa minacciasse tutta la linea tedesca a ovest di essa. Tuttavia le forze americane insistettero nell'offensiva riuscendo in 15 giorni a espugnare 3 linee di resistenza tedesche con un'avanzata da 20 a 30 km. sino alla linea Granpré-Romagne subendo gravi perdite che, congiunte all'infezione detta "spagnola" che infieriva fra le truppe, obbligò a ridurre le compagnie da 250 a 175 uomini. Secondo il Pershing il numero di divisioni tedesche opposte alla 1ª armata fu di 27 in linea più 17 in riserva. Sulla sinistra degli Americani la 4ª armata francese, con il valido aiuto della 0ª divisione americana, aveva pure progredito riuscendo a passare l'alta Aisne, catturando 18 mila prigionieri. L'8 ottobre l'attacco per ordine del Pétain si estese alla 5ª armata che forzò il passaggio della Suippes e alla 10ª (di cui faceva parte il II corpo italiano) che riuscì a forzare l'Ailette. I Tedeschi l'11 iniziariono la ritirata sulle linee "Hunding" e "Brünhild", cioè sulla linea La Fère-Lissone-Rethel-alta Aisne.

Le armate 1ª e 3ª britanniche respingevano i Tedeschi fin sotto Cambrai catturando il primo giorno (27 settembre) 10 mila prigionieri. Assecondate dalla 4a armata inglese e dalla 1ª francese forzarono la linea di Hunding obbligando i Tedeschi a ripassare (12 ottobre) la Seille e l'Oise.

L'armata belga, la 2ª armata inglese e 6ª armata francese attaccarono il 28 tra Dixmude e la Lys; il 29 furono occupate Dixmude, Passchendaele e Messines catturando 10 mila prigionieri. Difficoltà di rifornimento attraverso quella zona acquitrinosa arrestarono il 2 ottobre l'offensiva, ma essa era bastata per obbligare i Tedeschi ad arretrare la loro linea più a sud di fronte alla 6ª armata inglese, che poté così portarsi all'altezza delle altre. L'avanzata nelle Fiandre minacciava sul fianco l'intera linea tedesca, e una volta ripristinate le comunicazioni attraverso la zona devastata, qui poco profonda, l'avanzata si sarebbe svolta in una pianura atta alla operazioni, dove il nemico non aveva una vasta organizzazione difensiva. Perciò Foch invitò il gruppo d'armata delle Fiandre a riprendere al più presto l'offensiva, ciò che poté avvenire il 14 ottobre.

I grandi risultati ottenuti erano costati gravi sacrifici. Dal 1° luglio al 15 settembre l'esercito francese aveva perduto 280 mila uomini e i vuoti non avevano potuto essere colmati; l'esercito britannico ne aveva persi 175 mila, il II corpo italiano 13 mila e perfino l'esercito americano presentava un vuoto di 90 mila uomini, largamente compensato però da continui arrivi dall'America. Il consumo dei materiali era enorme. Il solo esercito francese consumava in media 280 mila proiettili da campagna il giorno. La crisi degli effettivi era aggravata dalla necessità d'impiegare centinaia di migliaia di uomini per riattare strade e ferrovie, per ripristinare il servizio ferroviario nei territorî riconquistati. Ma i Tedeschi si trovavano in ben più tristi condizioni. In ottobre parecchie divisioni avevano in tutto 1600 uomini di fanteria utilizzabili in linea: compagnie cioè di 50 uomini. Metà di essi erano addetti alle mitragliatrici; vi erano plotoni interi addetti ai collegamenti, ma nelle compagnie difettava l'uomo, il fuciliere, il che demoralizzava gli stessi mitraglieri. Il generale von Morgen, uno dei più energici comandanti di corpo d'armata tedeschi, propose di riunire due divisioni in una, ma il Comando supremo si limitò a sciogliere 27 divisioni, delle quali una ventina in Francia. Più grave era il crollo morale. Nell'esercito la tendenza a eclissarsi nei combattimenti aveva raggiunto proporzioni allarmanti. Lo stesso Comando supremo a fine settembre invitò insistentemente il governo a entrare subito in trattative di pace. Il governo e il nuovo cancelliere, principe Max del Baden, non avevano più fiducia in Ludendorff, ma lo conservavano al comando perché ritenevano che il suo allontanamento avrebbe prodotto le dimissioni di Hindenburg, idolo, ben a ragione, della nazione intera. Con l'acuirsi della situazione i partiti democratici avevano acquistato anche in Germania maggiore seguito e i capi di tali partiti erano proclivi a ritenere che una volta che il potere fosse nelle loro mani essi avrebbero potuto ottenere, rivolgendosi a Wilson, una pace fondata sulla giustizia. Questa fiducia in una pace facile e vantaggiosa contrapposta alle sofferenze dovute alla guerra contribuì ad accelerare in Germania il movimento in favore della pace.

Il 12 ottobre il governo tedesco aveva accettato la condizione preliminare messa da Wilzon, che per trattare di pace occorreva prima che le Potenze centrali sgombrassero i territorî occupati. In questa situazione così deprimente per i Tedeschi, s'iniziò il 14 ottobre una nuova avanzata degli Alleati. Il gruppo di armate delle Fiandre riconquistò dal 16 al 20 la regione a nord della Lys, comprese Ostenda e Zeebrugge, e il 26 raggiungeva alla destra la Schelda a nord di Tournai; dal 31 ottobre al 4 novembre obbligava i Tedeschi a ripiegare sulla destra della Schelda. Le armate inglesi presero l'offensiva in direzione di Wassigny e di Solesmes, giungendo il 27 sulla fronte Tournai-Valenciennes. I Tedeschi cedettero passo passo, sgombrando anche i tratti non attaccati, quindi vi furono a nord dell'Oise solo combattimenti di retroguardie; in molti tratti gl'Inglesi si fecero precedere dalla cavalleria. Accanita resistenza spiegarono invece i Tedeschi sulla fronte dell'Argonne-Mosa contro la 1ª armata americana, che già trovava nella scarsezza delle comunicazioni grande difficoltà ad avanzare: allarmato dagli scarsi progressi in questa zona, Clémenceau invitò Foch a proporre l'esonero del generale Pershing, invito che Foch non accolse, essendo in grado di apprezzare più del presidente le difficoltà incontrate dall'esercito americano, il quale, del resto, il 1° novembre riprendeva l'attacco costringendo in quattro giorni l'avversario a retrocedere fino all'altezza di Stenay. Sulla destra della Mosa truppe franco-americane avevano già dall'8 al 10 ottobre assecondato l'offensiva iniziata dal Pershing sulla sinistra del fiume. Il 20 ottobre Foch decise un attacco in Lorena che, partendo dalla fronte Nomény-Arrancourt, coprendosi verso Metz, puntasse su Saint-Avold-Saarbrücken (Sarrebruck). L'attacco doveva effettuarsi con 28 divisioni, più 3 di cavalleria, 600 carrri d'assalto. Fu affidato alla 10ª e 8ª armata rinforzate con divisioni americane, ricercate da tutti. Da questa offensiva, secondo gli autori francesi doveva nascere una catastrofe per l'esercito tedesco, "una nuova gigantesca Sedan". Più sereno, il Foch precisa che era da sperare da essa "una rapida conquista di qualche decina di chilometri, dopo di che l'avanzata sarebbe stata rallentata, come già avveniva per quelle delle altre armate, dalle devastazioni incontrate sul suo cammino". Tale infatti è la caratteristica delle ultime operazioni. I Tedeschi, né per effettivi, né per mezzi disponibili, erano in grado di resistere a lungo su una data posizione, contro un attacco sostenuto da artiglierie numerose, ma quando essi iniziavano il ripiegamento gli Alleati avanzavano prima in una zona devastata, e anche una volta usciti dal teatro della guerra di trincea, le loro comunicazioni dovevano sempre attraversare la zona stessa; inoltre l'avversario effettuava altre interruzioni anche fuori di essa: quindi i rifornimenti per gli Alleati erano difficili, ciò che rallentava le operazioni, mentre i Tedeschi avevano a tergo una zona dove le ferrovie funzionavano normalmente. Ma avvenimenti di capitale importanza avvenivano intanto nel campo politico: il 23 ottobre Wilson dichiarò alla Germania che, fino a quando gli Stati Uniti avessero dovuto trattare non con i "veri e legittimi rappresentanti del popolo tedesco", ma con gli attuali "dominatori militari", non si sarebbe potuto trattare di pace, ma di resa.

Il governo, prendendo a pretesto che Ludendorff aveva tentato di influire con un proclama all'esercito sulle trattative per la risposta all'America, lo fece esonerare dalla carica di primo quartiermastro. Ciò equivaleva a rinunciare all'ultima carta, alla difesa su una posizione arretrata che obbligasse l'Intesa a un prolungamento della guerra, perché gli eserciti inglese e francese erano stanchi - à bout de souffle, come disse Haig - e gli Americani avevano splendido materiale umano, ma reparti e comandi non ancora sufficientemente addestrati. Il Gröner, successore del Ludendorff, non si oppose con fermezza al dilagare del bolscevismo nell'esercito, consentendo che si costituissero i consigli dei soldati, i quali giunsero a sequestrare le automobili dei comandi e a obbligare anche gli ufficiali più elevati a vivere dello stesso vitto della truppa. Il 4 novembre il Comando supremo ordinò il ripiegamento sulla linea Anversa-Mosa. Il movimento non poteva essere efficacemente disturbato; il 5, quando l'Austria era già stata messa fuori causa dall'Italia e alla Germania si presentava così la probabilità di un nuovo attacco da sud, giunse la nota di Wilson che ammetteva le trattative per l'armistizio. L'imperatore il giorno 9, saputo che l'esercito non gli era più fedele e che la sua presenza avrebbe significato la guerra civile, si rifugiò in Olanda. All'indomani il capo dei socialisti tedeschi assunse le funzioni di cancelliere. Il giorno 11 alle ore 6 fu firmato l'armistizio di Compiègne (v.) tra la Germania e gli Alleati e il 12 fu proclamata la repubblica tedesca. Le operazioni erano finite: solo la permanenza di Hindenburg al comando valse a contenere l'indisciplina.

Guerra aerea. - Anno 1914. - Nata, si può dire, con la guerra mondiale, l'aeronautica si trovò, specialmente nei primi tempi del conflitto, in condizioni precarie dovute alla scarsezza dei mezzi e alla poca fiducia che i comandi stessi riponevano nell'arma aerea. Pure in queste condizioni essa seppe crearsi la sua ragion d'essere come strumento bellico.

Le forze aeree delle quali disponevano gli eserciti belligeranti, all'inizio delle ostilità (agosto 1914), erano le seguenti: Francia: 23 squadriglie di aeroplani (5-6 aeroplani per squadriglia), 5 dirigibili, 4 compagnie di aerostieri. Inghilterra: 7 squadriglie di aeroplani (12 apparecchi per squadriglia), 30 idrovolanti, una squadriglia di dirigibili. Russia: 248 aeroplani, 250 piloti, 9 scuole militari di pilotaggio aereo, una scuola di osservazione aerea. Serbia: 5 aeroplani, 1 aerostato. Germania: 276 aeroplani su 34 squadriglie, 9 idrovolanti, 12 dirigibili, 24 sezioni aerostatiche, 36 cannoni antiaerei, 260 piloti, 280 osservatori. Austria-Ungheria: 150 aeroplani, 3 dirigibili, 200 piloti.

All'inizio delle ostilità le squadriglie tedesche e austro-ungariche erano assegnate ai comandi di truppa per il servizio di ricognizione, ma i comandi, che non avevano fiducia nell'osservazione degli aerei, lasciarono che gli aviatori agissero singolarmente e d'iniziativa.

Anche l'aviazione francese apparve nel periodo iniziale della guerra come fine a sé stessa, e non fu perciò che raramente coordinata e subordinata all'azione dell'esercito; eppure gli aviatori-francesi, nelle giornate del 2 e 3 settembre del 1914, avvistarono e segnalarono i mutamenti degli ordini di marcia delle armate tedesche puntanti su Parigi, per cui fu possibile al Comando supremo francese di concepire e di attuare la manovra della Marna. Nella ritirata tedesca che ne seguì, l'aviazione germanica constatò e segnalò l'azione nemica frontale e il doppio avvolgimento contro il IV corpo d'armata di riserva e quindi il grande movimento controffensivo anglo-francese. Sul fronte orientale e nella battaglia di Tannenberg gli aeroplani e i dirigibili tedeschi contribuirono assai efficacemente alla vittoria contro i Russi, avendo segnalato in tempo i movimenti delle truppe avversarie. L'aviazione russa non poté funzionare: gli aviatori russi erano fatti segno alla fucileria delle loro stesse truppe, convinte che solo i Tedeschi adoperassero gli aeroplani.

Anno 1915. - I risultati ottenuti dagli aviatori nel primo periodo cominciavano a ottenere, ogni giorno più, la fiducia dei capi. Il servizio di ricognizione aerea (esplorazione e servizio d'artiglieria), resosi ormai indispensabile, funzionava perfettamente su tutte le fronti, e sullo scacchiere occidentale si affacciava l'impiego offensivo a mezzo di bombardamenti dall'alto. Londra, Parigi e i centri militari di Ostenda e Zeebrugge furono bombardati. Ormai per difendersi era necessario opporre aeroplano ad aeroplano, e fu precisamente in questa contrappozione di macchina a macchina fra l'Intesa e gl'imperi centrali che l'offensiva aerea, pur non risultando ancora metodica, andò poi a mano a mano assumendo due aspetti essenziali e differenti: da un lato mirava a disarticolare il servizio dei rifornimenti avversarî, bombardando nelle retrovie le caserme, gli accampamenti, i nodi ferroviarî, i gasometri e le centrali elettriche; dall'altro lato s'imponeva al nemico con azioni di rappresaglia. I dirigibili e gli stormi di aeroplani (50-60 apparecchi) andavano a colpire anche a distanze di 150-200 km. importanti città nell'interno del territorio nemico. Gli Zeppelin, intanto, fin dal settembre del 1915 avevano già per ben 17 volte portato l'attacco su Londra.

L'aeronautica non compiva più un'azione isolata o comunque frammentaria, ma cominciava ad avere una parte importante nell'economia generale della guerra. Presto comparve il grande aeroplano da bombardamento tedesco, il "Gotha", ed ecco sorgere anche l'aeroplano da difesa e da offesa, il velivolo da caccia: il "Nieuport" in Francia e il "Fokker" (E) in Germania, che si trovarono di fronte nella prima battaglia di Verdun. Dapprima fu caccia isolata, poi fu azione di pattuglia e quindi di squadriglia. Sorsero i primi gruppi d'azione da combattimento e le prime regole per la tattica e l'organizzazione della caccia stessa.

Anno 1916. - L'aviazione inglese si apprestò alla nuova lotta con i potenti apparecchi "De Haviland" e aumentò íl numero delle squadriglie portando l'organico da 12 apparecchi a 18; anche la Francia aumentò notevolmente le sue unità aviatorie. La Germania (l'aviazione austro-ungarica può essere considerata come incorporata in quella germanica fino al maggio del 1915) teneva fronte debolmente allo sviluppo aeronautico degli Alleati.

Nella battaglia della Somma si palesò un nuovo impiego degli aerei: l'attacco diretto contro le truppe; questo attacco fu effettuato a bassissima quota dai Franco-Inglesi, e fu per i Tedeschi una vera sorpresa; quasi giornalmente gli aeroplani franco-inglesi, volando a bassa quota, mitragliavano le fanterie nelle trincee e l'artiglieria negli appostamenti. Nella seconda fase della battaglia, la fanteria tedesca, nella preoccupazione di sottrarsi alla vista e all'azione degli aerei alleati, si mascherò in tal modo da rendersi invisibile anche ai proprî aviatori. Ciò portò come conseguenza che la direzione delle operazioni e l'artiglieria ignorassero per lunghe ore l'andamento delle prime linee.

Ben presto però le unità aviatorie germaniche, rafforzate dai monoposti da caccia ancora trattenuti nel settore di Verdun, vennero ad agire nel settore della Somma e riuscirono in certo qual modo a neutralizzare gli attacchi reiterati e sanguinosi degli aviatori alleati. Negli ultimi giorni d'agosto giunsero anche ai Tedeschi gli apparecchi dotati di motore di 240 HP e superiori per rapidità ascensionale a quelli degli avversarî, di modo che la Germania approntò per la terza azione della battaglia della Somma 23 squadriglie campali e d'artiglieria, 13 squadriglie di biposti da combattimento e 3 forti squadriglie da caccia. Così gli Alleati, che faticosamente avevano riconquistato il dominio dell'aria, già perduto una prima volta nell'autunno del 1915, si trovarono di nuovo nell'autunno del 1916 in condizioni d'inferiorità di fronte all'avversario. Questo fatto fu senza dubbio una delle maggiori cause per le quali la grande azione offensiva iniziata dagli Alleati il 10 luglio dovette esser chiusa dagli Alleati stessi con la tempestosa giornata del 18 novembre 1916.

Anno 1917. - Presso tutti gli eserciti belligeranti si diede nel 1917 grande impulso allo sviluppo dei mezzi aerei. La lunga esperienza delle battaglie di Verdun e della Somma aveva messo in luce il grande contributo che l'aviazione portava nelle operazioni della guerra terrestre. Ogni nazione si poneva pertanto la soluzione di due problemi: la superiorità sull'avversario in quantità e qualità di apparecchi; il perfezionamento dei metodi tattici d'impiego degli aerei nelle tre diverse specialità ormai definitivamente classificate: ricognizione, bombardamento, caccia.

All'inizio dell'aprile 1917 l'aviazione tedesca disponeva sul fronte occidentale di ben 96 squadriglie di aeroplani e di numerosi dirigibili. La Francia parimente curò molto lo sviluppo aeronautico e tutte le specialità procedettero alla riorganizzazione, specialmente la "caccia" con i nuovi apparecchi "Spad-Hispano" di grandissimo rendimento. Il nuovo ordinamento della "caccia" comprese 5 gruppi di squadriglie (4 squadriglie per gruppo e 15 apparecchi per squadriglia). L'Inghilterra aveva già inviato in Francia, fin dal marzo del 1917, 42 squadriglie di aeroplani con 18 apparecchi per squadriglia.

Durante le azioni delle battaglie di Arras e di Messines gli aviatori svilupparono una grande attività: basti ricordare che i soli Inglesi nella giornata del 6 aprile perdettero 44 apparecchi. In verità occorre però riconoscere che gli aviatori inglesi, sia per il loro numero, sia per la grande audacia, furono sempre gli avversarî più temibili dell'aviazione germanica, la quale davanti agli avvenuti raggruppamenti francesi e inglesi era stata anch'essa costretta a riunire in gruppi le proprie squadriglie da caccia, affidandone il comando all'eroico capitano von Richthofen che, dopo aver personalmente conseguito ben 80 vittorie aeree, cadde poi, colpito da mitragliatrice, il 21 aprile 1918.

Nei combattimenti delle Fiandre le azioni di mitragliamento a bassa quota, condotte da qualche isolato aeroplano di fanteria, portarono a una ulteriore estensione dell'arma aerea: la collaborazione con la fanteria nell'attacco alle trincee avversarie. Nel luglio del 1917, durante la controffensiva germanica lanciata nella Galizia orientale contro i Russi, l'aviazione tedesca attaccò il nemico a volo radente, ridusse al silenzio le artiglierie, sorvegliò il campo di battaglia, mantenne i collegamenti con le proprie fanterie e bombardò le colonne nemiche di rincalzo. Nella notte del 4 settembre ebbe luogo il primo attacco degli aeroplani "Gotha" su Londra. Sull'inizio del conflitto i Tedeschi avevano molto sperato e confidato nell'aiuto dei dirigibili, specialmente negli Zeppelin di grande cubatura, ma nel giugno del 1917 lo Stato Maggiore germanico decretava la sospensione totale dell'uso dei dirigibili: dei 50 dirigibili entrati in servizio nel solo esercito, ne erano andati distrutti 25, di cui 17 per fuoco nemico. Essi avevano complessivamente compiuto 111 attacchi e avevano lanciato 165.000 kg. di bombe.

Anno 1918. - L'anno s'iniziava sotto buoni auspici per la Germania, in seguito alla defezione russa. Ciò le permise di poter inviare sulla fronte occidentale e su quella italiana tutti i mezzi aerei dei quali già disponeva su quella orientale. Aumentò ancora, inoltre, il numero delle squadriglie e diede un nuovo ordinamento alle gerarchie aeronautiche. L'Inghilterra mostrò anche chiaramente la sua intenzione di dare grande impulso all'aviazione istituendo il Ministero dell'aria. In Francia venne decisa la costituzione di altre 50 squadriglie di aeroplani. L'America, all'atto del suo intervento, non portò in Europa che 55 apparecchi, ma ben presto aumentò notevolmente i suoi mezzi aerei. Nella grande offensiva tedesca cominciata il 21 marzo l'avanzata delle fanterie fu largamente appoggiata dalle squadriglie da battaglia, mentre nella notte le squadriglie da bombardamento attaccarono tutte le stazioni ferroviarie adiacenti al settore d'azione. Però la prevalenza germanica nell'aria venne a mano a mano a perdere d'intensità per il sopraggiungere dei rinforzi aerei inglesi e dei nuovi gruppi da caccia francesi. Di notte e di giorno gli aviatori alleati non diedero più tregua all'avanzata delle fanterie tedesche, le quali ben presto risentirono anche della indebolita azione dei proprî mezzi aerei. Arrestata così l'avanzata tedesca su Amiens, ne seguì poi la battaglia della Lys, ove sull'inizio ebbe il sopravvento l'aviazione germanica, ma ben presto quella alleata riconquistò il dominio dell'aria.

Il 27 maggio l'esercito tedesco, con un irruente attacco, riuscì a rompere la fronte franco-inglese e a riportarsi sulla Marna, e qui l'aviazione inglese - la IX brigata aerea di nuova formazione - assistette e protesse al massimo grado le fanterie alleate fin quando non scomparve l'immediato pericolo. Durante il nuovo attacco germanico, noto con il nome di quarta battaglia della Champagne, la Germania dovette compiere degli sforzi poderosi per la concentrazione e preparazione degli aerei. L'esercito germanico, dopo la battaglia della Champagne, passa alla difensiva. Anche la lotta per la padronanza del cielo diventa difficilissima per gli aviatori tedeschi; essi non possono tenere più testa a tutti gli attacchi aerei che simultaneamente gli Alleati, ogni giorno più, sferrano con violenza in tutti i settori, e così a mano a mano l'aviazione tedesca decade nella sua efficienza e nella sua attività, tanto da non poter più nemmeno difendere con efficacia i proprî centri di produzione e le proprie città dai bombardamenti reiterati degli aviatori dell'Intesa. Alla battaglia di Francia (2 giugno 1918) concorsero anche 3 squadriglie italiane da bombardamento "Ca. 450".

La valorosa aviazione tedesca, non potendo più sostenere la lotta per le difficoltà dei rifornimenti, specialmente della benzina, ricorre a un nuovo sistema di attacco e di battaglia: non più masse aeree chiamate ad agire nell'ambito delle proprie armate, ma reparti spostabili entro l'intero gruppo degli eserciti, con enorme dispendio di forze e con pochissimo rendimento. Durante l'arretramento dell'esercito germanico, l'aviazione cercò di proteggere le truppe come meglio poté, ma ormai l'aviazione alleata aveva acquistato tale superiorità che la tedesca, per poter aderire, si vide costretta a riunire tutti i suoi reparti in soli tre raggruppamenti. Queste nuove formazioni non potettero entrare in azione perché già s'iniziava la ritirata generale germanica.

Le operazioni militari alla fronte italiana.

Le forze contrapposte. - L'assetto bellico italiano presentava, al divampare della guerra mondiale, gravi deficienze. Le difficili condizioni finanziarie del giovane regno e la sistematica opposizione di alcune correnti della politica avevano sempre impedito una compiuta organizzazione militare e un armamento moderno e forte, che rendesse l'esercito uno strumento veramente saldo. La guerra di Libia, poi, aveva creato nei magazzini militari e nei parchi dei vuoti considerevoli e aveva sconnesso l'organismo di molti reparti, parzialmente neutralizzando l'attività che Ministero della guerra e Stato Maggiore avevano svolta dal 1908 in poi per rinforzare la nostra compagine militare.

Il 10 luglio 1914 moriva il capo di Stato Maggiore tenente generale Alberto Pollio. A suo successore venne designato il tenente generale Luigi Cadorna, che assunse effettivamente la carica il 26 luglio. Con il Cadorna s'iniziò un nuovo periodo di riorganizzazione dell'esercito: opera tanto più ardua, in quanto compiuta sotto la pressione di avvenimenti che potevano da un momento all'altro coinvolgere l'Italia nella conflagrazione e con la necessità di dover fare assegnamento quasi esclusivo sulla scarsa potenzialità industriale del paese. Tuttavia, con i mezzi messi a disposizione con sempre maggiore larghezza dalle autorità governative, il lavoro di consolidamento dell'esercito e di preparazione alla guerra andò facendosi sempre più intenso, così che alla vigilia della mobilitazione molte delle deficienze più gravi erano scomparse e molte altre attenuate. All'atto di entrare in guerra l'esercito italiano era costituito su 35 divisioni di fanteria, 4 di cavalleria, una speciale di bersaglieri; in tutto 560 battaglioni di fanteria, dei quali 3 di carabinieri, 52 di alpini e 67 di bersaglieri, 177 squadroni di cavalleria, 6 dei quali in Libia: i milione e mezzo, circa, di uomini. (Di queste forze erano pronte all'azione il 24 maggio 364 battaglioni, 25 squadroni e 294 batterie; le altre affluirono entro il 15 giugno). Buona, se non ottima, la situazione dei quadri. L'artiglieria da campagna era stata dotata per intero di materiale a deformazione; sopra un totale, anzi, di poco più di 400 batterie pronte per la mobilitazione, 135 avevano già il modernissimo cannone Déport modello 1911. Il munizionamento era salito da 1200 colpi a 1500 per pezzo. Si avevano inoltre 28 batterie di obici pesanti campali, completamente allestite con un munizionamento di 800 colpi per pezzo. Mancavano però ancora i cannoni pesanti campali; e una bocca da fuoco da montagna di potenza superiore al cannone in uso e possibilmente a tiro curvo, che sarebbe stata tanto utile sulla fronte italiana prevalentemente montana, era e rimase poi sempre allo studio per tutta la durata della guerra. Scarso era anche il parco d'assedio: una trentina di batterie in tutto (128 pezzi), tra cannoni da 149 e mortai da 210. Si dovettero quindi rimettere in uso alcuni tipi di bocche da fuoco di medio calibro, più o meno antiquati, e improvvisare, mediante ripieghi ingegnosi, una decina di batterie di grosso calibro. Per l'armamento della fanteria vi era un numero di fucili modello 1891 più che sufficiente per i primi bisogni dell'esercito mobilitato; si possedevano inoltre più di un milione di vecchi vetterli (300 mila, anzi, ne vennero ceduti alla Russia). Ma in fatto di mitragliatrici si raggiungeva appena il modesto totale di 600. I materiali per la guerra di trincea erano nulli o quasi. Le dotazioni di vestiario e di equipaggiamento erano state ricostituite e si era provveduto ad assicurare i rifornimenti. Si era proceduto all'acquisto di cavalli in America e si erano accresciuti e meglio ordinati i servizî automobilistici (dai 400 veicoli dell'agosto 1914 si era saliti, nel maggio 1915, a oltre 3000).

Di contro stava l'esercito austro-ungarico, forte di una secolare tradizione militare e di un assetto ch'era il risultato di un lavoro incominciato subito dopo la sfortunata guerra del 1866 contro la Prussia e protrattosi fino a quegli ultimi anni. Pur lottando contro continue difficoltà finanziarie, la duplice monarchia era riuscita a costituire un organismo militare tecnicamente notevole e sorretto da una ferrea disciplina.

(Per la formazione dell'esercito austro-ungarico, v. sopra: Le operazioni militari sulle fronti francese, russa, balcanica e in Asia Minore; per le forze messè in campo contro l'Italia, v. appresso).

Anche a prescindere dalle gravi differenze fra l'assetto tecnico dell'esercito italiano e di quello austriaco (non molto sensibile era invece la differenza fra le due flotte; v. appresso: La guerra mondiale sul mare) una ragione d'inferiorità per l'Italia consisteva nel fatto che l'Austria, trovandosi già da un anno in guerra, aveva potuto acquistare il necessario e difficile allenamento alla guerra di posizione e adattarvi, almeno in parte, l'armamento. Una reale superiorità invece poteva vantare l'esercito italiano per il fatto d'essere un esercito nazionale, animato dal miraggio di redimere le terre ancora separate dalla patria, mentre l'esercito austroungarico presentava un mosaico di nazionalità che doveva disgregarsi sotto i colpi dell'Italia e sfasciarsi definitivamente a Vittorio Veneto.

Il teatro d'azione. - La pace di Vienna, con la quale si chiuse la guerra italo-austriaca del 1866, aveva assegnato all'Italia un confine che comunemente di poi chiamato iniquo, non avrebbe potuto effettivamente essere peggiore per l'Italia. La frontiera, che si sviluppava per circa 600 km., aveva un andamento paragonabile a un'immensa S maiuscola disposta sulle Alpi in senso orizzontale, così da determinare due grandi salienti: uno austriaco (Tirolo-Trentino), che s'incuneava nettamente tra la pianura veneta e la Lombarda e aveva il vertice a due marce di cavalleria dal Po; l'altro italiano (Friuli), molto meno vantaggioso per l'Italia di quel che non fosse il saliente trentino per l'Austria, perché questo, profondamente addentrato nella pianura padana, costituiva una perenne minaccia per un esercito operante verso il confine orientale, mentre il saliente giulio si riduceva a una linea irregolare, spezzata in più tratti dall'Isonzo, dominata quasi ovunque da montagne erte e impervie e nel suo tratto estremo limitata dal fortilizio naturale del Carso.

La frontiera si svolgeva per più di quattro quinti in montagna e spesso in alta montagna, talvolta, anzi, impraticabile. Quasi dappertutto, poi, gl'Italiani erano in condizioni meno favorevoli di quelle del nemico; da una parte essi dovevano salire dalla catena delle Prealpi verso le Alpi propriamente dette, scalando gradini di rilevante altezza e passando per selle difficili o per strade incassate e battute dalle artiglierie degli sbarramenti nemici, e dall'altra dovevano avanzare dalla rasa pianura e da modeste colline verso elevazioni maggiori, ricche d'insidie e facilmente adattabili a difesa. Nell'ultimo tratto avevano di contro l'aspro e inospite bastione carsico. Senza contare, inoltre, che nel sistema alpino i versanti che guardano l'Italia sono generalmente più ripidi e difficili mentre dalla parte opposta il pendio più dolce aveva reso possibile la costruzione di numerose e agevoli vie di salita e di comunicazione.

Le depressioni più importanti erano guardate da opere di fortificazione permanente; tali, ad es., i forti di Lardaro e di Por, a guardia dello sbocco delle Giudicarie verso Riva; il complesso e potente sistema fortificatorio degli altipiani di Folgaria e Lavarone; il forte di Panarotta in Val Sugana, quello di Paneveggio al passo di Rolle; quelli di Moena in Val San Pellegrino; gli sbarramenti di Valparola e di Landro-Sexten (Sesto) nell'alto Cadore; e le opere, infine, che sbarravano le fratture della muraglia alpina nella zona carnica, cioè il forte di Malborghetto e l'opera Hensel nell'alto Fella, i forti di Raibl e del Predil, il forte Hermann e la vecchia chiusa di Coritenza, nella conca di Plezzo.

Là dove il comando austriaco riteneva di potersi difficilmente difendere aveva prescelto una linea di difesa che, se abbandonava agl'Italiani qualche tratto di terreno, offriva però all'avversario il duplice vantaggio di accorciare la fronte e di avvantaggiarsi delle posizioni più alte; vennero così sgomberati dagli Austriaci un tratto notevole delle valli Giudicarie, la parte più bassa del cuneo trentino, secondo una linea che, all'ingrosso, passando davanti a Riva e Rovereto, risaliva il monte Finonchio e si appoggiava quindi al Pasubio e alle fortificazioni di Folgaria e di Lavarone, buona parte della Valsugana, la Conca di Primiero, la Val Cordevole a sud del Col di Lana e la conca di Cortina d'Ampezzo.

La linea di difesa montana veniva ad avere così uno sviluppo di circa 400 km., mentre, seguendo la linea di confine, ne avrebbe misurato dal giogo dello Stelvio al passo di M. Croce Carnico oltre 500. Nel settore carnico il confine politico seguiva press'a poco la linea di displuvio dell'aspra catena montagnosa; anche qui, però, il nemico aveva in suo favore il possesso dell'ampia vallata retrostante del Gail, ottima via di arroccamento, aderente al rovescio della catena carnica e a essa accedente mediante qualche buona strada carreggiabile e numerose mulattiere, con pendenze molto inferiori a quelle del versante italiano.

Dalla conca di Plezzo a quella di Tolmino si distende un aspro bastione montano, culminante nel M. Nero e profondante le sue pendici verso l'Italia, nell'Isonzo. Davanti a Tolmino, poi, il nemico aveva costruito una robusta testa di ponte, cui facevano da punti d'appoggio sulla sponda destra le due alture di Santa Maria e Santa Lucia, che si ergono allo sbocco della valle dell'Idria, unite per le falde e cinte su tre lati da una curva sinuosa dell'Isonzo. Più a sud, al di là del fiume, si erge l'altipiano della Bainsizza (Bansizza) coperto alle spalle dalle selve del gruppo di Ternova e strapiombante sull'Isonzo con erte pareti. Un'altra testa di ponte il nemico aveva costruito davanti a Gorizia, che la singolare disposizione delle alture circostanti aveva resa una vera e propria piazzaforte, ben solida e largamente munita di materiale bellico e di apprestamenti difensivi. La proteggevano a nord le alture del M. Santo, M. Sari Gabriele e M. San Daniele, e a sud la serie delle alture carsiche, culminanti nel San Michele. I principali punti d'appoggio del campo trincerato di Gorizia sulla destra dell'Isonzo erano il M. Sabotino, ergentesi, quasi isolato e con netto dominio di tutto il terreno circostante, fra alture molto minori, nel punto in cui il fiume, proveniente dalla stretta di Plava, forma come un anello, prima di sboccare nella breve pianura di Salcano a nord di Gorizia, e la collina di Podgora, così chiamata dal villaggio omonimo (Piedimonte del Calvario), un sobborgo di Gorizia. Il declivio meridionale della collina scende sul villaggio di Lucinico, e le sue groppe, la quota 184 (Calvario) e la quota 240, benché non molto elevate, hanno larga vista sulla pianura. Tra il Sabotino e il Podgora, le colline di Oslavia e di Peuma (Piuma), solcate da innumeri trincee e coperte di reticolati, completavano la difesa.

Il tavolato carsico, infine, si elevava subito al di là dell'Isonzo, con leggiero declivio, fino a una prima linea di alture, le cui posizioni dominanti e scelte dal nemico a capisaldi per la prima difesa erano il San Michele (quota 275) e l'altura di San Martino del Carso (quota 197) a nord, il M. Sei Busi (quota 118) e il M. Cosich (quota 113) a sud. La zona immediatamente a tergo del ciglio di queste alture si presenta per brevi tratti boscosa, per la maggior parte brulla e rocciosa, priva di acqua e disabitata, traversata nel senso nord-sud da un profondo solco, chiamato "Vallone" e cosparso di numerose cavità del terreno calcareo, dette "doline". A oriente di San Martino del Carso, subito dopo la strada per Sdraussina (Poggio Terzarmata), si estendeva il vasto bosco Cappuccio, che giungeva fin quasi al villaggio di San Martino; altri boschi, più o meno estesi, sorgevano sulle propaggini del San Michele e più a sud, prendendo nome dalla configurazione dei loro contorni (bosco a ferro di cavallo, bosco lancia, bosco triangolare, ecc.).

Nessuna fortificazione di carattere permanente esisteva sulla fronte giulia. Ma dopo lo scoppio della guerra mondiale l'Austria aveva atteso alacremente, oltre che a rafforzare tutto il suo sistema di fortificazioni, a sbarrare anche la fronte orientale con lavori occasionali di grande efficacia. Mentre, quindi, sulle due teste di ponte di Gorizia e Tolmino affermava la sua decisa intenzione di contenderci il passo, scavava una forte linea di trinceramenti sul primo gradino del Carso e schierava oltre il ciglio dell'altipiano le sue artiglierie, ben coperte alla nostra vista e aventi, invece, largo dominio di tiro sulle nostre posizioni in piano.

"Posizioni ideali per la difesa contro forze preponderanti" aveva definito il Falkenhayn quelle austriache tra Gorizia e il mare. E il proclama iniziale del comando austriaco diceva: "Dobbiamo difendere un terreno, che è fortificato dalla natura. Davanti a noi, un gran corso di acqua: dal nostro lato, una costiera, di dove si può tirare come da una casa di dieci piani. Pensate ai monti che sono tutta la nostra forza".

I pochi cenni precedenti possono bastare per farsi un concetto della fronte italiana lungo i due primi anni di guerra, poiché la linea di battaglia si spostò con ondulazioni di mediocre ampiezza attorno a quella iniziale, tracciata press'a poco dal confine politico. Dopo Caporetto, la successiva ritirata dall'Isonzo al Tagliamento e al Piave accorciò di gran lunga la fronte italiana di combattimento, mantenendo intatta la fisionomia per il tratto dallo Stelvio al gruppo del M. Grappa e facendo di questo il nodo di saldatura con l'altro tratto che, seguendo il corso del Piave, raggiungeva l'Adriatico a Cortellazzo.

I piani d'operazione. - L'eventualità di una guerra contro l'Austria, dato il sistema di alleanze, non poteva essere dagl'Italiani considerata che sotto l'aspetto difensivo. Mancavano quindi studî compiuti e predisposizioni per una guerra offensiva.

Il generale Cadorna, però, fin dai primi giorni del conflitto mondiale, il 21 agosto 1914, aveva redatto una Memoria riassuntiva circa un'eventuale conflagrazione europea. Essa stabiliva i compiti delle armate durante il periodo della mobilitazione e della radunata ed esponeva le ragioni per le quali la fronte giulia sembrava da preferirsi per irrompere nel territorio nemico. La zona friulana comprendeva il principale fascio stradale d'invasione proveniente dalla Sava attraverso le Alpi Giulie, e sembrava perciò necessario agire in quella direzione, per portare una diretta minaccia contro i centri vitali della monarchia austro-ungarica. Trento costituiva un obiettivo di grande importanza morale, ma strategicamente di molto minor rilievo ed eccentrico rispetto alle principali direzioni di attacco del territorio nemico. Un'offensiva verso il Trentino, inoltre, avrebbe richiesto l'impiego di forze molto più numerose di quelle necessarie in via normale per la difensiva, così da non lasciare disponibili forze sufficienti per parare un attacco in grande stile dalla fronte giulia; dato, poi, il gran numero di fortificazioni permanenti, disseminate lungo la frontiera montana, occorreva una massa d'artiglierie pesanti ben più ingente di quella che possedeva il parco d'assedio italiano. Bisognava tener conto, infine, che trattandosi non già d'una guerra destinata a rimanere localizzata fra Italia e Austria-Ungheria, ma di guerra generale, alla quale concorrevano Russia e Serbia che avevano comuni con l'Italia gli obiettivi finali sul territorio nemico, i tre eserciti dovevano darsi reciproco appoggio e agire nel tempo e nello spazio in relazione agli scopi comuni: evidente quindi, per l'Italia, la necessità di puntare verso la conca di Lubiana, donde, poi, se le circostanze lo avessero permesso, si sarebbe proseguito verso la Drava nel tratto Klagenfurt-Völkemarkt e, più a valle, in quello Marburgo-Varasdino, alle porte dell'Ungheria. Non bisognava però dimenticare che il saliente trentino rappresentava una grave minaccia alle spalle dell'esercito operante verso la fronte isontina; minaccia di cui tanto si era preoccupato Napoleone I nella campagna d'Italia. Era quindi necessario occupare nel Trentino buone posizioni difensive oltre il confine e mantenersi sempre in grado di parare il pericolo di un'offensiva nemica da quella parte, essendo in favore dell'Italia il fatto che un notevole concentramento di forze avversarie in quella regione avrebbe richiesto molto tempo per la limitata capacità di trasporto delle ferrovie del Brennero e della Val Pusteria, mentre gl'Italiani, soprattutto se si fossero migliorate le comunicazioni lungo la direttrice Udine-Vicenza (corda dell'arco montano sul quale si svolgeva la loro fronte) sarebbero potuti giungere in tempo per parare un'offensiva nemica. In conclusione, il disegno di operazioni fin da quella prima memoria ebbe a fondamento questo concetto: l'elemento militarmente vivo e dinamico della fronte italiana doveva essere il tratto della fronte giulia. Sulla fronte tridentina, difensiva strategica accompagnata da offensive tattiche parziali, per migliorare la situazione difensiva: offensiva nel Cadore, per occupare l'importante nodo stradale di Toblach (Dobbiaco) e per aprirsi lo sbocco verso le valli della Rienz (Rienza) e della Drava, e dalla Carnia per aprirsi il passo verso la Carinzia. L'armata del Cadore, scendendo la Drava, avrebbe aiutato le truppe della Carnia; queste, per la Sava, avrebbero dato la mano alla 2ª armata e alla 3ª destinate a operare verso le Alpi Giulie. La memoria esaminava anche la possibilità di sbarchi sulla costa adriatica, fra Trieste e Antivari, sia nel caso che lo sbarco fosse fine a sé stesso, sia in quello che avesse lo scopo d'impossessarsi di punti di partenza per eventuali operazioni verso l'interno. Riferendosi, infine, alle operazioni delle armate che avevano il compito di agire verso la fronte giulia, la memoria stabiliva che il primo obiettivo dovesse essere la conquista della linea dell'Isonzo, e solo dopo l'arrivo del grosso delle due armate si dovesse proseguire l'avanzata verso la linea della Sava. I concetti contenuti in questa memoria furono tradotti in particolareggiate direttive ai comandi d'armata, che portavano la data 10 settembre 1914 e fissavano i compiti delle armate durante il periodo di mobilitazione e di radunata: non oltre, "dipendendo le ulteriori disposizioni dalle circostanze". Questi criterî, salvo lievi varianti, furono confermati anche nella successive norme diramate alle armate nell'aprile 1915.

Intanto la dichiarazione di neutralità e la previsione di dover entrare nella lotta avevano reso evidente la necessità di modificare le rigide formule del sistema di mobilitazione italiano. Adottare il sistema di emanare prima l'ordine di mobilitazione generale e incominciare subito dopo il completamento delle unità e l'avviamento di esse alla zona di confine, reso ancor più lento e arduo dalla configurazione geografica della penisola, avrebbe potuto costituire per l'Italia un grave pericolo, perché l'Austria, già mobilitata e in stato di guerra, avrebbe potuto aggredirla durante la radunata sull'Adige e sul Po. D'altra parte, era evidente anche il vantaggio che avrebbe dato una radunata preventiva nella zona veneta di un nucleo di truppe sufficienti per sferrare una fulminea azione di sorpresa, non appena dichiarata la guerra, per cogliere il nemico alla sprovvista e impadronirsi di tutte le posizioni oltre il confine, atte ad agevolare la sistemazione difensiva italiana e a costituire nello stesso tempo validi punti d'appoggio per ulteriori operazioni. Secondo il concetto del capo di Stato Maggiore, cioè, dichiarazione di guerra, ordine di mobilitazione generale e passaggio del confine dovevano essere tre atti pressoché contemporanei; ciò che difatti avvenne, anche se, per ragioni molteplici, la sorpresa non poté dirsi raggiunta.

Lo Stato Maggiore austro-ungarico, prevedendo che l'attacco principale dell'esercito italiano si sarebbe pronunciato sulla fronte giulia, aveva divisato, in un primo tempo, di opporre all'avanzata di esso un solo velo di copertura e di attendere gl'Italiani nella conca di Klagenfurt e di Lubiana, per schiacciarli al loro sbocco dalle strette montane con una forte massa austro-tedesca. A tale scopo, anzi, il generale Conrad, capo di Stato Maggiore austro-ungarico, aveva chiesto il concorso di dieci divisioni tedesche; concorso, però, che il generale Falkenhayn, capo di Stato Maggiore dell'esercito tedesco, non credette di accordare, ritenendo anzitutto che ben difficilmente il comando italiano sarebbe caduto nell'insidia e che non fosse poi opportuno mantenere per un tempo imprevedibile immobilizzate delle truppe che potevano essere più convenientemente impiegate contro i Russi. Il rifiuto da parte del comando tedesco e la mancata approvazione al piano di Conrad indussero il comando austriaco a ordinare, il giorno 2I aprile, la radunata sull'Isonzo, tanto più che il buon esito dello sfondamento della fronte russa a Gorlice, ai primi di quel mese, permetteva di destinare maggiori forze alla fronte italiana; in pari tempo, veniva ordinato alla 5ª armata (generale Boroević), già nei Balcani, di portarsi per ferrovia il più avanti possibile, fino all'Isonzo.

Fin dall'inverno, intanto, era stata costituita una fronte italiana, affidata al comando del generale Rohr, il quale con una trentina di battaglioni (14 nel Trentino e 16 tra la Carinzia e l'Isonzo) aveva proceduto ai primi e più urgenti lavori di difesa; questi, poi, vennero intensificati nelle ultime settimane, specialmente sull'Isonzo, così che alla metà di maggio la linea di difesa di tutta la fronte era già notevolmente rafforzata. Sulle linee, poi, scelte dall'Austria per la difesa, erano affluite sempre nuove forze, tanto che alla fine di aprile si potevano con esse costituire cinque divisioni, che presero in un primo tempo il nome di Bolzano Trento, Villach, Lubiana e Trieste, e più tardi la numerazione da 90 a 94. Alla metà di maggio giunse sull'Isonzo un'altra divisione (la 5ª) mentre all'interno si andavano concentrando i tre corpi d'armata della 5ª armata (XVII, XV e XVI). Il giorno 21 maggio venne ordinato l'inizio del movimento di quei tre corpi d'armata, e il 22 l'imperatore poneva al comando della fronte italiana l'arciduca Eugenio, fratello del generalissimo arciduca Federico. Contemporaneamente la fronte venne ripartita in tre grandi settori: del Tirolo, della Carinzia e dell'Isonzo, al cui comando vennero rispettivamente chiamati i generali Dankl, Rohr e Boroević.

Per il 31 maggio tutti i movimenti delle truppe poterono essere compiuti, ma già il 24 avevano raggiunto la fronte dell'Isonzo due divisioni della 5ª armata, cosicché il giorno dell'entrata in guerra dell'Italia fronteggiavano le truppe italiane 155 battaglioni, 18 squadroni e 87 batterie, di cui 78 battaglioni, 11 squadroni e 41 batterie in Tirolo; 32 battaglioni, 2 squadroni e 11 batterie in Carinzia; 45 battaglioni, 5 squadroni e 35 batterie sulla fronte dell'Isonzo. Con l'arrivo al completo della 5ª armata e dell'Alpenkorps bavarese, mandato in rinforzo all'alleata dalla Germania, le forze avversarie salirono il 10 giugno a 234 battaglioni, 21 squadroni e I55 batterie.

Il primo sbalzo. - Nella notte dal 23 al 24 maggio le truppe italiane passarono il confine su tutta la linea di frontiera. Seguendo la tradizione dei suoi avi, S. M. il re Vittorio Emanuele III aveva assunto il comando dell'esercito. Capo di Stato Maggiore era il tenente generale Luigi Cadorna; sottocapo di stato Maggiore, il tenente generale Carlo Porro.

Alle grandi unità dell'esercito italiano il Comando supremo aveva così assegnato i compiti: alla 1ª armata (comandante il generale Roberto Brusati) era affidata la fronte tridentina (III corpo d'armata, dal giogo dello Stelvio al Lago di Garda; V corpo d'armata, dal Garda alla Croda Grande). Essa doveva mantenere un contegno difensivo, eseguendo però quelle offensive parziali che avrebbero potuto meglio assicurare l'inviolabilità della frontiera e spingere l'occupazione in territorio nemico, ovunque ciò fosse possibile e conveniente. La 4ª armata (comandante il gen. Luigi Nava), assunta la fronte cadorina (IX corpo d'armata sul Cordevole e I sul Boite e sull, alto Piave), aveva, invece, un compito offensivo, dovendo tendere all'espugnazione degli sbarramenti di Valparola, Landro, Sexten e all'interruzione della grande arteria ferroviaria di val Drava; le truppe della zona Carnia (al comando del gen. Clemente Lequio), schierate tra il M. Paralba e il M. Maggiore, dovevano tenere presente non soltanto la protezione della radunata, ma anche l'impiego più possibilmente sollecito delle artiglierie pesanti contro le fortificazioni nemiche, per poter poi concorrere alle operazioni della 2a e 3a armata sulla fronte giulia. A queste due ultime armate, infine (comandate la 2a dal gen. Frugoni e la 3ª, fino al 26 maggio, dal gen. Zuccari e poi da S. A. R. il duca d'Aosta), era affiddato il compito dell'offensiva principale, che doveva portare una minaccia diretta contro i centri vitali della monarchia austro-ungarica. Primo obiettivo di esse doveva essere la conquista della linea dell'Isonzo, e solo dopo l'arrivo del grosso delle due armate si sarebbe dovuto proseguire l'avanzata verso la linea della Sava.

Le truppe italiane comprendevano 35 divisioni, ma di esse solo poco più della metà erano prontamente impiegabili all'atto della dichiarazione di guerra. Si è già accennato agli effettivi austro-ungarici e ai rinforzi inviati dalla Germania, per quanto non in stato di guerra dichiarata con l'Italia, all'alleata (oltre l'Alpenkorps bavarese, nel Trentino, alcune batterie pesanti sull'Isonzo).

È da ricordare, inoltre che l'Italia scendeva in campo proprio in un momento, in cui singolarmente favorevoli volgevano le sorti della guerra per gl'Imperi centrali. Il 10 maggio infatti, cinque armate austrotedesche avevano attaccato i Russi nel settore di Gorlice, sfondandone rapidamente la fronte e iniziando una rapida e vittoriosa avanzata, che doveva arrestarsi soltanto nella tarda estate; sulla fronte franco-inglese i Tedeschi erano riusciti, negli ultimi di aprile, a ridurre il saliente di Ypres, e un'offensiva sferrata dai Francesi, il 3 maggio, in Artois, aveva conseguito risultati molto modesti. Si aggiunga a questo che la Serbia era da molti mesi, tranne che in Albania, ove procedeva all'occupazione di alcune località lungamente desiderate, completamente e inspiegabilmente inattiva (inazione che, solo in un primo tempo, si era potuta giustificare con la necessità del riordinamento e dei rifornimenti) e che nei Dardanelli si profilava già l'insuccesso dell'infausta spedizione franco-inglese.

Gl'Italiani, conquistati i principali passi di frontiera, s'impadronivano d'importanti posizioni, quali la Forcella di Montozzo e il passo del Tonale in Val Camonica, Ponte Caffaro nelle Giudicarie, il M. Baldo e le pendici dell'Altissimo sul versante orientale del Garda, i monti Pasubio e Baffelan in Vallarsa. Sulla fronte dell'Isonzo, nelle giomate del 24 e 25, furono occupate la dorsale tra Iudrio e Isonzo e la linea di alture Kozliak (Cozliac)-Pleca-Libussina, mentre la 1ª divisione di cavalleria e un nucleo misto delle tre armi avanzavano verso il basso Isonzo, dove, fin dalle prime ore del 24, il nemico aveva fatto saltare i ponti di Pieris. Nei giorni seguenti il Comando supremo italiano imprimeva un ritmo più celere all'avanzata, onde nel territorio della 1ª armata, il giorno 26, il generale Cantore entrava in Ala, mentre altre truppe occupavano il M. Altissimo e il Coni Zugna, e nei giorni seguenti s'impadronivano di Condino (10 giugno), di Cima Spessa (30 maggio) e Storo (10 giugno), nelle Valli Giudicarie; in Val Lagarina, di Serravalle (4 giugno) e della Zugna Torta (5 giugno); in vallarsa, dei forti Pozzacchio e Mattassone; nel settore Pasubio, del Col Santo (6 giugno); in val Posina, dopo aspro combattimento, di M. Majo. In val d'Assa si raggiungeva la linea Croce di vezzena-Coste sin (7 giugno), e in Val Sugana Borgo e le alture circostanti. In Cadore le truppe della 2ª divisione entravano, il giomo 29 maggio, in Cortina d'Ampezzo e occupavano il passo Tre Croci. Il nemico ritirava quasi dappertutto, senza combattere, le poche truppe avanzate. In Carnia, invece, non appena gli alpini italiani si furono stabiliti sul Pal Grande, sul Pal Piccolo, sul Freikofel (5 giugno) venivano sottoposti ad accaniti bombardamenti e contrattacchi, che non riuscivano però a ricacciarli.

Sugli altipiani di Lavarone e di Asiago, intanto, e nella zona Carnia si era già impegnato il duello fra le artiglierie italiane e le fortificazioni avversarie, alcune delle quali, fin dalle prime giornate di fuoco, subirono danni notevolissimi.

Sull'Isonzo, mentre truppe della 2ª armata, accanitamente contrastate dal nemico, davano faticosamente la scalata alle pendici del bastione montano che si erge subito di là dal fiume e che dal M. Nero, per lo Sleme, il Mrzli, il Vodil digrada verso la conca di Tolmino (la sola brigata Modena vi perdette 37 ufficiali e 1200 soldati), il II corpo d'armata della stessa 2ª armata davanti a Plava e le truppe della 3ª armata (VI, XI e VII corpo d'armata) in corrispondenza dell'altipiano carsico iniziavano, il 5 giugno, il passaggio del fiume. Nella zona di Plava, dopo reiterati tentativi compiuti tra innumeri difficoltà e sotto il violento tiro dell'artiglieria avversaria, nella notte del giorno 9 duecento fucilieri della brigata Ravenna riuscivano a traghettare il fiume. Ad essi tenevano dietro altri reparti, e si poteva così iniziare la costituzione di quella testa di ponte che doveva poi essere, palmo a palmo, allargata, e quasi miracolosamente tenuta dalle truppe italiane per oltre due anni, inibendo all'avversario la libera disponibilità delle comunicazioni lungo la valle dell'Isonzo. Fin dai primi giorni la resistenza avversaria in questo settore si manifestò tenacissima, costringendo i fanti italiani a combattimenti duri e cruenti; il generale Bortiević stesso dové poi elogiare, nella sua relazione, il valore e la bravura della 3ª divisione italiana.

Più a sud, intanto, le truppe del VI corpo d'armata attaccavano l'altura del Podgora. Tutta la giornata dell'8 e tutto il 9 le fanterie della 11ª divisione assalirono più volte, ma sempre invano, le trincee avversarie.

Sul basso Isonzo, nella notte tra il 5 e il 6, truppe dell'XI corpo d'armata avevano occupato Gradisca e il M. Fortin, ma invano avevano tentato di guadagnare l'altra sponda del fiume. Nella zona di Monfalcone, invece, nella notte del 6, su ponti costruiti dal genio, le truppe del VII corpo d'amiata (gen. Garioni) poterono passare di là dall'Isonzo, occupare Monfalcone e stendersi sulla sinistra fino a Turriaco e Cassegliano. Con la rottura però dell'argine del Canale Dottori, il nemico era riuscito ad allagare la zona tra Sagrado e Monfalcone, rallentando così l'avanzata. Attacchi italiani, poi, contro le alture sovrastanti Monfalcone, nei giorni tra il 9 e il 13, cozzarono in un'accanita resistenza. Un bel successo chiudeva il primo periodo di operazioni, il 16 giugno, con la conquista del M. Nero, eseguita con un audace colpo di mano da due compagnie di alpini.

La prima battaglia dell'isonzo. - Il principale ostacolo cui le truppe italiane erano venute a trovarsi di fronte sull'Isonzo era rappresentato dalle due teste di ponte di Tolmino e Gorizia. Il 22 giugno, il comando italiano emanò gli ordini per l'attacco di esse; dieci divisioni e due gruppi alpini della 2ª armata dovevano, questa volta, limitare il loro sforzo contro il settore da Plava a Podgora, sei divisioni della 3ª dare l'assalto all'altipiano carsico. Dopo breve preparazione d'artiglieria, il mattino del 23 le truppe della 33ª divisione mossero all'attacco delle posizioni che dominavano Plava, ma non poterono compiere che lievi progressi in direzione di Globna e di Paljevo. Il giorno 25, sotto un furioso temporale, e il giorno 26 l'attacco fu ancora rinnovato, ma ogni volta s'infranse sotto il fuoco dei grossi calibri nemici e davanti ai fitti reticolati, contro cui ben poco potevano le scarse artiglierie. Di fronte alle gravissime perdite subite si venne a creare, nella zona conquistata dagli Italiani oltre Isonzo, una situazione veramente drammatica, tanto che il comando della 2ª armata si vide costretto a ordinare, il giorno 27, che il grosso delle nosire truppe ripassasse sulla destra del fiume, lasciando al di là solamente gli uomini sufficienti per la difesa della testa di ponte.

Né migliori risultati aveva potuto ottenere l'azione contro le alture che proteggevano Gorizia, iniziata anch'essa il giorno 23 dal VI corpo d'armata (gen. Ruelle). Anche in questa zona ben scarsi erano stati i risultati del fuoco d'artiglieria, così che le fanterie andarono a cozzare quasi dappertutto contro reticolati profondi e quasi intatti. Per due giorni i fanti cercarono di aprirsi un varco nelle siepi di ferro con pinze da giardiniere e con tubi di gelatina esplosiva, e per due giorni si rinnovarono gli attacchi contro le posizioni di Oslavia e del Podgora, senza che si riuscisse a fare un passo avanti. Spostata, il giorno 25, l'azione verso l'altro pilastro della testa di ponte goriziana, il Sabotino, non si poté neppure qui aver ragione delle difese avversarie.

Dopo una breve sosta, il giorno 5 luglio fu ripreso l'attacco contro le alture di Oslavia-Peuma e il Podgora. Pochi audaci si assunsero l'incarico di aprire le brecce nei reticolati, ma furono posti quasi tutti fuori combattimento. Fino al cadere della notte le fanterie della 4ª divisione davanti a Oslavia e i fanti dell'11ª, in collaborazione con carabinieri reali e guardie di finanza sul Podgora, raggiunsero più volte le trincee avversarie e più volte furono costretti ad abbandonarle. Né miglior sorte ottenne un tentativo (giorno 7) della brigata Perugia contro il rovescio del Podgora dal piano di Lucinico: esso costò la vita a oltre mille uomini, e l'attacco dovette di nuovo essere sospeso.

Sul Carso, si era dovuto innanzi tutto cercare di ridurre l'inondazione prodotta dal nemico; ciò che genio e artiglieria ottennero nella notte dal 20 al 21 giugno. Nella notte sul 24, quindi, le truppe dell'XI corpo d'armata (gen. Cigliana) poterono passare l'Isonzo, alle falde del S. Michele, congiungersi con le truppe del VII corpo e assalire i primi gradini del terrazzo carsico. Occupato il villaggio di Sagrado, si tentò nei giorni 26 e 27 un'avanzata generale sulla fronte M. San Michele-M. Sei Busi-Monfalcone, ma il tiro delle artiglierie avversarie costrinse le nostre truppe ad arrestarsi. A mezzogiorno del 30 le fanterie del Carso mossero nuovamente in avanti; quelle del X corpo (gen. Grandi) per la conquista del San Michele, quelle del VII per la scalata dell'altipiano di Doberdò. Il giorno 3 luglio, il settore del San Michele fu assunto di nuovo dall'XI, rimanendo assegnata al X la zona tra il San Michele e il Sei Busi. Sulla sinistra la lotta si concentrò violentissima attorno a due forti ridotte austriache nella zona di Castelnuovo; sulla destra arse per più giorni sul Sei Busi e sulle alture vicine. Il giorno 4, alfine, reparti della 21ª divisione espugnavano estesi trinceramenti sulle falde del poggio di quota 170, tra il San Michele e San Martino; la brigata Siena riusciva a penetrare nelle difese di Castelnuovo, e la brigata Cagliari, assecondata dalla Savona, si portava fin presso la sommità del Sei Busi (quota 118). Altri progressi venivano compiuti nei giorni 6 e 7, sul San Michele, dalle brigate Pisa e Regina, e dalle truppe del X corpo, sulla destra.

In questa prima settimana di luglio ripetuti attacchi della brigata Valtellina, a Santa Maria, e della Bergamo a Santa Lucia di fronte a Tolmino, erano stati spezzati dalle mitragliatrici avversarie postate in ricoveri blindati.

Il giorno 7 gli attacchi vennero ovunque sospesi. La prima battaglia dell'Isonzo (23 giugno-7 luglio) si chiudeva, così, con scarsi vantaggi territoriali, ma il Carso, la grigia petraia desolata, aveva conosciuto i primi meravigliosi ardimenti dei fanti italiani. (Le perdite italiane furono di 2275 morti, 13.970 feriti, circa 2400 dispersi o prigionieri; le austriache toccarono la cifra di 22.000 tra morti, feriti e dispersi). Il Krauss dice che "per il soldato austriaco fu titolo di alto onore aver partecipato alla prima battaglia dell'Isonzo". Lode non piccola, questa, anche per il soldato italiano.

Seconda battaglia dell'Isonzo. - Erano rimaste così, le truppe italiane, dopo la prima battaglia, aggrappate alle pendici del Mrzli e delle alture prospicienti Tolmino, addensate in angusto spazio a Plava, arrestate davanti alle forti difese di Gorizia e addossate sul Carso ai primi margini dell'altipiano, senza ripari convenienti e sotto il tiro costante delle artiglierie avversarie.

Il giorno 10 luglio l'offensiva fu ripresa. Le forze nemiche, che già durante la prima battaglia dell'Isonzo erano venute continuamente crescendo, all'inizio della seconda, dal M. Nero al mare, sommavano già a tredici divisioni, con un complesso di 111 battaglioni e 414 pezzi di artiglieria, cui durante la battaglia vennero ad aggiungersi 28 battaglioni e 102 pezzi. Contro il M. San Michele era diretto principalmente lo sforzo italiano, sia perché la caduta di esso avrebbe reso possibile l'occupazione di Gorizia, sia perché al possesso del San Michele era subordinata la conquista del Carso, fino al Vallone. La 2ª armata doveva cercare di allargare l'occupazione del M. Nero, sia verso il Lemez e lo Smogar, sia verso la quota 2163 (M. Rosso), di dare maggiore respiro alla testa di ponte di Plava, d'infrangere, infine, le difese avversarie sul Sabotino e sul Podgora.

Per le insormontabili difficoltà del terreno, accresciute da recenti e persistenti intemperie, nulla poterono osare gli alpini sulle pareti semi-inaccessibili del Lemez e dello Smogar. Furiosa, invece, fu la lotta ingaggiata sul M. Rosso, del quale riusciva ai battaglioni alpini Intra e Val d'Orco di espugnare il margine settentrionale. Carattere più che altro diversivo ebbero gli attacchi rinnovati tra il 18 e il 23 dal II corpo d'armata (gen. Reisoli) contro le alture di Plava e il Sabotino, ove tuttavia qualche vantaggio venne conseguito. Più aspra, invece, fu la lotta sul Podgora, ove le brigate Re e Casale e i carabinieri reali si spinsero fin sotto la sommità dell'altura, cedendo poi a un nutrito contrattacco avversario. Sulle pendici sud-ovest del Podgora stesso la brigata Pavia, espugnate il giorno 10 due successive linee di trinceramenti, riusciva il giorno seguente a piantare una bandiera sull'estremità meridionale della groppa; ma il nemico, dopo intenso fuoco d'artiglieria, lanciava i suoi migliori reparti al contrattacco, riuscendo a far ripiegare gl'Italiani.

Ardeva, intanto, la battaglia sul San Michele: la 21ª e la 19ª divisione (XI corpo d'armata) contro la linea austriaca, che dal cosiddetto Bosco Cappuccio andava al poggio di quota 170; la 20ª divisione (del X corpo) contro il fitto groviglio di trincee della zona centrale, tra il San Michele e il Sei Busi; il VII corpo d'armata, infine, contro il Sei Busi stesso e le trincee di Selz (Cave di Selz) e Vermegliano. Attraverso qualche breccia aperta nei reticolati dalle artiglierie e allargata poi dagli arditi, il 10° fanteria (brigata Regina) nelle prime ore del pomeriggio del 18 si era gettato alla baionetta sul poggio di quota 170, sbaragliandone i difensori; non ostante le insidie d'ogni genere disseminate dagli Austriaci contro il Bosco Cappuccio, la brigata Brescia si era spinta fino al margine nord-ovest del Bosco stesso e le brigate Siena (31° e 32°), Ferrara (47° e 48°) e Bologna (39° e 40°) si erano cacciate attraverso le difese nemiche, nella zona di Castemuovo, ove affermandosi e ove ripiegando; il giorno 19, però, le ridotte di Castelnuovo e le trincee laterali cadevano tutte in mano degl'Italiani. Liberate così da quella minaccia sul fianco destro, le truppe del S. Michele poterono tentare un nuovo sforzo per la conquista del monte. Nel pomeriggio del 20, una colonna composta di quattro compagnie del 40° fanteria e dell'XI battaglione ciclisti, al comando del colonnello Cartella, poneva piede sulla sommità del San Michele, mentre la brigata Regina vi giungeva anch'essa dalla sinistra. Prima dell'alba però un'intera divisione austriaca, rinforzata da una brigata da montagna, moveva al contrattacco; nonostante il valore degl'Italiani (10 compagnie, agli ordini del colonnello Ceccherini), il San Michele non poté essere tenuto. All'alba del 22 le fanterie austriache mossero all'attacco di tutta la fronte del San Michele, con il preciso scopo di rigettare gl'Italiani sul fiume e tagliar loro i ponti. Ma il generale Amadei, comandante della brigata Bari e del settore di sinistra, postosi alla testa di tre battaglioni, cadeva sul fianco del nemico e lo volgeva in fuga. Al generale Amadei stesso il giorno 26 fu affidato il compito di tentare nuovamente la scalata del San Michele, con una colonna costituita dalla Brigata Bari, dal 111° reggimento fanteria (brigata Piacenza) e dal LVI battaglione bersaglieri. Anche questa volta, nonostante che il comandante della colonna cadesse ferito fin dall'inizio dell'attacco e che una pioggia torrenziale flagellasse le truppe, queste raggiunsero la sommità del monte: ma il concentramento del fuoco nemico e un violento contrattacco ristrapparono la conquista agl'Italiani.

Né miglior sorte ebbe l'attacco al M. Sei Busi, contro il quale fino al 25 si accanì in vani sforzi la 14ª divisione, e quindi, fino al giorno 3 agosto, la 27ª, al comando del gen. Pecori-Giraldi. Il 25 luglio una colonna al comando del col. Paolini (più tardi decorato di medaglia d'oro) conquistava la quota 111 (prima groppa del Sei Busi) e riusciva a porre piede anche sulla sommità (quota 118) senza però potervisi sostenere, per la possibilità che aveva il nemico di concentrarvi da tutti i lati il fuoco. Ritentato l'attacco il 26, la quota 118 fu di nuovo raggiunta, ma di nuovo si dovette sgombrarla. E tale sanguinosa vicenda di attacchi irruenti e di subiti arretramenti durò per più giorni, mentre l'artiglieria nemica seguitava a battere implacabilmente il Sei Busi e il terreno circostante.

Alla sera del 3 agosto, alfine, S. A. R. il duca d'Aosta dava ordine di sospendere le operazioni. Anche la seconda battaglia dell'Isonzo (18 luglio-3 agosto) veniva troncata, senza dare alle valorose truppe italiane vantaggi territoriali rilevanti; ma, specie sul Carso, con la conquista quasi completa del ciglio tattico dell'altipiano di Doberdò, la situazione era assai cambiata in loro favore. Gl'Italiani ebbero circa 5700 morti, 27.500 feriti, 500 dispersi; gli Austriaci perdettero 47.000 uomini.

I sanguinosi combattimenti svoltisi in piena stagione estiva, tra mille disagi e mentre il colera serpeggiava nelle linee, erano stati sostenuti con mirabile spirito di dovere e di sacrificio dalle fanterie italiane. Prive di ricoveri e sottoposte senza tregua al martellamento delle artiglierie avversarie, rifornite di vettovaglie soltanto di notte, assoggettate a limitazioni di ogni sorta e, più penosa di tutte, a quella dell'acqua, senza possibilità alcuna di riposo e di ristoro, avevano esse dimostrato una tenace volontà di vittoria e combattuto fino all'estremo delle loro energie, ponendo a dura prova l'avversario: se le due prime battaglie dell'Isonzo erano costate all'esercito italiano oltre cinquantamila uomini tra morti, feriti e dispersi, le perdite nemiche erano state anche superiori, ascendendo esse a più di ottantamila uomini, dei quali 11.000 prigionieri.

Terza e quarta battaglia dell'Isonzo. - Sospese le operazioni della 3ª armata sul Carso, la 2ª riprese quelle dirette ad acquistare il possesso della conca di Plezzo, della barriera montana che s'interpone fra le due conche di Plezzo e di Tolmino e delle alture costituenti la testa di ponte a guardia di quest'ultima città. Dal 14 agosto fino agli ultimi giorni di settembre, il IV corpo d'armata (gen. di Robilant), coadiuvato da una colonna di truppe della zona Carnia, lottò accanitamente per espugnare il Rombon e il Javorček, pilastri della conca di Plezzo; per completare la conquista del M. Rosso e per scalare i duri pendii dello Sleme e del Mrzli; per strappare, ïnfine, al nemico le ben munite colline di Santa Maria e Santa Lucia. Ma tanti eroici sforzi delle truppe italiane erano purtroppo destinati a conseguire risultati solamente parziali, non solo per la natura del terreno e la sagace e robusta difesa avversaria, ma anche per l'insufficienza assoluta delle artiglierie e la mancanza di mezzi atti a distruggere i reticolati. Le eccezionali condizioni, poi, di stanchezza e d'inquadramento dei reparti alpini della 2ª armata, che da oltre quattro mesi erano rimasti quasi ininterrottamente in linea perdendovi la maggior parte degli ufficiali e degli uomini più giovani e meglio addestrati, imposero una sosta delle operazioni in tutta la zona di Tolmino fino alla ripresa dell'offensiva generale. La comparsa del colera e del tifo esantematico aveva costretto all'isolamento di intere brigate.

Per l'offensiva, il Comando supremo emanava gli ordini il 1° ottobre. Scopo essenziale: l'espugnazione del campo trincerato di Gorizia. Dovevano concorrervi direttamenbe la 2ª e la 3ª armata, e indirettamente la 1ª, la 4ª e le truppe della zona Carnia, per cercare d'impedire spostamenti di truppe verso la fronte principale. Sette corpi d'armata, con complessive diciotto divisioni, erano schierati da Plezzo al mare, alla vigilia della nuova offensiva, e alquanto rinforzato era stato lo schieramento delle artiglierie; permaneva pur sempre una scarsa disponibilità di munizioni. Il nemico poteva contare su circa 140 battaglioni, con 649 pezzi di artiglieria. Si svolse la lotta in due riprese: la prima, dal 21 ottobre al 4 novembre, si suol chiamare col nome di terza battaglia dell'Isonzo; la seconda, dal 10 novembre al 2 dicembre, con quello di quarta battaglia.

Dopo tre giornate di bombardamento, le fanterie mossero all'attacco da Plava al mare. Nel settore di Plava, ove si tendeva a raggiungere l'arco di alture Kobilek-Vodice, la brigata Firenze (127° e 128°) andò all'attacco di Globna, la Forlì (43° e 44°) contro la quota 383 e la Ravenna (137° e 138°) contro Zagora. Dappertutto i reticolati furono trovati quasi intatti; fu necessario, quindi, attendere la notte per tentare di aprire le brecce con tubi di gelatina. Gli attacchi, tuttavia, ripetuti nei giorni 22, 23 e 24, furono sempre prontamente arrestati dagli Austriaci. Non era possibile, d'altra parte, estendere l'occupazione sui lati della quota 383, se prima non si fosse riusciti ad avere ragione di questa, ma "contro quelle rocce - com'ebbe a dire il generale Carlo Montanari (medaglia d'oro) comandante della brigata Forlì, che pochi giorni dopo doveva lasciare gloriosamente la vita su quella stessa fosca altura - e quei reticolati, difesi da numerosi nemici e da ben celate mitragliatrici, la fanteria spiega inutilmente il proprio valore". Il giorno 26, tuttavia, qualche vantaggio fu conseguito dagl'Italiani, sia verso Globna, i cui fortini furono espugnati dal 128° fanteria, sia verso Zagora, ove la brigata Ravenna s'impadronì della cosiddetta "casa isolata". A sera, mentre si stava iniziando lo sgombero dei caduti, contro le truppe estenuate e decimate si pronunciò un violento contrattacco austriaco, preceduto e accompagnato da fuoco violentissimo d'artiglieria; in breve tutto il terreno guadagnato fu riperduto. Sanguinosi furono anche gli attacchi sferrati dalla 4a divisione italiana contro le posizioni del Sabotino, e anche qui qualche trincea fu espugnata il 23 dai reparti delle brigate Pavia (27° e 28°) e Livorno (33° e 34°), ma poi, dopo furiosa lotta, riperduta.

All'ardimento e alla speranza dei fanti del Carso ancora una volta le quattro gobbe del San Michele, i ruderi di San Martino e la dorsale del Sei Busi presentavano il loro fitto intrico di reticolati e trincee. Queste solcavano in ogni senso il San Michele, e nella zona tra San Martino e il Sei Busi gli Austriaci avevano profuso nel terreno arido e leggermente ondulato lavori in scavo e in rilievo e profondi reticolati, disseminandovi nidi di mitragliatrici, disposti abilmente in modo che potessero incrociare i loro ventagli di fuoco su ciascun tratto della fronte. A ciascuno di questi trinceramenti i soldati Italiani avevano dato un nome, rimasto poi famoso: "trincea delle frasche", "trincea dei razzi", "trincea delle celle", "dei morti", "a ipsilon", ecc.

La giornata del 21 la brigata Verona (85° e 86°) scacciava l'avversario dalla borgata di Peteano, ai piedi del San Michele; l'Alessandria (155° e 156°) espugnava un forte trinceramento detto "pulpito", sulla cresta tra San Michele e San Martino: la Catanzaro (141° e 142°) e la Bari (139° e 140°) compivano anch'esse progressi verso la sella di San Martino, pur non potendoli mantenere che in parte. Anche nel settore centrale la brigata Bologna (39° e 40°) s'impadroniva delle trincee delle "celle" e dei "razzi", la Cagliari (63° e 64°) di un tratto di quella "a ipsilon" e la Savona (15° e 16°) di tutti i trinceramenti tra la quota 100 e la quota 118 del Sei Busi. Nella serata stessa del 21, però, gli Austriaci riuscivano a ricuperare quasi tutti i trinceramenti perduti.

Nella zona di Monfalcone il VII corpo d'armata tentò, con la 16° divisione e con una colonna speciale, comandata dal generale Paolini, d'impadronirsi delle alture del Debeli e del Cosich per spingersi poi verso l'Hermada; ma, ferito il generale Paolini, fermate le truppe dall'artiglieria avversaria, non fu possibile compiere alcun progresso; solo sulla destra la brigata Cremona (21° e 22°) poté porre piede sulle alture di quota 85 e 77 e aggrapparsi ai reticolati di quota 121, ma nella notte veniva costretta a ripiegare.

Proseguì accanita la lotta nei giorni 22, 23, 24; il San Michele, da Boschini alla chiesa di San Martino, fu tutto un fragore d'armi e un tumulto di schiere cozzanti; trincee fra le più contese cedevano all'ardimento dei fanti italiani; il Sei Busi, il Cosich, le quote 85 e 121 vedevano colonne impetuose di fanti ondeggiare nelle vicende di ostinati attacchi, e contrattacchi, ma la situazione generale rimaneva pressoché immutata. Il giorno 25 a tutte le truppe del Carso fu concesso un meritato riposo.

Il 28, la lotta si riaccendeva; più decisa in corrispondenza dei due capisaldi laterali, il Kuk (Cucco, a ridosso di Plava) e il San Michele, e contro i due pilastri della testa di ponte goriziana, il Sabotino e il San Michele. A Plava i fanti della Forlì, della Firenze, della Ravenna attaccavano nuovamente la quota 383 e gli abitati di Globna e Zagora; le dirute case di quest'ultimo villaggio, entro le quali si annidava la più tenace e insidiosa difesa, il giorno 1° novembre cadevano quasi tutte in mano del 125° reggimento fanteria. La lotta si protrasse fino al 3 novembre, in condizioni sempre più drammatiche. La pioggia, che da qualche giorno batteva senza posa l'angusta vallata, aveva ingrossato il fiume, i ponti ruinavano, i rifornimenti diventavano sempre più difficili; nelle trincee inondate dalla pioggia, dal fango e continuamente battute dal fuoco avversario, la vita era tale da far quasi desiderare la morte.

Tra difficoltà press'a poco eguali si combatteva nel settore Sabotino-Oslavia-Podgora. Sulle alture di Oslavia e di quota 188, davanti alle fortificazioni del Grafenberg, sui pendii del Podgora e del Sabotino i soldati italiani davano commoventi prove di eroismo e di resistenza. Il 3 novembre, la brigata Lombardia (73° e 74°) irrompeva nelle trincee di Oslavia, e la Re (1° e 2°) penetrava nel fortino del Grafenberg, ma l'avversario riusciva a riguadagnare tutto il terreno perduto. Anche sul Podgora gl'Italiani si affacciarono più volte alla cresta della collina, donde appariva Gorizia, ma non fu possibile sostenervisi per il tiro dell'artiglieria nemica. Sul Carso pure si era riaccesa la lotta il giorno 28, ma, nonostante i larghi sacrifizi di vite, non si poterono conseguire risultati d'importanza, salvo qualche progresso nella zona del San Michele. Dopo più di quindici giorni di quella lotta durissima e resa ancor più gravosa dall'inclemenza del tempo, la battaglia dovette essere sospesa.

Per il 10 novembre fu ordinata la ripresa, con carattere risolutivo da Oslavia al Sei Busi, dimostrativo sugli altri tratti della fronte.

Nelle linee italiane, intanto, benché si fosse cercato di concedere un turno di riposo ai reparti maggiornnente provati, si era fatto sempre più largo un certo senso di sfiducia e di stanchezza, che la stagione particolarmente avversa accresceva. Furono questi giorni del novembre 1915 tra i più tristi e incresciosi della guerra su quel settore; non senza una profonda pena si può ricordare tutta la miracolosa abnegazione e il quasi rassegnato fatalismo con cui i fanti italiani passarono per giorni e giorni dagli orrori della trincea a quelli del combattimento, quasi sempre altrettanto sanguinoso quanto sterile di risultati.

Il mattino del 10 novembre, il cannone tuonò nuovamente da Plezzo al mare. Sull'alto le operazioni della 2ª armata, che ebbero del resto scopo più che altro impegnativo, furono ostacolate, e infine assolutamente impedite da forti bufere, scatenatesi in tutta la zona. Sul Javorček tuttavia, sul Mrzli, sul Vodil, furono conquistati alcuni trinceramenti.

Su Santa Maria e Santa Lucia le truppe dell'VIII corpo d'armata (gen. Briccola), benché flagellate dall'artiglieria austriaca, che le batteva anche alle spalle, risalirono più volte le pendici delle due colline, ma qualche plotone che riuscì ad addentrarsi nelle prime fasce di reticolati non tornò più indietro; altri furono ricacciati da getto di liquidi incendiarî e di gas lagrimogeni. Del pari mancarono risultati d'importanza ai nuovi attacchi nella zona del Plava.

La lotta più accanita si concentrò attorno a Oslavia e alla quota 188. Per due giorni, il 10 e l'11 novembre, il fuoco delle artiglierie austriache, che dalle posizioni del Vodice e dal Santo colpiva anche da tergo le truppe italiane, le zone profonde di reticolati, quasi intatti, che recingevano le posizioni, e il terreno fangoso impedirono ogni progresso, malgrado le gravissime perdite nelle file degli attaccanti. Ma granatieri di Sardegna, fanti della Lombardia (73° e 74°) e dell'Ancona (69° e 70°) gareggiavano in valore, e il mattino del 12, alfine, i ruderi di Oslavia venivano occupati. Dopo essere rimasti tutta la notte sotto la pioggia e la reazione delle artiglierie nemiche, ferito il generale Porta, comandante della brigata Ancona, resi quasi inutili i fucili dal fango, minacciati d'aggiramento sulla sinistra i resti del 700 fanteria, le esauste truppe dovettero cedere la conquista. Il I8 novembre si riaccese fierissimo il combattimento e il mattino del 20 sia la quota 188, sia Oslavia, attaccate la prima dalla 4ª divisione, la seconda dall'11ª, cadevano in mano degl'Italiani. Oslavia veniva più tardi riperduta, ma la quota 188, nonostante il contrattacco avversario, rimaneva quasi completamente ad essi. Il 27 novembre, alfine, dopo quattro giornate di nuovi combattimenti anche i ruderi di Oslavia venivano riconquistati. Sul Podgora, frattanto, la brigata Casale si era affermata sulla sommità del cosiddetto Calvario.

Dopo il duplice successo di Oslavia e del Podgora, negli ultimi giorni del mese si tentò da parte italiana di acquistare il dominio dell'intera riva destra dell'Isonzo, che guardava Gorizia, ma non si riuscì che a ottenere qualche vantaggio locale; fino a quando l'esaurimento delle truppe, la mancanza di complementi, di munizioni e l'incalzare della cattiva stagione consigliarono di rinunziare a ulteriori operazioni.

Prima però della sospensione dell'offensiva, un buon successo fu riportato dagl'Italiani anche sul Carso, con la conquista del costone di quota 124 (propaggini del San Michele, verso Boschini) per opera delle brigate Perugia e Lazio. La brigata Sassari (151° e 152°), inoltre, nel pomeriggio del 15 novembre conquistava la trincea delle "frasche", e all'alba del giorno seguente quella dei "razzi". Tutti i contrattacchi avversarî venivano spezzati. Il generale Gabriele Berardi (medaglia d'oro), comandante della brigata, lasciava la vita sulle posizioni conquistate. Anche qui fino agli ultimi giorni di novembre si continuò nella lotta, e altri trinceramenti i soldati italiani del Carso strapparono al nemico, ma la barriera difensiva, che precludeva la via al Vallone, non si poté compiutamente infrangere. D'altra parte, anche se il morale delle truppe si manteneva abbastanza alto, queste erano giunte ormai al limite d'ogni resistenza; nelle trincee ridotte a solchi ripieni d'acqua e di fango e nei ricoveri franati i soldati vivevano semi-assiderati, offrendo facile presa alle malattie che infierivano.

Il 2 dicembre, quindi, dopo due mesi circa di combattimenti, la grande offensiva autunnale veniva sospesa. Essa era stata così a lungo protratta anche per sostenere indirettamente la Serbia, contro la quale si era sferrato il triplice attacco austro-bulgaro-tedesco. Concepita come uno sforzo enorme dal Rombon al mare, diretto a vincere la difesa di Tolmino e a sboccare nella valle dell'Idria, a impossessarsi del campo trincerato di Gorizia e a portare la lotta sull'altipiano carsico a oriente del vallone, essa aveva dovuto a mano a mano restringere i suoi obiettivi, per la difficoltà del terreno, la resistenza del nemico, la non eccessiva disponibilità dei mezzi offensivi italiani, e anche per la stagione particolarmente immite. Circa 113.000 uomini costò l'intera battaglia all'esercito italiano, tra morti, feriti e dispersi, mentre l'esercito austriaco perdette circa 80.000 uom-ni, oltre 28.000 prigionieri. Quest'offensiva era valsa a confermare la dolorosa esperienza che per aver ragione dei moderni sistemi difensivi era necessario, soprattutto, acquistare assoluta superiorità sul nemico in mezzi tecnici per controbattere le artiglierie avversarie, per distruggere i reticolati, per proteggere le fanterie nell'avanzata e render loro possibile di mantenersi sulle posizioni raggiunte.

Le offensive franco-inglesi in Champagne e nel settore di Lilla, pur condotte con la proporzione di forze di 6 a 1, non avevano dato risultati maggiori delle italiane sul Carso, condotte con la proporzione di 3-2 a 1. È, del resto, opportuno tener presente che fin verso la fine del 1917 nessuno riuscì a ottenere risultati veramente apprezzabili contro fronti saldamente organizzate.

Nella zona montana. - La linea difensiva scelta dagli Austriaci nella fronte montana offriva dappertutto ad essi posizioni dominanti e per gl'Italiani di difficile accesso; ogni strada importante era sbarrata, ogni valico sorvegliato dall'alto, ogni valle infilata allo sbocco da un'altura che vi stava a guardia. La montagna, poi, contribuiva alla guerra con risorse inesauribili, che tutte sapientemente venivano sfruttate dall'avversario e moltiplicavano l'efficacia delle forze in lotta.

Alle forze che guernivano la fronte italiana dallo Stelvio alla Croda Grande (1ª armata) il Comando supremo italiano, come già si è accennato, aveva assegnato un compito puramente difensivo; si doveva, tuttavia, cercare di conquistare tutte quelle posizioni che potevano valere a migliorare la difesa. Fin dagli ultimi di maggio si era impegnato il duello tra le artiglierie italiane e quelle dei forti austriaci, sugli altipiani di Folgaria e di Lavarone. Il limitato spessore della catena montana in quel tratto di frontiera, la facilità per il nemico di concentrarvi grosse masse, data la sua ottima rete logistica, i potenti apprestamenti difensivi facevano di quella zona la più probabile base di partenza per eventuali azioni offensive austriache; era perciò opportuno cercare di allargare l'occupazione italiana in quel settore, e possibilmente portare la linea difensiva al di là della zona fortificata. Ma alle potenti e moderne artiglierie delle fortificazioni austriache gl'Italiani, oltre le batterie in cupola corazzata dei forti di Punta Corbin, Campomolon e Verena, non potevano opporre che poche batterie pesanti, di tipo antiquato e talune già logore, con munizionamento limitato e in parte poco efficace. Così quando, alla metà d'agosto e poi ancora ai primi d'ottobre, il V corpo d'armata (gen. Aliprindi) tentò di spingersi verso il margine nord-ovest degli altipiani di Lavarone e Folgaria, si scontrò in una duplice barriera insormontabile: quella costituita dai forti austriaci ancora in piena efficienza, e quella dei reticolati, contro cui, al solito, i mezzi a disposizione erano assolutamente inefficaci. Qualche progresso venne tuttavia compiuto nell'agosto, specialmente al passo della Borcola, sulle alture adiacenti, e in Valsugana, ove fu raggiunta la dorsale M. Armentera M. Salubio, che serra a ovest la conca di Borgo. In altri settori, invece, l'abilità e la sorpresa potevano avere il sopravvento. Nella zona del Tonale, infatti, furono occupate, alla fine d'agosto, alcune importanti posizioni che permettevano di affacciarsi alla conca di Presena; in Val d'Adige, tra gli ultimi d'ottobre e i primi di novembre, la linea italiana venne spinta sulla sinistra del fiume sino alla depressione di Loppio e sulla destra fin quasi alle porte di Rovereto; nelle Giudicarie, infine, le truppe del III corpo d'armata (gen. Camerana), espugnati, nei giorni tra il 19 e il 22 ottobre i monti Melino e Palone e la cima Nodic, ampliavano l'occupazione in Val d'Ampola e in Val di Ledro, con il possesso di Pieve di Ledro e dell'abitato di Bezzecca.

Compito offensivo era invece riservato all'armata del Cadore (IV), la quale, occupati i più importanti passi di confine e la conca di Cortina d'Ampezzo, doveva procedere all'investimento degli sbarramenti nemici esistenti nella zona; le fortificazioni, cioè, di La Corte e di Valparola, che chiudevano l'accesso alle valli di Livinallongo e Abbadia, e quelle di Landro-Platzwiese e di Sexten, che impedivano di scendere nella Val Pusteria e recidere l'arteria ferroviaria che univa il Trentino alla monarchia austriaca. Durante il mese di giugno le truppe del I corpo d'armata (gen. Ragni) avanzarono in Val Boite, arrestandosi sotto il Son Pauses, le cui difese resistettero tenacemente a due attacchi della 2ª divisione; in Valle Ansiei, dove fu occupata la gobba meridionale del M. Piana, e in Val Padola, ove il giorno 13 il battaglione alpini Fenestrelle poté impadronirsi di cima Palombino. Le truppe del IX corpo (gen. Marini) invece, si spinsero in val Costeana e in Val Cordevole, fino ai primi costoni del Col di Lana; importante posizione che, elevandosi quasi bruscamente alla confluenza del Cordevole e del rio Andraz, domina nettamente e per lungo tratto tutta la zona circostante.

Il 5 luglio, giunte le artiglierie pesanti ch'erano assegnate all'armata e apprestate nelle loro posizioni, s'iniziò l'attacco agli sbarramenti. Ma troppo scarse erano le artiglierie per tentare un'azione su fronte così vasta e di tanta importanza, tanto più che v'era da attendersi una forte resistenza austriaca, non tanto per la potenza intrinseca delle opere fortificatorie quanto per il vitale interesse che aveva il nemico di contendere il passo verso le sue linee principali di rifornimento. Tanto questo primo attacco, quindi, quanto il secondo, iniziato ai primi d'agosto, e il terzo, protrattosi tutto l'ottobre e i primi giorni di novembre, non poterono conseguire che scarsì risultati. Al nemico, favorito specialmente dalla natura delle posizioni, riusciva non difficile, e con forze relativamente non numerose, di respingere le fanterie italiane, per quanto in queste non difettassero ardimento e resistenza alla montagna.

Sul M. Cavallino e sul M. Piana, sul Rothek e sul Seikofl, sul Cristallo e sulle Tofane, sul Lagazuoi e sul Col di Lana ripetute volte gl'Italiani attaccarono le posizioni nemiche, ma ben di rado fu possibile mantenersi sulle posizioni conquistate, ove si eccettuino quelle nel gruppo del Cristallo e nelle Tofane. Particolarmente dura fu la lotta ingaggiata dal IX corpo (gen. Segato), alla metà d'ottobre, per l'espugnazione del Col di Lana e delle difese dell'alto Cordevole-Valparola. Le condizioni atmosferiche erano venute, nel settembre, rapidamente peggiorando. Tuttavia, anche per dare un concorso all'offensiva che si svolgeva sull'Isonzo, il nuovo comandante della 4ª armata, gen. Nicolis di Rob lant, succeduto il 25 settembre al gen. Nava, volle che a queste operazioni nel Cadore fosse impresso particolare carattere di decisione.

Per giorni e giorni, quindi, le truppe della 17ª divisione si prodigarono in attacchi disperati alle trincee che sbarravano l'accesso alla Valparola; i comandanti della linea furono più volte cambiati e i generali stessi comandanti delle brigate si posero in testa alle colonne di assalto, ma ciò malgrado non fu possibile aprirsi il varco. Più fortunata, invece, fu la lotta della 18ª divisione per il possesso del Col di Lana. Il 26 ottobre, infatti, dopo varî giorni di tenacissimi sforzi, il tenente colonnello Giuseppe Garibaldi, al comando di due battaglioni del 59° fanteria e uno del 51°, attaccava la forte posizione denominata "Cappello di Napoleone" e se ne impossessava, occupando anche la sella tra il "Cappello" e la cima Lana. Due giorni dopo, un battaglione del 52° fanteria riusciva a occupare l'altra formidabile posizione detta "Panettone". Dopo breve preparazione d'artiglieria, il mattino del 7 novembre, si mosse all'attacco degli estremi baluardi di vetta; un battaglione del 60° fanteria raggiungeva quota 2464, ma nella notte l'avversario, dopo aver furiosamente bombardata la vetta, riusciva a riconquistarla. Ogni tentativo di ricacciarlo fu vano, nonostante il valore delle brigate Alpi e Calabria. Forti nevicate, verso la fine di novembre, vennero a imporre una tregua sulle tormentate posizioni.

La situazione nella zona Carnia, dopo i combattimenti delle prime settimane di guerra, si era resa pressoché stazionaria in uno dei settori, quello del Fella; non così nell'altro, quello del But-Degano, dove le posizioni occupate, il Pal Grande e il Pal Piccolo, diventarono oggetto di attacchi quasi quotidiani da parte degli Austriaci. Uno di questi, più degli altri violento, riuscì, il 1° giugno, a travolgere il presidio italiano di Pal Piccolo, ma gli alpini dei battaglioni Tolmezzo, Val Varaita e Val Tagliamento ristabilivano quasi completamente la posizione. Un nuovo attacco degli Austriaci, nella notte successiva, veniva ancora respinto; qualche giorno dopo, anzi, essi perdevano anche la Cresta Verde (tra lo Zellonkofel e il Pizzo Collina) e lo Zellonkofel. Le artiglierie italiane della Val Dogna e di Val Raccolana, seguitavano frattanto a battere il forte di Malborghetto e quelli di Raibl e del Predil; azioni di dettaglio erano dirette a migliorare la situazione difensiva italiana.

L'attività principale delle truppe italiane della zona Carnia, nei mesi dall'agosto all'ottobre, si manifestò soprattutto nel dare appoggio alle operazioni della 2ª armata nella conca di Plezzo. Agli Austriaci, invece, riuscì con un attacco di sorpresa, il 14 settembre, di ricacciare gl'Italiani dal tratto di cresta M. Lodin-Cima di Val di Puartis (alto Chiarzò) costringendoli a ripiegare sulla seconda linea di M. Paularo. Il mal tempo venne presto a diminuire la combattività di entrambe le parti.

L'inverno del 1915. - Il 1915 finiva, dopo circa otto mesi di lotta accanita e quasi ininterrotta, senza che si fosse raggiunto alcuno dei grandi obiettivi strategici, ma questa prima campagna di guerra, per quanto sterile di grandi risultati, rimane pur sempre per l'esercito italiano la campagna entusiasta ed eroica, in cui i più bei reggimenti, prodigandosi senza risparmio di vite sui margini del Carso e sulle balze alpine, pagarono il primo, generoso tributo alla vittoria con oltre 66.000 morti, 180.000 feriti, 12.500 dispersi. L'Austria aveva avuto circa un anno di tempo per preparare il confine italiano a difesa e per imporre il metodo di lotta, cosicché la guerra assunse sulla fronte italiana, fin dai primi giorni, il carattere di lotta di posizione, mentre su tutti gli altri teatri si era avuta una fase, più o meno lunga, di guerra di movimento. Il soldato italiano aveva dovuto, così, acconciarsi ad un genere di lotta tanto contrario alla sua natura e per il quale difettavano mezzi, preparazione, addestramento. Si venne, quindi, rivelando, attraverso le prime battaglie, uno squilibrio, sempre più accentuato e drammatico, tra la capacità di resistenza della poderosa armatura avversaria e quella di sfondamento che i mezzi a disposizione dell'Italia potevano concederle. Alla fine dell'anno, tuttavia, in tutti i tratti della fronte si erano ottenuti risultati notevoli, quali il resecamento del grande saliente trentino nelle sue estremità meridionali; la conquista dell'alto Cordevole fino a Cherz e della conca di Cortina d'Ampezzo, con i due massicci delle Tofane e del Cristallo; la conquista della conca di Plezzo fino alle pendici del Rombon e del Javorček, e l'occupazione di buona parte del massiccio del M. Nero, il mantenimento della testa di ponte di Plava, l'espugnazione delle prime poderose linee di difesa della piazzaforte di Gorizia e dell'altipiano carsico. L'Italia aveva, inoltre, reso un grande, inestimabile servigio agli alleati, entrando in guerra in una delle fasi più critiche per l'Intesa, e vincolando alla sua fronte da venti a venticinque divisioni austriache, che avrebbero potuto altrimenti rovesciarsi sulla fronte franco-inglese.

Con il sopravvenire dell'inverno un altro formidabile problema s'impose allo studio del comando italiano, quello della campagna invernale. La fronte italiana si svolgeva quasi completamente in zone montane, che in molti tratti sorpassavano i duemila e raggiungevano anche i tremila metri di altitudine. Bisognava, quindi, procurare a centinaia di migliaia di uomini, per la maggior parte non avvezzi ai rigori del clima alpestre, il modo di svernare in condizioni di piena efficienza bellica e di perfetta sanità fisica, così da conservare tutti i guadagni di terreno fatti durante i primi otto mesi di guerra, e da essere pronti, poi, con il ritorno della primavera, a riprendere le operazioni offensive. Non si era mai avuto esempio nella storia di un esercito poderoso accampato in pieno inverno nella zona alpina. Questo sforzo grandioso costituisce giustamente un nuovo, altissimo vanto per l'esercito italiano.

Dal dicembre alla metà di febbraio l'immite stagione non permise, specialmente nelle regioni più alte, di effettuare nuove operazioni offensive. Tuttavia, da entrambe le parti si mantenne sempre viva l'attività delle artiglierie e si tentarono frequenti incursioni con pattuglie, specialmente di sciatori; in varî tratti della linea furono svolte anche azioni di dettaglio, intese a rettificare la fronte. Così in Val di Ledro, nei giorni 7 e 8 dicembre, furono espugnati il M. Vies e una serie di posizioni elevate sul massiccio di M. Nozzolo-M. Cadria; negli ultimi giorni di dicembre, nella zona del M. Altissimo, gli alpini s'impossessavano dell'altura di Dosso Alto; il 4 febbraio, in Val d'Astico, si conquistava uno sperone avanzato, che fino allora aveva costituito per gli Austriaci uno dei suoi migliori osservatorî. Il 15 dello stesso mese, infine, in Val Sugana venne attaccato e occupato il M. Collo, a nord-ovest di Borgo. Il mese di febbraio segnò il culmine dell'inverno. Ai disagi normali si aggiunse la quotidiana insidia delle valanghe, che caddero con particolare frequenza tra la fine di febbraio e i primi giorni di marzo, facendo numerose vittime nel Cadore e nella Carnia.

In quest'ultima regione gli Austriaci, il 13 febbraio, sloggiavano un reparto alpino dalle posizioni del M. Cukla, contrafforte del Rombon; all'alba del 26 marzo, poi, costringevano una compagnia alpina che presidiava il cocuzzolo del Pal Piccolo, a ripiegare sotto la cresta. Tre contrattacchi italiani venivano respinti, ma al quarto, condotto da alpini e bersaglieri del 16° reggimento, la posizione veniva quasi completamente riconquistata. Una perdita dolorosa fu quella delle posizioni di Oslavia e di quota 188, davanti a Gorizia, che, strappate una prima volta dagli Austriaci nella notte sul 15 gennaio, ma subito riconquistate, furono, nuovamente perdute dagl'Italiani nel pomeriggio del 24 dello stesso mese.

Importante fu anche tutta la serie di provvedimenti organici, attuati durante l'invernata dalle autorità italiane, sia per la creazione di nuovi reparti destinati alla fronte, sia per perfezionare e arricchire i varî armamenti e le dotazioni di materiali. Furono creati, infatti, quattro nuovi corpi d'armata, otto divisioni, trentaquattro reggimenti di fanteria, quattro di bersaglieri, sedici battaglioni alpini; aumentato di gran lunga il numero delle mitragliatrici e delle bocche da fuoco di tutti i tipi; iniziata la costruzione delle bombarde e molto migliorato l'armamento della fanteria.

La primavera del 1916. - Ai primi di marzo la situazione militare sulle altre fronti, già poco favorevole per l'Intesa, andò facendosi tale da richiedere un sollecito concorso da parte italiana. Austria e Germania, infatti, guadagnata alla propria causa la Bulgaria, avevano, nell'ottobre-novembre, sferrato un triplice attacco contro la Serbia, costringendo in breve lo stremato esercito serbo a cercare, dopo lunga, tragica ritirata, un ultimo scampo nei porti dell'Adriatico e nel fraterno aiuto delle nazioni alleate. Tra queste, per numero di navi e di viaggi, per entità di tonnellaggio, per prontezza e abnegazione, emerse la marina italiana, che assolse mirabilmente il suo compito, pur tra difficoltà e insidie d'ogni genere: coste inospiti, stagione avversa, agguati di sommergibili e di siluranti, attacchi di aerei, sbarramenti di mine.

Eliminata dalla lotta la Serbia, venne ben presto la volta del Montenegro. Dopo una breve campagna, con carattere più che altro di guerriglia, il giorno 10 gennaio gli Austriaci poterono impadronirsi del munitissimo Lovčen, che era la chiave strategica di tutta la regione, e costringere il piccolo stato alla capitolazione, avvenuta il 25 gennaio. Attraverso il Montenegro, gli Austriaci dilagavano in Albania, così che, sotto il tiro dei cannoni nemici, l'Italia fu costretta, negli ultimi giorni di febbraio, a sgombrare affrettatamente Durazzo, riducendo la propria occupazione a sud della Volussa. Le truppe franco-inglesi, d'altra parte, che, sbarcate a Salonicco nell'ottobre, avevano invano tentato di portare un aiuto alla Serbia, dovettero ritirarsi nel campo trincerato di Salonicco e di là preparare la formazione di una fronte macedone. Davanti alle basi fortificate di Valona e di Salonicco l'offensiva austro-tedesca si arrestò, esausta. Data la situazione determinatasi in Oriente, gl'Imperi centrali avevano mano libera per agire a fondo sulle fronti occidentali; alacremente, perciò, si vennero preparando i Tedeschi all'attacco di Verdun, e gli Austriaci a una grande offensiva in Trentino. Ma, poiché i recenti successi della coalizione avversaria avevano dimostrato che non ultima ragione di essi era l'unità d'indirizzo, se non di comando, il 6 dicembre era stato convocato a Chantilly un convegno degli Stati Maggiori alleati, per meglio coordinare l'azione degli alleati. Primo effetto di questa riunione fu che allorquando alla fine di febbraio s'iniziò l'attacco tedesco a Verdun, il Comando supremo italiano si affrettò a dare ordini alla 2ª e alla 3ª armata di riprendere la pressione offensiva, allo scopo d'impedire eventuali spostamenti di truppe austriache verso la fronte francese e di raggiungere risultati che, direttamente o indirettamente, costituissero un passo avanti verso il graduale obiettivo dell'avanzata verso est, e cioè la conquista dei campi trincerati di Gorizia e di Tolmino.

Fu questa la quinta battaglia dell'Isonzo, che, iniziatasi il giorno 11 marzo con nutrito fuoco d'artiglieria e protrattasi sin verso la fine del mese, si limitò ad azioni con carattere essenzialmente dimostrativo per la seconda armata, a causa soprattutto d'un improvviso e persistente peggioramento delle condizioni atmosferiche; sulla fronte della 3ª armata, invece, le truppe dell'XI corpo d'armata attaccarono, il giorno 13, la fronte cima 4 del San Michele-San Martino, impadronendosi di due forti posizioni, chiamate "Ridottino" e "Dente del Groviglio". Ma successivi contrattacchi austriaci riuscirono, nei giorni 15 e 16, a ristrappare il terreno conquistato. Notevoli vantaggi furono anche conseguiti dal VI corpo d'armata davanti a Gorizia. La 12ª divisione, infatti, s'impossessò il giorno 14 di uno sperone del Podgora (il cosiddetto "Naso di Lucinico"), e la 4ª, tra il 14 e il 17, compì qualche progresso nel settore di Oslavia, raggiungendo la linea detta della "Madonnina", davanti alla quota 188; nel settore Val Peumica (Val della Piumizza)-Sabotino furono incluse nelle linee italiane le posizioni di Casa Abete, in val Peumica, e del Bosco Quadro, sull'alto Sabotino. La sera del 19, però, il nemico passava alla controffensiva nei tre settori di Tolmino, di Gorizia e del San Michele. Nel primo settore riuscì all'avversario di strappare agl'Italiani la posizione detta "Trucchetto" sul Mrzli, e a costringerli all'abbandono dell'altura di Santa Maria, già, del resto, deciso da tempo, come quello di Santa Lucia; nel settore gorizianoo e in quello carsico, venne prontamente contenuto e respinto. Tentò nuovamente, nei giorni tra il 27 e il 29, d'insinuarsi in qualche tratto della fronte Podgora-Oslavia, ma toccò uno scacco sanguinoso; le posizioni della Madonnina e del Lenzuolo bianco, davanti Oslavia, videro i combattimenti più aspri. All'estrema destra della 3ª armata le truppe del VII corpo d'armata espugnarono alcuni forti trinceramenti avversarî, mantenendoli contro successivi contrattacchi. Con la fine di marzo si può considerare finito questo breve periodo offensivo, che non portò alcun sostanziale mutamento nella situazione generale.

S'iniziò allora una serie di azioni italiane, per la maggior parte vittoriose, nelle zone di montagna, benché non ancora libere dalle nevi. Fortunate furono particolarmente le azioni svoltesi nel territorio della 4ª armata, e cioè la conquista di Punta e di Pizzo Serauta (m. 3053), nel massiccio della Marmolada, arditamente compiuta il giorno 6 aprile da reparti della brigata Alpi; l'occupazione di Passo della Sentinella, importante insellatura che mette in comunicazione l'alta Val Padola con la valle di Sexten, effettuata con abile manovra avvolgente dalle truppe del settore Padola-Visdende, al comando del gen. venturi (16 aprile); e infine la conquista di Cima Lana, ottenuta mediante il brillamento (18 aprile) di una poderosa mina predisposta sotto la vetta.

Sulla fronte della 1ª armata fu iniziata, ai primi d'aprile, una serie di operazioni per la conquista del margine occidentale della conca di Borgo, in Val Brenta. Tra il 14 e il 17 aprile le truppe della 15ª divisione s'impadronirono d'importanti posizioni, quali il M. Carbonile e l'altura di Sant'Osvaldo, ma gli Austriaci, passati il giorno 16 alla controffensiva, costringevano gl'Italiani ad arretrare nuovamente la fronte fino alla linea Maiter-Roncegno. Contemporaneamente la 6ª divisione italiana entrava in azione in Val di Ledro, per migliorare la situazione difensiva e per acquistare il dominio della vallata e della strada del Ponale. Con varî combattimenti, svoltisi fra il 3 e il 15 aprile, furono raggiunte e saldamente occupate la posizioni a nord del solco del Ponale, tra costa di Salò e il M. Sperone, prospiciente il Lago di Garda.

Nella zona dell'Adamello, tra il 12 aprile e la metà di maggio, gli alpini, guidati dal valoroso col. Giordana (più tardi caduto sugli Altipiani e decorato di medaglia d'oro), irrompevano in due successive linee di trinceramenti, passanti l'una per Lobbia Alta-Dosson di Genova-M. Fumo e l'altra per il Crozzon di Fargorida-Crozzon di Lares-Passo di Cavento, acquistando così il dominio dell'alta Val Genova. Queste operazioni, condotte per più giorni su ampie distese di ghiacci, ad altitudini superiori ai tremila metri, ritenute fin allora interdette a operazioni militari, e in stagione non propizia, sono forse uniche nella storia.

L'offensiva austriaca in Trentino. - Fin dal febbraio, intanto, il Comando supremo austro-ungarico aveva iniziato i preparativi per una grande offensiva contro l'Italia, mirante allo sbocco della pianura vicentina, attraverso gli altipiani di Folgaria, Lavarone e Asiago, e minacciante alle spalle le rimanenti forze italiane, schierate dal Cadore alla fronte Giulia: vecchio progetto, questo, del gen. Conrad von Hötzendorff, capo di Stato Maggiore dell'esercito imperiale. Fu costituita, quindi, una potente massa d'urto, di due armate (3ª e 11ª) al comando dell'arciduca Eugenio; circa 194 battaglioni. L'armata di destra (11ª) al comando del gen. Dankl doveva, attraverso la zona del Pasubio e l'altipiano di Folgaria, puntare in direzione di Schio e Thiene; quella di sinistra (3ª), al comando del gen. Kövess, doveva, in un secondo tempo, scendere al piano fra Thiene e Bassano, per l'altipiano di Asiago e la Val Sugana. Un imponente nucleo di artiglierie fu riunito per lo sforzo offensivo, cui fu dato il nome pomposo di Straf-Expedition (spedizione punitiva): 1500 pezzi circa, dei quali 376 fra grossi e medî calibri.

La 1ª armata italiana, al comando della quale il gen. Pecori-Giraldi aveva sostituito, il 10 maggio, il generale Brusati, era stata alquanto rinforzata alle prime avvisaglie dell'offensiva avversaria, ma né la sua efficienza in uomini e armi né la consistenza delle sue linee di difesa erano tali da poter resistere a uno sforzo così poderoso. Infatti, alla vigilia dell'offensiva essa non aveva che 118 battaglioni in linea e 40 in riserva, con poco più di 700 pezzi d'artiglieria, parecchi dei quali logori e di tipo antiquato. Dietro la prima linea, poi, che, rappresentando il limite raggiunto con i successivi sbalzi offensivi, non era sempre appoggiata a capisaldi e spesso si mostrava scoperta e dominata, non c'erano che altre due linee di difesa, le quali per un complesso di circostanze (difetto di materiali di mina, prolungata permanenza delle nevi sulle posizioni più alte, eccessivo scetticismo del Comando supremo. circa la possibilità di un'offensiva avversaria in un settore montano ed eccentrico) erano poco più che abbozzate.

Nelle prime ore del 15 maggio le artiglierie austriache entrarono in azione su tutta la fronte, dal Garda alla Val Sugana, e con particolare intensità sugli altipiani di Folgaria e di Lavarone; verso le ore sette, perdurando ancora il tiro intensissimo delle artiglierie, cominciarono a pronunciarsi gli attacchi delle fanterie nella zona fra l'Adige e l'Astico e in Val Sugana. Rese intenibili le trincee italiane dal tiro dei grossi calibri nemici, i difensori, decimati e sorpresi dall'irruenza dell'attacco, furono ben presto costretti ad abbandonare le posizioni più avanzate; nel settore Val Lagarina-Vallarsa, appoggiandosi ai due pilastri del Coni-Zugna e del Pasubio; nel settore tra la Val Terragnolo e la Val d'Astico ritraendosi sulla linea di resistenza di M. Toraro-Campomolon-Spitz-Tonezza; in Val Sugana, su quella di cima Caldiera-Ospedaletto-sponda sinistra del torrente Maso. Nel settore val Lagarina-Vallarsa e in Val Sugana, però, l'irruzione avversaria poté essere, nei giorni successivi, arginata. Dal giorno 20 alla fine del mese, infatti, gli Austriaci sferravano violenti attacchi contro il Pasubio e contro il Passo Buole, insellatura alle spalle di Coni Zugna che collega la Val d'Adige con la Vallarsa, ma urtavano dappertutto contro una resistenza tenacissima. Particolarmeme accanita fu la lotta sul Passo Buole, contro cui gli Austriaci si lanciarono più volte nei giorni dal 23 al 28, sempre invano. Il mattino del 30 maggio, infine, dense forze austriache tentarono ancora una volta di respingere dalla sella le forze che la difendevano (tre battaglioni della brigata Sicilia e due della Taro), ma toccarono uno scacco tale da dover rinunziare a ulteriori tentativi. Anche in Val Sugana, un tentativo avversario - nei giorni 25 e 26 - di spezzare la linea italiana del torrente Maso, ebbe esito disastroso; da quel giorno nessun altro attacco fu più tentato dagli Austriaci in quel settore. Al centro, invece, nella notte sul 19, gl'Italiani dovettero abbandonare anche la linea del Toraro-Campomolon, sottoposta al fuoco distruttore dei forti austriaci e fortemente premuta dalle fanterie avversarie. Discesero gl'Italiani nel sottostante bacino del Posina e dell'Astico, ma il giorno 25, perduto il M. Cimone, a ridosso di Arsiero, e occupata dal nemico Arsiero stessa, dovettero ripiegare ancora fino alla linea montuosa del Novegno, estremo spalto verso la pianura.

Il giorno 20, intanto, la 3ª armata austriaca aveva iniziato l'attacco sull'altipiano di Asiago, sfondando la linea italiana nel tratto Marcai-Costesin, nonostante la resistenza opposta dalle brigate Salerno e Ivrea (34ª divisione) e costringendo i difensori a ripiegare dapprima sulla linea dell'Assa (Cima Bocchetta di Portule e sponda sinistra dell'Assa), e poi il giorno 27, rotta a nord anche la difesa dell'Assa, sulla linea marginale dell'altipiano, passante per punta Corbin-M. Lemerle-M. Kaberlaba-M. Sisemol-M. Fior-Cima Caldiera. Su questa linea il generale Cadorna, in un suo telegramma al gen. Lequio, che il giorno 23 maggio aveva assunto il testé creato Comando delle truppe dell'altipiano, avvertiva "doversi salvare l'onore e la fortuna d'Italia".

Alla fine di maggio, quindi, l'ondata austriaca, il cui impeto era venuto a mano a mano rallentando con l'allontanarsi delle basi di partenza, era giunta a contatto con la grande sbarra montana Coni Zugna-PasubioNovegno e con la linea marginale dell'altipiano, ove il Comando supremo italiano faceva continuamente affluire nuove forze. Per affrontare poi l'avversario nel caso che fosse riuscito ad aprirsi il passo verso la pianura, il Comando supremo aveva rapidamente riunito e concentrato nel triangolo Padova, Vicenza, Cittadella, una nuova armata (5ª) della forza di cinque corpi d'armata, al comando del gen. Frugoni. E questa rapida adunata di truppe nella pianura veneta fu una delle più felici e riuscite manovre logistiche di tutta la guerra mondiale.

Tra gli ultimi di maggio e i primi di giugno gli Austriaci accentuarono la loro pressione sulle posizioni italiane del Pasubio e su quelle di M. Alba-Colle Xomo-Colle di Posina, ma inutilmente tentarono di aver ragione della magnifica difesa. Sull'altipiano di Asiago, invece, l'attacco austriaco riuscì a conseguire qualche altro successo. Già il giorno 29 si era dovuto abbandonare il forte di Punta Corbin, e il 30 il nemico lanciava forti scaglioni contro la fronte M. Cengio-M. Barco-Belmonte, con lo scopo evidente di aprirsi il passo al piano lungo la rotabile di Val Canaglia. Granatieri di Sardegna, fanti delle brigate Catanzaro, Trapani, Pescara, Novara e Modena si battevano disperatamente, ma il 3 giugno, crollata tutta la difesa del M. Barco e Cesuna, rimasti i granatieri sul Cengio senza cartucce e senza viveri e minacciati di accerchiamento, i pochi superstiti dell'eroica difesa furono costretti a ripiegare sulla sponda sinistra di Val Canaglia, appoggiandosi alle alture del Pau, del Lemerle, dello Zovetto. Il 4 giugno, la direzione della difesa dell'altipiano era assunta dal gen. Mambretti, e il giorno 5 un nuovo e più violento attacco austriaco veniva sferrato al margine orientale dell'altipiano, ove il nemico cercava di forzare il sistema Sisemol-Castelgomberto, per scendere in val Brenta. Per quattro giorni arse la lotta più furibonda su quelle posizioni magnificamente difese da un gruppo alpino di collegamento (sei battaglioni alpini e il 14° reggimento bersaglieri) e dalla brigata Etna, comandata dal generale Prestinari, il vecchio eroe della difesa di Adigrat, che volle morire al suo posto d'onore (medaglia d'oro). Alla fine, il giorno 8, le truppe italiane, esauste, furono costrette a ripiegare sulla linea M. Spil-M. Miela.

Pure, nonostante tali successi parziali, lo sforzo austriaco era prossimo al suo esaurimento, e il Comando supremo italiano ne aveva la precisa sensazione, tanto che il 4 giugno avvertiva il comando della 1ª armata che la "situazione generale consentiva di riprendere l'iniziativa delle operazioni". Ad aggravare, poi, la situazione austriaca sopraggiunsero le notizie di gravi rovesci in Galizia, per opera delle armate russe del sud, comandate dal gen. Brusilov. Autorevoli storici di parte austriaca, però, come il von Cramon e il gen. von Arz, hanno dovuto confessare che l'offensiva poteva considerarsi fallita soprattutto per difetto di forze, ancor prima che si movesse la valanga russa.

Appunto perché il comando austriaco giudicava non possibile continuare l'azione a fondo su tutta la fronte con le scarse forze disponibili, decise di limitare lo sforzo al tratto di fronte a cavaliere dell'Astico. Vennero così ancora gli Austriaci tra il 10 e il 16 giugno all'attacco del Lemerle e dello Zovetto, posizioni che proteggevano da est l'imbocco di Val Canaglia, ma sul Lemerle non riuscirono a compiere che un lieve progresso, e sullo Zovetto toccarono un duro scacco, per opera dei fanti della brigata Liguria, comandata dal gen. Achille Papa (più tardi caduto in combattimento e decorato di medaglia d'oro). L'insuccesso più grave e decisivo, poi, gli Austriaci dovettero subirlo, nei giorni 12 e 13, contro le posizioni del Novegno, difese dalla 35ª divisione. Particolare accanimento ebbe l'attacco austriaco contro il M. Giove, il giorno 12, che si spezzò contro la resistenza della brigata Ancona.

Il 17 giugno, il Comando supremo austro-ungarico si vide costretto a dare l'ordine di arrestare l'offensiva in Trentino. Ma già dal giorno 14 il Comando supremo italiano aveva emanato gli ordini per la controffensiva, che doveva iniziarsi con un'azione delle due ali della 1ª armata e tendere alla rioccupazione del Col Santo e dell'altipiano di Asiago fino al solco dell'Assa e al contrafforte delle Portule. Il mattino del 16, infatti, le truppe dell'altipiano, le quali erano state man mano rinforzate con unità tratte dalla 5a armata, fino a comprendere quattro corpi d'armata (XX, XXII, XIV e XXLV), mossero in avanti. Gli alpini, a nord, presero agli Austriaci le forti posizioni di M. Magari e di cima d'Isidoro, e le truppe del XX corpo oltrepassarono ovunque il margine ovest della piana di Marcesina. Furono inflitte al nemico perdite considerevoli, ma non fu possibile compiere progressi rilevanti. Qualche lieve vantaggio ottennero anche le truppe del X e del V corpo d'armata in Val Posina, Val d'Astico e Vallarsa.

L'avversario, però, era ormai all'estremo delle sue forze e gli era necessario sottrarsi alla minacciosa pressione italiana. Il mattino del 25 giugno, infatti, da tutti gli osservatorî veniva segnalato che gli Austriaci erano in piena ritirata su tutta la fronte, e il comando della 1ª armata ordinava che fossero subito inseguiti fin dove possibile. Ma fin dal giorno 26 apparve evidente che essi si erano ritirati sopra una nuova linea, rapidamente preparata in precedenza e saldamente rafforzata, la quale si svolgeva lungo il percorso: Zugna Torta, M. Corno, Col Santo, Col della Borcola, M. Seluggio, M. Cimone, sponda nord dell'Assa, M. Rasta,M. Mosciagh, Ortigara, M. Civaron, conca di Borgo, Alpi di Fassa.

Mentre le forze italiane dell'altipiano prendevano contatto con la nuova linea austriaca, quelle del Pasubio e della Vallarsa (V corpo), iniziavano l'azione per la riconquista del Col Santo. Fra il 28 e il 30 giugno si combatté accanitamente sia in Vallarsa sia nella zona del Pasubio, con qualche progresso da parte italiana; un forte contrattacco austriaco verso la cima del Pasubio, il 2 luglio, venne respinto.

Il 10 luglio, in Vallarsa, truppe della 44ª divisione (battaglione alpini Vicenza, rinforzato da un battaglione del 69° fanteria e da uno del 70°), dopo avere nei giorni precedenti rioccupato il M. Trappola, mossero alla scalata del M. Corno, impervio torrione che domina nettamente la valle, per cercare di aggrapparsi al pianoro del Col Santo. Venuta a mancare la sorpresa, il battaglione Vicenza, che in parte era penetrato nella posizione nemica, fu sopraffatto da forze superiori, e dopo impari lotta parte dei superstiti furono catturati. Tra questi si trovavano gl'irredenti Cesare Battisti (v.) e Fabio Filzi (v.) che, tradotti a Trento e giudicati da una corte marziale, furono, dopo qualche giorno, impiccati nel Castello del Buon Consiglio.

Sull'altipiano di Asiago, quattro volte gl'Italiani tentarono d'irrompere attraverso la nuova linea nemica: dal 27 giugno al 2 luglio, dal 6 all'8, dall'11 al 13, dal 22 al 24 dello stesso mese. Specialmente nel tratto M. Zebio-M. Interrotto appuntarono i loro sforzi i corpi d'armata XX e XXII e prodigarono valore e sangue le brigate Sassari e Piacenza (25ª divisione), Friuli e Spezia (29ª divisione), Milano, Barletta e Bari (13ª divisione), Arezzo, Rovigo, Benevento e Perugia e il raggruppamento alpino del XX corpo; ma le fortissime posizioni avversarie richiedevano una lunga e paziente opera di sgretolamento, alla quale per il momento si dovette rinunciare, intendendo il Comando supremo italiano inferire al nemico un grande colpo sull'Isonzo. Prima, però, che si passasse allo stato difensivo sulla fronte tridentina, un bel successo fu conseguito, il 23 luglio, dalla 1ª armata italiana con la riconquista del M. Cimone, in val d'Astico, a opera del battaglione alpino Val Leogra e di elementi del 154° fanteria (brigata Novara).

Una serie d'importanti operazioni svolgeva, infine, negli stessi ultimi giorni di luglio, la 4ª armata, con la cooperazione della 1ª in Val Travignolo, per la conquista della linea a sud-est del fiume Avisio, e con obiettivo finale Cavalese. Queste operazioni, compiute dalla 17ª divisione e da un nucleo speciale, comandato dal generale Ferrari e composto del 23°. e 490 fanteria e del 130 bersaglieri, ebbero per risultato la conquista del passo di Rolle, di cima della Cavallazza, del passo Colbricon e delle pendici del piccolo Colbricon (19-20 luglio).

Le perdite complessive nella fronte tridentina furono per gl'Italiani di 15.453 morti, 76.642 feriti, 55.635 dispersi e prigionieri; per gli Austriaci di 10.203 morti, 45.651 feriti, z6.961 dispersi e prigionieri.

La battaglia di Gorizia. - Non era ancor del tutto sopito il fragore delle armi sugli Altipiani, allorché, il 20 luglio, ebbero inizio i trasporti di truppe e di artiglierie italiane dal Trentino. Per concentrare ogni suo sforzo nel Trentino, l'Austria aveva ritirato truppe non soltanto dai Balcani e dalla Galizia, ma anche dal settore isontino. Perciò, dopo un attacco diversivo nella zona di Monfalcone, che, sferrato nell'ora stessa che incominciava l'offensiva in Trentino, conseguì modesti risultati per la pronta reazione delle truppe italiane (4ª divisione di cavalleria appiedata e brigata Cremona), sulla fronte giulia vi era stata come una tregua d'armi.

Questa fu rotta improvvisamente dagli Austriaci, all'alba del 29 giugno, con un attacco nella zona del San Michele, preceduto, per la prima volta sulla fronte italiana, da una larga emissione di gas asfissianti. Le truppe della 21ª e 22ª divisione, ancora per la maggior parte iminerse nel sonno, dopo essere state largamente falcidiate dai gas, furono attaccate da due scelti reggimenti austriaci che procedettero all'occupazione delle posizioni, dove con mazze ferrate furono finiti i pochi Italiani che non ancora avevano soggiaciuto al tossico. Ufficiali generali e superiori, accorsi prontamente in linea e raccolti intorno a sé tutti glì uomini disponibili, riuscivano a opporre un primo argine all'irruzione; da ogni parte, intanto, accorrevano rinforzi e si raffittivano le file per il contrattacco. In breve il nemico fu costretto ovunque ad abbandonare il terreno conquistato e dovette, poi, subire anch'esso le conseguenze dei suoi stessi gas, risospinti dal mutare del vento verso le linee di partenza. Ma anche agl'Italiani quella giornata costò la perdita di circa duecento ufficiali e di oltre sei mila uomini di truppa.

Era vicina, però, l'ora della riscossa italiana sull'Isonzo. In pochi giorni fu compiuta un'enorme opera di preparazione, non soltanto materiale e tecnica, ma anche morale. Una massa imponente di artiglierie e di bombarde (l'arma che in questa offensiva doveva fare la sua prima grande prova) fu riunita per essere schierata sulla fronte d'attacco. La sola 3ª armata venne a disporre di circa 1300 bocche da fuoco. Al VI corpo d'armata (gen. Capello) venne affidata l'azione principale, quella contro Gorizia. Quattro divisioni furono schierate sull'anfiteatro collinoso che guarda la città; la 45ª sul Sabotino; la 24ª sul tratto quota 188-Oslavia; l'11ª contro le posizioni di Peuma e Grafenberg; la 12ª, infine, sulla fronte Podgora-Calvario. Due altre divisioni in riserva, la 43ª e la 48ª. L'azione del VI corpo doveva essere preceduta da un attacco dimostrativo sulla fronte del VII corpo d'armata (Monfalcone) per tenere in dubbio il nemico circa la vera direzione dell'attacco principale; l'XI corpo d'armata e il XIII, invece, dovevano attaccare simultaneamente al VI corpo, sull'altipiano carsico, per cercare di far cadere il pilastro meridionale di Gorizia, il San Michele.

Il mattino del 3 agosto s'iniziò il tiro delle artiglierie dal M. Sei Busi al mare. Nel pomeriggio, le fanterie del VII corpo iniziarono la loro azione dimostrativa; la 16ª divisione, a sinistra, verso i trinceramenti austriaci della cosiddetta "quota pelata" (poco a sud del M. Sei Busi); la 14ª a destra, contro le aspre alture di quota 85 e quota 121. Dappertutto i fanti italiani riuscivano a raggiungere le trincee avversarie e a irrompervi; ma, dopo tre giorni di alterne vicende, dovettero riguadagnare dappertutto le posizioni di partenza. Fu durante queste giornate di lotta che sulla quota 85 il volontario bersagliere Enrico Toti (medaglia d'oro) il quale, già mutilato di una gamba, aveva chiesto e ottenuto di essere arruolato per questa guerra, lanciatosi fra i primi all'assalto e rimasto due volte ferito, raccoglieva le sue forze estreme e lanciava al nemico la sua stampella.

Il mattino del 6 agosto, da Tolmino al mare, le linee austriache furono investite dal tiro delle artiglierie italiane. Alle ore 16 le fanterie iniziarono l'attacco. Sull'alto Sabotino una colonna speciale, della quale aveva voluto assumere il comando il tenente colonnello Badoglio, capo di Stato Maggiore del VI corpo d'armata (78° reggimento fanteria, un battaglione del 58° fanteria, un battaglione del 115°, due compagnie del genio minatori, due batterie di bombarde e una d'artiglieria da montagna), raggiunse e oltrepassò rapidamente la prima linea nemica, travolgendo la resistenza degli esigui gruppi nemici che tentavano di sboccare dalle caverne; scendeva quindi verso San Mauro, ove prendeva contatto con la colonna del basso Sabotino che, al comando del gen. Gagliani, era balzata anche essa avanti. Accanita resistenza spiegava, invece, il nemico dalle trincee verso Val Peumica; cadeva ferito, tra gli altri, lo stesso gen. Gagliani e veniva sostituito dal gen. De Bono, comandante la brigata Trapani, ch'era di riserva. Ma sul far del giorno, mentre il 77° fanteria respingeva un contrattacco avversario sulla fronte San Valentino-San Mauro, una colonna al comando del gen. Cartella, comandante della brigata Pescara, riusciva a infrangere ogni resistenza in Val Peumica. Nella giornata stessa del 6, intanto, la brigata Abruzzi si era rapidamente impadronita di Oslavia e delle trincee adiacenti; la brigata Lambro (205°e 206°), invece, aveva incontrato aspra resistenza sulla quota 188 e sul cosiddetto "Dosso del Bosniaco", e teneva le sue truppe aggrappate alle posizioni così fieramente contese. Sulla destra la brigata Cuneo (7° e 8°), travolta la resistenza del nemico sull'altura del Grafenberg, si era slancìata fino all'Isonzo, ma non aveva potuto avere ragione del fortino del Grafenberg stesso, fortemente munito di mitragliatrici, né la brigata Treviso (99° e 100°) aveva potuto affermarsi sulle colline di Peuma, nonostante le gravissime perdite subite. Sulla fronte della 12ª divisione, la brigata Pavia aveva potuto sorpassare di primo slancio due successive linee di difesa tra la ferrovia e la strada Lucinico-Gorizia e intaccare la terza, e la brigata Casale aveva scavalcato la cresta del Calvario, spingendo elementi fino alle prime case del villaggio di Podgora. La quota 24° del Podgora resisteva, invece, ai reiterati attacchi del 12° fanteria. Nelle prime ore del mattino del 7, mentre ogni resistenza austriaca veniva spezzata sul Sabotino, la brigata Lambro, tornata decisamente all'assalto della quota 188 e del "Dosso del Bosniaco", ne prendeva saldo possesso; la brigata Abruzzi (57° e 58°) s'impegnava per la conquista della quota 165, che soltanto all'imbrunire poté essere espugnata, e la brigata Etna s'impadroniva della quota 138.

Con l'occupazione della Val Peumica e delle quote 188 e 138, il pilastro più importante della testa di ponte era completamente crollato. Resisteva ancora il nemico sul Podgora, frustrando gli sforzi, durati l'intera giornata del 7, delle brigate Casale e Pavia. Caduta la sera, anche le truppe austriache del Podgora tentarono un contrattacco, infranto dalla resistenza del 12° fanteria. Al Grafenberg, invece, riuscì all'avversario di rioccupare il villaggio e le primitive posizioni sull'altura, tagliando fuori i reparti spintisi all'Isonzo.

Da molti sintomi, però, si aveva l'impressione che, nonostante le estreme, disperate difese dell'avversario, Gorizia sarebbe stata presto italiana. Il mattino del giorno 8, infatti, si pronunciava irresistibilmente la marcia italiana verso il fiume, mentre la notizia che nella notte il nemico aveva fatto saltare tutti i passaggi sul fiume, meno quello di Salcano, veniva a confermare i precedenti indizî della grave crisi determinatasi nel campo nemico, fin dalla sera innanzi; infatti, il comando austriaco aveva già dato ordine di ritirata sulla sponda orientale del fiume. Le brigate Trapani ed Etna, quindi, nelle prime ore del giorno 8 entrarono nel villaggio di Peuma, e raggiunsero l'Isonzo; le alture di Peuma furono conquistate dalle truppe dell'11ª divisione; la brigata Cuneo cacciò il nemico dal Grafenberg, liberando taluni di quei reparti che il giorno prima vi erano rimasti accerchiati. Anche sul Podgora, a mezzogiorno, i difensori di quota 240 si arresero. Tutta la sponda destra dell'Isonzo era ormai italiana. I primi a passare il fiume, guadandolo, furono i fanti della brigata Casale e della Pavia, che in breve raggiunsero le prime case di Gorizia e vi piantarono la bandiera italiana.

Anche sul Carso le sorti della battaglia volgevano propizie agl'Italiani. Alla 22ª divisione era toccata in sorte la conquista del San Michele. Nel pomenggio del giorno 6, la brigata Catanzaro raggiungeva di scatto le cime i e 2, travolgendo due successive linee avversarie e vincendo la resistenza oppostale sulla terza, mentre le brigate Brescia e Ferrara espugnavano le cime 3 e 4, e la 21ª divisione si affermava sulla sella di San Martino. Le truppe del XIII corpo d'armata assecondavano l'azione sulla destra, irrompendo nelle trincee nemiche. Ogni contrattacco avversario fu nei giorni successivi infranto, così che nella notte sul 10 gli Austriaci si videro costretti a ripiegare oltre il Vallone, occupando la linea San Grado di Merna-Nad Logem-Oppacchiasella (Opacchiasella)-Nova Vas (Novavilla)-Debeli-alture di Monfalcone.

Davanti a Gorizia seguitava intanto il passaggio, necessariamente lento, delle truppe italiane sulla sinistra dell'Isonzo, mentre squadroni di cavalleria, irradiatisi per la pianura, rivelavano già il giorno 9 l'esistenza di una nuova linea nemica, che dal M. Santo, per la sella di Dol, saliva sulle pendici di M. San Gabriele e quindi per Santa Caterina, il cimitero di Gorizia e San Marco raggiungeva la Vertojbizza.

Contro questa nuova linea urtarono una prima volta, il mattino del giorno 10; le truppe del VI corpo d'armata e quelle dell'VIII (gen. Ruggeri Laderchi) che si era schierato sulla destra del VI da Gorizia alla Vertojbizza, ma fin dai primi contatti si poté constatare che la linea, pur senza essere presidiata da forze considerevoli, era tale però da opporre serio ostacolo a uno sviluppo rapido e altrettanto fortunato del successo iniziale. Vano riuscì anche un secondo attacco, tentato il giorno 11: reparti della 45ª divisione raggiunsero le case di Santa Caterina ed elementi della brigata Etna l'altura di quota 174 a sud di Castagnavizza (Castagnevizza del Carso), ma non poterono mantenervisi. L'azione, quindi, contro le alture di Gorizia veniva per il momento sospesa, e il giorno 12, invece, la 3ª armata iniziava l'attacco delle alture al di là del Vallone.

Truppe della 23ª divisione raggiungevano di slancio la sommità del Nad Logem, obbligando alla resa l'intero battaglione che l'occupava; la brigata Regina (della 21ª divisione) espugnava Oppacchiasella. Le truppe del XIII corpo, invece, incontravano dura resistenza davanti a Nova Vas e sulle alture di quota 208 nord e sud, alle cui falde erano obbligate ad arrestarsi. Il giorno dopo la lotta s'intensificò, ma la linea austriaca, benché qua e là intaccata, resistette a tutti gli attacchi, rinnovati anche nella giornata del 14. Le perdite subite, l'afa estiva, la scarsezza dell'acqua, il terreno difficilissimo avevano affranto le truppe dell'XI corpo d'amiata (21ª e 23ª divisione) che vennero sostituite con le divisioni 22ª e 49ª. Altri eroici sforzi furono compiuti, nei giorni 15 e 16, contro le aspre posizioni carsiche, ma senza poterne trionfare.

Fin dal giorno 14, intanto, la 2ª armata (gen. Piacentini), che aveva estesa la sua zona fino al Vippacco (Vipacco) e assunto la direzione delle operazioni nella conca di Gorizia, aveva ripreso l'attacco contro la cintura montana che si estende dal Kuk al San Marco. Quattro corpi d'armata erano impegnati da Plava alla Vertojbizza; il II contro il Kuk e il Vodice; il VI contro il M. Santo e il San Gabriele; al XXVI si opponeva il gruppo collinoso di San Marco e all'VIII le alture a ovest della ferrovia San Pietro-Ovčia Draga. Per oltre tre giorni si protrasse la azione italiana, ma all'avversario, notevolmente rinforzato di truppe e di artiglierie e favorito anche dalla natura delle posizioni, fu dato di resistere al nuovo urto. Il Comando supremo, ritenendo che per respingere il nemico oltre la nuova linea a est di Gorizia occorresse il preordinamento metodico e completo di un nuovo meccanismo d'offesa, ordinò, il 17, di sospendere l'offensiva.

Si chiudeva così la battaglia che, se pure priva di quei grandi risultati strategici che in un primo momento si erano potuti sperare e che fallirono anche per qualche difetto di preparazione, costituì tuttavia un grande, innegabile successo per le amii italiane, ed ebbe anche un'importanza non lieve per gli alleati, perché, come fu ammesso anche da scrittori di parte avversa (il Falkenhayn, ad es.), la vittoria italiana non soltanto sospinse la Romania a entrare in guerra a fianco dell'Intesa, ma determinò una grave crisi per il comando austro-ungarico e per la condotta della guerra in generale. La sollecita, vittoriosa riscossa italiana dopo gli avvenimenti di maggio, la rapida conquista del sistema fortificatorio goriziano dagli Austriaci ritenuto pressoché inespugnabile, la cattura di 19.758 prigionieri e 30 cannoni, le perdite non lievi inflitte al nemico (circa 70.000 uomini) e la riunione di Gorizia alla patria valsero a dare all'esercito e al paese un nuovo senso di forza e di fiducia. Nell'intero mese di agosto gl'Italiani ebbero 21.360 morti e 52.940 feriti.

Settima, ottava e nona battaglia dell'Isonzo. - La sesta battaglia dell'Isonzo aveva lasciato le truppe italiane aggrappate all'arco di alture che si elevano immediatamente a ridosso di Gorizia e agli scaglioni petrosi del Carso, che dal Vallone salgono a successive terrazze verso oriente. Era necessario, quindi, dare maggiore respiro all'occupazione di Gorizia e attaccare decisamente il sistema difensivo dell'avversario oltre il Vallone, tanto più che la situazione negli altri scacchieri della guerra mondiale appariva, in quello scorcio di estate, singolarmente favorevole, purché non si desse tregua al nemico anche sulla fronte italiana.

L'offensiva russa, infatti, pur non confermando le grandi speranze che la prima avanzata aveva fatto concepire, aveva inferto un ben duro colpo agli Austriaci, in aiuto dei quali, per salvare la fortezza di Leopoli, erano dovuti accorrere i Tedeschi. In Francia, poi, l'attacco tedesco a Verdun si era convertito in uno scacco sanguinoso, e fin dal primo luglio i Franco-Inglesi eran passati all'offensiva sulla Somma. La superiorità dell'Intesa, manifestatasi sulle tre fronti russa, francese e italiana, ebbe un primo e pronto effetto; la Romania, il 28 agosto, dichiarava la guerra all'Austria-Ungheria, e l'esercito romeno, varcata la frontiera, invadeva la Transilvania. Il giorno stesso, l'Italia dichiarava la guerra alla Germania, e il 14 settembre venivano riprese le operazioni sull'Isonzo.

Conquistati il Sabotino, Oslavia e Podgora, altre e ben più dure posizioni si paravano davanti alle truppe italiane: il M. Santo, il San Gabriele, Santa Caterina, San Marco nella zona goriziana; sul Carso, il Veliki Hribak, il Pecinka (Pecinca), quota 208, quota 144, e, dietro queste, il Fajti (Faiti), Hudi Log (Boscomalo) e il baluardo dell'Hermada. Ancora una volta la linea scelta dagli Austriaci offriva, ma più accentuate, le caratteristiche di quella già strappatagli: il San Gabriele a nord e l'Hermada a sud, e in mezzo una cortina di alture, anche più minacciose di quelle che già erano costate tante perdite.

La nuova offensiva, secondo gl'intendimenti del Comando supremo, doveva avere carattere di risoluto sforzo sul Carso; la 2ª armata doveva limitarsi ad azioni d'appoggio; solo l'estrema destra di essa (VIII corpo d'armata) doveva tenersi pronta ad avanzare quando il contiguo corpo della 3ª armata (XI) fosse riuscito a muoversi. Le forze italiane sul Carso comprendevano dieci divisioni; di fronte a esse, la 5ª armata austro-ungarica si era alquanto rinforzata, tanto che i 116 mila fucili ch'essa contava alla vigilia della battaglia di Gorizia erano saliti a 148 mila, prima che s'ingaggiasse la settima battaglia dell'Isonzo.

Il mattino del 14 settembre, dopo breve preparazione di artiglierie, le truppe dell'XI corpo d'armata (gen. Cigliana), la cui zona era stata scelta quale tratto da sfondare, sia perché più avanzata rispetto a quella degli altri due corpi d'armata della 3ª armata (XIII e VII) sia perché ogni progresso di quest'ala avrebbe avuto pronte ripercussioni nella zona di Gorizia, iniziarono la loro azione; la 23ª divisione, a sinistra, contro le alture di San Grado di Mema e il Veliki; la 21ª, al centro, contro le alture del Pecinka; la 22ª, a destra, lungo la direttrice Oppacchiasella-Castagnavizza. Sotto l'infuriare delle artiglierie e delle mitragliatrici avversarie, le truppe italiane si batterono ovunque con l'usato valore. Sulla sinistra le brigate Granatieri e Lombardia s'impadronirono del cosiddetto "Bosco quadrangolare", antistante al Veliki; al centro, la brigata Pisa espugnò un tratto della prima linea nemica, che poi fu costretta ad abbandonare; sulla destra le brigate Brescia e Ferrara conquistavano una prima trincea nemica a est di Oppacchiasella. Le truppe degli altri due corpi d'armata assecondarono, durante la giornata, il movimento offensivo dell'XI, e mentre la 19ª e 31ª divisione del XIII corpo (gen. Ciancio) si prodigavano in ripetuti attacchi contro le difese di Nova Vas, la 16ª divisione del VII (gen. Tettoni) riusciva ad aggrapparsi alle pendici di quota 144.

Con peggiorate condizioni atmosferiche, il combattimento proseguì nelle giornate dal 15 al 17, culminando nella conquista dell'altura di San Grado, effettuata il gíorno 15 dai granatieri, rincalzati da reparti della brigata Napoli, e in quella parziale della quota 208 sud, dovuta ai bersaglieri del 15° reggimento e a reparti della brigata Macerata. Aspra lotta si combatté il giorno 16 sulla quota 144, ove gli Austriaci furono costretti a cedere al 22° fanteria (brigata Cremona) e ai cavalleggieri appiedati del reggimento Genova la sommità dell'altura e il versante settentrionale di essa. Ma sul resto della fronte il combattimento non diede eguali, soddisfacenti risultati. Violente intemperie sopravvenute e la necessità di rafforzare le posizioni raggiunte prima di riprendere lo scatto in avanti, imposero, alla sera del 17, di sospendere l'azione. Gl'Italiani perdettero poco più di 17.000 uomini e catturarono 4500 prigionieri.

Il mattino del 9 ottobre, le artiglierie italiane ripresero a battere le linee nemiche; incominciava l'ottava battaglia dell'Isonzo. L'azione, questa volta, era estesa anche alla zona delle alture a est di Gorizia (tra San Marco e il Vippacco) tenuta dall'VIII corpo d'armata. Le fanterie mossero il mattino del 10, e, sin dal primo giorno della nuova offensiva, sulla fronte goriziana le truppe della 12ª divisione s'impadronirono della quota 95 a sud-est di San Pietro, e quelle dell'11ª raggiunsero il costone del Sober, completandone l'occupazione il giorno 13 e resistendovi a ostinati contrattacchi avversarî. Sul Carso, intanto, le truppe della 3ª armata avevano quasi ovunque travolte le prime linee avversarie; Nova vas, la quota 208 nord ed estesi trinceramenti a destra e a sinistra di queste forti posizioni caddero in mano degl'Italiani. Nel settore del VII corpo d'armata, la 16ª divisione sorpassò la quota 144, spingendosi fino a Jamiano, ma ne fu più tardi ricacciata da un contrattacco avversario.

Con pari vigore fu proseguita la lotta su tutta la fronte nei giorni 11 e 12, così da costringere il nemico, che lasciò 8200 prigionieri, ad abbandonare tutta la sua prima linea a oriente del Vallone, e a ritirarsi sulla seconda, che aveva per capisaldi principali il Veliki il Pecinka, quota 102 e gli abitati di Lokvica (Loquizza) e di Hudi Log.

Il giorno 12 ottobre, le operazioni offensive italiane, che erano costate circa 21.000 uomini tra morti e feriti, subirono una nuova sosta, per preparare ancora un terzo urto contro la barriera dell'altipiano carsico prima che giungesse l'inverno, già preannunziato rigidissimo da un burrascoso autunno. Persistenti intemperie, infatti, vennero a rallentare la preparazione e l'inizio della ripresa offensiva, che poté essere ordinata soltanto il 31 ottobre. Il 1° novembre, dopo ventiqrattr'ore di fuoco d'artiglieria, le fanterie italiane balzarono ancora una volta all'attacco. Bisognava continuare a premere e a disgregare l'avversario sul Carso, per strappargli la linea del Veliki-Pecinka-Hudi Log e possibilmente, la retrostante Fajti-Kostanjevica (Castagnavizza)-Selo.

Nella zona collinosa a est di Gorizia, nonostante la resistenza austriaca e le difficoltà del terreno aggravate dall'impaludamento per le recenti piogge, le truppe del XXVI corpo d'amata (gen. Cavaciocchi) e dell'VIII riuscirono a occupare rispettivamente l'altura di quota 171 di San Marco e quella di quota 123 a nord, a est di Vertojba (Vertoiba). Nei giorni seguenti si tentò di compiere altri progressi, ma la viva reazione austriaca e soprattutto le penose condizioni di vita, li resero impossibili, costringendo anche a sgomberare la quota 123 nord. Sul Carso, invece, le fanterie dell'XI corpo, veramente ammirevoli, coronavano vittoriosamente i loro precedenti sforzi. Fin dal primo giorno dell'offensiva, la 49ª e la 45ª divisione avanzavano decisamente verso il Veliki e il Pecinka; il primo venne espugnato dalla brigata Toscana e il secondo dalla brigata Lombardia, affiancata dalla 1a brigata bersaglieri: queste brigate procedevano quindi sulle quote 308 e 278, a est del Pecinka, impadronendosene del pari. La 4ª divisione, avanzando anch'essa più a destra, raggiungeva con la brigata Spezia la fronte Pecinka-Segeti (Seghetti) e con la Barletta il quadrivio di quota 202 sulla strada Oppacchiasella-Castagnavizza.

Le truppe del XIII corpo, benché contrastate, si spinsero fino alle pendici di quota 238 e alle prime case di Hudi Log, ma, contrattaccate e decimate dal fuoco avversario, furono costrette a tornare nelle trincee di partenza. Nella notte il nemico contrattaccava sul Veliki, ma invano; al mattino, però, con truppe fresche, tornava risolutamente al contrattacco contro il tratto Pecinka-quota 278; riuscitogli di soverchiare la brigata Spezia sulla quota 278, piombava sulla quota 308, ma qui veniva fermato dalla 1a brigata bersaglieri. Nel pomeriggio non solo tutto il terreno perduto veniva riconquistato, ma la 49ª divisione si spingeva fino alle pendici del Volkovniak (Volcovniac) e la 45ª fino a quelle del Dosso Faiti. Il giorno 3, la brigata Pinerolo espugnava il Volkovniak e la Toscana il Dosso Fajti. Con quest'ultima brigata era Gabriele d'Annunzio, che piantò la bandiera sul conquistato Fajti. Sulla sinistra della 45ª divisione, la 49ª s'impadroniva nello stesso giorno della quota 123, oltre San Grado di Merna, e del costone di quota 126, oltre il Vippacco.

Il XIII corpo d'armata, rimasto alquanto arretrato, tentava, il giorno 4, una manovra aggirante, puntando dalla strada Oppachiasella-Castagnavizza, in direzione di Selo, per avvolgere le forze che si opponevano all'avanzata e spazzare il terreno antistante a Castagnavizza, ma il movimento, tentato da una colonna della 47ª divisione, non ebbe esito fortunato. Il giorno 4 stesso, la battaglia, costata 29.000 uomini agli Italiani, veniva troncata.

Frattanto operazioni importanti si svolgevano anche nella zona montana, e precisamente sul Pasubio e sulla cresta montuosa che s'interpone tra le valli di Travignolo e di Fiemme a nord e le testate del Cismon e del Vanoi a sud, ove già importanti posizioni emano state raggiunte nel luglio, con le operazioni del nucleo Ferrari e della 17ª divisione. Riprese queste operazioni nell'agosto, il giorno 27 il battaglione alpini Feltre si era impossessato, con un'ardita scalata, della cima del M. Cauriol. Rinforzato quindi il nucleo Ferrari con sette battaglioni alpini, tra il 15 settembre e gli ultimi del mese si procedeva a mano a mano all'espugnazione di successive vette a nord-est del Cauriol, fino a che, il giorno 27, reparti dei battaglioni Feltre e Monrosa si issavano sulla cima del Gardinal, ergentesi a 2354 m., e vi si affermavano, respingendo il giorno successivo un forte contrattacco austriaco.

Nei primi giorni di ottobre, poi, la 17ª divisione riprendeva le operazioni nelle valli Travignolo e San Pellegrino, per completare la conquista del gruppo del Colbricon e di quello di Costabella. Il 2 ottobre, infatti, nuclei di bersaglieri scalavano, sotto il fuoco nemico, le pareti rocciose della seconda cima del Colbricon e se ne rendevano padroni; il 5 una compagnia del battaglione alpini Exilles espugnava la temuta posizione della Costabella sinistra, e il 6, alfine, anche la vetta della Busa Alta (m. 2456) cedeva al battaglione alpini Monte Arvenis.

Queste operazioni delle truppe italiane del Trentino non solo destarono gravissime preoccupazioni nelle autorità austriache di Trento e di Bolzano, le quali vedevano affacciarsi gl'Italiani alla cresta montuosa che guarda la valle dell'Avisio, ma impedirono anche, come afferma il generale austriaco von Pitzich, l'invio di rinforzi sull'Isonzo.

Del pari importante fu l'azione iniziata il 9 ottobre, dalla 44ª divisione, nella zona del Pasubio, per riconquistare tutto l'importante massiccio e, possibilmente, il Col Santo. Alpini e bersaglieri, arrampicandosi su per i canaloni che solcano il fianco della montagna verso la Vallarsa, sboccarono sull'orlo dell'Alpe di Cosmagnon, mentre il VI gruppo alpino s'impegnava in combattimento per impadronirsi del cosiddetto Dente del Pasubio. Questo veniva alfine espugnato, il giorno 17, da alpini del battaglione Aosta e dai fanti della brigata Liguria, ma dopo una dura vicenda di attacchi e contrattacchi, il giorno 29 il Dente fu dovuto abbandonare.

La lunga offensiva autunnale, protrattasi sull'Isonzo, in tre riprese per oltre cinquanta giorni, e accompagnata da operazioni di qualche rilievo nella zona alpina, si chiudeva con risultati considerevoli. L'avanzata italiana sul Carso si era addentrata per una profondità di più che cinque chilometri oltre il Vallone, tanto che, come scrive il generale Boroević stesso, "la zona che proteggeva immediatamente Trieste, si assottigliava sempre più e a ogni passo indietro la fronte si allungava maggiormente e si rendeva sempre più ingente la quantità di truppe necessarie". L'offensiva italiana, inoltre, aveva pesato anche notevolmente sull'andamento generale delle operazioni alleate, infliggendo al nemico perdite molto gravi (la sola 5ª armata vi aveva perduto 76.000 uomini) e impedendogli di distrarre forze dal teatro della guerra italiana, per impiegarle contro la Romania.

Le truppe italiane chiudevano così l'anno con nuovi successi, conquistati anch'essi a prezzo di duri, inenarrabili sacrifici; l'offensiva autunnale del 1916 si svolse, infatti, in condizioni ancora più difficili di quella del 1915. Basti pensare ai sacrifici di tanti uomini, che sulla Vertojbizza furono costretti a combattere con metà della persona affondata nel fango rossiccio di quella terra ingrata, da cui non pochi furono uccisi prima che dal piombo nemico.

Il secondo inverno di guerra. - Il secondo inverno di guerra, per la crudezza veramente eccezionale, pose a ben dura prova la resistenza delle truppe italiane. Bora e tormenta flagellavano le trincee dal mare alla montagna, pioggia e nevi cadevano con una frequenza tale che da anni non si ricordava, e nelle zone montane si susseguivano cadute di enormi valanghe e slittamenti di campi nevosi. L'opera, quindi, dei comandi, del governo e del paese per creare condizioni convenienti di vita all'esercito costretto a svernare in montagna, ebbe uno sviluppo ancor più grandioso che nell'anno precedente, e il problema logistico della guerra invernale trovò la soluzione più completa sulla fronte italiana. Altrettanto alacre e feconda fu, durante la parentesi invernale, l'opera di consolidamento e di preparazione dell'esercito. All'inizio della guerra, infatti, l'Italia non poteva contare che sopra una modestissima potenzialità produttiva siderurgica e meccanica. In virtù di un risveglio mirabile di tutte le capacità tecniche del paese, si poté compiere uno sforzo veramente gigantesco, così da produrre in Italia non soltanto ciò che occorreva all'esercito ma anche molti materiali (artiglierie leggiere, apparecchi di aviazione, automobili) per gli eserciti alleati. Furono create 52 nuove batterie da campagna, 44 da montagna, 166 pesanti campali; le bocche da fuoco di medio e grosso calibro salirono, tra il maggio 1916 e il maggio 1917, da 1180 a 2100; le poche centinaia di mitragliatrici del 1915 erano diventate oltre 8000 nel maggio 1917. Furono creati, poi, 151 nuovi battaglioni di tutte le specialità, dei quali 96 di fanteria di linea, raggruppati in otto nuove divisioni. Molto cammino era stato compiuto, e certamente all'inizio del terzo anno di guerra l'esercito italiano dava una sensazione di saldezza e coesione tale, che con un senso di fiducia si guardava ai prossimi eventi.

Salvo, intanto, piccole azioni di dettaglio, la stagione particolarmente immite non consentì alcuna operazione di rilievo, fino alla primavera.

La situazione politico-militare alla fine del 1916. - Il 1916 sarebbe finito con un costante, notevole vantaggio per l'Intesa, se, dopo il fallimento dell'offensiva tedesca contro Verdun e i buoni successi dei Franco-Inglesi sulla Somma, lo scacco degli Austriaci in Trentino e le successive vittorie italiane di Gorizia e del Carso, la travolgente offensiva di Brusilov in Galizia e il successo iniziale dei Romeni, non fosse venuto, rapido e inatteso, il rovescio di questi ultimi (v. sopra: La campagna di Romania). Per portare indirettamente un aiuto alla Romania, le forze alleate di Salonicco, cui da qualche mese si era aggiunta una divisione italiana (35ª) al comando del gen. Petitti di Roreto, il 12 settembre erano passate all'offensiva dal Vardar al lago di Ostrovo. Con tali operazioni si poté migliorare di gran lunga la situazione italiana in quel settore; nel novembre fu anche occupata la capitale della Macedonia, Monastir, mentre truppe italiane avanzavano nell'ansa della Černa, ove furono poi lasciate a presidiare il difficile settore di quota 1050, che difesero per molti mesi contro ripetuti attacchi avversarî.

Grossi avvenimenti, intanto, maturavano in Austria tra la fine del 1916 e il principio del 1917. Il 21 novembre moriva l'imperatore Francesco Giuseppe, e gli succedeva il nipote, arciduca Carlo. Nel febbraio l'arciduca Federico veniva esonerato dal Comando supremo dell'esercito austro-ungarico e il Conrad dalle funzioni di capo dello Stato Maggiore, alle quali veniva chiamato il gen. von Arz.

Il gen. Cadorna, intuendo fin d'allora che la guerra non poteva vincersi se non abbattendo prima l'avversario più debole: l'Austria, propose che gli Alleati predisponessero, d'accordo con il Comando supremo italiano, un grande attacco sulla fronte goriziana (convegno interalleato, Roma, 6-8 gennaio 1917) chiedendo il concorso di otto divisioni alleate o, almeno, di un forte nucleo di artiglierie medie e pesanti. Ma il progetto, che ebbe favorevole il solo Lloyd George, non venne accolto, e altro aiuto non fu dato all'Italia per la campagna del 1917 che un centinaio di bocche da fuoco di medio e grosso calibro, le quali furono poi ritolte nell'estate, prima del grande attacco austro-tedesco sulla fronte giulia. Nel convegno di Roma fu anche stabilito che se un'azione comune fosse stata necessaria sulla fronte italiana (nel caso di un forte attacco nemico attraverso la Svizzera), l'Inghilterra e la Francia vi avrebbero inviato truppe. Tale decisione era più che altro dettata dalla preoccupazione di un eventuale aggiramento della fronte francese.

Nel dicembre 1916 si ebbe la proposta, cui si è già accennato (v. Storia politico-diplomatica), diretta dagl'Imperi centrali agli avversarî per entrare in trattative di pace sulla base dei risultati territoriali conseguiti dai belligeranti; al rifiuto alleato la Germania rispose con la dichiarazione della guerra sottomarina a oltranza (31 gennaio 1917). Sopraggiunsero poi gli eventi dolorosi della Russia: il 24 marzo 1917 lo zar abdicava; ormai il colosso russo era come un immenso corpo malato, e all'Italia incombeva la non lieta prospettiva di dovere sostenere da sola tutto il peso dell'esercito austro-ungarico. Sulla fronte franco-inglese e su quella italiana, intanto, si andava vigorosamente preparando la ripresa dell'offensiva. Il 14 aprile il gen. Nivelle, succeduto nell'inverno al gen. Joffre nel Comando supremo dell'esercito francese, attaccava sull'Aisne e nello Champagne; il 14 maggio il gen. Cadorna sferrava la decima battaglia dell'Isonzo.

La decima battaglia dell'Isonzo. - La nuova offensiva sulla fronte giulia fu affidata alla 3ª armata e a una grande unità di recente costituzione, il comando della zona di Gorizia, risultante dall'unione dei corpi d'armata II (zona di Plava), VI (dal M. Santo al Panowitz [Panovizza]) e VIII (dal Panowitz alla Vertojbizza) con a capo il gen. L. Capello. Il piano d'operazioni comprendeva tre fasi successive: nella prima, un bombardamento generale e prolungato, su tutta la fronte da Tolmino al mare, doveva disorientare il nemico e impedirgli il giuoco delle riserve tra il settore carsico e quello goriziano; nella seconda, il comando della zona di Gorizia doveva assaltare tutto il bastione montuoso che strapiomba sul fiume, tra Plava e Gorizia, con le successive alture-del Kuk, del Vodice, del M. Santo e del San Gabriele, nonché il sistema collinoso a ridosso di Gorizia, e per favorire quest'attacco si sarebbe contemporaneamente creato un diversivo all'ala sinistra della fronte d'attacco, passando l'Isonzo tra Loga e Bodrez e costituendovi una testa di ponte; nella terza fase, infine, sarebbero passate all'attacco le truppe della 3ª armata (XI corpo d'armata, dal Vippacco a Castagnavizza, XIII da Castagnavizza a quota 208, e VII da quota 208 al mare) con lo scopo principale di portare avanti l'ala destra dello schieramento e aggredire il massiccio dell'Hermada.

La zona di Gorizia disponeva di 12 divisioni e la 3ª armata di 16. Di fronte a tali forze, anche gli Austriaci avevano alquanto rinvigorito il proprio schieramento; in complesso, la 5ª armata, al comando sempre del gen. Boroevic, disponeva di 215 battaglioni. Durante la battaglia, poi, sopravvenne in rinforzo un altro corpo d'armata, sull'altipiano della Bainsizza.

All'alba del 12 maggio le artiglierie italiane aprirono il fuoco su tutta la fronte, e lo continuarono ininterrottamente per due giorni, raggiungendo la massima intensità nella mattinata del 14. Sul mezzogiorno le fanterie italiane iniziarono l'avanzata nella zona di Plava e in quella di Gorizia. Di primo sbalzo venne conquistata dalla brigata Udine (95° e 96°) la quota 383 a est di Plava, consacrata alla memoria del prode generale Montanari, mentre la brigata Firenze (127° e 128°) riusciva a raggiungere lo sperone di quota 535 del M. Kuk e la Avellino (2310. 2320), superato lo sbarramento di Zagora, occupava parzialmente i fortini di Zagomila, che guardavano la strada del Vodice. Reparti della brigata Campobasso (229°-230°), infine, risalite le pendici del M. Santo, riuscivano a occuparne la vetta, ricacciando il nemico dalle rovine del convento che la coronavano, ma, contrattaccati nella notte e non sostenuti da rinforzi, all'alba venivano costretti a ripiegare. A nord-est di Gorizia furono occupate la collina di quota 126, presso Grazigna, e la quota 174 a est di Tivoli, ma anche queste posizioni non poterono essere mantenute.

Il giorno seguente, ripreso l'attacco contro il Kuk e il Vodice, la resistenza austriaca non poté impedire alle truppe del II corpo (generale Badoglio) d'insediarsi definitivamente sulla vetta del Kuk e sulla sella del vodice. Nella notte sul 15, intanto, reparti della 47ª divisione, forzato il passaggio dell'Isonzo al saliente di Loga, erano passati sull'altra sponda e vi avevano costituito una piccola testa di ponte.

Nei giorni dal 15 al 21 gli Austriaci contrattaccarono ovunque, ma furono sempre ributtati con gravi perdite, specialmente sul Vodice, tenuto saldamente dalla 53ª divisione (gen. Gonzaga); l'occupazione italiana venne anche allargata attorno a Plava, con la presa dell'altura di quota 363 e delle località di Globna e Paljevo. Qualche vantaggio venne anche conseguito sulle alture di Gorizia. La testa di ponte di Bodrez, avendo adempiuto al suo compito dimostrativo, venne ritirata la notte sul 19. Il giorno 21 il Comando supremo dava ordine alla 3ª armata di iniziare la terza fase dell'offensiva, sull'altipiano carsico.

Mentre durava la battaglia dal Kuk al M. Santo, gli Austriaci tentavano di richiamare l'attenzione del Comando supremo italiano verso il Trentino con una serie di attacchi, che però trovarono la difesa ovunque vigile e preparata. Violenti concentramenti di fuoco sull'altipiano di Asiago e in Valsugana parvero preludere a qualche azione di rilievo; non seguirono, invece, che attacchi di piccoli nuclei di fanteria a ovest del Garda e in Val d'Adige, ovunque respinti. Nella notte sul 21 maggio, dopo intenso e prolungato bombardamento, fu attaccato da forze piuttosto numerose il Dente del Pasubio, ma i difensori del Pasubio rigettarono il nemico. Eguale esito ebbe un altro attacco, il giorno 22, sul Piccolo Colbricon (Val Travignolo).

L'azione sull'altipiano carsico fu iniziata alle ore 16 del 23 maggio. Sulla sinistra, l'XI corpo s'impegnava contro le alture a est del Volkovniak, tenacemente contrastato al centro e sulla destra; il XIII corpo e il VII, con travolgente attacco, superavano la prima linea nemica e dilagando a sud della strada tra Castagnavizza e Hudi Log aggiravano quest'ultima località, oltrepassavano Lukatic (Lucatic) e s'impadronivano di Jamiano. Nella zona di Monfalcone venivano occupate le quote 92, 77, 58, i bagni a oriente delle officine. Adria e l'altura di quota 21. Centotrenta velivoli partecipavano alla battaglia. Il mattino seguente, mentre da una parte si contenevano contrattacchi avversarî, dall'altra si combatteva nel saliente di Hudi Log, ove gli Austriaci seguitavano a opporre resistenza. La destra, intanto, serrava dappresso la linea avversaria che passava per Flondar, e, sfondatala il 25, proseguiva la vittoriosa avanzata verso le pendici dell'Hermada, spingendo elementi fino a san Giovanni e Riedeazza. Nella stessa giornata il saliente di Hudi Log veniva anch'esso espugnato, e qualche vantaggio si conseguiva anche al centro, in direzione della contrastatissima Castagnavizza, che la 4ª divisione raggiungeva finalmente e oltrepassava nel pomeriggio del 26. Più tardi, però, gli uustriaci, con un potente concentramento d'artiglieria, costringevano gl'Italiani a sgombrare i ruderi del villaggio.

Fra Castagnavizza e Jamiano durava, nelle giornate del 26 e 27, una alterna vicenda di attacchi e contrattacchi, che si chiudeva con qualche nuovo vantaggio di terreno per le fanterie del XII corpo; il VII avanzava anch'esso sulle alture a ovest di Medeazza e raggiungeva, nel piano, le foci del Timavo. Il giorno 28 la brigata Toscana espugnava la quota 28.

Il 29 la battaglia languì, e nei giorni seguenti non si svolsero che piccole azioni di rettifica delle nuove linee. Queste erano state complessivamente portate avanti per una profondità variante da due a quattro chilometri; la linea di difesa che arrestava l'estrema ala destra dello schieramento italiano era stata spezzata.

Mentre così vigorosamente si combatteva sul Carso, l'avversario non ristava dal lanciare continui contrattacchi contro le posizioni guadagnate dagl'Italiani nella prima fase della battaglia, a nord e a est di Gorizia, ma nulla del terreno conquistato l'avversario poté riprendere.

Ai primi di giugno, però, si ebbe un potente urto controffensivo sull'altipiano carsico. Il nemico, che aveva perduto 23.681 prigionieri e 38 cannoni, preoccupato dai progressi italiani sulla via di Trieste, aveva fatto accorrere rinforzi, e dopo lungo bombardamento, la sera del 3 giugno pronunziava il primo contrattacco nel tratto Fajti-Castagnavizza. Nel settore di Castagnavizza venne completamente ributtato dalle truppe della 4ª divisione; sul Fajti, invece, riusciva in un primo tempo a soverchiare la difesa, ma verso il mezzogiorno del 4, le brigate Tevere (215° e 216°) e Massa Carrara (251° e 252°), con tre contrattacchi, ristabilivano pienamente la situazione anche in quel settore.

All'alba dello stesso giorno 4, gli Austriaci attaccavano decisamente tutto il resto della fronte, fino al mare. Sulle linee appena rafforzate, le truppe italiane opposero una strenua difesa; al centro, ove il XXIII corpo (generale Diaz) aveva sostituito, il giorno 2, il XIII, la 61ª divisione, dopo un primo indietreggiamento, reagiva all'attacco nemico e si manteneva sulle posizioni tra Versic e Jamiano. Sulla destra, invece, sommerse le linee della 20ª divisione, truppe austriache giungevano di sorpresa sulle due gallerie della ferrovia Trieste-Monfalcone e se ne impadronivano. Procedevano, quindi, su tutta la fronte, determinando il ripiegamento degl'Italiani sulle posizioni di partenza. Gran parte, così, dei progressi compiuti con ingenti perdite (36 mila morti, 96 mila feriti e 25 mila prigionieri) vennero in poche ore annullati. Vantaggi notevoli rimanevano quelli conseguiti a nord di Gorizia, con la conquista del costone Kuk-Vodice, che domina l'Isonzo da una parte e l'altipiano della Bainsizza dall'altra, ma la mancata conquista del M. Santo e del sistema collinoso a est di Gorizia avevano impedito di dare maggior sicurezza e respiro all'occupazione della città, mentre, sulla destra dello schieramento italiano sul Carso, Castagnavizza, l'Hermada e Duino, scolte avanzate di Trieste, rimanevano ancora in saldo possesso degli Austriaci, che durante la loro offensiva ebbero 8138 morti, 46.766 feriti e 5278 dispersi o prigionieri.

Frattanto l'offensiva del Nivelle in Francia si era convertita in un grande insuccesso: il nuovo capo dell'esercito francese, gen. Pétain, dovette dedicarsi principalmente al risollevamento degli spiriti, mantenendo inattive le sue truppe fino al tardo autunno, mentre gl'Inglesi operavano, da soli, nelle Fiandre. Dai Russi in piena rivoluzione poco c'era da attendersi. All'Italia incombeva, perciò, il compito di rimanere pressoché sola a sostenere il peso maggiore della guerra contro l'esercito austriaco, ormai libero da ogni preoccupazione sulla fronte orientale.

La battaglia dell'Ortigara. - La controffensiva italiana del luglio 1916 sugli Altipiani si era arrestata a contatto della linea nemica che in senso quasi meridiano, staccandosi dal baluardo montano che si affaccia sulla Val Sugana, per l'Ortigara, M. Campigoletti, M. Chiesa, M. Forno, M. Colombara, si raccordava allo Zebio. Da questa linea, forte per natura e potentemente apprestata a difesa, il nemico dominava le direttrici di invasione dell'altipiano, segnate dalla Val d'Assa e dalla Val Galmarara; il possesso di essa, quindi, non solo sarebbe valso per gl'Italiani a stornare la continua minaccia avversaria alle spalle delle armate del Cadore, della Carnia, e dell'Isonzo, ma avrebbe anche reso disponibile buona parte delle forze ch'erano obbligati a mantenere sulla linea difensiva. La ripresa dell'azione offensiva sospesa nell'estate era stata perciò progettata fin dall'autunno del 1916, ma vi si era dovuto rinunziare per le nevi precocemente cadute sulle montagne.

Il progetto, alquanto allargato, fu ripreso in primavera e l'esecuzione di esso fu affidata alla 6ª armata (gen. Mambretti), la quale era stata costituita dopo l'offensiva del Trentino con le truppe dell'altipiano di Asiago e della Val Sugana. Il XX corpo d'armata (gen. Montuori) doveva tendere alla rottura della fronte nemica a nord in corrispondenza di M. Ortigara e M. Forno, e il XXII (gen. Negri di Lamporo), a sud, tra C. Zebio e il M. Mosciagh: irrompendo quindi a traverso le due brecce, íl XX avrebbe dovuto impossessarsi di tutto l'orlo dell'altipiano verso la Val Sugana, fino a cima Portule, e il XXII raggiungere il ciglione est della bassa Val Galmarara. Concorrevano all'azione anche il XXVI corpo d'armata (gen. Fabbri) sulla sinistra del XXII, e le truppe della Val Sugana (XVIII corpo d'armata, gen. Etna). Contro l'Ortigara il XX corpo lanciava la 52ª divisione, composta del fiore delle truppe alpine (18 battaglioni), e la 29ª (12 battaglioni di fanteria) contro il M. Forno; contro lo Zebio e il M. Mosciagh agivano rispettivamente la 13ª e la 25ª divisione.

Il mattino del 10 giugno, le artiglierie e bombarde italiane battevano energicamentc le posizioni avversarie; quindi le fanterie, sotto una fitta cortina di nebbia, iniziavano l'attacco.

Le truppe della 52ª divisione, in massima parte alpine, benché prese subito sotto il fuoco d'artiglieria e mitragliatrici, ottennero rapidamente ottimi risultati; sulla destra, infatti, l'8° e 9° gruppo alpini, con i battaglioni Bassano e Arroscia, espugnavano il passo dell'Agnella e con i battaglioni M. Baldo, Val Ellero e M. Clapier, la quota 2101 dell'Ortigara. Ma le due conquiste costavano gravissime perdite. I superstiti, tuttavia, puntavano verso la sommità dell'Ortigara (quota 2105) per dare man forte ai battaglioni degli stessi gruppi Sette Comuni e Verona, i quali, destinati ad attaccare la vetta frontalmente, erano stati arrestati sotto l'ultimo gradino roccioso, ancora protetto da reticolati intatti. Sulla sinistra, invece, l'altra colonna, composta dei gruppi alpini 1° e 2° e diretta alla conquista del M. Campigoletti e del costone Ponari, pur subendo perdite gravissime, non aveva potuto compiere alcun progresso. Del pari infruttuosi erano stati gli attacchi della 29ª divisione, la quale, occupato il M. Forno, ne era stata ricacciata da un contrattacco, e quelli delle due divisioni del XIII corpo contro le forti difese del tratto M. Zebio-M. Mosciagh. Alla sera del 10 i battaglioni del gruppo 8° e 9°, dopo varî tentativi d'impadronirsi della quota 2105, iniziarono il rafforzamento sulla linea Passo dell'Agnella-quota 2101-gradino dell'Ortigara. Nei giorni seguenti il nemico, che teneva le posizioni occupate dagl'Italiani sotto un fuoco continuo di artiglierie, causando nuove gravissime perdite, lanciò ripetuti contrattacchi; questi raggiunsero la massima intensità nei giorni 13 e 15, ma furono tutti rigettati.

Il 19 giugno, finalmente, dopo conveniente preparazione di artiglieria, le truppe italiane attaccavano decisamente la vetta dell'Ortigara, riuscendo alfine a espugnarla; il M. Campigoletti e le altre posizioni a sud seguitavano, invece, a resistere a tutti gli attacchi italiani, le cui difficoltà venivano nel pomeriggio aggravate da un forte temporale e da fitte nebbie montanti dalla Val Sugana. La nuova conquista, per quanto offrisse una nuova testimonianza dell'abilità e dello slancio degli alpini, li lasciava però in una posizione precaria, su quelle creste isolate e impervie, con pessime comunicazioni, intensamente battute dall'artiglieria e minacciate dagli agevoli accessi, ancora in mano all'avversario. Questo provvedeva, intanto, a far accorrere rinforzi, e uno dei migliori generali austriaci, il Goiginger, veniva chiamato sul posto per dirigere l'azione controffensiva, che s'iniziò con estrema violenza nelle primissime ore del mattino del 25 giugno. Dopo che un intenso bombardamento ebbe distrutto le improvvisate difese italiane e reciso le loro comunicazioni, reparti d'assalto, armati di bombe a mano e incendiarie e sostenuti anche da apparecchi lanciafiamme, irruppero nelle posizioni, tenute da undici battaglioni di alpini e da reparti della brigata Regina. Fanti e alpini si difesero strenuamente, ma infine furono sommersi sotto le soverchianti forze nemiche. L'Ortigara fu perduta e centinaia di cadaveri italiani e austriaci rimasero ad attestare la violenza della lotta su quel monte, che gli alpini considerano giustamente come il massimo dei loro sepolcri e dei loro monumenti. A 26.000 salì la cifra degli uomini fuori combattimento, dei quali 15.800 perduti dalla sola 52ª divisione.

L'undicesima battaglia dell'Isonzo. - La testa di ponte di Tolmino in possesso degli Austriaci, non solo annullava o rendeva almeno assai lieve il vantaggio italiano di essere padroni di gran parte della riva sinistra dell'Isonzo, ma rappresentava anche una grave e continua minaccia per tutto lo schieramento, anzitutto perché collegata com'era da una buona linea ferroviaria alla valle della Sava e da ottime rotabili alle conche del Vippacco, di Krainburg (Kranj) e di Lubiana, essa poteva agevolmente trasformarsi, come più tardi avvenne, in una magnifica zona di radunata per un'offensiva a fondo contro lo schieramento italiano, e poi perché l'altipiano della Bainsizza, che è come una grande terrazza digradante, con fianchi ripidi, all'Idria, al vallone di Chiapovano e all'Isonzo, costituiva una vera piazza d'armi e una pedana per riunire e lanciare truppe al passaggio dell'Isonzo. La Bainsizza aveva inoltre grandissimo valore per la difesa austro-ungarica, perché essa costituiva il naturale riparo che rendeva facili le comunicazioni, per il vallone di Chiapovano, tra la conca di Britof e la valle dell'Idria, cioè tra i difensori di Gorizia e del Carso e quelli di Tolmino. Era perciò della somma importanza per gl'Italiani cercare di togliere all'esercito nemico quell'importante nodo strategico, perché, in caso di riuscita, lo avrebbero costretto a sgombrare senz'altro l'intera zona goriziana e il Carso, e a portare, nella migliore delle ipotesi, la sua difesa oltre l'Idria e nella conca del Vippacco, se non più in là.

L'offensiva italiana del maggio 1917 aveva lasciato l'esercito in una situazione molto precaria, con l'occupazione isolata del Kuk e del Vodice, sulla sinistra dell'Isonzo tra Plava e Gorizia, e con le linee del Carso nettamente dominate dal bastione dell'Hermada; situazione ch'era resa tanto più grave dal pericolo di un'offensiva, cui il nemico saebbe potuto essere indotto dallo sfacelo russo. Il ministro Kerenskij, infatti, aveva cercato di galvanizzare l'esercito della Galizia orientale, spingendolo ad attaccare, ma l'offensiva, iniziata il 10 luglio, si era dopo una decina di giorni, esaurita, e al primo contrattacco tedesco, in direzione di Tarnopol, si era convertita in una ritirata generale dei Russi e dei Romeni, che solo una forte pressione dell'Italia sull'Austria avrebbe potuto far rallentare. Austria e Italia restavano, quindi, sole di fronte. L'estate del 1917, d'altra parte, si presentava propizia per gl'Italiani a una grande offensiva per le condizioni generali dell'esercito, ben rifornito e rinforzato da nuove unità, per quanto l'offensiva di primavera fosse stata assai costosa in uomini e materiali in confronto dei risultati ottenuti.

La nuova offensiva fu affidata principalmente alla 2ª armata, la quale alla vigilia dell'offensiva era forte di sei corpi d'armata (con 26 divisioni e mezzo) così schierati da nord a sud: IV corpo d'armata (gen. Cavaciocchi); XXVII (generale Vanzo); XXIV (gen. Caviglia); II (gen. Badoglio); VI (generale Gatti); VIII (generale Ricci Ammani). Di questi sei corpi d'armata, quattro (il IV, il II, il VI e l'VIII) erano dislocati sulla sinistra dell'Isonzo, almeno con la massima parte delle loro forze, e due (il XXVII e il XXIV) sulla destra, dalla testa di ponte di Plava al versante ovest del M. Santo. L'VIII corpo, poi, costituiva una specie di gruppo autonomo che, schierato nella zona dell'anfiteatro goriziano, era destinato a collegare le operazioni della 2ª armata con quelle della 3ª. La 3ª armata, che anch'essa doveva aver parte importante nell'offensiva, era schierata su quattro corpi d'armata, e cioè, procedendo da nord a sud, l'XI (gen. Petitti); il XXV (gen. Ravazza); il XXIII (gen. Diaz) e il XIII (gen. Sailer): complessivamente 18 divisioni. Sei divisioni e mezzo rimanevano a disposizione del Comando supremo. Per il nuovo sforzo sulla fronte giulia, il Comando supremo vi aveva concentrato circa i tre quarti delle truppe disponibili (51 divisioni) e 3600 bocche da fuoco (delle quali 35 francesi e 16 batterie inglesi). Di fronte alle nostre due armate era sempre schierata la 5ª armata austriaca (gen. Boroević), che dopo l'offensiva del maggio era stata battezzata con il nome di Isonzo Armee. Essa era, adesso, costituita su tre corpi d'armata, con 10 divisioni, sulla fronte della 2ª armata, e su due, con 9 divisioni, sulla fronte della 3ª; riserva d'armata, 4 divisioni.

La battaglia era stata concepita come un attacco a fondo sull'intera fronte da Tolmino al mare, con pressione più accentuata in corrispondenza dell'altipiano della Bainsizza a nord e di quello di Comen a sud. Le riserve dovevano essere dislocate in modo da poter essere gettate con prontezza là dove si fosse aperta la breccia. L'azione più importante, però, era quella affidata alla 2ª armata, la quale doveva cercare d'impadronirsi dell'altipiano della Bainsizza, per procedere poi su quello di Ternova, facendo così cadere le alture di Gorizia e scuotendo anche le difese austriache del Carso. Alla 3ª armata fu riconfermato il compito dell'offensiva di maggio: cercare cioè di raggiungere l'altipiano di Comen (Comeno) e di sorpassare il massiccio dell'Hermada.

Nel pomeriggio del 17 agosto le artiglierie della 2ª armata iniziarono il tiro, che si fece più intenso il mattino del 18. A sera una lunga fila di incendî segnava le retrovie nemiche. Nella notte sul 19, tra Doblar e Anhovo (Anicova), i due corpi d'armata cui era affidata l'azione principale verso la Bainsizza, cioè il XXIV e il XXVII, iniziarono il gittamento dei ponti nelle località prestabilite; per il XXIV le località di Loga, Ajba e Anhovo; per il XXVII quelle di Javor, Doblar e Ronzina.

Le mitragliatrici nemiche (in taluni punti annidate entro le gallerie della linea ferroviaria che correva parallelamente al fiume) e le artiglierie, entrarono subito in azione per impedire il forzamento del fiume, così che l'opera poté essere soltanto in parte compiuta; di 14 ponti progettati non fu possibile costruirne che sei. Il XXIV corpo, tuttavia, poté, prima del mattino, avere quattro ponti, a Loga, Ajba, Bodrez e Anhovo. Più difficile e contrastato fu il gittamento dei ponti per il XXVII corpo, sia per la conformazione delle sponde del fiume che in quel tratto si presentano alte, ripide e rocciose, sia per la violenza del tiro nemico: quello di Javor, dopo ripetuti tentativi, fu dovuto abbandonare, così che di cinque passaggi prestabiliti non fu possibile averne che due, a Doblar e a Ronzina. La notevole diminuzione dei ponti, specialmente la mancanza di quello di Javor, ebbe gravi ripercussioni sull'azione del XXVII corpo, poiché anzitutto il raggruppamento alpino, il quale avrebbe dovuto passare il fiume a Javor e attaccare i Lom, fu costretto a spostare i suoi battaglioni verso Doblar, ove già affluivano altri reparti, così che tutti i movimenti delle truppe ne risultarono ritardati e intralciati; le truppe del XXVII corpo, inoltre, rimasero spostate più a valle, più lontane quindi dai loro obiettivi principali (i Lom di Tolmino e di Canale) e deviate dalle direttrici di attacco loro assegnate. La brigata Trapani fu costretta addirittura a passare il fiume a Loga, sul ponte del XXIV corpo.

Al mattino del 19, quattro soli battaglioni del XXVII corpo e otto del XXIV erano passati sulla sinistra del fiume e marciavano sulle linee nemiche. Queste erano disposte in triplice ordine; una prima costeggiava il fiume, appoggiandosi a centri abitati opportunamente apprestati a difesa, quali Auzza, Canale, Deskla (Descla); una seconda correva a mezza costa e una terza, infine, si annodava a forti capisaldi; il Vehr (Verco di Canale, m. 601), il Kuk (quota 711), il Jelenik (m. 788), il Kobilek (m. 627). Mentre il IV corpo a nord e il VI a sud impegnavano gli Austriaci, sul M. Rosso e sul Mrzli il primo e sulle alture di Gorizia il secondo, il XXVII attaccava le difese di Auzza e tentava di passare il torrente Avsček, fortemente difeso; il II, superate le difese di Deskla, avanzava fino alla linea di quota 300, e sulla fronte del XXIV la 47ª divisione lanciava arditamente le sue brigate (1ª e 5ª bersaglieri) sul tratto Fratta-Semmer-Kuk, travolgendone i difensori. L'altra divisione del XXIV corpo (la 60ª) era rimasta ferma davanti a Canale; soltanto dopo che su tale località venne eseguito un potente concentramento di artiglieria, anche alla 60ª divisione fu aperto il passo.

Nella notte dal 19 al 20 vennero riattati i ponti danneggiati dal tiro nemico e costruite altre passerelle, così da poter intensificare il passaggio delle truppe, specialmente sulla fronte del XXVII corpo. Non tutte le truppe di questo corpo poterono, tuttavia, raggiungere la sinistra del fiume. Il XXIV corpo, però, consolidata l'occupazione della cresta Fratta-Semmer, puntava risolutamente nella giornata del 20 sulla linea Ossoinca-Oscedrih, per cadere poi sul fianco e sul rovescio del Kuk e del Jelenik. Il XXVII corpo non riusciva, invece, a vincere completamente la resistenza avversaria sull'Avsček e alla testata della valle Siroka Nieva, dominata dalla quota 645. Il giorno 21, mentre le truppe del VXVII corpo s'impadronivano di Auzza e passavano l'Avsček, la 5ª brigata bersaglieri espugnava l'Ossoinca, la 1ª raggiungeva la selletta tra la quota dell'Oscedrih, sulla quale il nemico si manteneva disperatamente, e il Jelenik, e la brigata Tortona della 60ª divisione s'impadroniva del Kuk. L'Oscedrih, preso anch'esso verso mezzogiorno, fu riperduto nel tardo pomeriggio. L'indomani anche il Jelenik, preso in una morsa, doveva cedere, e il II corpo, vinta la resistenza nel tratto Rutarsce-Bavterca, lanciava le sue truppe all'assalto del Kobilek. Il 23 anche gli ultimi capisaldi della difesa nemica, l'Oscedrih sulla sinistra e il Kobilek sulla destra, erano conquistati. L'intera conca di Vehr e quella di Bate (Battaglia della Bainsizza) erano conquistate; e il M. Santo era occupato dal II corpo.

Il XXVII corpo, intanto, non aveva potuto compiere che lievi progressi in direzione di Mesnjak e del Veliki Vrh e il XIV corpo d'armata (gen. Sagramoso), ch'era stato fatto entrare in linea, fin dal giorno 21, tra il XXLV e il XXVII corpo, sia per parare all'allargamento della fronte sia per risospingere verso i Lom il XXVII, fatalmente attratto a sud, aveva dovuto arrestarsi davanti ai forti reticolati, quasi intatti, della fronte Veliki Vrh-Na Gradu.

Il comando austriaco, disperando ormai di poter porre riparo alle gravi falle aperte nella sua linea sul margine occidentale della Bainsizza, aveva predisposto, il giorno 23, la ritirata sulla linea Mesnjak-Kal (Cal di Ca nale)-Vhrovec-Madoni-Zagorje-San Gabriele e l'abbandono del M. Santo e del Vodice. Le truppe italiane mossero subito all'inseguimento. Centoventicinque cannoni, 29 bombarde, circa 200 mitragliatrici e 19.340 prigionieri (di cui 537 ufficiali) costituivano i trofei delle vittoriose giornate.

Il nemico, però, riuniti in fretta rinforzi, riusciva a riordinare saldamente la difesa sulla nuova linea che dominava le posizioni raggiunte dagl'Italiani, e sbarrava la strada di Chiapovano, sua arteria vitale, mentre le fanterie italiane si portavano faticosamente avanti sull'altipiano, poverissimo di comunicazioni e privo di sorgenti. D'altra parte, la penetrazione per circa dieci chilometri nel territorio oltre Isonzo aveva di troppo allontanati gl'Italiani dal loro schieramento d'artiglieria; le incompiutezze delle previggenze logistiche e l'assoluta mancanza di strade che, valicando il fiume, adducessero all'altipiano, rendevano assai arduo lo spostamento in avanti delle batterie italiane e dei necessarî rifornimenti. Scarseggiavano inoltre le riserve e la battaglia costava anche un enorme consumo di munizioni, mentre bisognava tenersi premuniti contro un attacco nemico sul Carso e nel Trentino; ciò che il crollo della fronte orientale doveva, anzi, sempre più far temere. Sappiamo, infatti, che il 1° settembre al testé creato gruppo di esercito Boroević (1ª e 2ª armata dell'Isonzo) giungeva la notizia che presto una possente offensiva austro-tedesca si sarebbe abbattuta sulla fronte giulia.

Dal giorno 25 in poi, quindi, la battaglia sull'altipiano si frammentò in azioni particolari, le quali, più che altro, possono ritenersi episodî di assestamento della fronte raggiunta. Qualche progresso, tuttavia, compì il XXIV corpo in direzione del Volnik, senza però potersene impossessare; sulla fronte del XXVII, che si era portato anch'esso faticosamente avanti, superando il Veliki Vrh, la 22ª divisione tentò invano di aver ragione della difesa austriaca nella regione di Hoje; la 65ª, il giorno 28, poté impossessarsi del tanto contrastato villaggio di Mesnjak alto. Ormai la battaglia era virtualmente finita; a ostacolare vieppiù la continuazione delle operazioni, venne, il 28, una pioggia torrenziale.

Il 28 stesso, il Comando supremo italiano dava ordine di sospendere l'offensiva e di tentare soltanto uno sforzo estremo contro il blocco delle organizzazioni difensive a nord e a est di Gorizia, ritenendo che l'espugnazione di esse avrebbe potuto favorire le operazioni della 3ª armata, iniziate anch'esse il giorno 19. Dopo un intenso bombardamento, infatti, cui avevano partecipato dal mare anche batterie natanti della marina e monitori italiani e inglesi, la 3ª armata, sempre al comando del duca d'Aosta aveva iniziato l'attacco, il mattino del 19, con tutti i suoi corpi d'armata e con l'VIII (estrema destra della 2ª armata) che era stato posto alle dipendenze tattiche dell'armata del Carso. Qualche vantaggio, conseguito dall'VIII corpo sulle alture di Tivoli, fu presto perduto, e le truppe dell'XI e del XXV, che erano alquanto avanzate nella zona Fajti-Castagnavizza, alla sera furono costrette a tornare nelle trincee di partenza. Solo sulla destra il XXIII corpo e il XIII erano riusciti a fare qualche progresso: il primo in direzione di Versic e di Selo e il secondo verso San Giovanni, oltre le paludi di Lokavac. Nei giorni successivi la situazione rimase quasi stazionaria nei settori di sinistra e del centro; le brigate Pallanza e Lombardia occuparono le trincee delle quote 464 e 378, oltre il Fajti, ma, di fronte agli ostinati contrattacchi austriaci, dovettero cederne il possesso. A destra, invece, il XXIII corl50 riusci a oltrepassare versic, Kòrite (Corite) e Selo e si spinse nel vallone di Brestovica, occupando e rafforzando la quota 50; il XIII, espugnata la quota 40, piccola altura subito al di là della palude (che già presa e riperduta dalla 34ª divisione, cedette di nuovo ai fanti della brigata Toscana, della 45ª divisione) si spinse fino alla quota 110, alla vicina galleria ferroviaria e alle rovine di San Giovanni.

Il giorno 23 l'azione sul Carso fu sospesa dal Comando supremo per sottrarre le truppe a un nuovo, eccessivo logoramento. I risultati territoriali di essa erano stati piuttosto modesti, ma il logorio del nemico ancor più grave che nelle offensive precedenti; erano caduti, infatti, in mano agl'Italiani, oltre 11.000 prigionieri; e dei 71.500 uomini circa perduti dagli Austriaci dal principio dell'11ª battaglia dell'Isonzo al 31 agosto, oltre la metà fu perduta sul Carso. I progressi, d'altra parte, compiuti dall'ala destra della 3ª armata verso l'Hemiada preoccupavano non poco gli Austriaci. A un tentativo, infatti, operato dal XXIII e dal XIII corpo d'armata di sopprimere un saliente che le linee austriache facevano verso quelle italiane nel vallone di Brestovica (Brestovizza) il nemico reagiva, all'alba del 4 settembre, con un intensissimo contrattacco su tutta la fronte dei due corpi d'armata. Le truppe del XXIII corpo, dopo aver momentaneamente ceduto terreno, contrattaccarono a loro volta il nemico e lo ricacciarono; quelle del XIII corpo, invece, furono costrette ad abbandonare quasi tutto il terreno conquistato. Si risospinsero nel pomeriggio fin sulla linea della ferrovia, ma, rinnovatosi ancor più poderoso l'urto austriaco nel pomeriggio del 5 e nella notte sul 6, le truppe del XIII corpo furono costrette a ripiegare sulle linee che occupavano prima dell'offensiva, nella pianura desolata del Lisert.

L'attacco sul San Gabriele. - Per l'attacco progettato dal Comando supremo contro l'arco di alture che recinge Gorizia, fu effettuato un rapido e formidabile concentramento di artiglierie: circa 700 bocche da fuoco di medio e grosso calibro furono riunite nella stretta fronte tra il San Gabriele e il San Marco, oltre a gran numero di artiglierie leggiere e di bombarde. E il giorno 4 settembre, dopo un bombardamento d'inaudita intensità, l'11ª divisione (del VI corpo) andò all'attacco del San Gabriele, riuscendo a raggiungere la linea di cresta tra quota 552 e quota 646. Poco più tardi, però, un contrattacco obbigava gl'Italiani a ritirarsi un centinaio di metri al disotto della vetta.

Nei giorni successivi fino al 10 il San Gabriele fu teatro di una lotta incessante: nella vicenda di attacchi e contrattacchi interi reggimenti furono consunti da una parte e dall'altra. Da parte italiana, si pensò anche di poter vincere la resistenza ùei difensori del San Gabriele tentando di isolarli con un bombardamento nutrito e senza tregua di tutta la zona circostante, ma all'esperimento si dovette rinunziare, dopo qualche giorno di prova, sia per l'enorme consumo di munizioni, sia per i grandi lavori di caverne e gallerie eseguiti dal nemico, che gli consentivano di vivere e di muoversi al coperto.

All'alba del giorno 11, poi, tutte le posizioni italiane dalla Sella di Dol a Santa Caterina venivano bombardate dalle artiglierie avversariei e nella mattinata stessa gli Austriaci attaccavano le posizioni tra il Veliki-Hrib e il San Gabriele, ma, dopo un primo indietreggiamento, gl'Italiani riuscivano a ristabilire la situazione. Il giorno seguente, il contrattacco austriaco si estese anche sul San Gabriele. La linea tra la sommità del Veliki e la quota 552 poté essere mantenuta, ma sulla rimanente fronte si dovettero riguadagnare le linee di partenza.

Sull'altipiano della Bainsizza, intanto, erano continuati gli attacchi locali per migliorare la situazione italiana sulle linee avanzate; attacchi che culminarono il 15 settembre nella conquista, effettuata dalla brigata Sassari, delle alture di quota 895 e quota 862, e il giorno 29 dello stesso mese nella conquista del Na Kobil, dovuta alla 44ª divisione, guidata dal gen. Papa (medaglia d'oro), caduto il 5 ottobre sulle posizioni.

La più vasta e imponente battaglia sin allora combattuta sulla fronte italiana si era risolta, così, in un successo semplicemente tattico, senza dare quel grande risultato strategico, per il quale essa era stata concepita e combattuta. La magnifica operazione del passaggio dell'Isonzo, compiuta nonostante l'asperità delle sponde isontine e la resistenza del nemico, la rapida conquista della scoscesa linea di alture sulla sinistra del fiume, l'ardita manovra di sfondamento al centro dello schieramento austroungarico, la penetrazione, infine, per parecchi chilometri attraverso un terreno difficile e privo d; risorse non eran valse a dare un successo definiti o, che avrebbe potuto accelerare la fine della guerra. Gravi erano state le perdite italiane: 40.000 morti, 108.000 feriti, 18.000 prigionieri. Questa battaglia, tuttavia, rimane la più importante del primo periodo della guerra italiana, sia per la concezione di essa e per la condotta, sia per i risultati ottenuti. Tutto il sistema difensivo nemico, infatti, ne rimase potentemente scosso e minacciato, così da far temere alla coalizione avversaria come molto prossimo il crollo dell'esercito austro-ungarico. Il Ludendorff riferisce che, dopo l'undicesima battaglia dell'Isonzo, le autorità politiche e militari dell'Austria-Ungheria erano convinte che le armate austro-ungariche non avrebbero potuto sostenere "un proseguimento della battaglia e un dodicesimo attacco sull'Isonzo". Fu questa la genesi dell'offensiva austro-tedesca dell'ottobre successivo.

La dodicesima battaglia dell'Isonzo. - L'anno 1917 segnò una crisi molto grave per entrambi i gruppi dei belligeranti. La scomparsa della Russia dalla lotta, l'indecisione dei risultati nei varî teatri della guerra, la gravità delle perdite e soprattutto l'inasprimento della guerra subacquea avevano posto in grandi difficoltà l'Intesa; difficoltà, delle quali risentivano non soltanto gli eserciti, ma anche le popolazioni. Anche in Germania e in Austria, però, il desiderio della pace si faceva sempre più vivo nel popolo e anche in talune sfere politiche. Si spiegano così talune dichiarazioni dei capi socialisti e cattolici in Germania e il tentativo di pace separata perseguito dal principe Sisto di Borbone, cognato dell'imperatore d'Austria.

I duri colpi, d'altra parte, che l'Italia seguitava a inferire all'avversario, preoccupavano non poco l'alleato tedesco. Mentre si dubitava che l'Austria, sempre più stretta alla gola dall'Italia, potesse resistere a una eventuale nuova offensiva sull'Isonzo, si sperava invece che un grave rovescio militare inflitto all'Italia sarebbe bastato per sgominare questa e per far prevalere in essa i partiti avversi alla guerra. Perciò fu deciso un grande attacco austro-tedesco contro la fronte italiana.

Anche in Italia gli spiriti erano stanchi e irrequieti. La guerra, che durava ormai da due anni, con risultati territoriali scarsi e con perdite piuttosto gravi (nel solo anno 1917, prima della battaglia di Caporetto, l'Italia aveva perduto 350.000 uomini nelle operazioni più importanti, cioè il 36,3% della forza impiegata, secondo il calcolo del Caracciolo), le continue restrizioni alimentari, il disagio delle classi più umili, avevano ingenerato una certa depressione degli animi, aggravata ed esasperata dalla propaganda dei partiti politici contrarî alla guerra, che ebbe qualche ripercussione anche in parlamento. Era inevitabile che ondate di questo stato di scontento e della propaganda disfattista che si diffondevano in paese giungessero fino alla fronte; soldati che venivano in licenza dalla fronte se ne tornavano con un senso di disgusto e di sorda rivolta nel cuore, perché sentivano il loro sforzo sempre più isolato e incompreso. Tuttavia, nonostante la propaganda sovversiva, che dal paese giungeva fino alle spalle dell'esercito, e quella, accorta e subdola, che il nemico tentava d'insinuare dalle sue trincee nelle nostre, la disciplina e la coesione delle forze armate erano ancora salde. Poterono esse piegare a un più forte colpo nemico, in una dura sconfitta; poterono esservi casi dolorosi di manchevolezza e viltà, sia individuali sia collettivi, comuni del resto in tutti gli eserciti e in tutte le rotte, ma la rapidità stessa con la quale l'esercito itali-ano si risollevò dalla crisi gravissima e si aderse ancora, deciso alla lotta e alla vittoria, vale a provare che la compagine era ancora salda e che la massa custodiva nel cuore senso del dovere e virile disciplina.

Quale settore per l'offensiva, fu scelto dall'avversario quello da Plezzo a Tolmino, giudicato dallo stesso maresciallo Hindenburg "manifestamente debole". Le posizioni italiane, infatti, sulla sinistra dell'Isonzo, aggrappate com'erano al bastione montano che dal M. Nero digrada su Tolmino, avevano una ben scarsa efficienza e le linee difensive a tergo della prima o erano tuttora incomplete oppure costituite da trincee di vecchio tipo, e lasciate da molto tempo in abbandono; non maggiore efficienza avevano quelle sulla destra. Le truppe austriache già dislocate sulla fronte Giulia (23 divisioni e 1800 bocche da fuoco) vennero rinforzate con altre 14 divisioni (7 tedesche e 7 austriache) e con oltre un migliaio di bocche da fuoco, delle quali 800 circa germaniche.

L'armata destinata all'attacco, designata con il nome di 14ª armata e costituita di truppe austro-ungariche e tedesche (8 divisioni austriache e 7 tedesche, con un totale di 168 battaglioni), fu posta al comando del generale tedesco von Below e ripartita in quattro corpi d'armata o gruppi, così formati: gruppo Krauss (3 divisioni austriache) dal Rombon al M. Nero; gruppo Stein (una divisione austriaca e tre tedesche) fra il M. Nero e Tolmino; gruppo Berrer (due divisioni tedesche) fra Tolmino e l'Idria; gruppo Scotti (una divisione austriaca e una tedesca) sull'altipiano di Lom. Quattro divisioni erano in riserva. Dovevano inoltre concorrere all'attacco la 10ª armata austro-ungarica (gen. Krobatin) che fronteggiava le truppe della Carnia e la 1ª e 2ª armata dell'Isonzo (gruppo d'eserciti Boroević) contro il margine settentrionale dell'altipiano della Bainsizza.

Lo scopo dell'offensiva fu così determinato nell'ordine d'operazione della 14ª armata: "ricacciare il nemico dalla zona del Carso e dietro il Tagliamento"; contemporaneamente la 10ª armata doveva attaccare anch'essa e avanzare tra Isonzo e Judrio. Attacchi dimostrativi, per trarre in inganno il comando italiano sulla direzione dell'attacco principale, dovevano essere sviluppati dalle truppe del Trentino e da quelle del Carso.

Nel settore minacciato era schierata da parte italiana la 2ª armata (gen. Capello) con i seguenti corpi d'armata, da nord a sud: IV (generale Cavaciocchi), XXVII (gen. Badoglio), XXLV (gen. Caviglia), II (gen. Albricci), VI (gen. Lombardi) e VIII (gen. Grazioli). In seconda linea, all'altezza dell'ala destra del IV corpo e della sinistra del XXVII, nel triangolo M. Matajur-Kuk (Cucco)-Savogna, fu, qualche giorno prima dell'offensiva, concentrato il VII corpo d'armata (gen. Bongiovanni) e due altri corpi d'armata (il XIV e il XXVIII) vennero dislocati più indietro, quale riserva. In complesso la 2ª armata poteva disporre di venticinque divisioni, con un complesso di 353 battaglioni, dei quali 251 in prima linea. Potente era lo schieramento di artiglieria della 2ª armata; 2340 bocche da fuoco (delle quali 1364 di medio e grosso calibro) e 725 bombarde; ma pur sempre alquanto inferiore a quelle del nemico nel settore d'attacco, dove la 14ª armata aveva accumulato ben 866 bocche da fuoco leggiere, 198 pesanti e 41 pesantissime.

Circa il modo, poi, di opporsi al grande attacco avversario, perdurò, fin quasi alla vigilia di esso, un increscioso divario di concezione tra i gen. Cadorna e Capello; poiché, mentre questi avrebbe voluto predisporre una controffensiva strategica, il primo, invece, intendeva stare sulla pura difensiva. Tale contrasto d'idee tra i capi ebbe effetti, purtroppo, di non lieve entità sulle caratteristiche impresse allo schieramento, rimasto più offensivo, in fondo, che difensivo. Il gen. Capello, comandante dell'armata, dovette, per giunta, pochi giorni prima dell'offensiva, allontanarsi dalla fronte per infermità, e venne sostituito dal gen. Montuori. Essendosi però il giorno 21 ottobre saputo da ufficiali nemici disertori che l'offensiva sarebbe stata iniziata la notte sul 24, il gen. Capello ripartiva per la fronte e convocava i comandanti delle grandi unità a Cividale, non molte ore prima che il cannone tedesco desse il segnale della battaglia.

Alle due del mattino del 24 ottobre, i primi colpi dell'artiglieria nemica si abbattevano sulle linee italiane. Dopo la prima fase di bombardamento con proiettili tossici, si scatenò il fuoco di distruzione, di tale violenza che in breve tutto, trincee, camminamenti, ripari, fu sconvolto; gli osservatori accecati, i collegamenti spezzati. In molti tratti delle trincee avanzate non rimasero più che rade catene di uomini, avvelenati dai gas o annichiliti dall'intensità del bombardamento; dietro, incommciavano a diffondersi lo sgomento e il disordine. Le artiglierie della difesa intanto, sia per la fitta nebbia, sia per erronea interpretazione di ordini, non opponevano al fuoco nemico che una reazione fiacca e incerta.

Verso le otto, mentre poderose mine esplodevano sul Mrzli e sul M. Rosso, la 14ª armata lanciò le sue fanterie all'attacco contro le posizioni del IV e del XXVII corpo; con più deciso impeto nella conca di Plezzo e nel settore della testa di ponte di Tolmino. Nonostante che in molti tratti della fronte si opponesse una strenua resistenza, prima di mezzogiorno le truppe della conca di Plezzo, sopraffatte dal gruppo Krauss, erano in ritirata sulla stretta di Saga; la 12ª divisione germanica, sfondate le difese italiane nel tratto Gabrje (Gabria di Tolmino)-Selisce (Selze di Caporetto), avanzava rapidamente sulle due rive del fiume; l'Alpenkorps, travolte le truppe della 19ª divisione, si affermava sui due costoni di costa Raunza e di costa Duole, con i quali la dorsale del Kolovrat si protende nella conca di Tolmino; il gruppo Scotti, impadronitosi del Krad Vhr e del costone di Cemponi, attaccava il Glotbocak.

Sull'altipiano della Bainsizza, invece, tutti gli attacchi del nemico, benché condotti con superiorità di forze, s'infrangevano contro la resistenza delle altre truppe del XXVII corpo e di quelle del XXIV; qualche tratto di terreno perduto fu riconquistato. Nel pomeriggio, le sorti della battaglia si facevano sempre più oscure. I Tedeschi, avanzando con sicurezza quasi temeraria per il fondo valle, poco dopo mezzogiorno raggiungevano Kamno, alle 14 Jdersko, alle 15 Caporetto. Il Comando supremo si affrettava a ordinare che le truppe della Bainsizza fossero fatte ripiegare nella notte sulla linea M. Fratta-Ossoinca-Na KobilM. Santo, e che, per qualsiasi evenienza, fosse rimessa in efficienza la linea del Tagliamento.

Nella giornata del 25, la falla aperta nelle linee italiane diventò sempre più ampia e ormai irreparabile. Il nemico premeva alle testate di tutte le valli e dilagava per tutte le strade. Sfondato lo sbarramento di Valle Uccea fu aperto l'accesso alla Val Resia; la 50ª divisione tentò di difendere lo Stol, ma prima di sera fu costretta a sgomberarlo; il Kolovrat e il Globocak, caddero anch'essi in mano al nemico che, penetrato in Val Savogna, scendeva verso il Natisone. Il Comando supremo ordinò la ritirata della 2ª armata sulla linea Montemaggiore-Purgessimo -Korada (Corada)-Anhovo-Kuk-Vodice-Sella di Dol-Salcano-Gorizia, sulla quale si doveva resistere a oltranza. Per essere pronti, però, a qualsiasi evento, la 3ª armata e la zona Carnia ricevettero ordine di adottare tutte le predisposizioni per potere, ove la situazione lo esigesse, effettuare la ritirata rispettivamente sul Tagliamento e sulla linea delle Prealpi carniche

Il giorno 27 gli eventi precipitarono. Con la caduta del Montemaggiore, anche l'ultima linea di difesa fu scardinata; la via per Cividale era aperta, così che nella notte il Comando supremo fu costretto a ordinare la ritirata al Tagliamento; la 3ª armata, intanto, dovette ripiegare sulla linea del Vallone ed effettuare lo sgombero delle artiglierie. Nelle ore antimeridiane del 27, la difesa italiana fu sopraffatta sul vasto tratto fra Madlesena e Castel Madonna del Monte, e prima di mezzogiorno Cividale cadeva in mano del nemico. Fin dalle prime ore del mattino, intanto, il gen. Cadorna aveva preso la grave risoluzione di ordinare il ripiegamento anche alle truppe della 3ª armata e a quelle della zona Carnia.

Tutto l'esercito era ormai in ritirata verso il Tagliamento, e alla visione angosciosa della sconfitta si aggiungeva il doloroso spettacolo delle popolazioni fuggenti davanti al nemico. Nella giornata del 28, la 3ª armata, disimpegnatasi senza gravi difficoltà dal nemico, era già tutta sulla destra dell'Isonzo e raggiungeva il Torre, protetta, nella ritirata, dall'ala destra della 2ª armata, schierata fra il Torre e l'Isonzo. Il nemico, nel frattempo, nelle prime ore del pomeriggio entrava in Udine. Il 29, la ritirata di tutte le truppe della 2ª e 3ª armata e della zona Carnia proseguì senza pressione per parte del nemico, e in conseguenza dell'arretramento dell'ala sinistra della zona Carnia anche la 4ª armata sgombrò le alte valli Visdende e Sesis. Per coordinare la ritirata della zona Carnia con quella della 2ª armata e per coprire i ponti di Cornino e di Pinzano sul Tagliamento il gen. Cadorna aveva, fin dal giorno 26, ordinato la costituzione di un corpo d'armata speciale (20ª e 33ª divisione) affidandone il comando al generale Di Giorgio. Nella notte sul 29 incominciò il passaggio del Tagliamento tra non poche difficoltà, sia per la massa di uomini, di quadrupedi, di carreggi che s'accalcava ai ponti, sia perché il fiume in piena non consentiva il guado nè la costruzione di passerelle; travolse, anzi, il ponte militare di Bonzicco, e sommerse quello di Madrisio.

La cavalleria italiana, intanto, irradiata per il piano, cercava di trattenere le avampuardie nemiche e di ritardare l'avanzata del grosso. Il giorno 28, il reggimento Saluzzo combatté valorosamente a Beivars e a San Gottardo contro le truppe avversarie passate sulla destra del Torre; il 29, i reggimenti della 4ª brigata (lancieri di Aosta e Mantova) caricarono avanguardie nemiche a Fagagna e quelli della 1ª brigata (cavalleggieri di Roma e Monferrato) a Pasian Schiavonesco. I reggimenti Genova cavalleria e lancieri di Novara, asserragliati in Pozzuolo del Friuli e ivi attaccati il mattino del 30 da numerose forze nemiche, sostennero, con reparti della brigata Bergamo, un'eroica lotta; a stento i superstiti riuscirono ad aprirsi il passo tra le raffiche delle mitragliatrici nemiche.

Nella giornata del 30, mentre con inevitabile lentezza continuava il passaggio del Tagliamento, la situazione improvvisamente si aggravò sulla sinistra del fiume. Mentre, a nord, pattuglie nemiche entravano in San Daniele del Friuli e grossi nuclei, validamente contenuti dalle fanterie italiane e specialmente dalla brigata Bologna, schierata sulle alture di Radogna, tentavano di raggiungere il ponte di Pinzano, la difesa dei ponti di Codroipo (i due ponti ferroviarî e quello cosiddetto della Delizia) era fortemente premuta dal nemico, così da deteminare i dirigenti la difesa italiana a ordinare la distruzione dei ponti stessi, che avvenne nel pomeriggio del 30, molte altre truppe e artiglierie restarono così in mano del nemico. Lo stesso accadde il mattino del 1° novembre, al ponte di Pinzano, dove i superstiti della brigata Bologna, eroicamente sacrificatisi, rimasero al di là. Nella giornata stessa del 1° cessato completamente il deflusso delle truppe, vennero interrotti anche i ponti di Latisana, ultimi passaggi che ancora restavano sul Tagliamento. Nel corso alto del fiume, il corpo speciale Di Giorgio riuscì a trattenere ancora il nemico davanti al ponte di Cornino, e benché nella notte dal 2 al 3 novembre il passaggio del Tagliamento fosse forzato a Cornino e a Valeriano, le truppe del generale Di Giorgio riescirono ancora, per i giorni 3 e 4, a trattenere le forze avversarie, impedendo che esse dilagassero sul rovescio della linea del Tagliamento e tagliassero fuori le truppe che scendevano dalla zona montana.

Nella notte stessa del 3, anche la 4ª armata iniziò la sua ritirata, mentre un primo nucleo di artiglierie e di truppe si andava schierando sul Piave, dai ponti della Priula al mare. Il mattino del 4, il gen. Cadorna emanò l'ordine di ritirata generale sul Piave. Si sottraeva così il grosso dell'esercito alla minaccia avversaria. Il nemico, incalzando, costrinse, nel pomeriggio del 4 stesso, il corpo d'armata Di Giorgio a ripiegare dietro il Meduna; le divisioni 36ª e 63ª, che tentavano di sboccare dalle Prealpi carniche, si trovarono in una situazione drammatica; meno qualche reparto, furono catturate dal nemico.

Le truppe della 2ª e 3ª armata raggiunsero e passarono il Piave nei giorni 6 e 7, mentre la 4ª armata, abbandonato il Cadore, si dispose a stabilirsi sul M. Grappa, per funzionare da cerniera fra le truppe rimaste nel Trentino e quelle che si schieravano sulla nuova fronte del Piave.

Il gen. Cadorna, compiuta l'opera immane di trarre in salvo l'esercito, lanciò un vibrato appello alle truppe (7 novembre) che conchiudeva con queste parole: "noi siamo inflessibilmente decisi: sulle nuove posizioni, dal Piave allo Stelvio, si difende l'onore e la vita d'Italia; sappia ogni combattente qual'è il grido e il comando che viene dalla coscienza di tutto il popolo italiano: morire, non ripiegare". Il mattino del giorno 9, egli fu sostituito nel Comando supremo dell'esercito dal gen. Armando Diaz. Il giorno 9 stesso, a mezzogiorno, il passaggio del Piave era pressoché ultimato; nel pomeriggio, tutti i ponti furono fatti saltare.

La battaglia d'arresto sugli altipiani, sul Grappa e sul Piave. - Ritirati al di qua del Piave gli ultimi scaglioni delle armate dell'Isonzo, abbandonate le zone cadorina e carnica, arretrata alquanto anche l'estrema ala destra della 1ª armata, l'esercito italiano si trovo raccolto sopra una nuova linea che, di circa 200 chilometri più breve dell'antica, era rimasta immutata dallo Stelvio alla regione di Gallio, sugli Altipiani (1ª armata: gen. Pecori Giraldi); appoggiandosi, quindi, al gruppo montuoso delle Melette, sull'orlo orientale dell'altipiano di Asiago, passava la Brenta allo sbarramento di San Marino e si saldava ai contrafforti settentrionali del massiccio del Grappa (4ª armata: generale Di Robilant) per distendersi, infine, lungo il Piave, il cui corso era guardato provvisoriamente dalla sola 3ª armata, mentre gli avanzi della 2ª e del XII corpo d'armata passavano a ricostituirsi nell'interno del paese, con il nome di 5ª armata. I superstiti reggimenti dell'Isonzo si erano arrestati sul Piave; dietro l'esile schieramento improvvisato sul fiume, non respiro possente e ordinato di retrovie, non protezione e veglia di artiglierie. Sia per la gravità del rovescio, sia per le perdite enormi di uomini (10.000 morti, 30.000 feriti e quasi 300.000 prigionieri), di armi, di materiali, la situazione era veramente tragica.

Il nuovo capo del governo, V. E. Orlando, succeduto il 26 ottobre al Boselli, così aveva subito telegrafato al gen. Cadorna: "Sappia il nemico e sappia il mondo che gl'Italiani, dallo stesso inesprimibile dolore per la Patria invasa, traggono la virtù di comporre ogni loro interiore dissenso e di rinsaldare volontà, energia e opera, perché il suolo della Patria sia riconsacrato dalla immancabile vittoria". E il re, non appena terminata la ritirata al Piave, indirizzava un vibrante proclama alla nazione, che concludeva così:" "Siate un esercito solo. Ogni viltà è tradimento, ogni discordia è tradimento, ogni recriminazione è tradimento. Questo mio grido di fede incrollabile nei destini d'Italia suoni così nelle trincee come in ogni remoto lembo della patria, e sia il grido del popolo che combatte, del popolo che lavora. Al nemico che, ancor più che sulla vittoria militare, conta sul dissolvimento dei nostri spiriti e della nostra compagine, si risponda con una sola coscienza, con una sola voce: tutti siam pronti a dar tutto per la vittoria, per l'onore d'Italia". E la nazione raccolse l'esortazione del suo re.

Fin dal giorno 26 ottobre il governo francese aveva offerto un aiuto di uomini al comando italiano: il 30 dello stesso mese i primi trasporti di truppe francesi passavano la frontiera italiana. Questo primo contingente francese, al comando del generale Duchêne, comprendeva quattro divisioni, due del XXXI corpo d'armata (64ª e 65ª) e due di Cacciatori delle Alpi (46ª e 47ª); seguirono due divisioni inglesi (23ª e 24ª), al comando del gen. conte di Cavan. Più tardi, tra il 20 novembre e il 2 dicembre, giunse in Italia un altro corpo d'armata francese su due divisioni, e ad esso tennero dietro altre tre divisioni inglesi, costituenti l'XI corpo d'armata. Assunse il comando delle truppe francesi in Italia il gen. Fayolle e quello delle truppe inglesi il gen. Plumer. Sia le truppe francesi sia le inglesi, però, rimasero dislocate nelle retrovie fino ai primi di dicembre. Sulla nuova fronte i Francesi lasciarono poi 430 morti e 2302 feriti, gl'Inglesi 1024 morti e 5073 feriti.

Nei giorni 6 e 7 novembre convennero a Rapallo i capi di governo degli stati dell'Intesa e i capi di Stato Maggiore, e si discusse largamente della situazione militare; a Peschiera, poi, il giorno 8, i rappresentanti degli Stati Maggiori alleati s'incontrarono con il re. Come testimoniò poi l'Orlando, il re fu il principale oratore di quel convegno, opponendo a tutte le obiezioni e ai dubbî mossi dagli alleati una fede incrollabile nell'esercito italiano e la più ferma volontà di resistenza.

Le forze italiane, intanto, andavano riordinandosi e sistemandosi sulla nuova linea. Alla data del 10 novembre esse erano così schierate: dallo Stelvio al Garda, il III corpo d'armata, con due divisioni; dal Garda alla Brenta la 1ª armata, con 12 divisioni; dalla Brenta a Nervesa la 4ª armata, con 7 divisioni; da Nervesa al mare la 3ª armata, con 8 divisioni. Nelle immediate retrovie, tra l'Astico e il mare, erano dislocate altre quattro divisioni e l'intero corpo di cavalleria. Di fronte a queste forze, deficienti di artiglierie, di quadrupedi, di aeroplani, di mezzi bellici in genere, stavano ben 55 divisioni nemiche, ripartite in tre grandi masse: gruppo d'esercito agli ordini del feld-maresciallo Conrad, dislocato tra lo Stelvio e la Val Sugana e costituito dalla 10ª e 11ª armata (17 divisioni); la 14ª armata austro-germanica, agli ordini del gen. von Below, schierata dalla Val Sugana ai ponti della Priula, ripartita sempre in 4 gruppi e forte di 19 divisioni; il gruppo d'eserciti Boroevic (1ª e 2ª armata dell'Isonzo), schierata tra i ponti della Priula e il mare e comprendente complessivamente 19 divisioni. Questa massa enorme di uomini, perfettamente armati ed equipaggiati, era dotata inoltre larghissimamente di artiglierie, di munizioni, di aeroplani e animata da ardente spirito aggressivo, sia per la recente vittoria, che aveva dato in sua balia una regione ricca e fertilissima, sia per la speranza di poter concludere la guerra nelle pianure del Veneto e della Lombardia. Pure, nel cozzo di queste due forze, apparentemente così impari, tutti i pronostici infausti furono infranti e ogni previsione sovvertita: i superstiti di un immane disastro e i ragazzi della classe 1899, testé chiamata alle armi, seppero tener testa vittoriosamente al fiore di un esercito vittorioso.

Il 10 novembre il nemico pronunciò il primo attacco contro la linea italiana, scegliendo il settore ove più agevole gli sembrava di poter ottenere risultati rapidi e sicuri; quello dell'altipiano di Asiago, ove molto limitato era, infatti, lo spessore del diaframma montano che divideva le linee austriache dalla pianura veneta. Le prime posizioni attaccate dal nemico furono quelle di Gallio e monte Ferragh; i posti avanzati cedettero, ma un contrattacco di fanti delle brigate Pisa e Toscana, di bersaglieri del 5° reggimento e di arditi del XVI reparto d'assalto ricacciò completamente l'avversario. L'attacco fu ritentato nel pomeriggio del giorno 11, ma s'infranse sotto il fuoco di fucileria e di mitragliatrici della difesa.

Nella notte sul 12, mentre la lotta si riaccendeva di bel nuovo e con maggiore violenza su tutta la linea M. Gallio-M. Longara-Melette di Gallio, nuclei nemici, mediante grossi barconi, riuscivano a passare sulla destra del Piave, nell'ansa che il fiume forma presso Zenson e a costituirvi una piccola testa di ponte; truppe italiane, prontamente accorse, pur senza riuscire a ricacciare il nemico oltre il fiume, gl'impedirono però di dilagare, addossandolo agli argini.

Sull'altipiano i soldati italiani seguitavano a battersi con grande energia, ma, dopo una giornata di combattimenti, furono costretti ad abbandonare le alture di Gallio, ripiegando sulle posizioni di M. Sisemol-Stenfle-M. Zomo. Contro il Sisemol il nemico lanciò successivi contrattacchi nella giornata del 13 e nella notte sul 14, ma fu ogni volta respinto con perdite molto gravi; spostò quindi l'attacco più a nord, contro il tratto Meletta davanti-M. Fior-M. Castelgomberto, ma con tre giorni di sanguinosi combattimenti non riuscì neppure qui a ottenere alcun risultato contro la salda difesa.

Il giorno 15 la lotta si estese tra Brenta e Piave, verso i contrafforti settentrionali del Grappa, ove il nemico si attendeva di poter facilmente trionfare delle improvvisate difese. M. Roncone e M. Tomatico dovettero essere presto sgombrati, ma sulle posizioni retrostanti di M. Prassolan e M. Cornella ogni palmo di terreno fu conteso dagl'Italiani con accanimento; alla fine il nemico riuscì, con il peso delle sue forze soverchianti, a occupare il Prassolan e ad avere ragione anche della magnifica difesa sul Cornella e alla stretta di Quero, costringendo i difensori a ripiegare il giorno 17 sul Tomba e sul Monfenera.

Sul Piave, intanto, il nemico, sempre contenuto nell'ansa di Zenson, tentava di passare il fiume anche in altri punti; riusciva, infatti, nella notte sul 16 a traghettare circa 4 battaglioni sulla sponda destra, a cavaliere della ferrovia Treviso-Oderzo. Ma i difensori accorrevano subito a contenerli; a Fagarè la brigata Novara e la 3ª brigata bersaglieri e a Folina la brigata Lecce infliggevano agli avversari perdite gravissime. Altri tentativi di passaggio tra Fener e Pederobba (presso Valdobbiadene) furono sventati, e dopo qualche giorno anche nella zona di Fagarè il nemico, premuto sempre più verso il fiume e battuto dalle artiglierie italiane, fu costretto a ripassare sulla sinistra del fiume.

Nel settore montano, il nemico, a cavallo della zona tra Brenta e Piave, alternava i suoi assalti sull'altipiano di Asiago e sul massiccio del Grappa, accentuando il suo disegno di aprirsi una breccia verso il piano. Contro il Tomba e il Monfenera i migliori battaglioni nemici si susseguirono all'assalto nei giorni tra il 18 e il 22; il Pertica e lo sbarramento di San Marino furono teatro di mischie sanguinosissime. Il M. Fontanasecca venne perduto il giorno 20; il Pertica, perduto anch'esso nello stesso giorno, fu poi in tre giorni più volte ripreso e ancora riperduto; nel pomeriggio del 22, infine, anche sul M. Tomba e sul Monfenera le truppe italiane dovettero cedere alla pressione avversaria, ma con quattro contrattacchi poterono in parte riconquistare le posizioni perdute.

Nella giornata stessa del 22, sull'altipiano, il nemico, puntando da nord sulla fronte Monte Tondarecar-M. Badenecche e da ovest su quella M. Castelgomberto-Meletta davanti, tentava di far cadere per avvolgimento il caposaldo delle Melette, ma ovunque veniva respinto dalle truppe del XX corpo (gen. Ferrari).

Tre battaglie si combattevano ormai da quindici giorni sull'altipiano, la prima, ove il nemico portava la lotta ogni notte dalla conca di Asiago ai muraglioni di roccia della val Gàdena; tra Brenta e Piave la seconda, asprissima e insidiosa, quasi sempre fuori di ogni linea preparata; sul Piave, infine, la terza, tra canali, argini e greti paludosi.

Il giorno 25, fresche masse avversarie rinnovarono con deciso impeto l'attacco alle posizioni tra Brenta e Piave. A sinistra lo sforzo nemico, diretto a sboccare dal Pertica, venne prontamente annullato e ad ogni tentativo avversario corrispose pronto il contrattacco. Al centro, la 56ª divisione, con cinque successivi contrattacchi rigettò le dense truppe avversarie che puntavano ostinatamente sul Col dell'Orso, sullo Spinoncia, sul Solarolo; all'ala destra, infine, gli alpini respinsero gli assalti sulle pendici del Monfenera. Il 26 la divisione Edelweiss, una delle migliori dell'esercito austriaco, attaccava decisamente il Col della Berretta, ma i rincalzi della brigata Aosta, del 94° fanteria e il battaglione alpini Val Brenta obbligavano il nemico a ritirarsi. Dopo questo cruento scacco, il nemico desistette per qualche giorno da nuovi attacchi.

Era, però, da prevedersi, a scadenza più o meno breve, un nuovo attacco austriaco. Questo, infatti, si scatenò contro le Melette, il giorno 4 dicembre, dopo una nutrita azione d'artiglieria, con preponderante numero di proiettili a gas asfissianti, lacrimogeni ed emetici. Sul tratto M. Sisemol-M. Zomo il nemico poté essere contenuto, ma nel pomeriggio fu perduta la selletta "Baratono" tra il Badenecche e il Tondarecar, alture che costituivano il bastione destro del sistema delle Melette, mentre il Sisemol e lo Stenfle ne formavano il sinistro. Il nemico, quindi, proseguiva con estrema violenza la sua azione verso est, così che tutto il gruppo delle Melette dovette essere sgomberato. Perdita molto dolorosa, benché le Melette avessero ormai assolto il loro compito, logorando per circa un mese le forze avversarie e permettendo di allestire una linea arretrata, atta a sbarrare ancora la Val Frenzela e a impedire che lo schieramento nemico sull'altipiano gravitasse direttamente sul fianco occidentale del Grappa. Il 6 venne la volta anche del Sisemol. Un'intera divisione lo attaccò risolutamente, prendendolo e riperdendolo più volte, e alfine poté insediarvisi. La linea italiana ripiegò su cima Echar-M. Val Bella-Col del Rosso-Zaibena-ciglione destro di Val Frenzela.

Frattanto le truppe alleate prendevano il loro posto d'onore sulla fronte; due divisioni francesi nella regione del Monfenera e due inglesi sul Montello. I settori delle truppe alleate non vennero però attaccati.

Dopo un breve diversivo sul basso Piave (il 9 dicembre), con il quale gli Austriaci s'impossessarono per poco di alcune trincee d'osservazione ad Agenzia Zuliani, a est di Caposile (trincee che furono poi obbligati a lasciare da contrattacchi italiani), la lotta fu di nuovo portata sul Grappa.

Il mattino dell'11, un violentissimo bombardamento si abbatté su Col Caprile e Col della Berretta, sullo Spinoncia, sull'Asolone, e grosse unità tedesche e austriache mossero all'attacco. Sotto l'irruenza delle ondate avversarie il Col della Berretta e lo Spinoncia furono ben presto sommersi; con impetuosi contrattacchi gl'Italiani riuscirono solamente a riprendere in parte il Col della Berretta e a impedire che il nemico s'impossessasse anche di Col dell'Orso e progredisse nella Val Calcino, che si profonda tra lo Spinoncia e il Valderoa. Magnifica la resistenza della 19ª divisione, al caposaldo di Ca' d'Anna. Nei giorni seguenti la mischia si concentrò attorno al saliente del Solarolo, difeso dalle truppe del XVIII corpo d'armata (generale Tettoni). Il nemico premeva con forti masse contro tutta la fronte Col dell'Orso-Solarolo-testata di Val Calcino-Porte di Salton, ma gl'Italiani resistevano con disperata tenacia. Per valore si distinsero, e furono dal bollettino del Comando supremo (15 dicembre) additati alla riconoscenza d'Italia le brigate Ravenna, Umbria e Campania, il 3° raggruppamento alpini (battaglioni M. Arvenis, Val Cismon, Val Camonica, Val Cenischia, Feltre, Cividale) nonché i battaglioni Val Maira e M. Pavione. Malgrado tanto valore, il giorno 14, sotto un nuovo attacco avversario, fu perduto il Col Caprile, e il 18 anche la vetta dell'Asolone ma nuovi assalti nemici a sud del Solarolo, il 17 e il 19, s'infransero contro la resistenza italiana.

Dopo dieci giorni dacché si esauriva nei suoi vani attacchi, il nemico fu costretto a deporre le sue speranze. Il 19 stesso, anzi, reparti italiani, passati al contrattacco nella regione dell'Asolone, riconquistavano in gran parte le posizioni perdute, giungendo fin sotto la vetta del monte. A un ultimo tentativo non volle, tuttavia, rinunciare il maresciallo Conrad, sull'altipiano, ove gli sembrava che le difese a sbarramento della Val Frenzela non avrebbero potuto resistere all'urto di una massa poderosa, sostenuta da una potente artiglieria. Il 23 dicembre, tutta la linea tra il M. Valbella e la Val Frenzela fu sottoposta prima a un intenso martellamento di artiglierie e quindi attaccata con grande veemenza. In breve le posizioni italiane di prima linea, il Valbella, il Col del Rosso, il Col d'Echele, il M. Melago e Busa del Termine furono perdute. Per qualche ora la situazione parve, ed era, gravissima, ma ben presto le truppe italiane iniziavano la serie dei contrattacchi. M. Melago e Busa del Termine venivano riconquistati, e il Col del Rosso rioccupato fin quasi alla vetta; anche il Valbella veniva ripreso con brillante assalto dalla brigata Pisa, ma il fuoco dell'artiglieria avversaria impediva di rimanervi. Anche il giorno di Natale la battaglia divampò da una parte e dall'altra, ma gl'Italiani riuscirono a rinsaldare la barriera che doveva precludere definitivamente il passo al nemico. Lo sforzo austro-tedesco per schiacciare definitivamente l'esercito italiano era cosi fallito. "Io mi dovetti convincere - scrive Hindenburg - che le nostre forze non bastavano per impadronirsi delle Alpi veneziane, che dominano per grande tratto le pianure italiane, e far così crollare la resistenza sul Piave... La nostra vittoria era rimasta incompleta".

La ricostruzione. - La vittoria riportata in Italia, per quanto incompleta, fece rifiorire nelle Potenze centrali le speranze di pace. Il ministro tedesco degli Esteri Kühlmann parlava già della fine dell'Italia, e quello austriaco, Czernin, non mancava di ritentare i soliti allettamenti alla pace, sulla base dello statu quo ante territoriale. Ma al parlamento italiano (15 dicembre) l'Orlando rispondeva affermando che prima di accettare un tale statu quo l'Italia avrebbe indietreggiato fino alla Sicilia. Intanto la Russia sottoscriveva il 3 marzo 1918 la pace di Brest-Litovsk; il 7 maggio, a Bucarest, anche la Romania veniva costretta a firmare un duro trattato di pace. Era inutile, ormai, illudersi che la guerra potesse finire senza un nuovo cozzo delle armi. E a questo alacremente si andarono preparando tutti gli eserciti belligeranti durante l'inverno. La Germania, infatti, accumulava sulla fronte franco-inglese tutte le forze disponibili, per tentare uno sforzo supremo e decisivo in primavera; dal suo canto, l'Intesa spingeva al massimo della potenza e della perfezione le sue armi e gli apparecchi di guerra, mentre con ritmo divenuto più celere affluivano in Europa le truppe che gli Stati Uniti, i quali già dalla primavera del '17 avevano dichiarato lo stato di guerra con la Germania, inviavano in sostegno degli Alleati.

Anche in Italia, non appena si fu sopita la lotta sul Grappa e sugli Altipiani, il Comando supremo e il governo si dedicarono con ogni cura all'opera di ricostruzione dell'esercito: cannoni, mitragliatrici, fucili, mezzi automobilistici, aeroplani e altri materiali bellici furono apprestati in gran numero con il concorso di tutte le energie nazionali. Altrettanto intensa e rapida erano la formazione e l'istruzione dei nuovi reparti di truppa, ai quali venivano dati una disposizione e un'efficienza sempre meglio rispondenti ai metodi e alle necessità poste in luce dai combattimenti più recenti sulla fronte italiana e su quelle alleate. Una sana opera di propaganda era iniziata fra le truppe, alle quali era anche prestata una più assidua e premurosa assistenza morale e materiale, é alla benefica opera di propaganda militare si univa quella civile tra le folle. Volere di governo, energie di popolo, accorgimento di comandi fecero si che per le nuove prove della primavera l'Austria, che aveva sperato di atterrare l'avversario, vedesse invece ergersi di fronte un'Italia potente e salda come forse non era stata mai.

Durante i mesi dell'inverno, sulle posizioni ancora sconvolte dalla recente epica lotta le nevi vennero a imporre una tregua. Nelle limpide notti lunari stormi di aeroplani tornarono nuovamente a bombardare le città venete. Ma queste incursioni aeree, che costavano quasi sempre care al nemico, non riuscirono mai a scuotere il morale delle popolazioni danneggiate. Cresciuti di numero e di potenza, i velivoli italiani, del resto, non soltanto avevano già dato durante l'anno un validissimo concorso alle operazioni militari intervenendo anche in piena battaglia, ma consentirono inoltre di rispondere alle incursioni avversarie sul territorio italiano con imprese ben più vaste e rischiose. Popolari e gloriosi divennero i nomi di Baracca, di Piccio, di Ruffo di Calabria, di Baracchini, di Olivari, di Ancillotto, arditi cacciatori del cielo, che a ogni offesa avversaria contrapponevano una reazione fulminea e sicura.

Un risveglio di combattività si ebbe sulle linee di terra, con il tornare della primavera. Il 10 maggio, con un brillante attacco, reparti italiani di fanteria e di truppe d'assalto riconquistavano il M. Corno di Vallarsa. E, nell'anniversario dell'entrata in guerra dell'Italia, gli alpini del IV raggruppamento riprendevano le operazioni del giugno 1916 nella zona Tonale-Adamello e conquistavano le alte vette del M. Zigolon, della cresta Maroccaro, della Cima Presena, del passo del Monticello, liberando cosi l'alta val Camonica dall'incubo di quelle posizioni ch'erano come un grande occhio, sempre aperto a spiare ogni movimento italiano nella vallata. Sul basso Piave, infine, nella notte sul 16 maggio reparti di bersaglieri e di arditi irrompevano in tre successive linee di trinceramenti avversari antistanti al settore nord della testa di ponte che al nemico era, rimasta sulla destra del Piave, a Capo Sile, travolgendone le difese per un largo tratto.Verso la fine di maggio si facevano sempre più frequenti gl'indizî di un nuovo sforzo offensivo, che il nemico si apprestava a compiere sulla fronte italiana. Ai primi di giugno ogni dubbio era svanito: Conrad dai monti e Boroevič dal piano si preparavano a stringere l'esercito italiano come in una morsa.

La battaglia del Piave. - Con il ritorno della primavera, anche sulla fronte franco-inglese si era ripresa la lotta. Con tre spallate successive, il 21 marzo, sulla Somma, il 9 aprile, nelle Fiandre, e il 27 maggio, tra Reims e Soissons, Hindenburg aveva posto a dura prova la resistenza delle linee alleate, senza riuscire però a infrangerle. (A contendere il passo ai Tedeschi verso Reims ed Épernay fu poi anche un corpo d'armata italiano, il II, al comando del generale Albricci, che ebbe complessivamente 4375 morti e 6359 feriti).

La Germania, tuttavia, magnificava le sue recenti vittorie e non mancava di rivolgere inviti e pressioni all'alleata Austria, perché prendesse l'offensiva contro l'Italia. D'altra parte, oltre ai successi dei Tedeschi, tutto sembrava costituire per l'Austria sprone e allettamento per un nuovo sforzo offensivo contro l'Italia; la situazione generale italiana, che Conrad definiva: "quella di un naufrago aggrappato alle ultime sue tavole di salvezza"; la speranza di trovare nelle pianure venete e lombarde quei rifornimenti di vettovaglie che ormai erano nell'Austria-Ungheria giunti all'estremo; le condizioni dell'esercito, che, nulla più avendo a temere dai Russi, si presentava perfettamente saldo e agguerrito. Sessanta divisioni, infatti, solidamente inquadrate e al completo di ogni sorta di materiali, erano addensate alla fronte italiana; un'artiglieria formidabile, un'ottima aviazione, una perfetta organizzazione industriale erano al servizio di quella massa imponente di uomini. D'altra parte, le condizioni politiche della duplice monarchia erano divenute tali da rendere più che mai necessaria la fine della guerra. I varî popoli dell'impero accentuavano il loro movimento per l'indipendenza e si andavano accostando a quella delle grandi potenze, che più direttamente era impegnata alla distruzione dell'Austria: l'Italia. Ai primi di aprile, infatti, i principali agitatori cecoslovacchi, iugoslavi, romeni e polacchi convennero a Roma, ove firmarono un patto, con il quale s'impegnavano a lottare con l'Italia contro il nemico comune, e si andò iniziando la costituzione di legioni volontarie tra i prigionieri cecoslovacchi in Italia, che, riunite più tardi nell'agosto in una divisione, presero e tennero onorevolmente per qualche settimana il loro posto alla fronte italiana, nel settore dell'Altissimo; vennero costituiti del pari reparti di volontarî slavi, polacchi e romeni.

Per risollevare, quindi, il prestigio dello stato di fronte ai sudditi ribelli e ai nemici esterni, e anche presso l'alleata Germania, l'Austria si andò alacremente apprestando al nuovo sforzo offensivo contro l'Italia. Questo fu preparato con tale larghezza di mezzi, "da superare - com'ebbe poi a dire il ministro della difesa austriaco - in intensità e proporzioni ogni altra precedente offensiva" e, come risultato di esso, scriveva il gen. von Arz a Hindenburg, da "ripromettersi lo sfacelo militare dell'Italia".

Le forze austriache sulla fronte italiana erano ripartite in due grandi gruppi, di due armate ciascuna: gruppo d'armate del Tirolo (dallo Stelvio al Monfenera) al comando del maresciallo Conrad, con le armate 10ª e 11ª; limite fra Ie due armate, la val d'Astico; gruppo d'armate del Piave (dal Monfenera al mare) con la 6ª armata e l'Isonzo-Armee, divise dal ponte della Priula. Il vecchio maresciallo Conrad avrebbe voluto una sola energica puntata dagli Altipiani, sua vecchia predilezione; in caso di riuscita, gl'Italiani sarebbero stati costretti ad abbandonare la linea del Piave. Ma il Boroević, geloso del Conrad e forte anche del prestigio guadagnatosi con la lunga e abile resistenza sull'Isonzo, volle che l'attacco fosse esteso al Piave. Scarsamente autorevole, il Comando supremo austroungarico non seppe che accontentare entrambi: e fu deciso un duplice attacco (offensiva Radetzki e operazione Albrecht) sulla fronte vastissima dall'Assa al mare. Un forte attacco diversivo, nella regione del Tonale (azione valanga), doveva precedere l'azione principale per "ingannare l'avversario e minacciare la Lombardia, in particolare Milano".

Di fronte alle quattro armate austro-ungariche le truppe del ricostituito esercito italiano erano cosi schierate: di fronte alla 10ª armata austro-ungarica stavano le armate 7ª (gen. Tassoni) dallo Stelvio al Garda e 1ª (gen. Pecori-Giraldi) dal Garda all'Astico, con complessive 12 divisioni; di fronte all'11ª armata la 6ª (gen. Montuori) dall'Astico al Brenta e la 4ª (gen. Giardino) dal Brenta a Pederobba, con complessive 16 divisioni. Di fronte, infine, alle armate di Boroević, l'8ª (generale Pennella) da Pederobba a Palazzon, e la 3ª (duca d'Aosta) fino al mare, con 9 divisioni. In tutto, comprese le riserve del Comando supremo (19 divisioni) l'Italia poteva disporre di 56 divisioni, sei delle quali alleate: tre inglesi e due francesi, assegnate alla 6ª armata, e una cecoslovacca, dislocata nelle retrovie della 1ª armata, ma non ancora pronte alla battaglia. Oltre 7000 bocche da fuoco, delle quali 500 circa appartenenti alle divisioni alleate, e 660 aeroplani (un centinaio dei quali alleati) completavano l'armamento italiano.

Anche alla fine del conflitto le perdite inflitte dai sommergibili erano grandiose, però dal secondo trimestre del 1918 il tonnellaggio varato o messo in servizio, in tutto il mondo, superava il totale delle perdite.

Le perdite dei sommergibili tedeschi, che nel 1917 ammontarono in media a 5 sommergibili il mese, salirono a una media mensile di 8 nell'anno successivo. Nei primi dieci mesi del 1918 la riduzione del numero dei sommergibili alla fronte, dovuta alle perdite e alla crescente necessità di battelli-scuola, rimase spesso non compensata dall'entrata in servizio di nuovi sommergibili. Complessivamente durante la guerra entrarono in servizio 343 sommergibili, di cui 199 andarono perduti. Nel dicembre 1917 la Germania aveva ordinato 120 sommergibili, ma soltanta nell'ottobre 1918 le trattative con l'industria avevano fatto riconoscere la possibilità di aumentare il numero dei sommergibili di 16 unità il mese e di raggiungere in breve l'incremento di un sommergibile al giorno.

Gl'incrociatori sommergibili, cioè i sommergibili di grosso tonnellaggio, destinati a eseguire lunghe crociere sulle vie oceaniche, cominciarono la loro azione nella seconda metà del 1917. Questi grandi sommergibili, potentemente armati e destinati a un'azione analoga a quella dei corsari di superficie, rappresentavano una parte importante fra i sommergibili che la Germania aveva in costruzione quando cessarono le ostilità.

L'appoggio delle forze di superficie ai sommergibili che conducevano la guerra al traffico fu essenziale specialmente nel 1918, a causa dei campi minati che gl'Inglesi avevano affondato in vicinanza delle acque tedesche. Fu perciò necessario - scrive l'ammiraglio Michelsen - "che l'intera flotta d'alto mare si mettesse per la maggior parte del tempo al servizio di questa forma di guerra; perché le flottiglie di dragamine, alle quali spettava il compito di garantire ai sommergibili le rotte di sicurezza attraverso il Mare del Nord, dovevano essere appoggiate da flottiglie di siluranti, e queste a loro volta da incrociatori. dietro i quali si trovava sempre pronta almeno una divisione di corazzate".

La .fine della guerra. - Nell'ottobre 1918, quando la Germania chiese l'armistizio, fra le condizioni imposte per aprire trattative fu la sospensione della guerra sottomarina contro navi da passeggeri. Praticamente ciò significava l'obbligo di cessare l'azione dei sommergibili contro il traffico e perciò il 21 ottobre tutti i sommergibili furono richiamati. Il 29 ottobre, quando scoppiò la rivoluzione nella flotta d'alto mare, le navi ribelli furono indotte all'obbedienza da siluranti di superficie e da sommergibili; sulle unità che nella guerra avevano avuto la parte più attiva la disciplina si mantenne salda nelle estreme contingenze.

Cooperazione aereo-marittima. - Lo stato di preparazione delle forze aeree all'inizio del conflitto. - Esso era assai scarso per tutte le marine; esisteva molta incertezza sull'importanza relativa da attribuire ai dirigibili e all'aviazione. La marina tedesca aveva soltanto tre dirigibili Zeppelin di 15.000 mc., ma l'industria era preparata a sviluppare rapidamente la costruzione di aeronavi; su esse quella marina faceva molto assegnamento per l'esplorazione del Mare del Nord. La marina inglese non aveva dirigibili, ad eccezione di quelli piccoli per esplorazione costiera; ma era più preparata delle altre marine nei riguardi dell'aviazione e dal 1913 aveva adattato piroscafi portaerei.

Le prime azioni aeree. - Quando cominciarono i trasporti di truppe inglesi attraverso la Manica l'aviazione inglese cooperò con le forze navali al servizio di vigilanza mediante una crociera di velivoli che si alternavano sulla linea Westgate-Ostenda. Il 25 dicembre 1914 tre piroscafi inglesi porta-idrovolanti arrivarono a 12 miglia a N. di Helgoland sotto la protezione d'incrociatori leggieri, cacciatorpediniere e sommergibili, mentre la Grand Fleet si teneva al largo, e misero in mare 9 velivoli, 2 dei quali non poterono sollevarsi. I velivoli dovevano eseguire una ricognizione su Cuxhaven, per dare notizie delle forze navali, e attaccare gli hangar dei dirigibili. I bersagli non furono colpiti; due Zeppelin e alcuni idrovolanti tedeschi svolsero attacchi alle navi obbligando gl'Inglesi a rinunziare al ricupero di cinque idrovolanti; però i piloti furono salvati da cacciatorpediniere e da sommergibili. Fu questo il primo attacco di aerei contro navi e il primo contrasto aereo sul mare.

Durante il 1915. - La marina tedesca, per il notevole incremento conseguito nel numero di dirigibili e di velivoli, ne estese l'impiego: fu affidato ai dirigibili il bombardamento contro le zone militarmente più importanti di Londra e le opere del basso Tamigi, confermando però che il primo compito delle forze aeree dovesse rimanere quello esplorativo in collaborazione con la flotta d'alto mare. Il 19 gennaio avvenne la prima incursione di due Zeppelin contro la costa orientale inglese; a questa azione aerea seguì la ricognizione navale che il 24 gennaio produsse la battaglia del Dogger Bank (v.; e v. sopra: Mare del Nord). In questa battaglia le navi tedesche ebbero l'ausilio dell'osservazione di un idrovolante e di uno Zeppelin; tale circostanza fornì il primo saggio della difficoltà degli aerei di rendersi conto della situazione tra forze navali in contrasto: l'idrovolante tedesco bombardò i cacciatorpediniere inglesi che stavano salvando naufraghi tedeschi (del Blücher); il dirigibile non poté accorgersi che l'incrociatore da battaglia inglese Lion per avaria aveva ridotto di velocità e stava per essere preso a rimorchio. Gli attacchi di dirigibili contro l'Inghilterra non furono rinnovati fino al mese di aprile, ma poi furono eseguiti con frequenza, obbligando l'Inghilterra a un grande sviluppo della dìfesa contraerea. I velivoli inglesi dalla base aerea di Dunkerque cooperarono con le navi della pattuglia di Dover alla lotta per il possesso della costa belga, ed esercitarono la difesa attiva contro gli Zeppelin, attaccandone gli hangar impiantati nel Belgio. Gli attacchi degli Zeppelin ebbero ripercussioni sulle disposizioni navali inglesi, sia con ì ripetuti tentativi a mezzo di navi che portavano idrovolanti per l'attacco agli hangar nel territorio tedesco, sia con l'impiego di unità navali con armamento antiaereo per contrastare alle aeronavi tedesche il ritorno e impedire l'appoggio navale ai dirigibili.

I Tedeschi, avendo incontrastato il dominio dell'aria nel Baltico, destinarono a quello scacchiere dirigibili antiquati; con l'occupazione di Memel furono dislocate in quel porto due navi per appoggio agl'idrovolanti, i quali per la scarsità dell'aviazione russa ebbero facile compito per la ricerca dei sommergibili e delle mine.

L'impresa dei Dardanelli impose agl'Inglesi una rilevante sottrazione di forze aeree dal Mare del Nord; i velivoli resero importanti servizî specialmente per l'osservazione del tiro navale. Nello stesso anno sulle coste dell'Africa orientale l'incrociatore tedesco Königsberg immobilizzato nell'estuario del Rufiji fu distrutto da monitori inglesi con il concorso dell'osservazione del tiro fatta dagli aerei (v. sopra: Oceani).

Le condizioni geografiche dell'Adriatico favorivano un largo impiego dell'aviazione. Con l'entrata in guerra dell'Italia la flotta austriaca nella base di Pola sarebbe potuta risultare molto esposta alle offese dall'aria, per la ristrettezza dello scacchiere; ma all'inizio delle ostilità la marina italiana aveva aviazione scarsissima, perché le risorse dell'industria in questo campo erano state in gran parte assorbite dall'esercito. In conseguenza l'aviazione italiana dell'alto Adriatico nel 1915 si limitò a eseguire su Pola un servizio di ricognizione; da Brindisi e da Valona, dove fu dislocata una nave per appoggio di velivoli, furono eseguite missioni esplorative. L'azione di bombardamento contro Pola e contro gli stabilimenti militari di Fiume fu affidata ai dirigibili del tipo semirigido, di cui la marina nel maggio 1915 aveva due unità pronte; ma queste aeronavi dovevano operare a bassa quota e costituivano un facile bersaglio. Nel giugno un dirigibile di ritorno da Fiume fu abbattuto da un idrovolante; in agosto un altro fu perduto in un attacco su Pola. La marina austro-ungarica già possedeva un rilevante numero di idrovolanti, impiegati per bombardare Venezia e per esplorazioni nel basso Adriatico.

L'attività aereo-navale nel 1916. - Essa ebbe grande incremento nel Mare del Nord per il grado di sviluppo raggiunto dalle forze aeree e per l'importanza assunta dalla guerra navale. Le incursioni effettuate dal principio di tale anno dai dirigibili tedeschi contro il territorio inglese, anche quando in apparenza ebbero carattere di azioni indipendenti per la mancanza di contrasto navale, furono in realtà inquadrate nel piano di attività della flotta (v. sopra: Mare del Nord). La cooperazione in grande stile tra forze navali e aeree in forma diretta fu effettuata il 24 aprile (attacco navale contro Lowestoft e Varmouth); per le condizioni metereologiche fu tentata invano il 31 maggio nelle operazioni che diedero luogo alla battaglia dello Jütland. Il 19 agosto la cooperazione aereonavale si svolse nelle condizioni più favorevolì per larghezza di mezzi; le comunicazioni fra le navi e i dirigibili tedeschi procedevano in modo perfetto, ma tuttavia gli osservatori aerei non si dimostrarono all'altezza del loro compito, dando al comando della flotta indicazioni errate, che riuscirono dannose alla condotta navale. Nelle acque della battaglia dello Jütland gl'Inglesi poterono mettere in mare un unico velivolo; esso diede qualche notizia, ma la sua esplorazione fu brevissima e tardiva.

Il salvamento dell'esercito serbo e l'avanzata austriaca in Albania produssero un'intensa attività navale nel basso Adriatico, mentre era sentita la prevalenza dell'aviazione austro-ungarica, che con l'occupazione di Durazzo aveva accresciuto le sue possibilità di azione disponendo di un punto d'appoggio ravvicinato a Valona e a Brindisi.

Durante la guerra sottomarina senza restrizioni (1917-18). - Le forze aeree validamente cooperarono con le unità navali alla difesa del traffico sia con la protezione diretta (servizî di scorta) sia con la protezione indiretta (ricerca e caccia ai sommergibili, azioni contro le loro basi). Nei servizî di scorta dei convogli i dirigibili avevano, rispetto ai velivoli, il vantaggio di una maggiore autonomia, mentre l'attacco di velivoli muniti di grosse bombe costituiva per i sommergibili una grave minaccia per la rapidità dell'attacco.

L'intervento americano fornì un potente contributo di velivoli: questo concorso, e lo sviluppo delle forze di aviazione delle marine dell'Intesa, fecero ad esse decisamente acquistare il predominio aereo anche nei settori più contrastati. Alla fine delle ostilità sia nel Mare del Nord sia nell'Adriatico era intensa l'azione aerea contro le basi dei sommergibili nemici, e costituiva un importante fattore di successo.

V. tavv. XVII-LXXVI.

La guerra nei rapporti economico-finanziarî.

La guerra e la popolazione. - Fra le ripercussioni della guerra sulla vita economico-sociale dei paesi belligeranti le più sensibili e immediate sono quelle che riguardano la situazione demografica.

La perdita di popolazione della sola Europa per causa della guerra è stata valutata in 35 milioni di uomini, di cui poco meno di 10 milioni sono militari morti in guerra, 5 milioni sarebbero dati dall'aumento della mortalità nella popolazione civile e 20 milioni dalla diminuzione della natalità in confronto all'ultimo quinquennio di anteguerra. Si potrà contestare l'attendibilità di quest'ultima cifra, fondata sul presupposto della costanza dell'indice di natalità, che in realtà in tutti i paesi dell'occidente tendeva a diminuire. Ma d'altra parte la possibile esagerazione di quella cifra è anche troppo compensata dal fortissimo numero dei grandi invalidi di guerra, che in quella statistica non sono compresi, e da una tendenza all'aumento della mortalità che deve considerarsi come una conseguenza della guerra non solo fino al 1919 o 1920, ma anche negli anni successivi.

Il fenomeno si presenta con gravità diversa da paese a paese, non tanto per le proporzioni delle perdite, quanto per la situazione demografica preesistente su cui esso è venuto a ripercuotersi.

Gravissimo soprattutto è il caso della Francia, dove all'eccedenza delle nascite sulle morti, pressoché insignificante già nell'ultimo quinquennio d'anteguerra (in media di 30.000 unità l'anno) subentrò una eccedenza delle morti, che raggiunse l'altezza di 580.000 nel 1915, di 570.000 nel '16, di 620.000 nel '18, e portò complessivamente, fra il 1916 e il 1919, a una diminuzione totale di 2.813.000 anime, solo in parte compensata dall'annessione dell'Alsazia e Lorena, nonostante la quale la popolazione della Francia all'inizio del 1920 è di 1.100.000 ab. inferiore a quella del 1913 (38.700.000 in confronto di 39.800.000).

Negli altri paesi dell'Intesa la diminuzione di popolazione derivante dall'aumento delle morti fra i belligeranti e fra la popolazione civile e dalla diminuzione delle nascite, che raggiunge il livello più alto in Russia (con un totale di 13 milioni, di cui 2.500.000 morti in guerra), è compensata, spesso quasi interamente, dall'alto livello che vi avevano raggiunto prima del 1914 l'indice di natalità o l'emigrazione, totalmente interrotta dallo scoppio delle ostilità. Così nel Regno Unito dove l'emigrazione nel quinquennio 1909-13 avea raggiunto una media di 250.000 persone l'anno, la popolazione totale, nel 1920, supera di 400.000 anime il livello raggiunto nel 1913. In Italia dove la sola emigrazione transoceanica, tenuto anche conto dei rimpatrî, aveva determinato, nello stesso periodo, una perdita netta di 200.000 ab. l'anno, la popolazione totale, nelle vecchie provincie, raggiunge nel 1919 lo stesso livello del 1914.

Nel campo avversario lo stesso fenomeno si manifesta nell'Austria-Ungheria, dove negli ultimi anni dell'anteguerra l'emigrazione per l'America avea raggiunto un livello di poco inferiore a quello dell'Italia, ma dove per lo smembramento dell'Impero e per la perdita di una parte dei suoi territorî, è impossibile un confronto esatto fra il 1913 e il 1919.

Per la Germania invece la perdita totale, valutata in 6.300.000 ab., di cui 2 milioni per morti in guerra, 700.000 per aumento della mortalità nella popolazione civile e 3.600.000 per diminuzione delle nascite in confronto alla media dell'ultimo quinquennio di pace, non poté trovare il suo correttivo nell'interruzione dell'emigrazione, quasi completamente cessata da più di un ventennio e sostituita invece da una sensibile immigrazione; ma fu invece, in misura assai rilevante, compensata dall'altissima natalità (nel 1913 l'eccedenza delle nascite sui decessi era stata in Germania di 833.800 unità), per cui la diminuzione effettiva della popolazione nei cinque anni di guerra, entro i vecchi confini dell'impero, si ridusse a meno di 900.000 ab.

Alla diminuzione o alla sosta dell'aumento della popolazione totale si accompagna, più o meno, in tutti i paesi belligeranti uno spostamento nella sua distribuzione professionale: diminuisce la popolazione rurale e aumentano gli addetti alle industrie e al commercio, con la conseguente tendenza a un ulteriore incremento dei maggiori agglomeramenti urbani.

Il fenomeno è particolarmente lamentato in Francia, dove Parigi e i dipartimenti industriali del nord-est esercitano una fortissima attrazione sia per la necessità dell'industria, sia per quella della ricostruzione, mentre i dipartimenti agricoli del sud-ovest soffrono di una gravissima mancanza di mano d'opera, che li espone al pericolo dell'abbandono delle colture e incoraggia l'immigrazione di coloni stranieri, in particolar modo italiani.

Il costo e le finanze di guerra. - Se la perdita di vite umane è la più dolorosa delle conseguenze sociali della guerra, assai più gravi di essa si rivelano per le generazioni successive le conseguenze economiche dell'onere finanziario che essa ha imposto a tutti gli stati belligeranti. La valutazione del costo della guerra è stata tentata in ogni paese da studiosi insigni, molti dei quali sono stati indotti, da un criterio logicamente inoppugnabile, a estendere i loro calcoli non al solo costo finanziario ma anche alle ricchezze distrutte nei territorî invasi, alla diminuzione della produzione e della produttività, al valore delle vite umane perdute per morte o per invalidità. Ma una valutazione così estesa e completa si è rivelata impossibile, sicché in pratica il solo calcolo che si possa fare con relativa esattezza è quello delle spese effettivamente sostenute dagli stati belligeranti per causa della guerra, sebbene anche questo calcolo presenti una difficoltà insuperabile nel fatto che in realtà le spese di guerra non si esauriscono con la conclusione della pace, ma gravano sui bilanci dei varî stati per molti anni dopo di questa.

Fra lo scoppio della guerra e l'estate del 1919 il costo finanziario della guerra è stato così calcolato, sulla base dei dati ufficiali:

Da questa somma si devono dedurre i prestiti interalleati, per 105 miliardi di franchi-oro, che figurano nelle spese degli stati creditori come in quelle degli stati debitori; ma resta la cifra di 1090 miliardi, di cui si può apprezzare l'enormità confrontandola con il debito pubblico degli stati medesimi alla vigilia della guerra, che non superava complessivamente i 130 miliardi di franchi-oro.

Programma ripetutamente proclamato dai più autorevoli uomini di stato di tutti i paesi belligeranti era stato quello di provvedere a questo fabbisogno con l'emissione di prestiti interni, ricavando dall'inasprimento delle imposte i mezzi per far fronte al servizio degl'interessi. Ma in realtà quel programma non poté essere mantenuto nemmeno nei primi anni di guerra; i prestiti interni consolidati, nonostante la mole gigantesca da essi raggiunta, dovettero essere completati, per le potenze dell'Intesa, dai prestiti degli Stati Uniti e dell'Inghilterra e in misura assai più alta dalle anticipazioni delle banche d'emissione, che resero indispensabile quel ricorso all'inflazione che si diceva di voler evitare e che d'altra parte era anche provocata dalle larghe concessioni di crediti garantiti dai prestiti di guerra, favorite dai governi stessi per incoraggiare le sottoscrizioni.

L'aumento della circolazione, se non raggiunge negli anni di guerra le altezze ciclopiche a cui esso arriva fra il 1920 e il 1926, assume tuttavia fin dal 1915 proporzioni impressionanti:.

A prescindere dalla Russia, dove dopo il 1917 s'inizia, per partito preso, la totale débâcle del rublo, e dagli Stati Uniti, dove soltanto dopo la primavera del 1917 si può parlare di una finanza di guerra, l'aumento della circolazione procede, press'a poco, parallelamente in tutti gli stati belligeranti con un rapporto di 1:3 nel Giappone, di cui è ben nota la scarsa partecipazione alle operazioni militari, e di 1:5,2 per la Francia e per l'Italia, che hanno potuto ricorrere largamente ai crediti esteri; 1:11 per il Regno Unito; di 1:16 per la Germania.

Dagli stati belligeranti la necessità dell'inflazione si è estesa anche ai neutrali: in Olanda la circolazione da 313 milioni di fiorini nel 1913, sale a 1138 nel 1918; in Svizzera da 314 a 996 milioni di franchi, dimostrando evidentemente che l'ascesa dei prezzi determinata, in prima linea, dall'inflazione, determina a sua volta un forte aumento di circolazione anche in quei paesi che non avrebbero necessità finanziaria di ricorrervi.

Gli effetti economici dell'inflazione non si rivelarono durante gli anni di guerra in tutta la loro gravità, come avvenne invece, in forma tragica, pochi mesi dopo l'armistizio, perché da un lato il blocco sempre più completo degl'Imperi centrali ridusse per essi a proporzioni modestissime il commercio dei cambî e permise che i prezzi interni, rigidamente controllati, subissero in misura assai limitata l'influenza dei prezzi internazionali; e d'altro lato fra i paesi dell'Intesa, aperti agli scambî con l'estero, l'ascesa dei cambî, necessaria conseguenza dell'inflazione, fu in parte frenata dai prestiti esteri e dagli accordi fra gli stati, mentre i prezzi interni furono disciplinati, con qualche efficacia, dagl'interventi statali. Ma nonostante questi freni, mentre i cambî sono mantenuti artificialmente bassi, sicché il franco francese arriva al massimo a perdere il 15% e la lira italiana il 70% sul dollaro, i prezzi salgono ad altezze che non sono affatto in relazione con questi cambî fittizî.

In Francia, ad esempio, l'indice medio dei prezzi all'ingrosso (fatto eguale a 100 il prezzo medio del decennio 1901-910), da 116 nel 1913 sale a 162 nel'15, a 218 nel'16, a 302 nel'17, a 392 nel'18. In Italia il prezzo del frumento da 29 lire il q. nel 1913 e nel'14, sale a 56 nel'18; quello del mais da 18 a 40; l'olio d'oliva da 152 a 375; il vino da 23 a 104 l'ettolitro. Fatti eguali a 100 i prezzi medî nei varî paesi nel 1913, si è calcolato che nel 1° semestre 1919 l'indice fosse salito: negli Stati Uniti a 206, in Inghilterra a 258, in Francia a 330, in Italia a 330. Del resto anche in Svizzera l'indice dei prezzi all'ingrosso era salito da 100 a 207.

La guerra e l'agricoltura. - Le ripercussioni della guerra sulla produzione, sia agricola sia industriale, derivano in parte dall'azione diretta da essa esercitata con le sottrazioni di braccia, con la distribuzione da essa provocata di alcune ricchezze e con lo stimolo dato all'incremento della produzione di altre ricchezze, con la difficoltà o l'impossibilità di alcuni trasporti; in parte invece da un'azione indiretta, attraverso la politica finanziaria e soprattutto all'inflazione.

Nei riguardi della proprietà fondiaria e dell'agricoltura l'inflazione ha esercitato indubbiamente un'azione benefica, favorendo la liberazione delle terre dal gravame delle ipoteche, migliorando le condizioni dei fittavoli e offrendo loro assai spesso la possibilità di trasformarsi in liberi proprietarî. Ma di fronte a questi vantaggi, che si fanno specialmente sentire nei primi anni del dopoguerra, stanno i danni gravissimi e immediati che l'agricoltura, più di ogni altra forma d'attività, ha sofferto per la mutata situazione del mercato del lavoro e degli scambî. La mano d'opera più redditizia viene sottratta alla terra non solo dalle chiamate alle armi, che in alcuni fra i paesi belligeranti si estendono a tutti i maschi validi dai 17 ai 50 anni senza eccezioni di alcun genere per la popolazione rurale; ma nuovi vuoti son fatti dall'attrazione delle industrie di guerra con i loro alti salarî. La mano d'opera femminile ripara come può alla mancanza di braccia maschili; ma solo in parte si può parlare a questo riguardo di una vera e propria sostituzione, ché già in tempo di pace in tutti i paesi a conduzione familiare e talvolta anche nei paesi a bracciantato era stata assai larga la partecipazione delle donne ai lavori campestri. Altro rimedio si cercò negl'incoraggiamenti e negli aiuti diretti dello stato o di altri enti per l'acquisto e l'impiego di macchine agricole; ma i risultati, che in ogni caso poterono manifestarsi solo negli ultimi anni di guerra e limitatamente a quei terreni in cui le condizioni fisiche rendono più agevole e redditizio l'impiego delle macchine, furono sempre inferiori alla perdita a cui si voleva rimediare.

Conseguenza generale della mancanza di braccia, è la riduzione progressiva della superficie coltivata.

In Francia essa era valutata a 14.254.000 ha. nel 1913, a 11.030.000 ha. nel 1915, a 9.686.000 ha. nel 1918; in Germania la superficie coltivata a frumento, da 1.925.000 ha. nel 1912 scende ad 1.130.000 nel 1919; e quella coltivata a segale da 6.270.000 a 4 milioni circa. In Italia la superficie coltivata a frumento, da 5.059.500 ha. nel 1915, scende a 4.286.600 ha. nel 1919. Fa soltanto eccezione la Gran Bretagna dove la superficie coltivata non soffre alcuna riduzione, perché essa si era già tanto ridotta dalla metà dell'800 in poi che si sente anzi il bisogno urgente d'intensificare le colture per diminuire la quasi totale dipendenza dell'alimentazione del paese dai rifomimenti d'oltremare.

Ma in generale alla diminuzione delle superficie coltivate si accompagna una corrispondente riduzione dei raccolti, determinata oltre che dal peggioramento quantitativo e qualitativo del lavoro, dal minor impiego dei fertilizzanti e forse, in qualche luogo, da una meno razionale distribuzione delle rotazioni agrarie, provocata dalla propaganda e dalle imposizioni per l'aumento delle colture alimentari e soprattutto del grano.

In Italia ad esempio il consumo dei perfosfati da una media di 100 nel quinquennio 1910-14, scese a 34,4 nel quinquennio 1918-19, e quello dei concimi azotati da 100 a 14; e la produzione del frumento da una media di 48,6 milioni di q. nel quinquennio 1910-914, discese a 45,6 nel quinquennio successivo. Assai più grave si presenta però la diminuzione in Francia, dove negli stessi due quinquennî si scende da una media annuale di 82 ad una di 53 milioni di q. e in Germania dove la produzione di frumento, di segale e di patate fu nel 1912 rispettivamente (in milioni di quintali) di 43,6, 116,500; nel 1917 di 21,3, 69,8, 344; nel 1918 di 25,5, 80, 294,7; nel 1919 di 21,7, 61, 214,5.

Diminuzioni anche più gravi si manifestano nelle altre produzioni agrarie e in misura impressionante nel patrimonio zootecnico.

In Germania questo si riduce in 4 anni di più di un terzo: al 1° dicembre 1915 si avevano 3.341.000 di cavalli; 20.317.000 di buoi e 17.287.000 di suini. Queste cifre si ridussero al 1° settembre 1919 rispettivamente a 2.469.000, 16.360.000 e 11.000.000. Molto minore, ma tuttavia sensibile è la distruzione in Italia, dove il numero di bovini si riduce da 6.900.000 a 6.240.000 e quello dei suini da 2.750.000 a 2.339.000; maggiore in Francia dove il numero dei bovini scende da 14 a 12, degli ovini da 16 a 9, dei suini da 7 a 4 milioni. L'Inghilterra che, in grazia del dominio dei mari, può salvare quasi completamente il suo patrimonio zootecnico, perde invece i due terzi del prodotto della pesca.

Il peggioramento che in misura maggiore o minore si manifesta in tutti i campi dell'attività agraria degli stati belligeranti, esclusi naturalmente gli Stati Uniti d'America, ha per l'economia europea una conseguenza di più lunga e più grave portata, in quanto esso incoraggia e stimola nei paesi transoceanici la produzione di quelle derrate agricole che le terre d'Europa non riescono a fornire che in misura del tutto insufficiente. Significaiivo è soprattutto il caso dello zucchero, per il quale la produzione europea si riduce di più della metà mentre la produzione dello zucchero di canna nei paesi tropicali, specie a Cuba e Giava, riesce nello stesso tempo a raddoppiarsi. Più lentamente, ma in misura considerevole, si manifesta lo stesso spostamento nella coltura dei cereali.

Mentre in Europa diminuisce la superficie coltivata a grano, nei cinque maggiori paesi esportatori d'oltre oceano (Stati Uniti, Canada, Argentina, Australia, India) essa sale da 44,5 milioni di ha. negli ultimi anni di pace a 55,7 nel 1918 e nel 1919; e il loro raccolto dalla media annua di 401 milioni di q. nel 1909-13, sale a quella di 464 nel 1914-18.

La guerra e l'industria. - Se la guerra mondiale ha danneggiato in generale la produzione agricola e ha accentuato la dipendenza della maggior parte dei paesi d'Europa dai mercati transoceanici, non si può nemmeno affermare ch'essa abbia favorito, nel suo complesso, l'incremento della produzione industriale. L'impressione contraria, largamente diffusa, deriva dalla rapida e straordinaria elevazione dei prezzi, che ha enormemente ingrossato le cifre della produzione e del commercio internazionale dei manufatti, espresse in valore, dal rialzo quasi generale e spesso assai rilevante dei salarî industriali, dall'attrazione che alcune industrie, specialmente di guerra, hanno esercitato sulla mano d'opera rurale, dal sorgere e dall'affermarsi, in molti paesi belligeranti, di industrie nuove, che finora erano state il monopolio di paesi nemici, specie della Germania. Ma se guardiamo alla quantità della produzîone, vediamo che, per quelle che erano state fino al 1913 le industrie più fiorenti, gli anni di guerra segnano, in quasi tutti gli stati europei e spesso anche fuori d'Europa, un deciso regresso.

Tale è il caso dell'industria della seta, che ha un'importanza così decisiva per l'Italia, dove la produzione dei bozzoli si presenta in continua e impressionante diminuzione: da una media annua di 50,4 mil. di kg. nel periodo 1909-14 si scende ad una media di 41,9 nel periodo 1915-16, di 35,7 nel periodo 1917-18 e di 29,5 nel periodo 1919-20. E la diminuzione appare assai più grave se la si confronta con il rapido aumento della produzione giapponese, che nello stesso periodo sale da 141 a 248 milioni di kg., in modo che il rapporto fra produzione italiana e produzione giapponese da 1/2,5 scende a 1/8,4. La guerra dunque non ha creato l'inferiorità della produzione italiana, ma ha fatto precipitare un processo di decadenza relativa che si era andato lentamente maturando. Né meno grave si è manifestato, anche per la diminuita importazione di bozzoli dall'Oriente, il peggioramento nella produzione italiana di seta tratta che da più di 6 milioni di kg. è scesa a 4,3 di media annua nel quinquennio 1914-19, mentre in Giappone essa sale da 12 a 24 milioni di kg.

Nell'industria del cotone, mentre diminuiscono in misura assai lieve le cifre totali della produzione mondiale, si nota invece in esse uno spostamento impressionante. Il consumo di cotone greggio, indice sicurissimo dell'attività delle filature, aumenta in misura altissima negli Stati Uniti e anche più nel Giappone, diminuisce in quasi tutti gli stati europei. Negli Stati Uniti la richiesta delle manifatture sale da 10.800.000 (media annua del periodo 1909-13) a 13.440.000 q. (media 1914-18); nel Giappone da 2.838.000 a 4.014.000. Nel Regno Unito invece esso scende da 8.576.000 a 7.658.000; in Francia da 2.314.000 a 1.710.000. Il rifornimento degl'Imperi centrali che avevano avuto, nel 1909-13, un consumo medio di quasi 6 milioni di q., scende a cifre minime. L'Italia soltanto sembra fare un'eccezione, con un lieve aumento da 1.854.000 a 1.906.000 q. Ma in realtà questa media del quinquennio 1914-19 è determinata dalle importazioni eccezionalmente alte del 1915-16, seguite invece da una rapida discesa, che era del resto da prevedere, perché alla fortissima richiesta per i bisogni militari, a cui si era largamente provvisto con la produzione dei primi due anni di guerra, si contrapponeva una sensibile diminuzione dell'esportazione e del consumo della popolazione civile, in seguito al rialzo proibitivo dei prezzi.

Assai più gravemente fu colpita dalla guerra l'industria laniera, danneggiata soprattutto dalla forte diminuzione del bestiame ovino in molti dei paesi belligeranti, sia per la progressiva distruzione a cui esso andò soggetto, sia per la necessità di destinare maggiori estensioni di terre alle colture alîmentari. Si è calcolato, naturalmente con larga approssimazione, che il numero degli ovini esistenti nel mondo, da 600 milioni nel 1914, sia sceso a 500 nel 1921, e che in conseguenza di ciò la produzione mondiale di lana greggia sia diminuita da 16 a 13 milioni di q. La diminuzione nella disponibilità di materia prima ebbe però una ripercussione molto diversa da paese a paese; mentre la Francia, per l'invasione delle provincie in cui era più sviluppata l'industria laniera, vide ridotta di due terzi l'attività delle sue fabbriche; mentre Germania e Belgio, consumate le scorte, si trovarono nell'impossibilità di assicurarsi la lana greggia in misura sufficiente al loro fabbisogno, Inghilterra, Stati Uniti e Giappone riescono non solo a mantenere immutata, ma anche a superare la produzione d'anteguerra, e anche più sensibilmente progredisce l'industria laniera italiana, che migliora l'attrezzatura, si avvia verso un'organizzazione tecnica ed economica più moderna, aumenta di circa un quarto, sia il consumo di materia prima sia la produzione di filati e tessuti.

Ma se le industrie tessili sono state più o meno danneggiate dalla guerra in quasi tutti i paesi del mondo, e in modo particolarissimo nell'Europa centrale e orientale, notevolmente diversa, anche dal punto di vista quantitativo, fu la sorte di altre produzioni che hanno più diretta e immediata attinenza con la guerra.

Così, ad esempio, per il carbon fossile, mentre gli Stati Uniti, continuando e intensificando lo sfruttamento progressivo delle loro miniere, riescono a elevarne la produzione da 513 milioni di tonn. nel 1913 a 616 nel 1918; mentre l'Inghilterra è costretta dalle difficoltà dei trasporti a ridurre sensibilmente la sua esportazione, ma può destinare al consumo interno una quantità di carbone notevolmente superiore a quella del tempo di pace, la Germania con uno sforzo meraviglioso riesce a portare la sua produzione a un livello superiore a quello (medio) del quinquennio 1909-13, trovando in questa sua ricchezza uno dei fattori più efficaci della resistenza e della potenza dei suoi armamenti.

Mentre in tal modo la situazione dei paesi esportatori si manteneva inalterata e anzi poteva considerarsi migliorata, subiva un grave peggioramento, per la difficoltà dei trasporti, per l'alto prezzo dei noli e dell'assicurazione, la situazione dei paesi importatori e in modo particolarissimo dell'Italia che vedeva di anno in anno diminuire in misura preoccupante la sua importazione. Essa fu infatti nel 1913 di tonn. 10.642.000; nel 1914 di tonn. 9.706.000; nel 1915 di tonn. 8.290.000; nel 1916 di tonn. 7.971.000; nel 1917 di tonn. 4.960.000; nel 1918 di tonn. 4.762.000.

Una così grave riduzione degli approvvigionamenti solo in piccolissima misura poté essere compensata dall'incremento della produzione nazionale, costituita per la massima parte da lignite di qualità scadente, e che solo nell'ultimo anno di guerra, in seguito ad aiuti e incoraggiamenti d'ogni genere, raggiunse la produzione, non mai toccata, né prima né dopo, di 2.171.000 tonn. Una così grande riduzione nei rifornimenti italiani di combustibili fossili rese necessaria una politica d'intervento statale e di rigida disciplina nella distribuzione per assicurare il prezioso prodotto a quelle industrie e a quei trasporti che fossero ritenuti più urgenti per le necessità della guerra sacrificando ad essi tutti gli altri.

Né l'Italia poté essere favorita dalla diffusione dell'altro combustibile, il petrolio, che fin dalla vigilia della guerra andava trionfando accanto o contro il carbone, e che appunto negli anni di guerra portò la produzione mondiale da 53 a 70 milioni di tonn.

L'aumento, infatti, della produzione del petrolio si manifestava in quegli anni in due soli paesi del mondo, negli Stati Ujniti e nel Messico, nei quali essa sale, rispettivamente, da 29 a 50,4 e da 1,8 a 13 milioni di tonn., mentre in Russia e in Romania essa si riduce della metà. La grande distanza dei centri produttori e il gravissimo rischio dei trasporti impediscono perciò all'Italia di rifornirsi del nuovo combustibile in misura che valga a compensarla, anche parzialmente, dei mancati rifornimenti di carbone. In tutto e per tutto l'importazione di petrolio in Italia da 255.000 tonn. nel 1913 salì a sole 400.000 tonn. nel 1919, dopo aver toccata negli anni di guerra un'altezza maggiore per i rifornimenti destinati alle navi da guerra francesi e britanniche in servizio nei suoi mari.

Più efficace compenso ha trovato invece l'Italia negl'impianti idroelettrici che, iniziati dopo il 1898, furono notevolmente moltiplicati negli anni di guerra, tanto che alla fine del 1918 la potenza installata degl'impianti esistenti era valutata a 1.251.650 kW, che è quasi il doppio dell'energia disponibile alla fine del 1913.

L'industria del ferro che si può considerare come l'industria chiave di tutta la produzione di guerra, se richiama in tutti i paesi, belligeranti e neutrali, le cure dei governi, le maggiori agevolazioni per assicurarle la mano d'opera necessaria, i capitali e le iniziative di privati, presenta in realtà un andamento molto diverso da paese a paese. Subito dopo lo scoppio della guerra, mentre cresceva enormemente la domanda dei prodotti siderurgici, diminuiva in Europa la disponibilità di materia prima.

La Germania, avvantaggiata dall'occupazione del bacino di Briey, continuava a ricevere minerali svedesi, ma era del tutto privata dei minerali spagnoli, algerini e tunisini, che prima concorrevano largamente a rifornirle il ferro necessario alle industrie; in modo che anche per la diminuita produzione dei bacini della Lorena e del Lussemburgo, troppo vicini al teatro di guerra, e per il rimpatrio di gran parte dei minatori stranieri, le sue disponibilità di minerali di ferro si ridussero almeno di un quarto. Ma senza confronto maggiori furono le perdite della Francia, che per l'occupazione delle sue migliori zone minerarie e per la mancanza di uomini, vide precipitare la sua produzione da 22 a meno di 2 milioni di tonn.; e anche nell'Inghilterra, nonostante le condizioni assai più favorevoli, si nota una discesa della produzione interna da 16,3 a 13,70 milioni di tonn. e delle importazioni da 7,6 a 6,3.

Alla diminuzione della produzione mineraria europea si contrappone il fortissimo aumento della produzione americana, che nei soli Stati Uniti sale da 61 a 73 milioni di tonn. senza riuscire però a ristabilire l'equilibrio della produzione mondiale, discesa nel suo complesso, nei 5 anni di guerra, da 170 a 135 milioni di tonn.

Di pari passo con la diminuzione del minerale disponibile decresce in quasi tutti gli stati europei la produzione della ghisa, completamente annientata nel Belgio e ridotta a meno di un quarto in Francia, a due terzi in Germania, a 9/10 in Inghilterra.

Assai migliore è invece l'andamento della produzione dell'acciaio che non solo sale da 31 a 45 milioni di tonn. negli Stati Uniti, ma segna un aumento molto sensibile nella Gran Bretagna, e anche in Francia e Germania decresce in misura minore dellá ghisa, sì che la produzione mondiale di questa preziosa materia prima, in virtù della fortissima disponibilità di rottami creata dalla guerra stessa, risulta nel 1918 leggermente superiore a quella del 1913.

Eccezionalmente favorevole appare sotto questo riguardo, nonostante la gravissima deficienza del carbone, la situazione dell'Italia, in cui la produzione dei minerali di ferro da 600 mila tonn. nel 1913 sale a un massimo, non mai raggiunto, di 999 mila nel 1917; la produzione della ghisa da 127 a 471 mila tonn., e quella dell'acciaio da 933.000 a 1.332.000; senza riuscire tuttavia a far fronte ai bisogni crescenti delle industrie meccaniche e delle armi, che richiesero un'importazione di oltre 700.000 tonn. di acciaio, in confronto delle 277.000 torm. del 1909-13.

La siderurgia infatti non è che la fornitrice della materia prima a quelle industrie che sono le vere trionfatrici e signore dell'economia di guerra; le industrie metallurgiche e meccaniche, trasformate, adattate o create ex-novo per la produzione di tutto ciò che serve alle operazioni militari. Armi da fuoco d'ogni tipo e d'ogni dimensione, munizioni d'ogni calibro, autocarri, navi, aeroplani, rotaie, funi d'acciaio, corazze e così via, sono tutti prodotti di consumo e di logorio rapidissimo, di cui la produzione, per quanto vada crescendo e moltiplicandosi, è sempre superata dalla richiesta. Le grandi officine s'ingigantiscono (si parla di più di 200.000 operai impiegati nel colossale complesso delle officine Krupp), le medie diventano grandi, le piccole si fanno sempre più frequenti in tutte le città e nelle stesse campagne. È un'attività intensa i cui risultati sfuggono naturalmente alla statistica, ma devono essere stati ingentissimi, a giudicare dall'enorme dotazione di cui disposero tutti i belligeranti nell'ultimo anno di guerra.

Quale sia stata l'importanza assunta da queste industrie e il richiamo che esse hanno fatto di mano d'opera lo possiamo rilevare, per non accumulare troppe cifre, dalle proporzioni che le loro maestranze hann0 assunto nella sola Lombardia. Su 277.360 operai che, alla vigilia dell'armistizio, lavoravano negli stabilimenti sottoposti alla vigilanza del Comitato lombardo di mobilitazione industriale, il 48% era impiegato nelle industrie meccaniche e il 17% nelle industrie siderurgiche. Nella provincia di Brescia, nei soli 2 anni 1915-16, le maestranze impiegate nella lavorazione dei metalli, escluse le fabbriche d'armi governative, salgono da 10.000 a più di 30.000, mentre quelle delle industrie tessili non salgono, nello stesso periodo, che da 13.500 a 16.000 operai.

Sono appunto le industrie metallurgiche, meccaniche e navali che con l'aumento della produzione a prezzi rapidamente crescenti, con il richiamo di masse enormi di operai, con la tendenza alle concentrazioni grandiose, con il rinnovamento e l'ampliamento degl'impianti, hanno fatto sorgere in molti paesi l'illusione che la guerra avesse aperto un'era di rapida e progressiva espansione industriale, e che i grandiosi organismi creati per la produzione di guerra dovessero tutti sopravvivere e adattarsi alle necessità del consumo in tempo di pace.

Il sogno che fu ben presto smentito dai fatti per molte delle officine metallurgiche e navali e per una parte delle grandi officine meccaniche sorte per la guerra, sembrò invece assai più vicino alla realizzazione per le industrie chimiche. In questo ramo d'industria in cui l'impiego di capitali e d'impianti tecnici è di gran lunga superiore a quello della mano d'opera, la guerra venne a creare una situazione del tutto particolare: mentre essa infatti determinò una fortissima contrazione nella produzione dei fertilizzanti minerali, i quali costituivano uno dei campi più largamente diffusi della sua attività, d'altra parte con la chiusura di alcuni grandi mercati e con la richiesta in continuo e sempre più forte aumento degli esplosivi e di tutti gli altri strumenti chimici di distruzione e di offesa, le aprì ovunque campi del tutto nuovi e promettenti di attività, tanto da farla considerare, forse con qualche esagerazione, l'elemento centrale più efficace del progresso industriale.

La Germania, che era diventata da più di trent'anni la dominatrice, se non anche la monopolizzatrice del mercato mondiale per molti prodotti dell'industria chimica, ebbe gravemente a soffrire dal blocco che le sottraeva la maggior parte dei suoi clienti, ma poté in parte rifarsi con la produzione di guerra, che assunse, prima che in ogni altro dei paesi belligeranti, proporzioni grandiose, e poté rivolgere i suoi sforzi a sostituire con prodotti sintetici o surrogati le materie prime che non poteva più importare dall'estero.

Così gli sforzi dei suoi chimici furono indirizzati con fortuna a riparare alla mancanza del nitrato di soda del Chile, di cui prima della guerra s'importavano 774.000 tonn per un valore di 172 milioni di marchi. La produzione dell'azoto, di cui prima della guerra non si erano fatti che modesti esperimenti, assume invece proporzioni rilevanti ed è esercitata in alcuni grandi stabilimenti. Data la grande difficoltà di procurarsi la bauxite si trova il modo di ricavare l'alluminio dall'argilla comune; e così per i motori a scoppio, invece degli olî minerali che si possono avere in misura affatto insufficiente dalla Galizia e dalla Romania, si trova il modo d'impiegare gli olî di catrame, benzolo e toluolo estratti dal carbone. L'assoluta deficienza di fibre tessili, e soprattutto del cotone, induce alla ricerca di processi chimici per rendere possibile la filatura e la tessitura della carta di cellulosa. La mancanza di rame spinge all'impiego di una lega di alluminio e zinco per le condutture elettriche.

Molti di questi surrogati furono naturalmente abbandonati quando, a guerra finita, furono ripresi gli scambî internazionali; ma alcuni di essi, come quelli della produzione dell'azoto e delle leghe metalliche leggiere, costituiscono delle conquiste definitive e importanti dell'industria chimica ed elettrochimica.

Negli stati dell'Intesa, invece, il problema si presenta con urgenza non minore per ottenere quei prodotti di cui la Germania si era assicurato finora il monopolio; e cioè l'industria dei derivati del catrame, assolutamente vitale per la tintoria e per la fabbricazione degli esplosivi, e in misura non molto minore, almeno per alcuni di quegli stati, l'industria dei prodotti farmaceutici.

È per questo che in Italia, come in altri paesi, subito dopo lo scoppio della guerra, è posta sotto il controllo dell'autorità militare l'industria della distillazione del carbone, per assicurare la raccolta e l'utilizzazione di tutti i sottoprodotti, buona parte dei quali era stata finora trascurata. Così mentre si mantengono in vita, seppure con attività ridotta, le vecchie e massime industrie chimiche italiane dei perfosfati, dell'acido solforico e dei derivati agrumarî, mentre si sviluppano le industrie preesistenti della calciocianamide, del carburo di calcio, della soda e dell'alluminio, sorgono numerosi e spesso potenti opifici per la produzione degli esplosivi, dei colori, dei prodotti farmaceutici, e del solfato ammonico.

Di queste industrie, che si moltiplicano negli anni di guerra in Italia e anche più in Inghilterra e in Francia, qualcuna non rappresenta una vera conquista economica, perché trattandosi di industrie, come quella dei colori, che per prosperare devono contare sopra un mercato vastissimo, all'indomani della pace, quando si fa risentire la concorrenza dell'industria tedesca, che non solo si è mantenuta in piena efficienza ma ha aumentato la sua potenzialità, molte delle nuove industrie sono costrette a condurre una vita stentata con l'aiuto della protezione doganale. Ma fra esse ve ne sono alcune, come quella dell'azoto e come le industrie elettrochimiche, che rappresentano una vera e benefica conquista per le economie nazionali e che son destinate nell'immediato dopoguerra a un brillante e promettente avvenire.

In complesso il bilancio dell'attività industriale negli anni di guerra non si presenta così florido come gli altissimi profitti e il rigonfiamento dei capitali sociali hanno potuto fare supporre; molte fra le industrie più vecchie e più sane hanno fatto un passo indietro; molte fra le industrie nuove rappresentano un peso morto e son destinate, prima o poi, a sparire; ma altre ve ne sono che rappresentano un apporto nuovo e prezioso alla potenzialità produttiva.

La guerra e il commercio internazionale. - Sebbene la guerra mondiale, come tutte le guerre precedenti, spinga tutti i paesi belligeranti a indirizzare lo sforzo produttivo alla soddisfazione dei proprî bisogni interni e della propria forza militare, non si può dire affatto che essa sopprima la possibilità degli scambî internazionali. Non solo le potenze dell'Intesa in virtù della loro posizione e della loro superiorità marittima hanno potuto mantenere costantemente, anche nel periodo più grave della guerra dei sottomarini, i rapporti commerciali reciproci e con tutti i paesi transoceanici, e hanno potuto trarre da questa continuità di rifornimenti l'aiuto più efficace e decisivo alla loro resistenza, ma gli stessi Imperi centrali, chiusi quasi completamente entro terra, tagliati fuori da ogni attività marinara, che non fosse quella dei sottomarini e di poche navi corsare, sono tuttavia riusciti, attraverso gli stati neutrali, specie attraverso la Svizzera, l'Olanda e la Svezia, a mantenere, almeno fino al 1918, qualche contatto con il mondo esterno e a ottenere qualche rifornimento anche dai paesi lontani.

Ma se continua, e spesso anche in misura rilevante, il commercio internazionale, la sua caratteristica generale è quella dell'aumento progressivo e preoccupante nel disavanzo della bilancia commerciale. Fra il 1913 e il 1918 esso sale: in Inghilterra da 134 a 784 milioni di lire sterline; in Francia da 1541 a 17.583 milioni di franchi; in Italia da 1134 a 12.694 milioni di lire.

Come contropartita l'eccedenza delle esportazioni sale negli Stati Uniti da 691 a 3118 milioni di dollari; il Canada passa da un disavanzo di 315 milioni a un'eccedenza attiva di 576 milioni di dollari; nell'Argentina l'eccedenza sale da 23 a 300 milioni di pesos-oro; e in proporzioni poco diverse il fenomeno si ripete per l'India, il Giappone, l'Australia, il Sud-Africa e il Brasile.

È un enorme indebitamento dell'Europa verso i paesi transoceanici e in particolare verso l'America, per cui la situazione reciproca si capovolge: l'Europa da creditrice si trasforma in debitrice, e il fenomeno colpisce in misura particolarmente grave gli stati dell'Intesa, dato che Germania e Austria non possono fare che un minimo assegnamento sui rifornimenti d'oltre oceano.

La politica dei consumi e in generale la politica economica di guerra. - L'aumento delle importazioni, sia di viveri sia di materie prime e di materiale bellico, è destinato in primissima linea ai rifornimenti militari. All'alimentazione del soldato in guerra tutti gli stati si sforzano di provvedere colla maggiore larghezza possibile, che è massima negli eserciti britannici e nordamericano, ma si mantiene a lungo abbastanza alta anche negli Imperi centrali, che solo nell'ultimo anno sono costretti a far mancare il necessario anche ai loro soldati, e vedono in questa gravissima penuria di viveri la causa principale della loro sconfitta.

Molto diversa invece è la situazione per la popolazione civile, per la quale nei paesi in cui si è riuscito, come è il caso dell'Inghilterra, a mantenere le comunicazioni con tutto il resto del mondo, si deve bensì lamentare una forte contrazione di alcuni consumi (come, ad esempio, del burro di cui le importazioni si riducono a quasi la metà, dello zucchero, del tè), ma la contrazione non raggiunge mai una tale gravità da imporre la necessità del razionamento o di altri provvedimenti restrittivi. Negl'Imperi centrali la deficienza di molte derrate alimentari si fa sentire fin dal primo anno di guerra e si va poi aggravando, soprattutto perché la quasi totale mancanza delle importazioni aumenta la richiesta di prodotti nazionali. E così necessaria una rigida disciplina della distribuzione con l'istituzione di commissariati e di consorzî per gli approvvigionamenti; con la creazione della tessera alimentare e di magazzini pubblici per la distribuzione dei generi razionati.

Ma anche in molti paesi dell'Intesa, dove sembrò dapprima che a impedire la carestia fosse sufficiente la limitazione d'imperio dei prezzi, si dovette presto arrivare alla conclusione che quel provvedimento raggiungeva l'effetto contrario, se lo stato o i comuni non s'incaricavano di assicurare il rifornimento dei mercati con il sistema delle requisizioni o degli acquisti liberi, e di vigilare la distribuzione con il sistema delle tessere o con altre forme meno vessatorie d'intervento e di controllo. Si rivolsero allora critiche vivacissime e in gran parte fondate all'azione dello stato o dei comuni che, sostituendosi ai mercanti privati, esercitavano un mestiere per cui non avevano e non potevano avere gli organi adatti; si citarono esempî numerosi di sperperi gravissimi, di una vera e propria creazione artificiale della carestia dove il libero giuoco degli scambî avrebbe assicurato l'abbondanza. Si poté giustamente lamentare che l'eccessiva facoltà d'intervento lasciata non solo agli organi centrali, ma ai poteri pubblici locali riconducesse a forme di egoismo economico, come quella del divieto d'esportazione da provincia a provincia, che si ritenevano superate da secoli. Ma d'altra parte si può chiedere ai critici se i monopolî privati, agevolati da un regime di libero commercio in tempo di guerra e di mercati chiusi, non avrebbero finito con il provocare conseguenze ben più gravi dell'intervento statale.

D'altra parte la politica d'intervento statale non si limita al solo campo dei consumi alimentari, ma si va sempre più estendendo in molti altri campi della vita economica. Nella stessa Inghilterra, dove era cosi radicato l'amore per la libertà, lo stato interviene a disciplinare la materia della circolazione e dei cambî, assume la gestione diretta dei trasporti ferroviarî e controlla rigidamente i trasporti marittimi. Assai più numerose sono le forme d'intervento negli altri stati belligeranti; in Italia (e altrove, con nomi diversi, la politica è press'a poco la stessa) lo stato sottopone tutti gli stabilimenti industriali, i quali direttamente o indirettamente interessano le forniture militari (i cosiddetti stabilimenti ausiliarî) al controllo dei comitati regionali di mobilitazione industriale, i quali hanno il compito di fornire ad essi la mano d'opera indispensabile, esonerandola temporaneamente dal servizio militare, vigilano sulla disciplina interna degli stabilimenti, sui salarî e sugli orarî di lavoro, decidono sulle controversie fra maestranze e imprenditori; e da ultimo dànno il loro parere sulle richieste di combustibile, di energia elettrica e di molte materie prime, presentate dagli industriali e le trasmettono agli organi centrali incaricati degli acquisti, della distribuzione o del controllo.

In tal modo, alla vigilia dell'armistizio, la maggior parte degli stati dell'Intesa era arrivata ad una forma di economia controllata, e in parte (soprattutto per ciò che riguarda gli acquisti dall'estero) direttamente gestita dallo stato, che se non è così rigida e organica come quella degl'Imperi centrali, tende ad avvicinarsi a essa.

Così più che per le perdite dolorosissime di vite umane e per le distruzioni gravissime di ricchezza, che in pochi anni di ritorno alla vita normale possono essere risarcite, le conseguenze economiche della guerra si faranno forse sentire per lunghi anni per lo squilibrio ch'essa ha portato nella distribuzione della produzione e nei rapporti di scambio, sia con l'inflazione e con il caos monetario sia con l-accelerazione data al fatale processo di decadenza dell'Europa nella produzione mondiale e nella sua capacità d'esportazione; sia infine con la sfiducia che ne è derivata nelle forze ricostruttive del capitalismo e della libera iniziativa privata, e nel progressivo avviamento a un capitalismo di stato o ad una economia privata rigidamente controllata dallo stato, di cui in tempo di guerra si era fatto dovunque così larga esperienza.

I danni di guerra.

Il trattato di Versailles (28 giugno 1919), affermata la responsabilità della Germania e dei suoi alleati per tutte le perdite che le potenze dell'Intesa avevano sofferte dall'aggressione, riconobbe che le risorse della Germania non sarebbero state sufficienti a una riparazione integrale. E perciò tra gli obblighi imposti non fu messo il risarcimento delle spese proprie di guerra sostenute dai vincitori e neppure quello dei danni alle opere e ai materiali di carattere militare; fu iscritto invece tutto il sofferto dalla popolazione civile nelle persone e nei beni per atti di guerra o di crudeltà. E cioè: l'onere delle pensioni e indennità alle vittime militari della guerra, ai mutilati, feriti, malati o invalidi o alle persone a loro carico; lo sborso per assegni alle famiglie dei mobilitati; le spese d'assistenza ai prigionieri; le requisizioni e le prestazioni coattive di lavoro; i guasti recati a ogni specie di proprietà, fatta eccezione delle opere e del materiale degli eserciti e delle flotte. Quanto ai danni marittimi, la Germania dovette riconoscere all'Intesa il diritto alla sostituzione, tonnellata per tonnellata di stazza lorda, e categoria per categoria, delle navi e dei battelli da commercio e da pesca, perduti o danneggiati per fatti di guerra; e cedere quindi tutto il naviglio di stazza lorda superiore alle 1600 tonn., oltre la metà in tonnellaggio delle navi tra 1000 e 1600 tonn.

Già prima del trattato di pace si era riconosciuto, nei paesi dell'Intesa, il diritto dei cittadini a conseguire dal proprio stato l'indennizzo più o meno completo dei danni sofferti in causa della guerra. La Francia l'affermò assai di buon'ora, con la legge 26 dicembre 1914 (art. 12). In Italia il principio fu proclamato il 1° giugno 1918 per voce di una commissione di parlamentari e rappresentanti di associazioni delle provincie invase; e sette giorni dopo un decreto luogotenenziale lo faceva proprio, motivandolo con il fine di restaurare la piena efficenza produttiva dei territorî invasi e dando facoltà al governo di "ricevere ed esaminare le denuncie dei danni, anche per l'eventuale conservazione delle prove". All'indomani della vittoria, altro decreto luogotenenziale riconosceva spettare risarcimento per danni alle cose mobili e immobili, non solo nel regno, ma anche nelle regioni che vi fossero annesse e nelle colonie, in quanto risultassero direttamente da fatti di guerra compiuti da forze armate nazionali, alleate o nemiche. Risarcimento, tuttavia, non senza limiti o condizioni (v. appresso). Il testo unico italiano, che diede ordine alla materia, è del 27 marzo 1919; le leggi analoghe francese e belga sono rispettivamente del 17 aprile e 10 maggio dello stesso anno.

Per la convenzione di Spa (16 luglio 1920) le somme che la Germania avrebbe dovuto versare a titolo di riparazioni venivano attribuite nella misura del 22% all'Impero britannico, del 52% alla Francia, del 10%, all'Italia, dell'8% al Belgio e per il resto ad altri stati, anche non firmatarî dell'accordo, ma ammessi al beneficio. Per il dovuto allo stesso titolo dall'Austria, dall'Ungheria e dalla Bulgaria, il riparto sarebbe stato fatto per una metà secondo le proporzioni anzidette; per l'altra metà con attribuzione del 40% all'Italia e del 60% alla Grecia, alla Romania, al regno serbocroato-sloveno, ecc.

Veramente le potenze interessate non disponevano a quella data di elementi sicuri per la stima dei danni; tuttavia nessuna riserva fu inserita nella convenzione, che riguardasse eventuali modifiche al riparto in sede di accertamenti definitivi. La Francia presentò, non computati gl'interessi, un conto di 214,4 miliardi di franchi-carta, di cui 73 per pensioni o assegni alle vittime militari della guerra o ai loro aventi causa, nonché per sussidî alle famiglie dei mobilitati; 131,6 per danni ai beni di terraferma; 5 per danni marittimi. Il Belgio ne presentò uno di 36,5 miliardi, di cui 2,4 per pensioni o assegni, come sopra; 29,7 per danni ai beni di terraferma; 3,3 per contribuzioni e taglie. L'Inghilterra domandò 2543 milioni di sterline, più 7,6 miliardi di franchi francesi; le pensioni figuravano nella prima somma per 1707 milioni di sterline e le perdite di navi per 763 milioni.

Il caso dell'Italia è più complicato. Mal preparati a una dimostrazione di conti analoga a quella dei suoi alleati, fondò le richieste in parte su elementi di osservazione diretta, in parte su ragionevoli congetture. Dalle denunzie dei privati, raccolte in gran numero dalle Intendenze già prima che spirasse il termine del 31 dicembre 1920 loro assegnato, non fu tratto partito. Le richieste italiane, perciò, passarono per il vaglio del Servizio tecnico delle valutazioni, presso la Commissione delle riparazioni, subendo tagli sul vivo, che divennero ancor più penosi in seguito all'esclusione dei danni delle terre redente, deliberata dalla commissione. Qui riproduciamo le proposte al netto delle riduzioni d'ogni specie:

Secondo il corso del tempo (2° semestre 1920) si può ritenere che 100 franchi francesi equivalessero a 160 lire italiane.

Che le indennità per danni alle persone, specificate come sussidî di mobilitazione e pensioni o assegni alle vittime militari della guerra, dovessero risultare per la Francia circa due volte più grandi che per l'Italia era verità, poiché i Francesi registravano 1.360.000 morti e l'Italia 652.000; i Francesi, 1.512.000 invalidi e l'Italia 800.000. I dubbî, con cui fu dapprima accolto il dato italiano di 652.000 morti, caddero di fronte alla dimostrazione che le prime notizie diramate nel novembre 1918 dal Comando Supremo (460 mila morti, per ferite o per malattie, oltre a 10.000 dei contingenti dislocati) erano incomplete; il numero dei deceduti in prigionìa risultò infatti superiore a quello apparente dalle prime comunicazioni delle Croci rosse austriaca e germanica; dei presunti prigionieri, 35.000 erano invece caduti in campo; e poco dopo l'armistizio molti altri morti si ebbero per malattie dipendenti dalla guerra, nell'esercito operante, nel territoriale e tra gli ex-prigionieri.

Come abbiamo visto, il Belgio denunziò pochi danni alle persone e molti, relativamente, alle cose; l'Italia, viceversa. La Francia tiene una posizione intermedia; tuttavia anche per essa i danni alle cose superano di un gran tratto quelli alle persone. Questa situazione di fatto spiega il perché, a un certo momento, partisse dal Belgio la non disinteressata proposta di concedere una specie di privilegio sull'indennità germanica ai risarcimenti per danni alle cose, sacrificando all'occorrenza il resto. La proposta, se accolta, sarebbe riuscita disastrosa per l'Italia, quanto vantaggiosa per il Belgio. Esso si sarebbe assicurato il risarcimento di quattro quinti delle sue perdite (miliardi 29,7 su 36,5); la Francia di 3/5 (miliardi 131,6 su 214,4) e l'Italia di 1/5 soltanto (10,9 su 54,2).

Ma, prima d'entrare nell'analisi dei danni alle cose, non sarà inutile una riflessione. Il 70% dell'indennità imposta alla Germania avrebbe dovuto, secondo la convenzione di Spa, far luogo a tre quote: 52% a favore della Francia, 8% a favore del Belgio e 10% a favore dell'Italia. Ebbene, ammesse le perdite in 214,4 miliardi, 36,5 e 54,2 rispettivamente, all'Italia sarebbe spettato il 12,4% e non il 10 soltanto; alla Fraricia il 49,2% e non il 52. Il caso di lesione enorme per l'Italia sarebbe venuto in chiaro, se i conti presentati dagli altri condividenti fossero stati discussi con lo stesso spirito d'impegnativa, con cui furono discussi gl'italiani. La qual cosa significa che, se non si voleva venir meno all'equità raccomandata dall'art. 237 del trattato di Versailles, il riparto convenuto a Spa si sarebbe dovuto considerare suscettivo di revisione, la revisione non essendo impedita per ciò solo che era stata taciuta.

Il trattamento riservato all'Italia veniva a peggiorare per la eliminazione dei danni delle terre redente dal conto. Per le sole perdite di cose essi avrebbero dato all'Italia titolo a reclamare almeno 3 miliardi e mezzo di franchi o 5 e mezzo di lire. Inoltre non si potevano lasciare senza aiuto le famiglie dei morti e degl'invalidi di guerra che l'Austria vinta abbandonava all'Italia. A giustificare quell'eliminazione si disse che il trattato di Versailles contemplava solo i danni recati dagli ex-nemici ai sudditi delle potenze dell'Intesa, dovendosi intendere per sudditi coloro che tali erano nel periodo della guerra e non coloro che tali divennero alla firma della pace. L'argomento era fuori sentiero. Non direttamente alla Germania o in genere agli ex-nemici il governo italiano domandava riparazione per i suoi nuovi cittadini; bensì l'aspettava dalle stesse potenze dell'Intesa in sede di riparto di quella qualunque indennità che esse di comune accordo avrebbero stabilito a carico dei vinti. L'opera di ricostruzione, concernesse le terre antiche liberate dall'invasore o le nuove redente, rientrava pur sempre nel novero dei costi e rischi, concomitanti o postumi, di un'impresa comune; quindi impegnava la solidarietà di tutta l'Intesa. Che poi l'indennità, che si fosse riusciti a far pagare agli ex-nemici, bastasse o non bastasse a sanare le piaghe della guerra, questa era cosa che non toccava i criterî fondamentali del riparto e non dispensava dall'osservanza dell'equità.

Le domande di risarcimento, da parte di privati, raccolte a cura degli uffici italiani di finanza, ammontarono a più di un milione in numero, per 5880 milioni di lire a valori prebellici o a valori del momento del danno. Esse furono raggruppate in sette categorie, troppo poche per il bisogno di conoscenze intorno al fatto grandioso delle rovine prodotte dalla guerra. Eccone il quadro dei valori in milioni arrotondati:

In occasione del rastrellamento dei proiettili inesplosi o abbandonati nella zona di combattimento e di sosta delle truppe italiane e delle avversarie, il gen. Badoglio valutò in 41 milioni circa il numero dei proiettili d'artiglieria impiegati dagl'Italiani; in 1 milione le bombe da bombarde e lanciabombe di trincea e in 22 milioni e più le bombe a mano e da fucile. Raddoppiati questi numeri per tener conto di un corrispondente impiego di mezzi da parte del nemico, ritenne, per osservazioni fatte, di poter stimare in 8% la proporzione dei proiettili d'artiglieria non esplosi o interrati e in 20% quella delle bombe pure inesplose o comunque rimaste sul terreno. Se si pensa ora alle decine di milioni di proiettili scoppiati, non farà meraviglia che una prima stima dei danni facesse ascendere, nelle cinque provincie venete invase, a 95 mila gli ettari di terreno aratorio o prativo battuti dal fuoco con degradazione permanente di un quinto del loro valore; e ad altri 690 mila ettari le campagne più o meno guaste da istallazioni militari, trinceramenti, ecc. Si aggiungano 15 mila ettari di boschi e castagneti fortemente danneggiati e 35 mila parzialmente. Le case comuni d'abitazione completamente distrutte risultarono 11 mila nelle cinque provincie liberate e 13 mila nelle redente; le case distrutte per metà o per tre quarti, più di 16 mila e più di 13 mila, rispettivamente. Le case che subirono guasti per una quarta parte o meno, furono circa 93 mila. Bisogna poi tener conto di 3600 edifici di specialissima importanza: alberghi, palazzi, ville e castelli, a tacere delle chiese, delle scuole, delle sedi municipali. Tutta la zona prealpina di Bassano, Valdobbiadene e Susegana fino oltre Tarcento, come pure le rive del Piave, costellate di begli edifici padronali, fra cui molti nei secoli scorsi erano stati decorati da insigni artisti, ebbe straordinariamente a soffrire, anche per rapine di mobili di lusso e opere d'arte.

La rapidità dell'invasione dopo Caporetto e il congestionamento delle ferrovie e delle strade ordinarie non avevano permesso di salvare più di una settima o ottava parte del patrimonio zootecnico; una statistica del bestiame rimasto al giorno dell'armistizio, diede perduti 319 mila capi bovini, 37 mila equini, 115 mila suini.

Quanto alle industrie sarebbe lungo il discorso che imprendesse a illustrarne le rovine. Potenti centrali elettriche, molini a cilindri, stabilimenti di filatura e tessitura di varie materie tessili, fabbriche di prodotti chimici, officine meccaniche, ecc., perdettero motori e caldaie, macchine o parti di macchine, scorte di magazzino, quando non subirono distruzioni più complete e sistematiche per incendî e scoppî di granate.

Circa la distribuzione geografica delle perdite, le denunzie dei privati le segnalarono specialmente nei distretti delle agenzie delle imposte di Feltre (139) e Belluno (138) in provincia di Belluno; di Oderzo (371), Conegliano (224), Treviso (189), Valdobbiadene (135) e Vittorio Veneto (129) in provincia di Treviso; di Udine (327), Pordenone (188), Cividale e S. Pietro al Natisone (127) in provincia di Udine; di San Donà di Piave (237) e Portogruaro (144) in provincia di Venezia; di Asiago (122), Bassano (88), Schio (85) in provincia di Vicenza; di Borgo (207) e Rovereto (205) nella Venezia Tridentina; di Gorizia (594), Monfalcone (253), Gradisca (106) e Tolmino (95) nella Venezia Giulia. I numeri tra parentesi esprimono milioni di lire in gran parte a valori prebellici, per il resto a valori del momento del danno. Alle denunzie dei privati fanno complemento quelle degli enti locali per 1670 milioni ai prezzi dell'immediato dopoguerra. La guerra rovinò sedi municipali, chiese, scuole, negl'immobili come nei mobili; guastò strade e ponti, canali, acquedotti, fontane; distrusse archivî o ne disordinò; sconvolse terreni coltivati, bonifiche e boschi di pertinenza di comuni o di opere pie. I distretti di Asiago, Gorizia, Auronzo, Udine, Feltre, Belluno, San Donà di Piave e Agordo furono tra i maggiormente colpiti. I beni demaniali e patrimoniali dello stato concorrono nella somma totale delle perdite per oltre un miliardo, ai prezzi dell'immediato dopoguerra; solo per le ferrovie statali, fra danni subiti dagl'impianti, distruzioni e asportazioni di materiale rotabile e di scorte, si sono quasi toccati gli 850 milioni.

I tentativi fatti per ridurre al vero le denunzie dei privati e per distinguere fra danni effettivamente subiti e danni ammessi a risarcimento, hanno urtato in difficoltà quasi invincibili. La tendenza a esagerare i danni, che si nota, ad esempio, nei sinistrati delle compagnie d'assicurazione, l'ebbero senza dubbio anche i sinistrati di guerra, mossi un po' da speranza di lucro, un po' dalla previsione di un dibattito con i funzionarî della finanza, dal quale sarebbero sempre usciti con tagli sul vivo al conto presentato. Sta di fatto che l'atteggiamento dei funzionarî fu molto risoluto a difesa dell'erario e nell'applicazione dei criterî restrittivi della legge e della giurisprudenza che si andava formando, criterî i quali finivano con l'escludere da risarcimento non solo le cose di lusso, ma anche quelle non strettamente necessarie all'economia familiare. Le denunzie respinte furono 105.657; i mancati concordati 159.897; i concordati avvenuti 789.096.

In Francia le denunzie furono sfrondate del 26,7% nella categoria immobili e del 31,2% in quella dei beni mobili. Media ponderata, 28,5%. Ma dato il diverso spirito che animò i danneggiati francesi nel chiedere, possiamo ritenere che il reclamante italiano osservasse una maggiore moderazione. La comminatoria della decadenza del diritto a indennizzo nel caso di frode intesa a conseguirlo oltre la misura del danno reale, fu tutt'altro che vana. Perciò l'Ufficio danni di guerra presso il Ministero delle finanze italiano, al quale giungono le impressioni di funzionarî pratici in materia di risarcimenti, propende a ritenere non superiori al 20% in media le esagerazioni delle denunzie. Resta a vedere l'effetto delle limitazioni di legge e di giurisprudenza, se si vuole distinguere fra danni subiti e danni risarciti. L'ufficio, suddetto valuta quell'effetto al 25-30% dell'ammontare reale delle perdite.

Il testo unico italiano 27 marzo 1919, n. 426, limita per gl'immobili di lusso il risarcimento del danno a L. 50.000 se si tratta di riparazione, e a lire 100.000 se di ricostruzione; ammette in generale per gli edifici una riduzione per vetustà che può giungere al 50 per cento del valore prebellico e subordina l'indennizzo alla condizione del reimpiego. Nelle perizie di accertamento dei danni ai terreni, determinato il valore del fondo anteguerra e la percentuale del danno, si moltiplica l'importo del danno per un coefficiente d'aumento basato sul rapporto fra il valore del tempo della legge e il valore d'anteguerra dei terreni, il quale coefficiente è mantenuto nei limiti tra 1,50 e 2. Per i beni mobili, basti ricordare che a sensi di legge il risarcimento delle cose di lusso poteva ridursi a meno del 15%. Istruttivo è l'esempio di un danno di lire 200 mila che s'indennizza con sole 26.000. Infatti si consideravano:

Ora il criterio dell'esuberanza e del lusso è stato sempre più allargato in pratica dalle commissioni. L'art. 6 del testo unico dispone che per le cose mobili in genere il risarcimento corrisponda alla somma occorrente per riacquistarle al momento della liquidazione delle indennità, diminuita tal somma, non oltre il quarto, del deprezzamento per vetustà. In pratica si finì con l'escludere importanti categorie di cose mobili dal risarcimento in pieno: le provviste e scorte di derrate agricole, le merci e le stesse materie prime e ausiliarie delle industrie sono state pagate ai prezzi del momento del danno (generalmente, i prezzi della fine del 1917) e non a quelli del momento della liquidazione (1920 segg.).

Sennonché, insieme con le limitazioni di legge, cospirò contro i reclamanti l'insufficienza dei compensi per il diminuito potere d'acquisto della moneta cartacea adoperata nelle liquidazioni. La schermaglia fra i danneggiati e i funzionarî della finanza investì tutta la materia; e questi ultimi badarono a un tempo a sfrondare le esagerazioni delle denunzie, a far salve le restrizioni legali e a concedere il meno possibile sul punto della svalutazione della lira. Solo per le costruzioni edilizie essi erano tenuti ad applicare certi coefficienti, ufficialmente stabiliti in rapporto alle nuove effettive condizioni dei prezzi dei materiali e della mano d'opera. Della quale circostanza terremo conto nella stima delle perdite rimaste a carico definitivo dei danneggiati. Il calcolo, a valori prebellici, non può essere che largamente approssimativo.

I danneggiati dovevano ricevere 6340 milioni di lire-carta, riducibili, al cambio in oro delle somme via via liquidate a 1752 milioni di lire-oro. Delle quali, ben 700 milioni riguardano indennizzi per danni a fabbricati urbani, rurali e industriali, e 1052 quelli per danni d'altre categorie. Ora sembra, come fu detto sopra, che nelle liquidazioni per danni a fabbricati i coefficienti adottati per tradurre le lire d'anteguerra in lire del dopoguerra corrispondessero abbastanza bene al corso dell'oro, nel tempo delle liquidazioni. Invece negli altri casi la svalutazione della carta-moneta non sarebbe stata compensata che per metà o poco più, mettiamo il 55%, anche per la vaga aspettativa di una rivalutazione almeno parziale; cioè i reclamanti per danni diversi da quelli dei fabbricati, anziché ricevere 1912 milioni in lire d'anteguerra, ne ricevettero 1052, con una differenza in meno di 860. Ciò posto, si avrebbe:

I quali 1800 milioni andrebbero distinti in: 860 milioni per incompleto risarcimento della svalutazione della carta-moneta, e 940 milioni per effetto delle limitazioni di legge o di giurisprudenza nei risarcimenti in genere. Le perdite rimaste così a carico dei danneggiati rappresenterebbero sul totale dei danni reali presunti in 3552 milioni, il 50,7%.

Ben altrimenti devono essere andate le cose in Francia, dove i sinistrati ebbero diritto per gl'immobili a un'indennità privilegiata per perdita subita e a una supplementare che loro permettesse di ricostituire i beni anche se i prezzi fossero divenuti più alti che nell'anteguerra, dipendentemente o no dalla svalutazione della moneta. Quanto ai beni mobili, il risarcimento avrebbe dovuto aver luogo solo a titolo di perdita subita; tuttavia la legge francese stabilì importanti eccezioni a fine di agevolare il ripristino in piena efficienza delle aziende agricole, industriali e commerciali. Di qui ai casi d'indebito arricchimento fu breve il passo. La legge belga non è stata meno benevola della francese. E le riparazioni germaniche, come resero possibile il lusso delle ricostruzioni, così servirono a notevoli ammortamenti del debito pubblico francese e a più notevoli dotazioni dei bilanci militari.

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Trattazioni politiche: C. Avarna di Gualtieri, L'ultimo rinnovamento della Triplice (5 dicembre 1912), Milano 1924; R. S. Baker, Woodrow Wilson and world settlement, voll. 2, New York 1922-1923; C. Barbagallo, Come si scatenò la guerra mondiale, Milano 1923; Barnes, The genesis of the World War, voll. 2, New York 1926; Baruch, The making of the reparation and economic sections of the Treaty, Londra 1920; E. Bourgeois e G. Pages, Les origines et les responsabilités de la grande guerre, Parigi 1921; E. Brandenburg, Von Bismarck zum Weltkriege, Lipsia 1924; The Cambridge History of british foreign policy, voll. 3, Cambridge 1923; C. Capasso, La Polonia e la guerra mondiale, Roma 1927; G. Caprin, Sommario storico della guerra universale, Firenze 1921; M. Caracciolo, L'intervento della Grecia nella guerra mondiale, Roma 1925; id., L'Italia e i suoi alleati nella grande guerra, Milano 1932; G. Cosmin, L'Entente et la Grèce pendant la grande guerre, voll. 2 Parigi 1926; B. Croce, Storia d'Europa nel secolo decimonono, Bari 1932; A. Demblin, Czernin und die Sixtus-affaire, Monaco 1929; G. Devilla, L'Entente, la Grèce et la Bulgarie, Parigi 1919; A. Ebray, La paix malpropre, Milano 1925; A. Fabre-Luce, La victoire, Parigi 1924; S. B. Fay, The origins of the World War, voll. 2, New York 1929 (più ampia la trad. francese, Parigi 1931); G. Frantz, Russlands Eintritt in den Weltkrieg, Berlino 1924; H. Friedjung, Das Zeilalter des Imperialismus 1888-1914, voll. 2, Berlino 1919; E. Fulter, Weltgeschichte der letzten hundert Jahre: 1815 bis 1920, Zurigo 1920; R. Gérin, Comment fut provoquée la guerre de 1914, Parigi 1931; E. V. Glaise-Horstenau, Die Katastrophe, Vienna 1928; G. P. Gooch, History of Modern Europe, Londra 1924; H. Hauser, Histoire diplomatique de l'Europe 1871-1914, voll. 2, Parigi 1929; C. J. H. Hages, A political und social history of modern Europe, II, New York 1928; D. Halévy, Le Président Wilson, Parigi 1918; P. Herre, Weltgeschichte der neuesten Zeit, 1890-1915, voll. 2, Berlino 1925; E. M. House e C. Seymour, What really happened at Paris: the story of the Peace Conference 1918-1919 by American delegates, New York 1921; Italicus, Italiens Dreibundpolitik 1870-1896, Monaco 1928; J. M. Keynes, The economic consequence of the peace, New York 1920 (trad. ital., Milano 1920); R. Lansing, The peace negotiations, New York 1920; A. Lumbroso, Le origini diplomatiche ed economiche della guerra mondiale, voll. 2, Milano 1926-1928; A. Malatesta, I socialisti italiani durante la guerra, Milano 1926; Manteyer, The Austrian peace offer, Londra 1921; F. Meda, I cattolici italiani nella guerra, Milano 1928; Mermeix (G. Terrail), Les négociacions secrètes et les quatre armistices, Parigi 1921; G. Michon, L'alliance franco-russe 1891-1917, Parigi 1927; M. Montgelas, Leitfaden zur Kriegschuldfrage, Berlino 1923; A. Mousset, L'Espagne dans la politique mondiale, Parigi 1923; id., L'attentat de Serajevo, Parigi 1930; R. B. Mowat, A history of European diplomacy, 1914, 3ª ed., Londra 1931; K. F. Nowak, Der Weg zur Katastrophe, Berlino 1919 (trad. ital., Milano 1922); id., Der Sturz der Mittelmächte, Monaco 1921 (trad. ital. Bologna 1924); id., Chaos, Monaco 1924 (trad. ital., Bologna 1924); A. Pearson Scott, An introduction to the peace treaties, Chicago 1923; E. Pech, Les alliés et la Turquie, Parigi 1921; A. F. Pribram, Austrian foreign policy 1908-18, Londra 1923; F. Quintavalle, Cronistoria della guerra mondiale, voll. 2, Milano 1921-23; R. Recouly, Les heures tragique d'avant guerre, Parigi 1923; id., M. Jonnart en Grèce, Parigi 1920; P. Renouvin, Le origines immédiates de la guerre, Parigi 1925; E. Reventlow, Politische Vorgeschichte des grossen Krieges, 2ª ed., Berlino 1919; Y. Ruchti, Geschichte der Schweiz Während des weltkrieges, Berlino 1030; Schmidt, The coming of the war 1914, voll. 2, New York 1930; R. Segre, La missione militare italiana per l'armistizio, Bologna 1928; R. W. Seton Watson, Sarajevo, a study in the origins of the Great War, Londra 1926; M. Smilg-Benario, Der Zusammenbruch der Zarenmonarchie, Vienna 1927; P. Stieve, Deutschland und Europa, Berlino 1926 (trad. italiana, Milano 1930); A. Tardieu, La paix, Parigi 1921; M. de Taube, La politique russe d'avant-guerre, Parigi 1928; H. V. Temperfley, History of the peace conference of Paris, voll. 6, New York 1920-24; A. Tosti, Come ci vide l'Austria imperiale, Milano 1930; J. Ursu, Pourquoi la Romanie est entrée en guerre?, Parigi 1918; E. Vercesi, Il Vaticano, l'Italia e la guerra, Milano 1925; E. Vermeil, Les origines de la guerre et la politique extérieure de l'Allegmagne au début du XXe siècle, Parigi 1926; G. Volpe; L'Italia in cammino, Milano 1927; A. von Wegerer, Die Widerlegung der Versailler Kriegsschuldthese, Berlino 1928.

Avvenimenti militari: Oltre molte delle opere già citate si vedano: per lo sguardo generale sulle operazioni: Arminius, Feldherrnköpfe 1914-1918, Berlino 1932; G. Aston, The great war of 1914-1918, Londra 1931; M. Caracciolo, Sintesi politico-militare della guerra mondiale 1914-18, Torino 1930; W. Foerster, La stratégie allemande pendant la guerre 1914-18, Parigi 1929; B. Gioda, La guerra mondiale 1914-18, Modena 1926; Col. Howland, Military history of the World War, Washington 1925; F. Maurice, British strategy, Londra 1929; S. Pagano, Evoluzione della tattica durante la grande guerra, Torino 1929; C. C. Repington, The first world war 1914-18, voll. 2, Londra 1929; G. Schnitler, Der Weltkrieg 1914-18, Berlino 1927; M. Schwarte, Der grosse Krieg 1914-18, voll. 8, Lipsia 1921-25; A. Torsti, Cronologia della guerra mondiale 1914-18, Roma 1932.

Operazione sulla fronte francese: Les Armées françaises dans la grande guerre (relaz. ufficiale dello Stato Maggiore francese), Parigi 1922 segg. (in corso di pubblicazione, voll. 7 pubbl. fino al 1932); G. Arthur, Lord Haig, Londra 1926; C. Blin, Aperçus sur la guerre de 1914-1918, Parigi 1932; Gén. Buat, Hindenburg et Ludendorff stratèges, Parigi 1924; id., L'armée allemande pendant la guerre, Parigi 1920; J. Buchan, The history of the South African forces in France, Londra 1920; K. von Bülow, Mein Bericht zur Marneschlacht, Berlino 1919; H. Corda, La guerre mondiale 1914-18, Parigi 1922; De Civrieux, L'offensive de 1917 et le commandement du général Nivelle, Parigi 1919; J. de Pierrefeu, G. Q. G. Secteur I, voll. 2, Parigi 1920; id., Plutarque a menti, Parigi 1923; J. Edmonds e A. F. Becke, History of the Great War based on official documents: Military operations: France and Belgium, Londra (in corso di pubblic.); C. R. L. Fletcher, The great war 1914-18, Londra 1920; J. French, 1914, Londra 1919; id., Sir French's despatches, Londra 1914; Gén. Galet, S. M. le Roi Albert commandant en chef devant l'invasion allemande, Parigi 1931; J. S. Gallieni, Mémoires. Défense de Paris, Parigi 1920; Les carnets de Gallieni, Parigi 1932; A. Gatti, La guerra senza confini, Milano 1915; V. Giraud, Histoire de la grande guerre, Parigi 1920; La guerre racontée par nos généraux, Parigi 1919 segg.; E. Guillot, Precis de la guerre de 1914, voll. 3, Parigi 1917; Haig, Sir Douglas Haig's despatches, Londra 1919; G. Hanotaux, L'énigme de Charleroi, Parigi 1917; F. von Hausen, Erinnerungen an der Marnefeldzug, Lipsia 1920; A. von Kluck, Der Marsch auf Paris und die Marneschlacht, Berlino 1920; Kriegsberichte aus dem grossen Hauptquartier, Stoccarda 1915 segg.; H. von Kuhl, Der Marnefeldzug 1914, Berlino 1920; id., Der deutsche Generalstab in Vorbereitung u. Durchführung des Weltkrieges, Berlino 1920; Ch.-L. Lanrézac, Le plan de campagne français et le premier mois de la guerre, Parigi 1920; E. von Ludendorff, Kriegsführung und Politik 1914-18, Berlino 1919; P. Malleterre, Études et impressions de guerre, voll. 5, Parigi 1917-19; id., Les campagne de 1915, Parigi 1918; id., La bataille de libération et la victoire 1918, Parigi; A. Mangin, Comment finit la guerre, Parigi 1921; P. Maravigna, La guerra mondiale, voll. 2, Torino 1922 segg.; Mermeix, Joffre. La première crise du commandement, Parigi 1919; id., Nivelle et Painlevé. La deuxième crise du commandement, Parigi 1920; id., Le commandement unique, Parigi 1920; P. Painlevé, Comment j'ai nommé Foch et Pétain, Parigi 1924; E. Palat, La grande guerre sur le front occidental, Parigi 1917 segg.; id., Les batailles de Champagne et d'Artois en 1915, Parigi 1920; id., La part de Foch dans la victoire, Parigi 1931; J. Pershing, My experiences in the World war, Londra 1931 (trad., Milano 193); Die Schlachten und Gefechte des grossen Krieges 1914-18, Berlino 1919; Schlachten des Weltkrieges, Oldemburgo 1916; R. Segre, Le manovre iniziali in Alsazia, Bologna 1927; H. Stegemanns, Geschichte des Krieges, voll. 4, Berlino 1919; H. Strang, With Haig on the Somme, Londra 1918; A. Valori, La guerra sul fronte franco-belga, Bologna 1922; Der Weltkrieg 1914 bis 1918, a cura del Reichsarchiv (pubblic. ufficiale tedesca), Berlino 1925 segg. (trad. ital., Roma 19927 segg.; voll. 7 pubbl. e trad. al 1932). Pubblicazioni particolari ha in corso anche il Servizio storico dello Stato Maggiore belga.

Fronte russa e romena: Oltre molte delle opere citate sopra, v.: A. Alberti, Esame di alcune manovre accerchianti, Roma 1924; Brussiloff, Mémoires, Parigi 1920; J. Daniloff, Russland im Welkriege, Jena 1925; E. Falkenhayn, Der Feldzug der 9. Armee gegen die Rumänen und Russen 1916-17, voll. 2, Berlino 1920-1921 (trad. ital., Roma 1923); H. François, Marneschlacht und Tannenberg, Berlino 1920; id., Gorlice, Lipsia 1922; N. N. Golovine, The Russian army in the World war, New Haven 1931; M. Hoffmann, Der Krieg der versäumten Gelegenheiten, Monaco 1924; Der Krieg gegen Russland, Vienna 1915; P. Maravigna, Studi critici sulla guerra mondiale, Roma 1922; Österreich-Ungarns letzter Krieg 1914-18 (relaz. ufficiale dell'Archivio di stato austriaco), Vienna (in corso di pubblic.; voll. 2 pubblic. al 1932); Gén. Pétin, Le drame roumain, Parigi 1932; A. Pitreich, Der österreichisch-ungarische Bundesgenosse im Sperrfeuer, Klagenfurt 1930; A. Valori, La guerra dei tre imperi, Bologna 1925; Gen. Winogradsky, La guerre sur le front oriental, Parigi 1926. Anche l'Archivio storico militare ungherese ha in corso di pubbl. un'opera sulla guerra mondiale, della quale fino al 1932 furono pubblicati tre volumi. Altre opere stanno pubblicando gli uffici storici polacco, finlandese, estone, lettone e cecoslovacco.

Fronte balcanica: C. E. W. Bean, The official of Australia in the War, Sidney (in corso di pubblicazione); C. E. Callwel, The Dardanelles, Boston 1915; F.-J. Deygas, L'armée d'Orient dans la guerre mondiale, Parigi 1932; Desbrières, Aperçu sur la campagne de Trace, Parigi s. a.; P. Gentizon, Le drame bulgare, Parigi 1921; J. Hamilton, The tragic story of Dardanelles, Londra 1916; id., Gallipoli diary, voll. 2, Nrw York 1920; G. Hanotaux, La guerre dans les Balkans et l'Europe, Parigi 1917; M. Larcher, La guerre dans les Balkans, Parigi 1929; G. Sarrail, Mon commandement en Orient, Parigi 1920; X. Torau-Bayle, La campagne des Dardanelles, Parigi 1920. Sono stati pubblicati anche: 21 voll. dall'Ufficio storico dello Stato Maggiore generale dell'esercito iugoslavo, 3 dal Servizio storico militare dello Stato Maggiore bulgaro. I relativi uffici russo e romeno hanno in corso di compilazione altre opere.

Fronti minori: Ahmed Emin, Turkey in the World war, Londra 1930; C. Corsi, La guerra nelle colonie, Roma 1918; M. Carcher, La guerre turque dans la guerre mondiale, Parigi 1926; T. E. Lawrence, Revolt in the desert, Londra 1927 (trad. ital. 1930); F. G. Macmumm e Falls, History of the great war based on official documents: Egypt and palestine, Londra (in corso di pubblic.); F. J. Moberly, History of the grat war based on official documents: The campaign in Mesopotamia, voll. 2, Londra 1023-25; G. Pesenti, In Palestina e in Siria durante e dopo la grande guerra, Milano 1932; C. Townshend, My campaign in Mesopotamia, Londra 1920.

La guerra sulla fronte italiana: Opere generali: A. Alberti, L'azione militare italiana nella guerra mondiale, Roma 1920; A. von Arz, Zur Geschichte des grossen Krieges 1914 bis 1918, Vienna 1924; R. Bencivenga, Saggio critico sulla nostra guerra, Roma 1930; E. Barone, La storia militare della nostra guerra fino a Caporetto, Bari 1919; I Bollettini della guerra, con prefaz. di B. Mussolini, Milano, 1923; L. Cadorna, La guerra alla fronte italiana, voll. 2, Milano 1921; L. Capello, Note di guerra, voll. 2, Milano 1920; A. v. Cramon, Unser Österreichisch-ungarischer Bundesgenosse im Weltkrieg, Berlino 1922 (trad. ital., Palermo 1924); Diario della guerra d'Italia, voll. 28, Milano 1915-18; G. Douhet, Diario critico di guerra, voll. 2, Torino 1923; A. Gatti, La parte dell'Italia, Milano 1926; Der Krieg gegen Italien (pubbl. ufficiosa), Vienna 1919; A. Lumbroso, Cinque capi nella tormenta e dopo, Milano 1932; P. Maravigna, Guerra e vittoria (1915-18), Torino 1927; F. Marazzi, Splendori ed ombre della nostra guerra, Milano 1920; F. Sardagna, Il disegno di guerra italiano, Torno 1925; L. Segato, L'Italia nella guerra mondiale, voll. 2, Milano 1927; Touring Club Italiano, Sui campi di battaglia, voll. 6, Milano 1925-1930; A. Tosti, La guerra italo-austriaca, Milano 1925; Ufficio storico dello Stato Maggiore, L'esercito italiano nella grande guerra, I, Le forze belligeranti; II, Le operazioni del 1915; III, Le operazioni del 1916, Roma 1927 segg. (in corso di pubblic.); id., Le grandi unità nella guerra italo-austriaca, voll. 2 Roma 1926; id., Le medaglie d'oro, voll. 5, Roma 1923-30; id., Riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-18, voll. 10, Roma 1924-32; A. Valori, La guerra italo-austriaca, 2ª ed., Bologna 1925; E. Viganò, La nostra guerra, Firenze 1920.

Diarî, memorie, lettere: Segnaliamo qui solo alcuni di notevole valore artistico o documentario. V. anche nella bibl. dei varî anni: A. Baldini, Nostro purgatorio, Milano 1918; L. Bartolini, Il ritorno sul Carso, Milano 1930; G. Borsi Colloqui scritti al fronte, Torino 1918; id., Lettere dal fronte, Torino 1920; G. Castellini, Tre anni di guerra, Milano 1919; id., Lettere, Milano 1921; G. Comisso, Giorni di guerra, Milano 1930; L. Gasparotto, Rapsodie (Diario di un fante), Milano 1923; P. Jahier, Con me e con gli alpini, Roma 1920; Paolo Marconi, Io udii il comandamento, Roma 1919; (Pirro Marconi), Il battaglione Monte Berico, Roma 1924; P. Monelli, Le scarpe al sole, Bologna 1922, 3ª ed. Milano 1928; B. Mussolini, Il mio diario di guerra, nuova ed. Roma 1932; M. Puccini, Davanti a Trieste, Milano 1919; id., Dal Corso al Piave, Firenze 1918; C. Salsa, Trincee, Milano 1924; R. Serra, Esame di coscienza di un letterato, Milano 1915; S. Slatoper, Il mio Carso, 4ª rist., Toma 1920; id., Lettere, voll. 3, Torino 1931; A. Soffici, Kobilek, Firenze 1918; id., La ritirata del Friuli, Firenze 1919; A. Stanghellini, Introduzione alla vita mediocre, Milano 1921; C. Stuparich, Cose e ombre di uno, Roma 1919; G. Stuparich, Guerra del '15, Milano 1932. V. anche A. Padovani, Antologia degli scrittori caduti in guerra, Firenze 1929, e A. Omodeo, Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti, in La Critica, 1929 segg.

Per l'ingresso dell'Italia in guerra e per gli avvenimenti del 1915, oltre la più gran parte delle opere già citate: L. Cadorna, Altre pagine sulla grande guerra, Milano 1925; F. De Chaurand, Come l'esercito italiano entrò in guerra, Milano 1929; E. De Rossi, La vita di un ufficiale italiano sino alla guerra, Milano 1927; P. Maravigna, Le undici offensive dell'Isonzo, Roma 1928; G. Ompteda, Bergkrieg, Vienna 1931; Ministro della guerra, Ufficio statistico, La forza dell'esercito, Roma 1927; L. Nava, Contronote di guerra, Cherasco 1920; id., Le operazioni militari della 4ª armata nei primi quattro mesi di guerra, Cherasco 1921; G. Pennella, Dodici mesi al comando della Brigata Granatieri, voll. 2, Roma 1923; P. Pieri, La nostra guerra tra le Tofane, 3ª ed., Napoli 1932; Ufficio storico dello Stato Maggiore, La conquista del Monte Nero, Roma 1922.

Per gli avvenimenti del 1916: A. Cavaciocchi, L'impresa dell'Adamello, Torino 1923; V. Coda, Due anni di guerra con la brigata Liguria, Milano 1919; C. Fettarappa Sandri, La guerra sotto le stelle, Torino 1929; E. Fröhlich, Der Kampf um die Berge Tirols, Bregenz 1932; C. Geloso, Le battaglie di Gorizia e della Bainsizza, Roma 1918; F. S. Grazioli, In guerra coi fanti d'Italia, Roma 1930; G. Langes, Front in Fels und Eis, Monaco 1933; F. von Lempruch, Der König der deutschen Alpen und seine Helden, Stoccarda 1925; V. Murari Brà, Sulla fronte della 1ª linea della 34ª divisione colla brigata "Ivrea", 2ª ed., Torino 1922; C. von Pichler, Der Krieg in Tirol 1915-16, Innsbruck 1924; P. Schiarini, L'armata del Trentino 1915-19, Milano 1926; id., L'offensiva austriaca nel Trentino, Roma 1928; G. Porta, Battaglie di materiale e battaglie d'uomini a Verdun e sugli Altipiani nel 1916, Ascoli Piceno 1926; A. Ricci Armani, Per la storia della difesa di Valle Lagarina, Roma 1918; Q. Ronchi, La guerra dell'Adamello, San Daniele del Friuli 1923; Ufficio storico dello Stato Maggiore, La conquista del Col di Lana, Roma 1925; id., La conquista di Gorizia, Roma 1925; G. Venturi, La conquista del Sabotino, Finalborgo 1923; id., La conquista del passo della Sentinella, ivi 1923.

Per gli avvenimenti del 1917: C. Assum, L'11ª battaglia dell'Isonzo, Torino 1925; id., La prima difesa del Grappa, Torino 1924; R. Bencivenga, La sorpresa strategica di Caporetto, Roma 1932; L. Bongiovanni, Il comando del VII corpo d'armata nella battaglia di Caporetto, Roma 1920; L. Capello, Per la verità, Milano 1920; E. Caviglia, La battaglia della Bainsizza, Milano 1930; V. Coda, Dalla Bainsizza al Piave, Milano 1919; A. Di Giorgio, Caporetto, Roma 1919; K. Egli, Berichte aus dem Felde, voll. 5, Zurigo 1918-1920; D. Formentini, La Bainsizza, Milano 1922; G. Giardino, Rievocazioni e riflessioni di guerra, voll. 3, Milano 1929-30; A. Hubner, Die zwölfte Schlacht am Isonzo und die Isonzo Krieg, Vienna 1917; H. Krafft von Dellmensingen, Der Durchbruch am Isonzo, voll. 2, Oldemburgo 1926-1928; A. Kreuss, Die Ursachen unserer Niederlage, Monaco 1921; id., Das Wunder von Karfreit, Monaco 1926; E. Mirabelli, Caporetto, Bologna 1924; N. Papafava, Badoglio a Caporetto, Torino 1923; A. Pirazzoli, La battaglia di Caporetto, Milano 1919; G. Prezzolini, Caporetto, Roma 1919; V. Prunas Tola, Le divisioni della Carnia di fronte all'invasore, Parma 1928; Relazione della Commissione d'inchiesta sul ripiegamento dall'Isonzo al Piave, 24 ottobre-9 novembre 1917, Roma 1919; F. Rocca, Vicende di guerra, Firenze 1926; G. Volpe, Ottobre 1917: dall'Isonzo al Piave, Roma 1930.

Per gli avvenimenti del 1918: A. Alberti, Vittorio Veneto, I, La lotta sul Grappa; II, L'armistizio di Villa Giusti, Roma 1924-25; id., Una versione austriaca di Vittorio Veneto divulgata in Francia, Roma 1922; A. Baldini, Diaz, Firenze 1929; E. Caviglia, Vittorio Veneto, Milano 1920; Comando della 3ª armata, La battaglia del Piave, 12 fascicoli, 1928; Comando supremo, La battaglia del Piave, Roma 1920; id., La battaglia di Vittorio Veneto, 1919; R. Corselli, La battaglia del Piave, Palermo 1921; id., La battaglia di Vittorio Veneto, Palermo 1924; A. Dupont, La battaglia del Piave, Roma 1928; id., La battaglia di Vittorio Veneto, Roma 1929; A. Ghelli, L'origine della vittoria del Piave, Firenze 1923; B. Gioda, Da Caporetto a Vittorio Veneto, Modena 1923; E. Horsetzky, Die vier letzen Kriegswochen, Vienna 1920; H. Kerchnewe, Der Zusammenbruch d. osterr.-ungar. Wehrmacht im Herbst 1918, Monaco 1922; G. Mira, Autunno 1918, Milano 1933; E. Pugliese, Vittorio Veneto e la battaglia di Francia, Firenze 1928; G. Volpe, Per la storia dell'8ª armata, Milano 1919; C. Zoli, La battaglia del Piave, Roma 1923.

Per l'azione degl'Italiani su altre fronti e per quella degli Alleati sulla fronte italiana: E. Bertotti, La nostra spedizione in Albania (1915-16), Milano 1926; B. Caniglia, Italia e Albania, Roma 1925; M. Caracciolo, Le truppe italiane in Francia, Milano 1929; id., Bligny, Ardre, Chemin des Dames, Roma 1928; Comando supremo dell'esercito italiano, Il II Corpo d'armata sulla fronte francese; id., L'azione delle truppe ausiliarie in Francia; id., Il corpo di spedizione italiano in Macedonia, s. l. né a.; S. P. Ceretti, L'Albania in grigio-verde, Firenze 1918; G. Corni, Riflessi e visioni della grande guerra in Albania, Milano 1928; G. Ferrero, L'opera dei soldati italiani in Albania durante la guerra, Napoli 1922; C. Marabini, La rossa avanguardia delle Argonne, Milano 1916; P. Maravigna, Gli Italiani nell'Oriente balcanico, in Russia e in Palestina, 1915-19, Roma 1923; L. Villari, La campagna di Macedonia, Bologna 1922.

Guerra aerea: L'aviazione militare della nostra guerra, Milano 1917; G. Bompiani e C. Prepositi, Le ali della guerra, Milano 1932; E. von Hoeppner, Deutschlands Krieg in der Luft, Lipsia 1921; C. Lafon, La France ailée en guerre, Parigi 1921; M. Molfese, L'aviazione da ricognizione italiana durante la guerra europea, Roma 1925; D. G. P. Neumann, Die deutschen Luftreitkräfte im Weltkriege, Berlino 1920; W. Raleigh, The war in the air, Oxford 1922 (continuata da H. A. Jones, ivi 1928-1931, fino agli avvenimenti del 1917); Ufficio storico della R. Marina, Cronistoria docum., già cit., fas. III.

Guerra sul mare: Opere di carattere generale: Oltre alcune citate precedentemente si vedano: R. Bernotti, Il potere marittimo nella grande guerra, Livorno 1920; V. E. Bravetta, La grande guerra sul mare, voll. 2, Milano 1925; J. S. Corbett, History of the great war, voll. 3, Londra 1920-23 (opera ufficiale, continuata poi da H. Newbolt, voll. 4, Londra 1928-31; trad. ital., Livorno 1923-1932); De Rivoire, Histoire de la guerre navale 1914-18, Parigi 1922; J. Fischer, Records, voll. 2, Londra 1919; T. Frothingam, The naval history of the World war, voll. 3, Cambridge 1925-26; La guerre navale racontée par nos amiraux, voll. 5, Parigi 1927-28 (pubblic. dell'Ammiraglio francese); A. Hopman, Das Kriegstagebuch eines deutschen Seeoffiziers, Berlino 1925 (trad. ital., Firenze 1929); E. Mantey, Unsere Marine im Weltkrieg 1914-18, Berlino 1928; H. Newbolt, A naval history of the war 1914-18, Londra 1921; A. H. Pollen, The navy in battle, Londra 1919 (trad. ital., Livorno 1923); W. S. Sims, The victory at sea, Londra 1920 (trad. it., Livorno 1923); A. von Tirpitz, Deutsche Ohnmachspolitik im Weltkrieg, voll. 2, Berlino 1926 (trad. ital., Livorno 1929-30).

Mare del Nord: R. Bacon, The Dover patrol, 1915-17, voll. 2, Londra 1919 (trad. ital., Livorno 1923); A. F. Carpenter, The blocking of Zeebrugge, Londra 1921; A. B. Filson Young, With the battle cruisers, Londra 1921; O. Groos, Der Krieg in der Nordsee, voll. 5, Berlino 1922-25 (Der Krieg zur See 1914-18), pubbl. dall'Arch. della Marina germ.; G. v. Hase, Die zwei weissen Völker, Lipsia 1931 (trad. ital., n. e., Livorno 1931); J. R. Jellicoe, The grand fleet 1914-16, Londra 1919; H. Pohl, Aus Aufzeichnungen und Briefen während der Kriegszeit, Berlino 1920; L. v. Reuter, Scapa Flow: das Grab der deutschen Flotte, Lipsia 1921 (trad. ital., Milano 1931); R. Scheer, Deutschlands Hochseeflotte im Weltkrieg, Berlino 1920 (trad. it., Firenze 1923); A. Thomazi, La guerre navale dans la zone des armées du Nord, Parigi 1925.

Mar Baltico: R. Firle e H. Rollmann nell'opera già citata Der Krieg zur See 1914-18 (voll. 2, Berlino 1921 e 1929); A. Graf, The Russian navy in war and revolution, Monaco 1922 (trad. ital., Livorno 1928).

Oceani: P. Chack, La guerre des croiseurs, voll. 2, Parigi 1922-23; N.zu Dohna-Schlodien, Der "Möwe" Fahrten und Abenteuer, Stoccarda 1927; C. E. Fayle, Seaborne trade, voll. 3, Londra 1920-1924; F. J. von Hohenzollern, "Emden". Meine Erlebnisse, Lipsia 1925 (trad. ital., Milano 1931); A. Hurd, The merchant navy, voll. 3, Londra 1921-29; H. von Mücke, Emden, Berlino 1915; id., Ayesha, Berlino 1915; H. Pochammer, Graf Spees letze Fahrt. Erinnerungen, Berlino 1918 (trad. ital., Milano 1932); E. Raeder, Der Kreuzerkrieg, voll. 2, Berlino 1922-23.

Mediterraneo: H. Bienaimé, La guerre navale. Fautes et responsabilités, Parigi 1921; L. Dartige du Fournet, Souvenirs de guerre d'un amiral (1914-16), Parigi 1920; Lorey, Der Krieg in den türkischen Gewässern, I, Berlino 1928 (nella pubbl. Der Krig zur See, cit.; trad. ital., Roma 1931); A. Laurens, Le commandement naval en Méditerranée, 1914-1918, Parigi 1931; A. B. Milne, The flight of the "Goeben" and "Breslau", Londra 1921; Testis (pseud. di L.-P. Alaux), L'expédition des Dardanelles d'après les documents officiels anglais, Parigi 1916; A. Thomazi, La guerre navale dans la Mediterranée, Parigi 1924.

Adriatico: E. Bravetta, Le audaci imprese dei mas, Milano 1929; A. Ginocchietti, La guerra sul mare, Roma 1930; C. Manfroni, Storia della marina italiana durante la guerra mondiale, Bologna 1923; id., I nostri alleati navali, Milano 1927; Ministero della marina, Il traffico marittimo, voll. 2, Roma 1932 R. Rossetti, Contro la "Viribus Unitis", Roma 1925; H. Sokol e T. Braun Oesterreich-Ungarns Seekrieg 1914-18, voll. 2, Vienna 1929 (trad. ital., Roma 1930-1931); Ufficio storico della R. Marina italiana, Cronistoria documentata della guerra marittima italo-austriaca (Preparazione dei mezzi, 9 fascicoli; Operazioni, 10 fascicoli), Roma 1919-30; A. Thomazi, La guerre navale dans l'Adriatique, Parigi 1925.

Mar Nero: v. opere già citate di Corbett, Graf, Lorey, Hopman.

Guerra sottomarina: R. Castex, Synthèse de la guerre sous-marine, Parigi 1920; Chalterton, Q ships and their story, 1922; A. Gayer, Die deutschen U.-Boote in ihrer Kriegsführung 1914-18, Berlino 1921; J. R. Jellicoe, The crisis of the naval war, Londra 1920 (trad. ital., Livorno 1923); A. Laurens, Introduction à l'étude de la guerre sous-marine, Pasrigi 1921; id., Hist. de la guerre sous-marine allemande 1914-18, Parigi 1930; F. Mérimet, La guerre sous-marine et l'Espagne, Lione 1919; A. Michelsen, Der U.-Boot Krieg 1914-18, Lipsia 1925 (trad. ital., Livorno 1928); E. Vedel, Quatre années de guerre sous-marine, Parigi 1919.

La guerra nei rapporti economico-finanziarî: La raccolta di studî sull'economia di guerra più ricca e più importante, sebbene ancora incompleta e assai diseguale per i singoli paesi, è quella offerta dalla collezione Storia economica e sociale della guerra mondiale promossa dalla Fondazione Carnegie per la pace internazionale. Delle dodici serie in cui è divisa ci limitiamo a dare l'indicazione dei volumi usciti di quella italiana: R. Bachi, L'alimentazione e la politica annonaria in Italia, Bari 1926; A. De Stefani, La legislazione economica della guerra, Bari 1926; G. Mortara, La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra, Bari 1925; G. Prato, Il Piemonte e gli effetti della guerra nella sua vita economica e sociale, Bari 1925; A. Serpieri, La guerra e le classi rurali italiane, Bari 1930: Per gli altri si rinvia all'elenco in appendice ai singoli volumi. Altre opere da consultare tra le innumerevoli: Bogart, Direct and indirect costs of the war, New York 1919; P. Bonfante, Legislazione di guerre del Regno d'Italia per i rapporti economico-sociali, Modena 1915; Cenni statistici sul movimento economico dell'Italia (a cura della Banca commerciale italiana), Milano 1915, 1916, 1917; F. Chessa, Costo economico e costo finanziario della guerra, Roma 1920; E. Fossati, Le conseguenze finanziarie della guerra, Padova 1931; Foreign Office, Reports of the economic situation in Germany during the war 1914-18, Londra 1920; C. Gini, Il costo della guerra, Roma 1918; E. Goldschmidt, Die wirtschaftlichen Kriegs organisationen Oesterreichs, Vienna 1919; C. S. Hammond, British Labor conditions and legislations during the war, New York 1919; A. Loria, Aspetti sociali ed economici della guerra mondiale, Milano 1921; id., Le peripezie monetarie della guerra, Milano 1920; G. Olphe-Galliard, Histoire économique et financière de la guerre 1914-18, Parigi 1925; M. Pilotti, La preparazione del dopoguerra negli Imperi Centrali, Bologna 1918; C. Rist, Les finances de guerre de l'Allemagne, Parigi 1921; G. Rocca, Per la storia economica della nostra guerra, Roma 1923; F. Savorgnan, La guerra e la popolazione, Bologna 1918; Lo sforzo militare e finanziario fatto dall'Italia, Roma 1919; F. Virgilii, Il costo della guerra, Milano 1916.

Danni di guerra: R. Benini, I danni di guerra sofferti dall'Italia e le riparazioni che le spettano secondo equità, in Economia, II, nn. 1-2; id., I danni di guerra ai beni di terraferma secondo le denuncie dei privati ecc., relaz. a S. E. Alberto De' Stefani, ministro delle Finanze, Roma; Évaluation provisoire de certains dommages subis par la France, Parigi 1921; Évaluation provisoire des dommages de guerre reclamés par l'Italie, Roma 1921; C. Gini, Sul presumibile ammontare dei danni di guerra, relaz. allegata allo schema del disegno di legge sul risarcimento dei danni di guerra, in Giornale degli economisti, gennaio 1919; id., Qual'è l'indennità di guerra a cui l'Italia avrebbe diritto?, in Il Tempo, 29 gennaio 3, 5 febbraio 1919; Mèmoire sur les dommages de guerre subis par le Belgique, Bruxelles 1921; Relazione della R. Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, voll. 8, Milano 1921; F. Virgilii, Les dommages écon. mondiaux causés par la guerre, in Scientia, 1921.

Periodici sulla guerra: Oltre molte delle maggiori riviste europee e americane, hanno pubblicato o pubblicano saggi, documenti e indicazioni bibliografiche sulla guerra mondiale: Francia: Les archives de la grande guerre (spento, voll. 17); Le Musée et l'Encyclopédie de la guerre; Revue d'histoire de la guerre mondiale: Évolution; Germania e Austria: Berlier Monatshefte (già Die Kriegsschuldfrage); Europäische Gespräche; Archiv für Politik und Geschichte; Der Weg zur Freiheit; Süddeutsche Monatshefte; Historische Zeitschrift; Militärwissenschaftliche und technische Mitteilungen; Forschungen zur brandenburgischen und preussischen Geschichte; Historische Vieteljarschrift; Italia: Nuova rivista storica; Rivista di Roma; Politica; Archivio storico italiano; Bollettino dell'ufficio storico del comando del corpo di Stato Maggiore; Stati Uniti: Current history; Foreign affairs.

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