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Guerra

di Virgilio Ilari - Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)
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Guerra

Virgilio Ilari

La g. viene generalmente definita come un 'conflitto armato tra Stati', contrapposto alla pace e caratterizzato dall'uso effettivo della forza militare. Tale definizione è però contraddetta dai conflitti armati, interni o tra soggetti politici diversi dallo Stato, divenuti sempre più frequenti dopo il 1945, nonché dall'uso, virtuale o indiretto, della forza militare e di forze non militari, che ha caratterizzato la g. fredda e l'epoca contemporanea. La pace appare così 'la prosecuzione della g. con altri mezzi' e il concetto di g. si amplia fino a comprendere qualunque impiego della forza (anche non militare) per il conseguimento di un interesse politico collettivo.

La fine della guerra fredda e la vittoria dell'Occidente

L'attacco portato da al-Qā'ida contro il territorio americano l'11 settembre 2001 è stato percepito come un evento epocale; la vera frattura era però avvenuta dieci anni prima con la g. del Kuwait e il crollo dell'Unione Sovietica. La g. fredda infatti è stata 'realmente' la terza g. mondiale del periodo che E.J. Hobsbawm ha definito 'il secolo breve' (1914-1991), caratterizzato da 316 g. con 200 milioni di morti (dei quali soltanto un quinto erano militari rispetto ai 5,6 milioni di morti delle g. del 18° sec. e ai 16 milioni di quelle del 19°) per un costo di 20.000 miliardi di dollari. La dissuasione nucleare, il blocco delle tecnologie critiche e gli accordi di Helsinki sui diritti umani hanno rappresentato la vittoria della strategia difensiva e di contenimento, funzionale alla natura e agli interessi della coalizione marittima, capitalistica e democratica; hanno impedito alla coalizione continentale, autarchica e totalitaria di sfruttare la propria relativa e precaria supremazia militare per riequilibrare quella complessiva e tendenziale dell'avversario: hanno cioè dissuaso la disperata opzione della 'sortita dalla cittadella', tentata invece dalla Germania nel 1914 e nel 1939, e dal Giappone nel 1941. La g. fredda, combattuta in modo virtuale, indiretto e periferico (15 milioni di morti nel 1945-1995 contro i 20 milioni del 1914-1918), si è conclusa con la scomparsa del terzo e ultimo antagonista continentale dopo il Terzo Reich e l'Impero napoleonico: l'Unione Sovietica. Le 'rivoluzioni arancioni' finanziate dall'Europa e dagli Stati Uniti hanno definitivamente reciso gli ultimi legami vitali con l'ex 'impero interno' zarista e la NATO ha occupato la frontiera dal Baltico al Caucaso, asse geopolitico delle g. mondiali (Sarajevo-Danzica), controllando il territorio dei due antichi imperi d'Occidente e d'Oriente e tenendo fuori, e sotto scacco, la 'Terza Roma', umiliata dai moniti del presidente G.W. Bush perfino nel 60° anniversario della Pobeda, la vittoria della 'grande guerra patriottica' contro la Germania nazista.

Il 1991 ha segnato il compimento di un processo storico; le g. europee e coloniali dei cinque secoli precedenti appaiono fasi, sempre più intense, di una competizione per la supremazia in Occidente e il controllo della storia (custodians of history, secondo la definizione di A. Stevenson del 1962), culminata nel riassetto imperiale dell'Occidente e del suo dominio sul resto del mondo.

Il fardello della vittoria

La mestizia di F. Fukuyama, (1989; 1992) primo interprete della vittoria americana come 'culmine' della storia, in senso hegeliano, ricorda le lacrime profetiche di Scipione sulle ceneri di Cartagine. In polemica con Fukuyama, S. Huntington ha riproposto la sua tesi sul trasferimento dall'interno all'esterno della minaccia contro l'Occidente, e dello 'scontro di civiltà': non tanto con quella islamica, quanto, in prospettiva, con quella confuciana. È lo schema della successione degli imperi: come era già avvenuto agli inglesi, spetterebbe ora agli americani portare quello che R. Kipling definì 'il fardello dell'uomo bianco'. In precenza affermata da R. Aron (République impériale: les Ètats-Unis dans le monde, 1945-1972, 1973) ed E.N. Luttwak (The grand strategy of the roman empire, 1976), l'analogia con l'Impero romano è stata richiamata da M. Hardt e A. Negri (Empire, 2001), ma in una visione sia economicista, che considera gli Stati come meri strumenti della finanza multinazionale, sia messianica, che vede nel nuovo impero la levatrice di un nuovo internazionalismo antagonista, incentrato sul 'popolo no global' e destinato a ripetere la vicenda del cristianesimo all'interno dell'Impero romano. Se leggiamo il presente secondo la prospettiva del politologo C. Schmitt, l'attentato dell'11 settembre appare a sua volta foriero di un nuovo ordine politico, fondato dalla 'decisione' (Entscheidung) degli Stati Uniti di rispondere allo 'stato d'eccezione' con la g. preventiva e con 'un sovvertimento radicale di tutto l'ordinamento', sia interno sia internazionale. Viste nella tradizione politica del 'secolo americano', le teorie dei circoli neoconservatori (Project for the New American Century) e la dottrina dell'amministrazione Bush Jr, appaiono coniugare l'ispirazione 'jacksoniana' con quella 'wilsoniana', dando luogo a una sorta di interventismo democratico che affascina parte della sinistra europea, orfana della Terza Internazionale. La ricostruzione nazionale (nation building) dell'Afghānistān e dell'Irāq e le 'rivoluzioni arancioni' in Serbia, nelle ex repubbliche sovietiche e in Libano hanno fatto evolvere la dottrina della g. preventiva contro gli 'Stati canaglia' (rogue States) che cercano di dotarsi delle 'armi di distruzioni di massa', in quella dell''esportazione della democrazia' contro 'gli ultimi bastioni della tirannia'. Come già avvenne per i Romani, spetterebbe adesso agli americani parcere subiectis et debellare superbos.

La scomparsa della guerra

Come ogni forma di sapere, anche la polemologia è storicamente determinata; essa riflette, come si vede già nei titoli di alcuni classici studi del secolo scorso, l'esperienza della 'g. tribale fra bianchi' (maresciallo L.-H.-G. Lyautey, 1914), del 'tramonto dell'Occidente' (O. Spengler, 1917) e della 'g. civile europea' (E. Nolte, 1987), da cui deriva un'idea essenzialmente 'statuale' e 'militare' della g., formata dall'era 'eroica' dei 'regni combattenti' d'Occidente, ma non pertinente all'era 'posteroica' (Luttwak) della 'pace celeste' (come in Cina veniva chiamato l'impero). In attesa di ridefinire i propri concetti, la polemologia oscilla tra zoppicanti eufemismi ('operazioni di pace') e deformazioni ottiche, in cui il mutamento viene attribuito alla 'natura' della g. anziché alla qualità dei belligeranti. L'idea che la g. sia un prodotto della sovranità e consista nell'impiego della forza militare, conduce inevitabilmente, per il bene supremo della pace, al disarmo degli Stati e alla soppressione della sovranità nazionale, sostituita da un ordinamento sopranazionale. L'Occidente moderno ha creduto di abolire la g. dapprima attraverso il trasferimento della sovranità dalle dinastie alle nazioni, e successivamente mediante la limitazione della sovranità nazionale. Tuttavia, un'autorità che non può esercitare l'autotutela decade, di fatto, da politica ad amministrativa. L'ordine sovranazionale sovverte le costituzioni; sopprime la sovranità popolare, contrappone e surroga le libertà individuali con la libertà politica. Lo storico sa che lo scopo della sovranità e delle frontiere fondate dal sistema westfalico (1648) non era di produrre la g., ma di allontanarla; sa anche però che la g. ha sempre finito per travolgere tali argini. Anche le g. apparentemente bilaterali e interne sono state parte o riflesso di g. di coalizione più vaste. Neppure le grandi potenze hanno mai davvero deciso la g. da sole. Se può esservi g. soltanto fra coalizioni di Stati, allora la resa sovietica ha chiuso definitivamente il tempio di Giano (venerato soltanto in tempo di g.), perché nessuno Stato appare più in grado di coalizzare una potenza antagonista.

La criminalizzazione della resistenza

La conseguenza dei nuovi assetti è la negazione del carattere politico della g., ridotta ad atto puramente criminale. L'avanzata americana nel cuore dell'Eurasia e nel centro geopolitico del mondo non è infatti considerata g.: se non pacifica, è pacificatrice e liberatrice. Anche quando, con riluttanza, è costretta a ricorrere alle armi, essa non intende conquistare territori, ma 'i cuori e le menti' (Bush Jr); in ogni caso la logica della conquista non è di distruggere, ma di acquisire e sfruttare. La matrice della g. non è infatti l'attacco, ma la difesa; è colui che decide di difendersi, rifiutando il pactum subiectionis, a iniziare la g. (come già riteneva C. von Clausewitz). La g. è oggi un crimine contro l'umanità, dunque chi prende la 'decisione' di opporsi alla pace imperiale e alla libertà che essa garantisce e difende è un criminale internazionale. L'impero non tratta neppure la resa; le azioni procedono fino alla completa estirpazione e punizione. La negazione del carattere politico della g. rafforza la sua riduzione alla pura dimensione militare. Se si trattasse di un errore di prospettiva, sarebbe già stato riconosciuto e corretto, ma la riduzione è funzionale agli interessi strategici occidentali. Espungere dal concetto di g. le forme non militari di controllo, destabilizzazione e aggressione diretta (ingerenza negli affari interni, embargo, manovre finanziarie) e perfino le operazioni militari diverse dalla g. (rappresaglia, polizia internazionale, imposizione della pace) consente infatti di mettere al bando la resistenza armata (come fa la Carta delle Nazioni Unite) e lo stesso tentativo di acquisire un potere di deterrenza (non soltanto le armi di distruzione di massa, ma anche quelle d'interdizione tattica, come, per es., le mine terrestri e navali).

La supremazia militare americana

I nuovi oneri hanno mutato la strategia degli Stati Uniti da 'dissuasiva' a 'preventiva'. La 'rivoluzione negli affari militari' (RMA, Revolution in Military Affairs), avviata a metà degli anni Ottanta dall'Office of Net Assessment del Pentagono, ma sviluppata dall'ammiraglio W. Owens dopo la g. del Kuwait (1991) e incentrata sulle applicazioni militari della tecnologia informatica, mira a consolidare e mantenere almeno fino alla metà del sec. 21° la superiorità militare assoluta degli Stati Uniti anche nel campo delle forze convenzionali, oltre che in quello delle armi di distruzione di massa, nonché ad acquisire una capacità di proiezione globale e di disarmare qualunque avversario a 'zero morti', senza dover dipendere dalla leva obbligatoria e dall'opinione pubblica. In genere si accusa la RMA di aver eccessivamente sacrificato la 'quantità' alla 'qualità' delle forze, ma la critica più radicale, avanzata dallo storico militare israeliano M. van Creveld (1982), riguarda piuttosto l'idea di supplire con la supremazia militare alla mancanza di politica. La RMA mira inoltre a poter vincere una g. senza il concorso di forze alleate. Ciò non implica la rinuncia ai vantaggi politici delle coalizioni permanenti (la NATO) e temporanee ('a geometria variabile'), ma consente di declassarle da alleanze a joint ventures, in cui i soci di minoranza sono mere comparse e non hanno voce in capitolo né diritti sui dividendi, al massimo aspettative. Secondo il segretario alla Difesa D. Rumsfeld, non debbono essere infatti le coalizioni a decidere le missioni, ma le missioni a decidere le coalizioni. Il primo presidente a utilizzare l'espressione 'coalizione di volenterosi' (coalition of willing) fu B. Clinton, ma essa è stata finora formalmente applicata solo ai 44 Stati che hanno partecipato o appoggiato nel 2003 l'invasione dell'Irāq. Il 'conto dei cadaveri' dimostra che i contingenti alleati corrono meno rischi degli americani, per non parlare dei mercenari stranieri (contractors), delle forze locali e, come sempre, dei civili.

Gli ausiliari europei

La NATO, la coalizione permanente più strutturata, disciplinata e longeva della storia, data per morta all'inizio degli anni Novanta dai 'neoisolazionisti' americani come dagli 'euroentusiasti' europei, ha celebrato il suo cinquantenario (1999) con l''allargamento' ai Paesi minori dell'ex Patto di Varsavia e con la trasformazione da alleanza difensiva regionale in agenzia d'intervento militare globale delle organizzazioni internazionali di sicurezza; inoltre, dopo le missioni di peace-enforcing in Bosnia, Macedonia e Kosovo, nel 2004 è subentrata alla coalizione a guida angloamericana nella missione di ricostruzione nazionale in Afghānistān. L'Europa, esclusa dai dividendi di una vittoria epocale di cui è stata incapace di prendere coscienza e che ha perciò lasciato interamente agli Stati Uniti, ha investito i suoi 'dividendi' della pace nella riduzione delle spese militari, nella riconversione della sua industria bellica e nella rinuncia alla coscrizione obbligatoria e alla capacità di mobilitazione. Limitata, sotto la retorica della 'difesa europea', nella sua capacità di decidere e condurre interventi, l'Europa rischia di subire il nuovo sistema di sicurezza determinato dalle iniziative americane, ristrutturando le proprie forze armate nazionali in rapporto alle decisioni del presidente degli Stati Uniti, unica autorità mondiale in grado (sotto il profilo sostanziale e anche formale) di preparare e condurre la g. e dettare la pace.

I conflitti 'identitari' o di convivenza

Il collasso di un numero crescente di Stati, soprattutto in Africa, ma anche in Asia, America Latina e in Europa (ex Iugoslavia) ha moltiplicato e intensificato le g. civili. Le rivoluzioni e le g. di liberazione nazionale dell'Ottocento e del Novecento, connotate dal contrasto di valori e programmi politici, sembrano oggi sostituite da conflitti di convivenza tra identità a base etnica e/o religiosa, molto più localizzati, pervasivi e persistenti. Tali conflitti 'identitari' trovano più difficilmente una soluzione politica e tendono a diventare endemici, con fasi di quiescenza e repentine eruzioni. Distruggendo i presupposti della convivenza, frammentano gli Stati in feudi talora criminali, con esodi forzati ('pulizia etnica', forma attenuata di genocidio) che destabilizzano i Paesi limitrofi, con il rischio di provocare interventi militari esterni e g. regionali, come è accaduto nell'Africa centrale. Tali conflitti sfidano i valori della comunità internazionale e alimentano l'immigrazione clandestina e la criminalità organizzata; la g. civile algerina ha lambito uno dei gasdotti vitali per l'Europa e il conflitto ceceno ha ulteriormente indebolito la Russia. È però il lungo conflitto israelo-palestinese a rappresentare la minaccia più grave agli interessi dell'Occidente, in quanto fonte di destabilizzazione dell'intero Medio Oriente, la cui importanza strategica, determinata soprattutto, ma non soltanto, dal petrolio, lo fa considerare il 'centro' del mondo contemporaneo.

La guerra santa contro il Grande Satana

La g. santa contro il 'Grande Satana' americano (ossia contro il 'seduttore'), preconizzata già dalla rivoluzione sciita in Irān, ma proclamata nel 1996 dalla 'rete' (al-Qā̔ida) delle organizzazioni di resistenza islamica creata dagli ex 'combattenti della libertà' (freedom fighter) in Afghānistān, Bosnia e Cecenia e ispirata da un esponente della setta wahabita (U. ibn Lādin), è la prima g. transnazionale di lunga durata dell'epoca contemporanea. Pur incentrata sull'emigrazione islamica nei Paesi occidentali e su attentati terroristici nei loro territori, non mira a sovvertire le società occidentali, ma a reagire contro il sovvertimento radicale dei valori tradizionali prodotto in maniera irreversibile nei Paesi arabi dalla diffusione della modernità occidentale. Il piano di g. del radicalismo arabo consiste nel saldare la resistenza religiosa contro i regimi 'apostati'(inclusi quelli 'baathisti', che rappresentano la prima forma - nazionalista e socialista - di occidentalizzazione del mondo arabo) con la 'g. degli Ottant'anni' iniziata con la successione anglofrancese al secolare dominio ottomano. L'attacco dell'11 settembre alle Twin Towers è stato il contrario di quello di Pearl Harbour: non mirava a dissuadere l'intervento americano, ma a provocarlo; vale a dire a trasformare l'inafferrabile dominio culturale, economico e missilistico in visibile e vulnerabile occupazione militare, al duplice scopo di mobilitare l'identità araba e di intrappolare l'avversario.

La 'guerra al terrore'

Gli Stati Uniti hanno sottovalutato le potenzialità di al-Qā̔ida e hanno continuato a sottovalutarle ancor più dopo l'attacco del settembre 2001. Certamente essi hanno distrutto le basi più visibili di al-Qā̔ida in Afghānistān, assicurando, con un limitato intervento aereo e di forze speciali, la vittoria delle minoranze turcomanne contro il regime talebano. Gli Stati Uniti hanno acquisito così il controllo della 'via della seta' e dei nuovi oleodotti caucasici e tengono perciò sotto scacco il futuro economico di Russia, Cina ed Europa. Inoltre, hanno approfittato dell'attacco alle Twin Towers per ottenere il consenso interno e internazionale, sotto il nome di 'g. al terrore' (war on terror), al rovesciamento di Ṣ. Ḥusayn, già autorizzato dalla legge 'per la liberazione dell'Irāq' (1998) e deciso subito dopo l'insediamento del presidente Bush (genn. 2001). In tal modo, lungi dall'attaccare il piano di g. del nemico, essi l'hanno di fatto favorito, esponendosi all'accusa, avanzata da un dimissionario della CIA, di essere 'il miglior alleato' di ibn Lādin (Scheuer 2004). Abbandonata l'iniziale strategia delle cannoniere (sanzioni, bombardamenti, ispezioni), gli Stati Uniti hanno applicato nei confronti di Ḥusayn una strategia più radicale della 'resa incondizionata' intimata a Germania e Giappone, cui fu consentito almeno di arrendersi. Impiegando un terzo delle forze schierate per la liberazione del Kuwait (100.000 americani e 45.000 inglesi contro il mezzo milione del 1991), senza una preventiva campagna aerea e in due sole settimane, la coalizione dei volenterosi ha dissolto le nominali forze regolari irachene. Essa, però, rifiutando la minima forma di transizione politica, ha innescato una resistenza imprevista, alimentata dalla minoranza nazionalista e sunnita, ma presto dominata da al-Qā̔ida. La condotta della g. è stata contraddittoria sia nella natura dello strumento militare, sia nello scopo dell'invasione, che era di poter rimettere sul mercato il petrolio iracheno e non di dover occupare l'Irāq a tempo indeterminato per congelare la g. civile e puntellare il nuovo governo democratico. Il risultato è che, invece di disarmare gli 'Stati canaglia', gli Stati Uniti hanno, in un certo senso, disarmato sé stessi, insabbiando in una quotidianità luttuosa e ingloriosa il più potente e ubiquo esercito della storia, dando agli 'Stati canaglia' l'opportunità per rafforzarsi e restituendo agli estremisti una base, un megafono e una causa mobilitante, e all'Irān il peso regionale che era stato fermato dall'aggressione irachena del 1980-1988.

bibliografia

M.L. van Creveld, Fighting power: German and US Army performance, 1939-1945, Westport 1982.

F. Fukuyama, The end of history?, in The national interest, 16, summer 1989, pp. 3-18.

N. Brown, The strategic revolution: thoughts for the twenty-first century, London-Washington-New York 1992.

F. Fukuyama, The end of history and the last man, New York 1992 (trad. it. Milano 1996).

J.A. Vazquez, The war puzzle, Cambridge 1993.

S.P. Huntington The clash of civilizations and the remaking of world order, New York 1996 (trad. it. Milano 1997).

The costs of war: America's pyrrhic victories, ed. J.V. Denson, New Brunswick 1997.

L. Bonanate, La guerra, Roma-Bari 1998.

M.L. van Creveld, The art of war: war and military thought, London 2000.

W.K. Clark, Winning modern wars: Iraq, terrorism and the American empire, New York 2003 (trad. it. Milano 2004).

F. Mini, La guerra dopo la guerra: soldati, burocrati e mercenari nell'epoca della pace virtuale, Torino 2003.

Z. Brzezinski, The choice. Global domination or global leadership, New York 2004.

C. Jean, Geopolitica del xxi secolo, Roma-Bari 2004.

M. Scheuer, Imperial hubris. Why the West is losing the war on terror/Anonymous, Washington 2004 (trad. it. Milano 2005).

A.M. Schlesinger Jr, War and the American presidency, New York 2004.

Vedi anche
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