Guerriglia

Enciclopedia delle scienze sociali (1994)

Guerriglia

Carlo Jean

Significato e definizione di 'guerriglia'

Il termine 'guerriglia' o 'piccola guerra' si diffuse con la resistenza spagnola all'occupazione napoleonica e ha avuto notevole fortuna nel XX secolo, a partire dall'insurrezione araba contro il dominio turco. La guerriglia si è sviluppata con la resistenza contro l'occupazione tedesca in Europa e, con obiettivi del tutto diversi, nelle guerre rivoluzionarie e di liberazione nazionale condotte sia nell'Est e nel Sudest asiatico - in particolare in Cina e in Indocina - sia nelle colonie europee - soprattutto in Africa - sia in America Latina, a partire da Cuba.

La guerriglia è un tipo particolare di operazione militare conosciuto e praticato sin dall'antichità. In talune circostanze ha svolto funzioni solo marginali e ausiliarie rispetto alle operazioni convenzionali condotte da forze regolari. In altre, quando uno Stato, o comunque una delle parti in lotta, era troppo debole per poter combattere direttamente l'avversario, ha assunto importanza centrale sia per la difesa dell'indipendenza di paesi occupati da eserciti stranieri, sia come braccio armato di una guerra civile o rivoluzionaria o di liberazione nazionale, mirante a rovesciare il governo in carica e a modificare gli assetti politici e sociali esistenti.La guerriglia possiede, come tutti i tipi di operazioni militari, proprie strategie, tattiche e tecniche specifiche, e viene scelta dal contendente che è troppo debole per condurre operazioni convenzionali, sia offensive che difensive. Essa serve a evitare il combattimento diretto con le superiori forze avversarie e a estendere la lotta nello spazio e nel tempo.

Nello spazio la guerriglia punta a far frazionare le forze nemiche sul territorio, obbligandole a difendere tutti i punti sensibili. Con ciò determina condizioni favorevoli alla creazione di vulnerabilità avversarie e alla realizzazione di superiorità locali, che le consentono di colpire il nemico con una serie di piccoli ma violenti attacchi effettuati di sorpresa, seguiti da rapidi sganciamenti e ripiegamenti in zone rifugio o fra la popolazione civile, in modo da garantire la sopravvivenza delle proprie forze che altrimenti verrebbero eliminate dalla più potente reazione avversaria.

Nel tempo la guerriglia mira a prolungare la lotta per logorare l'avversario anche psicologicamente e diminuire il consenso politico alla prosecuzione della controguerriglia. Viene utilizzata in questo modo la dissimmetria esistente fra le forze della guerriglia, che combattono per obiettivi che considerano vitali per la propria sopravvivenza e per la conquista del potere politico, e quelle della controguerriglia. Queste ultime, specie in caso d'interventi al di fuori del territorio nazionale, hanno minore capacità di tenuta psicologica e politica, perché si battono per interessi che non vengono considerati vitali.Lo sfruttamento strategico del tempo e dello spazio può consentire alla guerriglia di rovesciare l'iniziale sfavorevole rapporto di forze e di raggiungere i propri obiettivi politici e talvolta anche la vittoria militare sul campo.

La guerriglia ha forme e caratteristiche completamente diverse a seconda che si svolga nelle campagne o nelle città e può essere condotta da forze sia regolari che irregolari. Generalmente vi partecipano sia forze reclutate localmente, su base solitamente volontaria, sia piccoli nuclei di forze regolari altamente specializzate destinate all'effettuazione di operazioni speciali. Questi nuclei forniscono l'ossatura tecnica alla guerriglia, provvedono all'addestramento delle forze non specializzate e assicurano il collegamento con gli eserciti regolari a fianco dei quali opera la guerriglia o con le centrali politiche che la sostengono da paesi stranieri.

La guerriglia, pur costituendo per sua natura un'operazione militare, è sempre collegata con un'organizzazione politica clandestina, che ne costituisce l'infrastruttura logistica, nonché con fonti di informazioni. La guerriglia assume caratteristiche molto diverse a seconda del tipo di conflitto in cui si inserisce, cioè a seconda che si tratti di resistenza contro un occupante straniero e i collaborazionisti nazionali, ovvero contro il governo in carica e i suoi sostenitori stranieri (guerra civile, sovversiva e rivoluzionaria). Nel primo caso, il movimento di guerriglia ha caratteristiche e obiettivi prevalentemente militari; nel secondo ha caratteristiche e finalità più politiche, nel senso che gli obiettivi militari sono definiti innanzitutto per il loro impatto sul cambiamento politico-sociale. Ad ogni modo qualsiasi movimento di guerriglia è almeno potenzialmente anche rivoluzionario; infatti, come ha messo in evidenza T. E. Lawrence, le sue conseguenze politiche e psicologiche a lungo termine sono sempre più rilevanti dei suoi risultati militari diretti e a breve termine.La guerriglia, nel suo sforzo di logorare l'avversario materialmente e psicologicamente, utilizza una ricca gamma di tecniche belliche e di modi di organizzazione delle forze. Secondo la classica teoria formulata da Mao Zedong, una guerra di guerriglia passa attraverso tre fasi. La prima è quella preparatoria, in cui l'azione è soprattutto propagandistica e organizzativa, e in cui la violenza militare si limita a qualche sporadico atto terroristico. Essa mira sia a indebolire la credibilità del governo in carica e a destabilizzarlo, sia a farne disperdere le forze di polizia e militari per la protezione dei punti sensibili, sia a provocarne azioni repressive eccessive contro la popolazione, aumentando, per reazione, il sostegno da essa dato al movimento di resistenza o rivoluzionario. La seconda fase è quella della guerriglia vera e propria. Essa comprende attentati, imboscate, raids e attacchi su piccola scala, accompagnati sempre da azioni terroristiche sia per l'eliminazione dei dirigenti politici e militari avversari, sia per la distruzione dei centri infrastrutturali e produttivi, sia per scopi propagandistici. In questo caso gli attentati colpiscono obiettivi simbolici del potere politico e militare, dimostrando l'incapacità e l'incompetenza delle autorità civili e militari e rinsaldando così il morale dei guerriglieri e il sostegno della popolazione. A mano a mano che le forze avversarie sono poste sulla difensiva, che si devono disperdere per compiti di protezione, che perdono il controllo del territorio e che sono costrette a limitarsi a reagire dopo gli attacchi, anziché colpire preventivamente le forze della guerriglia, quest'ultima può operare con formazioni più consistenti, assumere il controllo di zone sempre più estese, provvedere alla loro organizzazione politica e amministrativa e trasformare i reparti irregolari in vere e proprie unità regolari, equipaggiate con armi catturate al nemico o ricevute dall'estero. La terza fase consiste nella trasformazione delle operazioni di disturbo e di logoramento, che non possono avere risultati militarmente decisivi, in vere e proprie operazioni convenzionali. Le azioni di guerriglia condotte a sostegno di queste ultime divengono ausiliarie e sussidiarie. Una delle caratteristiche fondamentali della guerriglia è che essa, non essendo collegata con una particolare società, una specifica struttura amministrativa e un particolare territorio, può procedere sia attraverso un'escalation sia attraverso una de-escalation del livello di violenza e della consistenza delle azioni, passando ad esempio, in caso di insuccesso, dalla terza fase alla seconda o addirittura alla prima. Ciò è avvenuto nel caso della resistenza palestinese nei territori occupati, passata al terrorismo dopo il fallimento della guerriglia nel 1967-1968.

Fondamentale per la guerriglia è in ogni caso il sostegno della popolazione. Deve quindi essere sempre prevista un'opera di propaganda, di penetrazione politica e d'inquadramento, per evitare il collaborazionismo e per innescare forme diffuse di resistenza non violenta e di disobbedienza civile e sabotaggi alla produzione industriale e ai servizi pubblici. Qualora il sostegno attivo non sia realizzabile, deve essere conseguito almeno un sostegno passivo, per evitare che la popolazione informi le forze governative o di occupazione delle attività della guerriglia, consentendone l'eliminazione.

La guerriglia può ricorrere anche ad atti terroristici per evitare delazioni; essi rappresentano però una misura disperata, perché con questi atti la guerriglia rischia di alienarsi il sostegno della popolazione e quindi espone le proprie forze al rischio di distruzione.

Le operazioni di guerriglia non si prefiggono in via prioritaria né di occupare territori, né di distruggere le forze nemiche, ma di conquistare il sostegno della popolazione, in cui il guerrigliero, per dirla con Mao Zedong, deve "muoversi come un pesce nell'acqua". Il sostegno della popolazione rende praticamente ineliminabili le forze della guerriglia, nonostante tutte le rappresaglie e le intimidazioni messe in atto dalla controguerriglia. Se si riesce a garantire la sopravvivenza nel tempo delle forze della guerriglia, il suo successo è sicuro.

In sintesi, la guerriglia non è una particolare forma di guerra, ma un tipo particolare di operazione militare, svolta da forze sia regolari che irregolari in coordinamento con operazioni convenzionali e a loro sostegno o autonomamente da esse. Nei due casi essa ha rispettivamente caratteri e finalità prevalentemente militari o prevalentemente politici. Sfruttando lo spazio e il tempo la guerriglia mira a modificare i rapporti di forza, che all'inizio le sono sfavorevoli. Può avere caratteri sia nazionali, per la resistenza a un'occupazione straniera, sia sovversivo-rivoluzionari, per la creazione di un nuovo ordine politico-sociale.

Strategie, tattiche e tecniche della guerriglia

La strategia della guerriglia è generalmente una strategia difensiva, inquadrata in una politica difensiva (resistenza) o offensiva (guerra rivoluzionaria), che utilizza tattiche offensive (attacchi 'colpisci e fuggi') per evitare che le sue forze vengano individuate, agganciate e distrutte.Tre sono i problemi maggiormente dibattuti dai teorici e dagli strateghi della guerriglia. In primo luogo, se essa debba aver inizio nelle città o nelle campagne, cioè fra il proletariato urbano o fra i contadini. In secondo luogo, se le azioni terroristiche favoriscano la mobilitazione delle masse popolari a sostegno della guerriglia, o siano, a tal fine, controproducenti. In terzo luogo, quando la guerriglia debba passare da una strategia difensiva a una offensiva, volta ad annientare l'avversario con operazioni convenzionali, anziché continuare a logorarlo nel tempo e nello spazio con azioni di disturbo.

Il primo problema ha avuto risposte diverse a seconda del livello di sviluppo tecnologico del momento. Nella seconda metà dell'Ottocento le forze governative acquisirono una decisiva superiorità tecnologica sugli insorti utilizzando i fucili a canna rigata, il telegrafo e i trasporti ferroviari. La rivolta della Comune di Parigi finì in un disastro, però l'idea che la rivoluzione dovesse iniziare nelle città e non nelle campagne non fu abbandonata, dato che, secondo le analisi marxiste-leniniste, il proletariato urbano era rivoluzionario, mentre quello contadino era tradizionalmente reazionario o inerte. Di conseguenza, soprattutto per opera di Trockij, furono organizzate strutture militari di un partito armato, in grado di inquadrare e di trasformare gli insorti in un esercito di massa di tipo regolare, relegando la guerriglia a un ruolo marginale. Solo Mao Zedong, dopo il fallimento dell'insurrezione di Shanghai, formulò la dottrina della guerra di guerriglia rurale prolungata, collegata alle strutture sociali e alla cultura della società cinese e, in particolare, alle sue enormi capacità di sopportare disagi, perdite e distruzioni.

Per quanto riguarda il problema del terrorismo, si verificò fra i rivoluzionari russi una spaccatura molto netta. Lenin riteneva che il terrorismo fosse essenziale e ne auspicava l'adozione sistematica; Plechanov gli era invece contrario; Trockij finì per mediare fra i due con l'organizzazione del partito armato volto a trasformare gli insorti in un esercito regolare di massa. Mao Zedong sostenne l'assoluta priorità e preminenza della propaganda politica sulle azioni terroristiche. Del tutto opposte erano le tesi del cosiddetto 'focoismo' sudamericano, ispirato soprattutto a Ernesto 'Che' Guevara e Francis Débray. Per Mao Zedong il terrorismo provoca la repressione da parte delle forze della reazione e l'allontanamento del popolo dal movimento rivoluzionario. Secondo i 'focoisti', invece, il terrorismo è essenziale per suscitare i movimenti di guerriglia. La violenza avrebbe avuto un ruolo catalizzatore per aggregare i dissidenti e trasformarli in insorti e in guerriglieri. I fatti dettero ragione a Mao Zedong anche in Sudamerica.

Circa il terzo problema, quello del momento del passaggio della guerriglia a operazioni militari dirette, è esistito sempre un dibattito fra i fautori del ricorso quanto più immediato possibile alla strategia offensiva e coloro che predicavano la pazienza in attesa che i rapporti di forza volgessero a favore della guerriglia. Anche questo è un problema che va risolto di volta in volta; la sua soluzione costituisce la scelta fondamentale della direzione politico-strategica della guerriglia.

La strategia della guerriglia è una strategia indiretta. Utilizzando sia lo spazio, per far disperdere le forze avversarie in superficie e determinare le vulnerabilità da attaccare, che il tempo, per logorare psicologicamente prima ancora che materialmente l'avversario (la strategia della guerriglia è quella di una guerra di lunga durata), essa mira a rovesciare progressivamente i rapporti di forza, per rendere possibile l'effettuazione di operazioni militari decisive o semplicemente per obbligare l'occupante a impiegare un'elevata quantità di forze per la protezione dei punti sensibili e delle sue linee di comunicazione, sottraendole alla massa destinata ai rastrellamenti e agli attacchi per eliminare la guerriglia. Quest'ultima evita gli scontri diretti specie in terreno aperto e cerca di proteggere la propria sopravvivenza con il segreto, con la dispersione sul terreno e fra la popolazione, e sfruttando l'elemento sorpresa. Rifugge dalla difesa statica. Tende a imporre la propria volontà all'avversario paralizzandone l'iniziativa, con l'imprevedibilità delle azioni, con la creazione di una situazione di minaccia diffusa, con l'effettuazione di attacchi, raids, attentati, sabotaggi, atti di terrorismo, ecc., da ogni direzione, in ogni momento e con forze estremamente diversificate quantitativamente e qualitativamente.

La guerriglia organizza sempre basi segrete, da cui si irradiano gli attacchi e che costituiscono anche i suoi centri logistici e di comando. Tali basi sono molteplici, in modo da evitare che l'individuazione e la distruzione di una di esse compromettano la sopravvivenza di consistenti parti del movimento di guerriglia. La guerriglia è notevolmente rafforzata se dispone di basi di appoggio in un territorio straniero contiguo a quello dove combatte.

Le tattiche della guerriglia sono descritte sinteticamente nella massima di Mao Zedong: "Se il nemico avanza, ritirati; se il nemico si ferma, disturbalo; se il nemico è stanco, attaccalo; se il nemico si ritira, inseguilo". In questo contesto lo spazio e il tempo, dimensioni strategiche fondamentali, acquistano un significato e vengono utilizzati in modo del tutto diverso da quello delle operazioni militari tradizionali. Queste ultime tendono a distruggere il nemico quanto più rapidamente possibile e sulle posizioni più avanzate. La guerriglia tende invece a operazioni di lunga durata e che interessano l'intero territorio.

A differenza del terrorismo, che colpisce indistintamente beni e popolazione, prendendo di mira obiettivi politici e simbolici per erodere la credibilità del governo o dell'occupante straniero, la guerriglia tende a colpire soprattutto obiettivi militari. Essa obbedisce quindi a una logica strategica differente, ancorché non sempre completamente separabile, da quella del terrorismo.Le tecniche della guerriglia sono quelle proprie delle operazioni di guerra non convenzionale o non ortodossa, per molti versi simili alle operazioni delle forze speciali (Green Berets, Spetznatz, SAS, ecc.).

L'armamento della guerriglia è estremamente variabile a seconda delle circostanze. Possibilmente deve comprendere missili contraerei portatili, sistemi controcarri impiegabili anche da ambienti chiusi, mortai e lanciarazzi per l'azione di fuoco a distanza, designatori d'obiettivi laser e mezzi di collegamento sicuri (radio a concentrazione di emissione). Il progresso tecnologico ha influenzato grandemente le operazioni di guerriglia (e anche quelle di controguerriglia): ad esempio la radio e l'aereo contribuirono in modo determinante al successo della resistenza nell'Europa occupata dai Tedeschi, favorendo, fra l'altro, il coordinamento politico e strategico con le operazioni classiche. In Afghanistan furono essenziali le armi controelicotteri. Ciascun caso è diverso e non possono essere indicati criteri e regole generali validi in tutte le circostanze; comunque è errato sostenere che il progresso tecnologico favorisca più la controguerriglia che la guerriglia.

La guerriglia provoca sempre enormi sofferenze, distruzioni e perdite fra la popolazione, maggiori di quelle delle operazioni convenzionali. Pertanto può aver successo solo in circostanze particolari, legate soprattutto alla geografia umana e alla cultura storica e sociale delle popolazioni interessate. È per questo che taluni studiosi di strategia, come il britannico Liddell Hart, hanno sostenuto l'impossibilità di effettuare operazioni di guerriglia su ampia scala nei paesi occidentali contro la paventata occupazione sovietica. Eccettuate operazioni del tutto particolari, affidate soprattutto a forze speciali appoggiate da una rete locale di sostegno preorganizzata (Stay behind patrols, appoggiate da Stay behind nets), sarebbe stato preferibile, secondo l'illustre studioso britannico, affidare la prosecuzione della lotta nei territori occupati a forme di resistenza non violenta, basate sulla disobbedienza civile, sui boicottaggi e sui sabotaggi. Oltre che essere più fattibili, esse avrebbero presentato il vantaggio di eliminare gli effetti politici e psicologici dannosi derivanti da qualsiasi guerriglia armata anche vittoriosa. La guerriglia infatti abitua alla violenza e destabilizza per lunghi periodi le società che vi fanno ricorso. Inoltre le società industrializzate sono estremamente organizzate e quindi presentano gravi vulnerabilità, derivanti appunto dalla rigidità della loro organizzazione e dalla scarsa autonomia degli elementi che le costituiscono. Pertanto un'azione repressiva determinata e ben mirata toglierebbe rapidamente alla guerriglia l'indispensabile sostegno della popolazione, isolandola e provocandone la distruzione. Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che le insurrezioni antisovietiche nell'Europa orientale non dettero mai origine a movimenti di guerriglia, data la durezza della repressione operata dall'Armata Rossa. Si tratta però di una tesi discutibile. Non si conoscono infatti gli effetti che operazioni convenzionali ad alta intensità, anche senza l'impiego di ordigni nucleari, avrebbero sulla tenuta psicologica delle popolazioni di Stati industrializzati. Comunque molti Stati occidentali, in particolare quelli neutrali, dalla Svizzera ai Paesi Scandinavi, hanno programmato il ricorso a operazioni di guerriglia su vasta scala in caso di occupazione dei loro territori nazionali. L'inserimento più organico delle operazioni di guerriglia nel sistema di difesa è stato previsto nella ex Iugoslavia con il concetto di difesa totale, che prevedeva operazioni convenzionali centralizzate e di difesa territoriale decentralizzate, strettamente coordinate e complementari tra loro.

Evoluzione storica della guerriglia

La guerriglia ha radici storiche antichissime, essendo la forma di guerra a cui ha fatto costantemente ricorso il contendente più debole. Da sempre operazioni di guerriglia sono state effettuate anche dagli eserciti regolari nelle retrovie dell'avversario, per colpirne le vie di comunicazione e il vulnerabile sistema logistico. Il combattimento in formazioni diradate, con la tattica del 'colpisci e fuggi', era praticato regolarmente dai popoli nomadi contro quelli sedentari. Lo storico arabo Ibn Khaldūn afferma che esistono due modi di combattere: quello europeo, in potenti formazioni serrate di fanteria e di cavalleria catafratta, e quello arabo, basato su arcieri a cavallo o su cammello, che, dopo aver colpito il nemico, si ritirano nelle loro inaccessibili basi nel deserto.

Esistono due tipi di guerriglia: una nazionale, che consiste nella lotta contro l'occupazione straniera o in operazioni di forze speciali nelle retrovie nemiche, l'altra ideologico-politica, sovversiva e rivoluzionaria, volta a modificare gli assetti politici, sociali ed economici esistenti.Al primo tipo appartengono, ad esempio, la rivolta degli Ebrei contro i Romani, la guerriglia spagnola contro Napoleone, i movimenti di resistenza contro la Russia nel Caucaso e in Asia Centrale, contro l'Inghilterra in India e, in parte, nel Sudafrica da parte dei Boeri, la guerriglia degli Arabi guidata da Lawrence contro i Turchi, la guerriglia sovietica organizzata da Stalin nelle retrovie dell'esercito tedesco durante la seconda guerra mondiale, e i vari movimenti di resistenza sostenuti dallo Special Operations Executive britannico (SOE), voluto da Churchill. Questi, ammiratore delle imprese di Lawrence d'Arabia nella prima guerra mondiale e delle sue teorie sulla guerriglia, impiegò nella direzione centrale del SOE un gran numero di suoi ex collaboratori.Esempi del secondo tipo di guerriglia - quella sovversiva e rivoluzionaria - sono le rivolte della plebe a Roma, quelle dei contadini nel Medioevo, quelle degli anabattisti e di altre sette eretiche, e soprattutto le guerriglie inquadrate nelle guerre rivoluzionarie, di liberazione nazionale e di decolonizzazione, che vanno da quella cinese diretta da Mao Zedong e da Lin Biao a quella indocinese di Ho Chi-minh e Vô Nguyen-giap, a quella della Malaysia contro gli Inglesi, a quelle greca, algerina e cubana, per terminare con i tentativi di guerriglia rivoluzionaria in Bolivia e in America Centrale. Adottano il secondo tipo di guerriglia anche quasi tutti i movimenti di guerriglia urbana, in particolare quelli terroristici, come l'IRA in Irlanda, l'ETA in Spagna, l'Action Directe in Francia e le organizzazioni terroristiche palestinesi e più in generale islamiche.

Di fatto anche nelle guerriglie del primo tipo - quelle nazionali - sono sempre presenti programmi di rinnovamento politico e sociale. Essi mancano solamente quando le operazioni di guerriglia sono condotte da reparti speciali appartenenti agli eserciti regolari e quelle di controguerriglia sono effettuate esclusivamente da forze di polizia, con il criterio di limitare l'impiego della forza, per cercare di evitare la politicizzazione dello scontro e la conseguente spirale di violenza. Ad esempio la resistenza contro l'occupazione nazista è stata non solo in Italia, ma anche in Francia, sia guerra di liberazione nazionale che guerra civile. In Iugoslavia è stata più guerra civile che guerra patriottica, data la contrapposizione dei vari movimenti di resistenza, in particolare fra i cetnici di Mihailovic e i comunisti di Tito, mentre gli ustascia croati e i domobrani sloveni collaborarono con le potenze occupanti, commettendo terribili atrocità sia contro i cetnici che contro i titini.

La guerriglia in Italia: il Risorgimento e la Resistenza

La guerriglia in Italia ha le sue origini storiche nella resistenza opposta dai valligiani alle invasioni, soprattutto francesi, del Piemonte, dove esistevano formazioni speciali, le 'compagnie nere' valdesi, che venivano impiegate, a differenza delle altre milizie territoriali, anche al di fuori delle loro vallate, per portare la guerriglia nelle retrovie delle forze francesi che dal Delfinato e dalla Savoia invadevano il Piemonte. Durante l'invasione napoleonica le popolazioni laziali effettuarono efficaci operazioni di guerriglia soprattutto sui monti della Tolfa, e altrettanto fecero le milizie di Andreas Hofer nel Tirolo sia settentrionale che meridionale.

Nel corso del Risorgimento vi fu un serrato dibattito fra gli esponenti del partito mazziniano-democratico su quali strategie impiegare per la liberazione e l'unificazione italiana. Le tesi a confronto erano analoghe a quelle, prima ricordate, che contrapposero in questo secolo i dirigenti comunisti russi a quelli cinesi.Il principale propugnatore dell'adozione delle strategie e delle tecniche della guerriglia e del terrore, utilizzate dagli Spagnoli contro l'occupazione napoleonica, fu il mazziniano Carlo Bianco di Saint-Jorioz, che aveva fatto parte delle truppe napoleoniche inviate in Spagna a combattere la rivolta. Egli sosteneva la possibilità di mobilitare con un terrorismo diffuso le inerti masse contadine e di creare, attraverso il logoramento ottenuto tramite continue azioni di guerriglia, le premesse per la vittoria sull'Impero asburgico; nella fase terminale del conflitto egli prevedeva la costituzione di un esercito regolare, originato dalla stessa guerriglia. In Carlo Bianco si trovano alcuni concetti poi sviluppati da Mao Zedong: sia a favore della guerriglia rurale, a cui veniva data la preminenza per la facilità con cui le forze della reazione avrebbero potuto distruggere gli insorti delle città, sia a favore della creazione di forze regolari a partire dalle bande partigiane. Particolare accento è posto dal Bianco sull'importanza del terrore per la mobilitazione delle masse, tesi fatta poi propria dai GAP nella Resistenza italiana del 1943-1945 e soprattutto da 'Che' Guevara e Débray, fautori in America Latina del 'focoismo'.

La maggior parte degli esponenti del partito democratico escluse però la possibilità di far ricorso alla guerriglia rurale, dato lo stato di inerzia e di conservatorismo delle masse contadine, influenzate anche dal clero antirisorgimentale. Rispetto alla guerriglia rurale, Carlo De Cristoforis, Pisacane e altri attribuirono maggiore importanza, specie dopo il successo delle Cinque Giornate di Milano, all'insurrezione delle città guidata dalla borghesia patriottica. Essa avrebbe dovuto permettere l'immediata costituzione di formazioni regolari, da impiegare in operazioni di tipo tradizionale. Fu quello che in realtà avvenne, anche se le potenzialità del volontariato nazionale, che faceva capo al partito democratico all'opposizione a Torino e poi a Firenze, non furono mai completamente utilizzate per l'opposizione dei moderati, fautori della 'guerra regia', contrapposta alla cosiddetta 'guerra di popolo', di cui furono principale espressione le formazioni garibaldine. Ma né l'esercito regio né quello garibaldino effettuarono operazioni di guerriglia; agirono sempre con procedimenti di tipo tradizionale. A impiegare procedimenti di guerriglia, come già era avvenuto contro i Francesi alla fine del secolo precedente, furono le forze papaline e borboniche che inquadrarono, sostennero e tentarono di dare unitarietà al brigantaggio meridionale, stroncato poi con durezza dall'esercito.

Nel 1943-1945 si verificò in Italia una diffusa resistenza all'occupazione tedesca e al governo fascista di Salò, che dette origine a numerose unità partigiane e a un'intensa attività di guerriglia, soprattutto nelle zone dell'Appennino settentrionale e in quelle alpine e prealpine. La resistenza armata, nonostante la divisione delle formazioni fra i vari partiti politici, ebbe un carattere sufficientemente unitario per merito del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e si svolse fra alterne vicende fino all'insurrezione generale della fine di aprile del 1945. La Resistenza poté avvalersi di sostegni esterni, da parte sia britannica che statunitense, e mantenne in larga misura il carattere di guerra patriottica di liberazione nazionale. Nell'immediato dopoguerra talune formazioni partigiane 'bianche' furono mantenute attive lungo la frontiera nordorientale (Divisione Osoppo-Friuli, Organizzazione 'O', ecc.) come forze ausiliarie dell'esercito regolare. Esse furono sciolte alla fine degli anni cinquanta e fatte in parte confluire nell'organizzazione Stay behind, predisposta in quasi tutti gli Stati occidentali (NATO e neutrali) per costituire il nucleo fondamentale dell'organizzazione clandestina che, in caso di occupazione del territorio, avrebbe dovuto sia sostenere l'azione delle forze speciali italiane e alleate, sia facilitare il sorgere di movimenti di guerriglia contro l'occupante e i collaborazionisti.

La guerriglia urbana

Nelle città la guerriglia possiede caratteristiche diverse da quelle che ha nelle campagne. Le città sono i centri del potere politico-amministrativo, economico e militare, e sono molto vulnerabili, soprattutto nelle società più avanzate, dato che sono fortemente organizzate, e quindi costituite da elementi poco autonomi, dipendenti dai servizi pubblici e dai rifornimenti esterni. La grande concentrazione non solo di cittadini, ma anche di forze di polizia e militari, garantisce al governo una copertura informativa pressoché completa, impossibile da realizzare nelle aree rurali, meno densamente popolate. Quindi non è possibile costituire in città consistenti reparti di guerriglieri, dato che essi verrebbero rapidamente scoperti. Possono agire solo piccoli nuclei o, al limite, singoli guerriglieri, che adottino tattiche e tecniche analoghe a quelle del terrorismo, che operino in modo clandestino e che colpiscano obiettivi non solo militari, quali sono prevalentemente quelli della guerriglia rurale, ma anche civili.

La guerriglia urbana può conseguire notevoli successi propagandistici, perché sfida le forze governative od occupanti nei loro centri di potere e perché i suoi attentati diretti contro obiettivi di particolare valore simbolico ottengono una notevole amplificazione attraverso i media. In condizioni favorevoli essa può progressivamente espandere la propria rete clandestina in modo da creare l'infrastruttura e l'organizzazione necessarie per l'insurrezione generale, che può avvenire solo alla fine di una serie di operazioni di guerriglia vittoriose o all'avvicinarsi di un esercito alleato. La guerriglia urbana può utilizzare forme di resistenza non violenta, come sabotaggi, scioperi e dimostrazioni di massa, anche al fine di provocare incidenti e di indurre le forze della controguerriglia a reazioni sproporzionate, che finiranno per isolarle dalla popolazione. Le azioni non violente vanno coordinate con gli attentati terroristici, diretti contro specifici obiettivi politici, economici e militari più che attuati indiscriminatamente. Un eccessivo ricorso al terrorismo solitamente provoca nella popolazione reazioni contrarie al movimento di guerriglia, isolando i guerriglieri e provocando delazioni.

La guerriglia urbana non ha mai conosciuto grandi successi. In una guerra di guerriglia le città sono state colpite solo per costringere una porzione consistente delle forze della controguerriglia a presidiare i punti e le installazioni sensibili.

Nonostante la teorizzazione alquanto romantica che se ne è fatta in America Latina e in Europa, e nonostante talune rivolte, soprattutto nei quartieri neri delle grandi città americane, la guerriglia urbana non ha mai conseguito una vittoria, come d'altronde Mao Zedong aveva sostenuto nei suoi scritti strategici. In alcuni casi, tuttavia, ripetute azioni di guerriglia urbana (come gli attentati dell'IRA, dell'ETA, ecc.) hanno determinato effetti di destabilizzazione, logorando e indebolendo la credibilità e il prestigio del governo o delle forze di occupazione.In sostanza, a parte il suo possibile coordinamento con la guerriglia nelle campagne e con altre forme di resistenza passiva o comunque non violenta, la guerriglia urbana è assimilabile al terrorismo come effetti, tattiche e tecniche e non può conseguire risultati decisivi.

La controguerriglia

Le forze regolari, potentemente armate e rigidamente organizzate, hanno avuto sempre una notevole difficoltà ad adeguarsi alla lotta contro i movimenti di guerriglia, che non consentono loro di esprimere appieno la potenza di cui dispongono. Questo è capitato già alle legioni romane contro gli arcieri parti a cavallo e, più recentemente, alle divisioni francesi, americane e sovietiche impiegate in Indocina, Algeria, Vietnam e Afghanistan.

Una seconda difficoltà incontrata dalle forze regolari in qualsiasi operazione di controguerriglia deriva dall'esigenza di uno strettissimo coordinamento tra i responsabili militari e quelli politici e amministrativi. Le stesse operazioni militari di controguerriglia non conseguono i risultati sperati soprattutto perché i loro effetti di distruzione e di disorganizzazione delle forze della guerriglia sono del tutto temporanei e perché l'uso anche vittorioso della forza può provocare reazioni negative nella popolazione e nell'opinione pubblica interna e internazionale.

Esiste poi una fortissima dissimmetria fra l'entità delle perdite e delle distruzioni che i guerriglieri sono disposti a subire nonché il livello di violenza che possono impiegare, da una parte, e dall'altra quelli considerati accettabili dalle forze governative, militari e di polizia. I guerriglieri sono estremamente motivati, se non fanatizzati; lottano per la propria sopravvivenza; sono quindi disposti a qualsiasi sacrificio. Le forze della controguerriglia sono invece molto più sensibili all'entità delle perdite, soprattutto se sono forze di occupazione e non vedono coinvolti nella lotta interessi vitali del proprio paese. Ciò può determinare il venir meno della volontà politica di continuare la lotta, come è accaduto in Indocina, in Vietnam e in Afghanistan, anche in caso di conseguimento di una vittoria militare sul campo, come in Algeria.

Infine il tempo e lo spazio hanno per le forze regolari un significato completamente diverso da quello che rivestono per le forze della guerriglia, cui conviene protrarre il conflitto (il tempo gioca a loro favore) ed estendere e diversificare il teatro delle operazioni. All'argomento si è già accennato; qui basta sottolineare che gli eserciti regolari, per adeguarsi ai tempi e agli spazi della guerriglia, necessitano non solo di un equipaggiamento e di un addestramento specifici, ma anche di un completo cambiamento di mentalità e di principî tattici e tecnici.

Anche per motivi ideologici e per la mitizzazione che si fece, negli ultimi anni sessanta, di Mao e di altri grandi guerriglieri rivoluzionari, come 'Che' Guevara, taluni considerano invincibile la guerriglia rurale inquadrata da un partito ideologico. Esistono invece molti casi di successo delle operazioni di controguerriglia, tutti basati sulla capacità di isolare i guerriglieri dalla popolazione e dalle basi di sostegno esterno, con un complesso di azioni militari, di misure politiche e di iniziative psicologico-propagandistiche. Un primo esempio di controguerriglia coronata da successo è dato dagli antichi Romani, che basarono le loro operazioni di controguerriglia sull'impiego massiccio di forze operanti con la massima violenza contro le popolazioni civili delle zone controllate dalla guerriglia. Con ciò si rendeva la vita impossibile a tali popolazioni, fino a indurle a dissociarsi dai guerriglieri e a chiedere la protezione di Roma. Nel secondo dopoguerra le potenze occidentali ebbero ragione della guerriglia greca, ampiamente dipendente dall'aiuto internazionale, quando cessarono i rifornimenti dalla Iugoslavia e quando si riuscì a creare, con forze speciali greche, una guerriglia all'interno della guerriglia, togliendole l'iniziativa e obbligandola a cessare le azioni offensive per provvedere alla propria sopravvivenza. Gli Inglesi conseguirono in Malaysia un successo contro le forze guerrigliere con una controguerriglia di lunga durata (dal 1948 al 1957) basata sulla propaganda politica e sulle riforme sociali, prima ancora che su azioni militari vere e proprie. Furono facilitati in ciò dall'identificabilità etnica degli insorti, prevalentemente cinesi.

Dopo i successi della guerriglia in Cina e in Indocina, i paesi occidentali dedicarono grande attenzione alle operazioni di controguerriglia inquadrate nell'ambito più generale di una guerra controrivoluzionaria, elaborando delle vere e proprie teorie, che furono sperimentate negli anni cinquanta e sessanta soprattutto in Algeria, in Malaysia e in Vietnam.La dottrina francese fu ideologica ed estremista. La guerra rivoluzionaria, di cui la guerriglia era l'espressione militare, fu attribuita alla 'congiura' del comunismo internazionale e al suo tentativo di accerchiare l'Occidente. L'unica risposta possibile a questa sfida avrebbe dovuto essere un'altra sfida globale, con la riscoperta dei valori cristiani e umanistici dell'Occidente, per procedere alle necessarie riforme economiche e militari e per combattere il nemico con fermezza e con durezza. Le forze della controguerriglia, in particolare quelle speciali, avrebbero dovuto trasformarsi in una specie di ordine di 'monaci guerrieri', per estirpare tale minaccia mortale per l'Occidente con tutti i mezzi, inclusi il terrore e la tortura. Nel corso della lotta i poteri civili dovevano essere assunti dai comandi militari. La 'battaglia di Algeri' costituisce il caso più noto dell'applicazione di tale dottrina.La risposta inglese fu molto più pragmatica e meno ideologica di quella francese. Basata sull'esperienza coloniale britannica e sulla tradizionale collaborazione e integrazione fra civili e militari, essa seguì costantemente i criteri del minimo impiego della forza e del ricorso nella maggior misura possibile a unità locali, alle forze di polizia, all'azione politico-sociale-economica e a quella di propaganda, in primo luogo evitando che i media amplificassero, drammatizzandoli, gli effetti degli attentati.La dottrina americana della controguerriglia utilizzata nel Vietnam dette invece completa priorità all'aspetto militare delle operazioni, trascurando quasi completamente quello politico-sociale. In un certo senso analoga nel suo estremismo al 'focoismo' di 'Che' Guevara in America Latina, tale dottrina prescriveva di condurre la controguerriglia utilizzando il massimo della potenza di fuoco, trascurando le pressioni sulla popolazione civile nelle zone occupate dai Vietcong, evitando l'estensione delle operazioni terrestri al Vietnam del Nord e permettendo che i media dessero ampio risalto a perdite, violenze e distruzioni, con conseguente erosione del consenso dell'opinione pubblica statunitense.

Difficoltà per molti versi analoghe incontrarono i Sovietici in Afghanistan, anche se impiegarono un'enorme violenza contro le popolazioni delle aree controllate dagli insorti, provocando la fuga nei paesi vicini di milioni di Afghani. Il collasso dell'esercito governativo e l'entità ridotta delle forze sovietiche impiegate impedirono una presenza sufficiente per controllare l'intero territorio e furono causa della sconfitta e del ritiro dell'Unione Sovietica dopo quasi dieci anni di guerra.

La regolamentazione della guerriglia nel diritto internazionale bellico

Nel corso dei secoli la guerriglia, come l'insurrezione e la guerra civile, ha sempre posto difficili problemi al diritto internazionale. Basti pensare, per quanto riguarda lo jus ad bellum, alla difficoltà di inserire nella dottrina della guerra giusta il 'diritto di rivolta contro il tiranno' o agli ostacoli incontrati dall'ONU nel 1974 quando si trattò di decidere se far rientrare fra gli atti di aggressione il sostegno dato dall'esterno ai terroristi o agli insorti e l'invio di bande armate o di mercenari. Parimenti difficili da considerare giuridicamente sono le risposte a tali tipi di aggressioni 'subconvenzionali', ad esempio le ritorsioni e le rappresaglie, come i bombardamenti di Tripoli e di Bengasi effettuati dagli Stati Uniti nell'aprile del 1986. Questi problemi sono rilevanti anche per definire lo status giuridico dei piloti o delle forze speciali impiegate in tali missioni.

Analoghi problemi sono sorti per lo jus in bello, in particolare per due aspetti: l'attribuzione ai guerriglieri della qualifica di 'legittimi combattenti', e quindi della protezione internazionale, e la determinazione dei metodi e dei mezzi di guerra utilizzabili nella guerriglia e nella controguerriglia.Nel diritto internazionale bellico classico, codificato nella Convenzione dell'Aia del 1907, il problema era ignorato. Non erano previsti né status né protezione per i guerriglieri o per gli insorti. I volontari e i miliziani venivano riconosciuti legittimi combattenti solo in particolari circostanze (uniformi o segni visibili, gerarchia di tipo militare, rispetto degli usi e delle leggi di guerra, ecc.).

Le Convenzioni di Ginevra del 1949 e soprattutto i due protocolli aggiuntivi del 1977 regolamentano in maniera più completa la materia: i guerriglieri vengono compresi nella categoria dei legittimi combattenti, in quanto la distinzione fra combattente legittimo e non legittimo non è attribuita a un particolare status, ma alle azioni compiute. Poiché le Convenzioni e i protocolli aggiuntivi proibiscono ogni azione rivolta contro la popolazione civile, il problema è formalmente risolto, ma non lo è sostanzialmente. Infatti qualsiasi azione di guerriglia, anche se diretta solo contro forze militari, può essere considerata un'azione terroristica. Inoltre gli Stati sono naturalmente portati a considerare criminali e terroristi anche i guerriglieri e gli insorti, non accettando che invochino a loro tutela le Convenzioni e i protocolli di Ginevra. Infine si pongono grossi problemi nell'attribuire la qualifica di 'aggressione' all'impiego della forza al di fuori delle 'guerre formali' e nel decidere come considerare lo status dei numerosi paesi che non hanno approvato la definizione di aggressione elaborata dall'ONU nel 1974 né ratificato i protocolli di Ginevra del 1977.

Il futuro della guerriglia

È difficile prevedere se in futuro la guerriglia avrà un'importanza minore o maggiore di quella che ha avuto nella resistenza all'occupazione tedesca nella seconda guerra mondiale o nei conflitti di decolonizzazione e nelle guerre rivoluzionarie del secondo dopoguerra.

Lo scoppio dei conflitti etnici e tribali, non solo nel Terzo Mondo ma anche nell'Europa orientale e nell'ex Unione Sovietica, e il probabile moltiplicarsi di conflitti simili a quelli di liberazione nazionale inducono ad affermare che la guerriglia, arma del povero e dell'insorto e 'zona grigia' fra la pace e la guerra, avrà un'accresciuta importanza nella nuova scena politico-strategica mondiale. A una identica conclusione porta la considerazione che nel mondo postbipolare sta divenendo sempre meno accettabile per le grandi e per le medie potenze intervenire direttamente nei conflitti originati dall'etnonazionalismo. In effetti questi conflitti possono essere estremamente costosi in termini umani e finanziari, senza peraltro coinvolgere interessi nazionali rilevanti, che sono gli unici per cui uno Stato può decidere che valga veramente la pena di intervenire.Non è quindi da escludere che il sostegno a gruppi terroristici o di guerriglia e l'effettuazione di operazioni covert o di attacchi aerei o missilistici, prescindendo da ogni stato formale di guerra, costituiranno in futuro modalità sempre più frequenti dell'impiego della forza militare.

Accanto agli Stati e ai gruppi etnici e nazionali che aspirano all'indipendenza o alla secessione, stanno comparendo sulla scena della conflittualità internazionale anche movimenti religiosi fondamentalisti e grandi cartelli della criminalità organizzata. Quest'ultima dispone di un'enorme potenza finanziaria e di consistenti forze di tipo paramilitare, capaci non solo di effettuare azioni terroristiche, ma anche di mantenere il controllo di ampi territori in competizione con gli Stati.

In sostanza è presumibile che guerriglia e terrorismo subiscano in futuro un'estensione e un'amplificazione, anche se non sono prevedibili conflitti di ampie dimensioni come quelli del Vietnam e dell'Afghanistan. Si verificherà invece una moltiplicazione di piccoli conflitti interni e internazionali e di operazioni di guerriglia, che potranno destabilizzare gli Stati rendendo impossibili il controllo del territorio e della popolazione e il funzionamento dei servizi pubblici fondamentali, come sta capitando in Somalia, in Cambogia e in moltissimi paesi africani.

Non è stata ancora elaborata una 'dottrina' per la risposta della comunità internazionale a tali fenomeni degenerativi, anche se stanno emergendo al riguardo nuovi concetti, quali quelli di 'diritto-dovere di ingerenza a scopi umanitari', di 'peace-making' e di 'peace-building', nonché la convinzione che sia necessario fronteggiare il fallimento del processo di decolonizzazione con il ricorso a nuovi istituti, analoghi a quelli dei mandati, dei protettorati e delle amministrazioni fiduciarie internazionali. Tutti i tipi di intervento presi in considerazione presuppongono il disarmo delle fazioni in lotta e quindi l'effettuazione di vere e proprie operazioni di controguerriglia.

Esiste però anche una scuola di pensiero che tende a minimizzare l'importanza degli interventi negli affari interni di altri Stati. Essa sostiene tre tesi complementari: 1) gli Stati industrializzati non interverranno, perché non sono in gioco loro interessi vitali, mentre i costi finanziari e umani di un intervento possono essere notevoli; 2) gli interventi esterni sono non solo inutili, ma anche controproducenti, poiché impediscono lo sviluppo, necessariamente conflittuale, dello State-building e del relativo processo di nazionalizzazione delle masse; 3) gli attuali meccanismi dell'economia internazionale consentono ai paesi industrializzati di godere, nel Terzo Mondo, dei vantaggi che offrivano loro le colonie senza doverne sostenere gli oneri. Tutto questo induce a pensare che gli interventi saranno estremamente limitati, soprattutto visto il fallimento di quelli effettuati dall'ONU in Somalia e in Bosnia.

Minor importanza che nel passato avrà la predisposizione di operazioni di guerriglia nel contesto di una difesa territoriale o globale dei paesi occidentali, anche di quelli neutrali. Tale organizzazione può facilitare lo smembramento violento di Stati multietnici, ma soprattutto è scomparsa la ragione principale che induceva a preordinare tali forme di difesa: la minaccia dell'occupazione sovietica. Teoricamente forme di difesa territoriale potrebbero essere adottate dagli Stati dell'Europa orientale, dai Paesi Baltici e dalle Repubbliche ex sovietiche, data la possibilità di rinascita della minaccia di Mosca. Tuttavia l'instabilità interna e la presenza di consistenti minoranze etniche rende sconsigliabile o quanto meno problematica l'adozione di un sistema di difesa per sua natura decentrato e quindi meno controllabile da parte del governo e potenzialmente pericoloso per l'unità dei singoli Stati. (V. anche Rivoluzione; Terrorismo).

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